UN SINGOLARE SCONGIURO APOTROPAICO
In alcuni Mascheroni Peligni Articolo
[Pubblicato alle pagg. 83-91 del Bollettino Trimestrale ASTRA (Pe.) – Tradizioni Popolari Abruzzesi. Anno III Numero 6 (gennaio-febbraio-marzo) 1975]
“Si preferisce respingere fuori dalla cultura tutto ciò che non si conforma nelle norme sotto le quali si vive”: Claude Levi-Strauss
La straordinaria usanza a carattere fallico che mi accingo a descrivere è passata inosservata a tutti i folkloristi abruzzesi e soprattutto a Giovanni Pansa, autore tra l’altro di un fondamentale saggio dal titolo “Riti e simboli fallici dell’Abruzzo. Studi di etnografia comparata archeologia e folklore” . Per l’importanza che riveste, l’argomento merita ulteriori indagini dirette ad accertare, anche al di fuori dell’area peligna, testimonianze di una costumanza che, pur affondando le proprie radici nella notte dei tempi, è degradata da atto magico-religioso a semplice superstizione, spesso vissuta a livello d’inconscio. In molti centri peligni dunque, si osservano, per lo più infissi sulla facciata anteriore di umili case o di vecchi palazzi, resi “nobili”, dalla pastorizia un tempo fiorente, mascheroni fittili o in pietra che mostrano in modo evidente la lingua da fuori. Io ho avuto anche la fortuna, forse, di poter parlare con l’ultimo artigiano che su ordinazione esegue tali mascheroni, in legno o in pietra, il signor Giovanni Fraino, di anni 85, ebanista, abitante in Rivisondoli.
«Queste maschere – mi ha detto il signor Fraino – servono contro l’invidia e contro il malocchio La lingua sta ad indicare l’organo sessuale dell’uomo. In tali lavori raggiunse una certa celebrità un artigiano di Rivisondoli, di nome Emidio Troiano, vissuto verso la metà dell’Ottocento e soprannominato ‘toscanino’, perché aveva lavorato per un certo periodo in Toscana, dove aveva frequentato circoli anarchici. Appena tornato a Rivisondoli, ‘toscanino’ tentò di diffondere le idee anarchiche. Ma sorvegliato continuamente dalle autorità, fu costretto ad emigrare in America, dove continuò a scolpire mascheroni con la lingua da fuori». Questa dichiarazione del signor Fraino è certamente importante, e non tanto perché testimonia nel tempo la continuità di tale particolarissimo tipo di artigianato, quanto per la consapevolezza che gli artigiani stessi ebbero ed hanno della simbologia inerente all’atto di cacciare la lingua in segno di scongiuro, “un linguaggio dimenticato” direbbe Erich Fromm, che si è salvato tuttavia giungendo fino a noi con tutto il suo messaggio magico-religioso.
Analizziamo dunque alcuni di tali mascheroni presenti nell’area peligna. A Bugnara, centro distante 6 km da Sulmona, si ammira in via Fontana un mascherone rotondo fittile che misura cm. 50 circa di diametro (vedi dis. Bugnara).
A Scanno su segnalazione del prof. Dante Pace, noto studioso di archeologia peligna che in tale sede ringrazio sentitamente, l’uso in questione è assai vivo e si notano mascheroni in pietra scolpiti sulle facciate di alcuni palazzi ed anche sotto le mensole di balconi.
Sulla facciata anteriore di un rustico sito proprio nel centro di Scanno e precisamente in via dei Caduti, spicca un mascherone scolpito in una pietra del muro, che presenta caratteri così arcaici da far sorgere il sospetto che possa risalire ad epoca romana se non addirittura italica (vedi dis. Scanno).
Tale circostanza non può tuttavia stupire. Chi visita infatti il Museo Campano a Capua, resta affascinato di fronte ad una serie di mascheroni fittili di epoca italica, sistemati in apposita sala, e mostranti la lingua al di fuori. Il disegno 1 (vedi dis. Sulmona) mostra un mascherone in pietra infisso sopra il portale di una casa di Sulmona, in via Probo Mariano.
Il disegno 2 (vedi dis. Pratola Peligna.) si riferisce ad un mascherone in stucco, posto sotto il cornicione di una casa sita in Via Antonio De Nino a Pratola Peligna. Il proprietario di tale casa, devo la preziosa informazione all’avvocato Panfilo Petrella di Pratola Peligna, fece appositamente collocare tale mascherone sotto la grondaia agli inizi del secolo, poiché era in lite per motivi di interesse con il proprietario della casa di fronte.
Questa singolare usanza, sulla quale esiste scarsissima letteratura, affonda dunque le sue radici nella notte dei tempi ed è pervenuta a noi ancora ricca del suo significato originario. A proposito afferma il Forcellini: « Linguam exserere lubridii causa in aliquem, mos fuit antiquis Latinis, qui etiamnum apud nostrates viget, quo quidem obscaeni aliquid adversus alium, quicum contendis, signiflcatur; nam lingua ita exserta similitudinem quamdam penis exhibet, quae tum viris, tum femnis, tum pueris stupri contumeliam minitari videtur»
L’aspetto della «minaccia di stupro» insito, secondo il Forcellini nell’exserere linguam, un atto che equivale all’esibizione del pene, è tuttavia secondario, come ritengo, rispetto al concetto storico-religioso del fallo come simbolo di forza, fertilità, crescita, e pertanto ritenuto capace, se esibito direttamente o anche sostituito dalla lingua, di rendere immune l’uomo di fronte ad ogni tentativo esterno diretto a turbare la sua psiche, a minacciare i suoi beni o la sua stessa persona.
Si tratta in definitiva di un atto apotropaico, diretto ad annullare la influenza malvagia, non disgiunto anche da un contenuto magico-omeopatico, che spesso a livello d’inconscio intende produrre il simile (benessere, sviluppo fisico e psichico, fertilità ecc.) con il simile (lingua, surrogato del pene, elemento fecondante per eccellenza, il simbolo stesso, pertanto, della vita). Significativo è a proposito un episodio riferito da Livio. I Galli, avanzati fin quasi alle porte di Roma, si erano attestati sulla riva settentrionale dell’Aniene e solo un ponte li divideva dall’esercito romano, accampato sulla riva opposta. Ad un certo momento un Gallo, di enorme corporatura, si staccò dalla sua schiera e fattosi avanti sul ponte sfidò a duello il soldato romano ritenuto più valoroso.
Si offerse per il combattimento Tito Manlio e Livio aggiunge: «armatum adornatumque adversus Gallum stolide laetum et – quoniam id quoque memoria dignum antiquis visum est – linguam etiam ab inrisu exserentem producunt». Di fronte al pericolo che la sua vita correva per l’imminente duello, il Gallo dunque cacciò fuori la lingua, simbolo della stessa vita, per allontanare apotropaicamente ogni minaccia. Lo stesso valore di scongiuro fallico è costituito dall’atto apotropaico che frequentemente si nota nel nostro Abruzzo ed anche altrove, durante il passaggio di un carro funebre, simbolo di morte, si evoca la vita toccando il pene, simbolo di vita. Al posto dei genitali si tocca spesso anche il ferro, capace di «tener lontani fantasmi e altri spiriti pericolosi»
Un altro esempio atto ad illuminare il concetto di fertilità e di vita insito nella lingua è costituito dall’usanza che i Tibetani hanno, come è noto, di salutarsi cacciando la lingua. Anche i contadini tedeschi attribuiscono all’atto di cacciare la lingua (Zunge aussrechen) un augurio di bene e di prosperità.
Tale atto, particolare assai importante, è una specie di surrogato di un altro gesto, il così detto Daumenhalten, che consiste nell’infilare il pollice tra l’indice e il medio, dove appunto il pollice sta a simboleggiare l’organo dell’uomo. Nei miei frequenti soggiorni in Germania ho potuto constatare che i due atti, cioè sia la « Zunge aussrechen » che il « Daumenhalten », assumono, specie nelle persone anziane, un valore apotropaico cosciente cui si ricorre per scongiurare pericoli di qualsiasi natura. Specialmente durante un litigio verbale, cacciare la lingua o infilare il pollice tra l’indice e il medio, equivale ad uno scongiuro contro le minacce di uno dei contendenti oppure ad una difesa nei confronti di ingiurie ritenute capaci di sconvolgere o impedire in quel momento, l’equilibrio fisico-psichico in seguito all’ira che tali ingiurie provocano, di sconvolgere o impedire dunque un processo armonico di crescita.
Vi sono tuttavia ulteriori aspetti meritevoli di essere sottolineati e né con essi l’argomento può considerarsi esaurito.
Come è noto, il mero atto di cacciar fuori la lingua, compiuto a livello d’inconscio, è comune a tutti i bambini, senza distinzione di sesso. Dall’adolescenza in poi però, si verifica un mutamento significativo nel comportamento dei maschi e delle femmine. Infatti, l’atto di cacciare la lingua si nota solo in quest’ultime, mentre i primi lo sostituiscono con altri gesti «osceni» e con parole «scurrili››, che rappresentano ulteriori scongiuri a carattere fallico.
Così un gesto che imita il fallo è costituito dall’atto di piegare il braccio destro sul quale si poggia la mano sinistra, atto comune specialmente nell’Italia centro-meridionale. Circa il linguaggio scurrile, valgono tutt’ora le lucide intuizioni del Pansa, trattandosi di una “espressione attenuata delle forme naturalistiche di scongiuro, perché conserva ancora, più o meno consciamente, il sentimento e il carattere comune a quella che era per i nostri vetusti antenati l’espediente più acconcio per allontanare l’invidia: l’esibizione fallica. Così io penso che a questi mezzi averrunchi, propri del volgo, sia come mostra apparente di scongiuro, sia come espressione viva del linguaggio, debba ascriversi l’uso della interiettiva CA – – O, comunissima nel meridione, con la quale si presume dare efficacia al discorso. Essa dovrebbe corrispondere al latino Praefiscine”.
Ora, l’esibizione della lingua viene considerata nella donna una «oscenità» non tanto, come ritegno, a causa della funzione che l’atto stesso ha (scongiuro apotropaico), quanto per il fatto che la funzione stessa è rappresentata dalla lingua in chiara e cosciente sostituzione del pene. Vi sono intatti altri scongiuri compiuti, alla luce del sole, da donne appartenenti ad ogni ceto (come per es. toccare il ferro) e nella certezza di non violare alcuna norma sociale.
Ma l’oscenità insita nel concetto del fallo, è relativamente recente, poiché questo fu presso molti popoli del vicino Oriente, in Grecia e a Roma, un simbolo religioso legato a culti agrari e della fertilità in genere. Prescindendo dalle «fallogonie» che rappresentano in tal senso il caso più classico e non affatto sconcertante, tutto lascia ritenere che anche la Festa dei Ceri a Gubbio, che ha fatto scrivere fiumi d’inchiostro, non fosse altro che un rito di fertilità compiuto mediante l’esibizione di grandi falli portati in giro per le campagne, un rito dunque, di derivazione bacchica. essendo Bacco Dio della vite e del vino.
Fu accertato inoltre da Bachhofen , da Morgan e confermato da illustri antropologi contemporanei come E. Fromm , che sotto la più recente religione patriarcale è esistito uno stato più antico di religione matriarcale, caratterizzato dal culto di divinità androgine, le «Dee-Madri», rappresentate artisticamente dalle famose “Veneri” venute alla luce un po’ ovunque nell’area mediterranea, e raffigurate con seni e natiche enormi per sottolineare quei culti della fecondità cui le Dee-Madri stesse erano preposte. Ma, avverte Eliade, “l’androginia divina che si trova in tanti miti e credenze, ha un valore teorico, metafisico. La vera intenzione della formula è quella di esprimere, in termini biologici, la coesistenza dei contrari, dei principi cosmologici, cioè maschio e femmina, in seno alla divinità”
Pertanto, nella fase matriarcale, di cui noi abbiamo un’eco nel mito delle Amazzoni, la Dea-Madre assume a sé, nell’ambito del culto generale della fertilità, anche l’attributo del fallo, organo fecondante a lei «naturalmente» estraneo, ma riprodotto simbolicamente, nell’atto magico in generale ed apotropaico in particolare, dalla lingua.
E non a caso quei mascheroni fittili mostranti abbondantemente la lingua da fuori, venuti alla luce nei pressi di Capua, sono stati ritrovati insieme ad alcune Dee-Madri. In questa «coincidentia oppositorum ››, rappresentata dalla Dea Madre, la lingua e quindi il fallo, lungi dall’essere simboli osceni, costituivano paradossalmente un aspetto della struttura stessa della divinità che riuniva in sé tutti i contrari.
Scomparse le Dee-Madri, altre divinità apparvero nell’Olimpo mediterraneo, depositarie delle stesse funzioni delle Dee- Madri. Una di queste divinità fu Cerere, preposta ai culti della fertilità e particolarmente venerata presso i peligni, nella cui area, come si è visto, sono presenti i mascheroni che, grazie ai disegni dell’amico Giovannelli, che con noi ha condotto le ricerche per la parte illustrativa, sono inseriti nel presente studio quale valido corredo grafico.
Franco Cercone
In Foto: 4 disegni di Vito Giovannelli
[Sullo stesso argomento: F. Cercone, Esibizione fallica della lingua in mascheroni peligni, articolo pubblicato alle pag.193-196 della “Rivista LARES” (Organo dell’Istituto di Storia Tradizioni Popolari dell’Università di Bari e della Federazione Italiana Arti e Tradizioni Popolari) Anno XLI – N 2 aprile/giugno 1975; Ed.: Leo S. Olschki – Firenze]
1 In “Rivista di antropologia” volume 25, Roma 1822.Il Pansa tratta tre argomenti: a) il rito magico dei ramoscelli spaccati e la tradizione dei culti fallici nel santuario della Madonna del Lago a Scanno; b) le incanate e le esibizioni falliche; c) il rito eleusino di Baubo ed il simbolo talismatico della ranocchiella abruzzese.
2 E. Forcellini, Lexicon totius latinitatis , Tom. III, voce ‘Lingua’.
3 T. Livio. Storia di Roma, Libro VII, X. L’episodio, come narra Cicerone (De Orat.II, 66) fu anche riprodotto in una tabula che si ammirava nel Foro romano.
4 J. G. Frazer, Il ramo d’oro, I 352; Boringhieri 1973.
5 Cfr. E. Hamann – Krajer e Baechtold – Staubli, Handwoerterbuch des deutschen Aberglaubens , vol. VI, 815; Berlino 1942.
6 Stranamente il significato del Daumenhalten è sfuggito all’attenzione dell’Albergamo, quando questo illustre studioso afferma che “D’incerta origine sono alcuni gesti e frasi di scongiuro tutt’ora usati nei paesi civili, come lo stringere il pollice tra l’indice e il medio, che i tedeschi denominano Daumenhalten” (F. Albergamo, Mito e Magia, pag. 135. Guidi Ed. Napoli 1972). L’equivalente italiano del Daumenhalten è il ‘fare le fiche’ di cui abbiamo vastissima testimonianza soprattutto in campo letterario. Si confronti per esempio Dante, lnferno XXV.
7 G. Pansa, Riti e simboli fallici dell’Abruzzo …ecc , op. cit. nota 4, pag. 21. Si confronti con gli altri scongiuri ed esibizioni falliche delle donne abruzzesi.
8 In Das Mutterecht , Stoccarda 1861, Schroeder Ed.
9 In Ancient Society , Chicago 1877, Charles Ed.
10 E. Fromm, Il linguaggio dimenticato, Bompiani Ed. pp. 196 segg.
11 M. Eliade, Trattato di Storia delle Religioni , pag. 436; Boringhieri 1972.