SERVONO I CATTOLICI IN POLITICA?
di Giovanni Cominelli
Politicainsieme.com, 7 maggio 2023. Quando don Sturzo nel 1919 fondò il Partito popolare come “partito di cattolici”, quando De Gasperi nel 1943 fondò la DC come “partito cattolico”, i cattolici in Italia erano la maggioranza. Non solo sociologica.
In mezzo a quelle due date sta “Umanesimo integrale” del 1936 di Jacques Maritain, del quale cadeva il 28 aprile scorso il cinquantenario della morte. La sua distinzione tra l’azione en tant que chrétien e l’azione en chrétien ha guidato per decenni i cattolici in politica.
La prima azione consiste nell’obbedienza ai riti e ai dogmi della Chiesa; la seconda è l’applicazione delle idee cristiane in ambito temporale da parte di individui o di organizzazioni laiche.
Il presupposto materiale di quella distinzione era l’esistenza di una Cristianità. Chi l’avrebbe dovuta rappresentare e dirigere era, tuttavia, oggetto di conflitto, interno alla Chiesa stessa: il Vaticano direttamente o i cattolici laici? Quel presupposto è venuto meno: i cattolici sono minoranza, “la cristianità” è finita.
Negli ultimi settantacinque anni, passata la sbornia del “Christus vincit” e dell’”Ecclesia triumphans” dell’Anno santo 1950, celebrata e presto tramontata la speranza di rinascita indotta dal Concilio Vaticano II negli anni ’60, il processo di secolarizzazione è proceduto implacabile e diffusivo.
Il tormento dei cattolici nell’Italia di oggi nasce proprio da qui: la fede ha cessato di essere fermento, motore, animazione della società e, dunque, della politica. E se hanno pensato di usare la politica e lo Stato per costruire una società secondo i propri valori, ora sono loro ad essere usati dalla politica.
La costruzione della “città umana” è, più che mai, un cantiere disordinato e conflittuale, le fondamenta etiche sono di risulta, mentre il grande magazzino di materiali finora fornito dalla fede resta inutilizzato. Ai credenti resta la sensazione di essere vestali di ceneri fredde.
All’interno del mondo cattolico, le correnti fondamentaliste, alimentate sempre e in ogni tempo dall’illusione del “ritorno alle origini”, hanno dato la colpa di tale condizione al “tradimento dei chierici” – qui intesi letteralmente come Papi e Vescovi– che per voler andare incontro al mondo, se ne sono lasciati sedurre. Ah, i bei tempi del Sillabo di Pio IX!…
Il fatto è che siamo immersi in una deriva antropologica di lunga durata, almeno qui in Occidente: la deriva dell’onnipotenza tecnologica e dell’autosufficienza metafisica. E perciò si sta affievolendo la domanda religiosa.
Il senso religioso nasce dall’esperienza diretta della corporeità e della terra: donde il senso della finitudine, del limite, del male, della morte. Ma non è più un’esperienza collettivamente elaborata. Viene segregata e privatizzata in un orizzonte individuale.
Se la fede religiosa deve rispondere al bisogno metafisico di senso e al bisogno sociale di legami comunitari, il primo viene cloroformizzato, il secondo è sempre più ridotto in orizzonti individuali e micro-comunitari. Il culto della propria libertà/identità prende il posto di quello religioso.
La fede resta a disposizione come “solacium” individuale, magari nell’illusione di R. Panikkar della creazione di un piacevole salotto interiore “cosmo-teandrico”, ma quando si incomincia a camminare nel mondo è inutilizzabile… E la morte? Secondo una crescente corrente di pensiero transumanista e postumanista è solo “una prestazione organica disfunzionale”. Tra qualche tempo la morte sarà sconfitta.
Basterà operare il download della storia individuale dentro “un agente” bio-meccanico, da gestire in ordinaria manutenzione per i secoli a venire. Liberandoci del corpo mortale, ci libereremo dalla morte.
In questa condizione storico-culturale, i cattolici devono “ritornare a Camaldoli”, in quel luogo dell’incontro storico dell’intellettualità cattolica, svoltosi tra il 17 luglio e il 23 luglio 1943, nel quale si gettarono le basi ideologico-programmatiche della DC? Francesco Occhetta, gesuita e docente alla Gregoriana, lo raccomanda. Ma solo in forma prepolitica e pre-partitica. Come, del resto, accadde anche allora.
Pare l’unica proposta ragionevole. I cattolici sono ormai dispersi su tutto il ventaglio della politica. Meglio che abbandonino l’idea di essere rappresentati unitariamente da qualche singolo colore dell’arcobaleno politico e di poter rendere operative le proprie opzioni etiche con l’aiuto dello Stato. Viva la diaspora, dunque! Liberati dagli schieramenti, potranno liberamente confrontarsi tra di loro e con il mondo sulle sfide del presente.
Serve ancora un cattolico oggi?
Sì, a discernere “i segni dei tempi”. L’invito a farlo era già partito da Gesù Cristo, quando lamentava l’incapacità dei Farisei di leggere i segni dell’ora messianica. Così il Vangelo di Luca.
È stata l’indicazione di metodo fondamentale della “Humanae salutis” di Giovanni XXIII, della Costituzione conciliare “Gaudium et Spes” – “è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo” – dell’”Ecclesiam suam” di Paolo VI. Per P. Chenu “i segni dei tempi” erano “i fenomeni generalizzati, che abbracciano tutta una sfera di attività e che esprimono i bisogni e le aspirazioni dell’umanità di oggi”.
Ora, in questo Terzo millennio, i tempi e i segni sono cambiati. È tornato, dopo 75 anni, il tempo della guerra. È in fibrillazione l’antropologia reale e quella filosofica di millenni di storia della specie.
Stiamo passando dall’antropologia del corpo a quella, gnostica, della mente. Il pianeta e la specie stanno entrando in un’epoca densa di incognite. Jean Guitton, poco prima di morire, scrisse di ingresso “in un tempo metafisico”. Non servono prediche e nostalgie, ma uno sguardo arrischiato e coraggioso sul tempo che sta arrivando.
Servono delle vele capaci di intercettare “il vento che soffia dal cuore delle cose”. È qui che i credenti devono dimostrare una superiorità epistemica, se ce l’hanno, capace di misurarsi con la storia, con il tempo presente, con il futuro. Senza (ricerca della) verità, non c’è carità, non c’è giustizia, non c’è comunità. Non c’è storia veramente umana.
Giovanni Cominelli
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