di Domenico Galbiati
12, novembre 2022
Anzitutto, bisognerebbe evitare che della sconfitta che il PD ha subito lo scorso 25 settembre, si diano interpretazioni, in qualche modo di comodo, del tutto parziali, giustificate dall’immediata contingenza del momento politico ed ispirate, consapevolmente o meno, ad una lettura consolatoria dell’accaduto.
Non ha senso scaricare le colpe sulle spalle di Enrico Letta che non avrebbe imbroccato le alleanze giuste e non avrebbe saputo presentare un impianto programmatico coerente e sostenuto dall’intero partito. Come se, di fatto, il PD fosse pur sempre il “ king maker “ della situazione – in altri tempi si sarebbe detto il “deus ex machina” – al punto che avesse comunque il successo in tasca e la Meloni non avrebbe vinto se, per l’imperizia del Segretario, lo stesso PD non le avesse offerto la vittoria su un piatto d’argento.
La sconfitta del PD, che molti suoi esponenti definiscono “storica”, è’ effettivamente tale, ma in un altro senso e, cioè, in quanto viene da lontano, da molto lontano ed, effettivamente, riassume il decorso della sua intera vicenda.
Del resto, e’ altrettanto fuori luogo ritenere che la scalata di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi possa essere spiegata facendo riferimento a sviluppi del tutto recenti, ad esempio, ad una pura e semplice ridistribuzione dei consensi all’interno dell’ area della destra. Anche un tale evento viene da lontano e va interpretato come l’apogeo di un cammino che ha preso avvio dalla caduta della Democrazia Cristiana. E qui si dovrebbe aprire uno spaccato che avrebbe molto da dire sulla straordinaria rilevanza del ruolo che la DC ha storicamente e responsabilmente assunto per la costruzione e la tenuta dell’ ordinamento democratico dell’Italia.
Sarebbe pericoloso sottovalutare il successo della destra, ad esempio evocando l’alto livello dell’astensione. Se non si prende atto che la Meloni ha vinto di suo, si rischia di favorire che, al di là del quinquennio della legislatura appena avviata, la destra possa stabilire una più ampia e pervasiva egemonia culturale nel nostro Paese. Per quanto, poi, concerne le alleanze che il segretario del PD non avrebbe saputo condurre in porto, c’è da chiedersi: se avesse stretto un patto elettorale o meglio una compiuta alleanza politica con il Movimento 5 Stelle siamo sicuri che il risultato elettorale sarebbe stato almeno pari alla somma dei consensi ottenuti dai due partiti separatamente?
Peraltro, l’argomento della possibile convergenza di Partito Democratico e Movimento 5 Stelle in un nuovo polo “progressista” o, addirittura, più schiettamente di sinistra, continua ad essere di attualità, senonché andrebbe messa a tema con maggior capacità di analisi e di discernimento. Si può dare per scontato che una forza politica ultra-leaderistica – al punto che le parole di ultima istanze stanno in capo ad una “autorità” indiscutibile ed indiscussa addirittura, di fatto, sovraordinata al partito stesso – populista e demagogica, possa essere ritenuta “progressista”?
Basta rivendicare determinati punti programmatici di carattere “sociale” perché un partito sia “di sinistra” oppure tale carattere ha piuttosto a che vedere con l’impianto complessivo di quella determinata forza, a cominciare dall’articolazione democratica o meno sua struttura interna e dalle modalità con cui si pone nel contesto istituzionale?
Non esiste, d’altra parte, anche un’ipotetica “destra sociale”? Insomma, basta invocare il “reddito di cittadinanza” per essere qualificati “di sinistra” oppure un partito dovrebbe caratterizzarsi come tale in tanto ed in quanto capace di indicare strategie dirette a combattere le diseguaglianze che siano “strutturali”? E non provvedimenti “assistenzialistici” che, di fatto, imprigionano, a maggior ragione, molti cittadini in una postura inerte e rassegnata? Ad ogni modo, la crisi del PD è quella di un partito che porta in sé una tara genetica, un tratto originario che ne ha condizionato e tuttora ne condiziona la possibilità stessa di essere effettivamente “partito”, nel senso proprio del termine, e non un mero artificio elettorale.
Non a caso, il PD ha smarrito proprio quella vocazione popolare che costituiva – pur declinata in differenti ed addirittura antitetiche culture politiche – il tratto comune dei suoi maggiori contraenti di derivazione democratico- cristiana e comunista. Culture politiche che, se coordinate in forma di coalizione, avrebbero potuto indicare all’ Italia un cammino di progresso e di crescita democratica e civile ed, al contrario, “fuse” nella stessa organizzazione partitica hanno finito per elidersi a vicenda.
Del resto, chi avrebbe osato pensare che il centenario della marcia su Roma avrebbe coinciso con l’ ascesa alla guida del Paese di una forza che, sia pure in senso lato, discende dagli epigoni di quella lontana e drammatica vicenda ?
Questo a riprova del fatto che – a dispetto di tutte le chiacchere nuoviste – buone o cattive che siano, le culture politiche che sono storicamente nate da percorsi che hanno via via consolidato un certo orientamento nella pubblica opinione, persistono nel tempo ben più a lungo di quanto comunemente si creda. Anche quando il loro campo venga desertificato, possono rimanere vitali, nel sottosuolo, radici che, in un contesto ambientale favorevole, possono riprendere vigore e tornare a verdeggiare.
Dovrebbero tenerne conto i popolari di cultura cattolico-democratica per un verso e così coloro che appartengono al vecchio campo di ispirazione marxista, per convenire circa l’opportunità di sottrarsi a quell’ abbraccio innaturale che li costringe a soffocarsi reciprocamente. Laddove se cessassero di incaprettarsi l’ un l’altra e ciascuna riprendesse liberamente il proprio cammino, potrebbero tornare a misurare schiettamente, ciascuna, le proprie ragioni a fronte del popolo italiano e concorrere, in tal modo, a difenderne l’ordinamento costituzionale ancora minacciato da possibili manipolazioni “presidenzialiste”.