[Contributo pubblicato in Attraverso l’Abruzzo, (Rivista mensile organo ufficiale del Centro Studi Abruzzesi Dir. G. Valentinetti ) n. 60, 1977 Pescara]
di Franco Cercone
Nel 2secondo volume di Miti e Leggende (pagina n. 85 seguenti) G. Pansa si è interessato anche dell’incanata nella tradizione abruzzese. Egli cita un passo del De Nino sull’argomento (cfr. Usi e Costumi Abruzzesi, voi. II, pag. 156) accettando a quanto pare anche l’origine dell’espressione «incanata».
Afferma infatti il De Nino: “Per diritto consuetudinario è permesso ai mietitori di dire quante più male parole vogliono a chi passa: lupa, scrofa, cornuto e simile zizzania! E questo gridare, come farebbero i cani, si dicono incanate. Il brutto uso va oggi scomparendo, e tanto meglio”.
Della singolare costumanza, di cui parla anche G. D’Annunzio nella Figlia di Jorio, il Pansa dà un saggio in senso diacronico, scoprendola non solo presso Greci e Romani (cfr. per es. Ovidio, Fasti, III, 675 segg., dove l’oscenità è messa in atto dalle puellae), ma anche nell’antico Egitto.
Un non meglio identificato articolista (T. M.), lo ha riportato in «Folklore d’Abruzzo» (an. I, n. 1, 1971, pag. 8 segg.) senza ulteriori contributi. Il Liberatore definisce l’incanata dei mietitori di Ofena «iniqua licenza» che colpiva persino le persone di alto lignaggio (G. Liberatore, Ragionamento Topografico – istorico – fisico – ietro sul Piano delle Cinque Miglia, pag. 157; Napoli 1789). Tale usanza non era limitata, come avevano supposto il Pansa ed il De Nino, solo al periodo della mietitura e della vendemmia, ma anche ai maggiori momenti del ciclo produttivo.
Il Tanturri, infatti, nella sua Monografia su Villalago, inserita nel Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato, (vol. XVI, pag. 134, Napoli 1850) afferma che: «Chiunque passa pei luoghi ove si tòndono* le pecore, deve prepararsi a ricevere, specialmente se sia conosciuto, ingiurie e contumelie che con impertinenza vengongli scagliate dai tonditori [tosatori]. Tale riprovevole usanza, che ha di buono il solo nome (incanata), altrove si pratica dai mietitori e vendemmiatori, pe’ quali ultimi il Viceré Toledo fu costretto ad emanare severe ordinanze, come si ha dal Giannone, Stor. Civ. del Regno di Napoli, tom. XIII, pag. 11».
Afferma infatti il Giannone (ivi): “Durava ancora il costume tramandato dall’antica gentilità, ne’ tempi delle vendemmie di vivere con molta dissolutezza e libertà: i vendemmiatori non s’arrossivano incontrando donne, ancorché onestissime e nobili, frati ed altri uomini serii, di caricargli di scherno, e di parole oscene, con tanta licenza, quanto si vede nel Vendemmiatore di Luigi Tansillo”.
Altre notevoli informazioni sull’argomento mi sono pervenute dal Sig. Luigi Giustini, maestro elementare di anni 59 residente a Pettorano sul Gizio (Aq.) ma nativo di Villa Santa Lucia (Aq.), e dal noto poeta Angelo Semeraro, originario di Paganica (Aq.). Secondo i miei informatori, infatti, l’incanata aveva luogo durante la raccolta delle olive (Pettorano sul Gizio), la battitura del granturco (Villa S. Lucia) e la raccolta della canapa (Paganica). In quest’ultima località inoltre avveniva verso la fine dell’inverno un pranzo speciale, detto «cossa», il cui piatto forte era costituito dalla «cannavicciata», minestra a base di «cannaviccio» o «seme di canapa». A tale pranzo potevano partecipare solo donne che, alla vista di qualche malcapitato passante, lanciavano a quest’ultimo parolacce accompagnate da gesti osceni.
L’incanata, dunque, sembra essere una costumanza legata alle fasi più salienti della produzione agro-pastorale e caratterizzata da espressioni scurrili che si accompagnano, per esempio a Pettorano, a gesti di natura fallica (il raccoglitore di olive piegava il braccio destro appoggiandovi la mano sinistra).
È probabile, tuttavia, che due fossero i risultati che si intendevano raggiungere, con un grado di consapevolezza negli operatori diffìcile da determinare: proteggere da influenze maligne il raccolto (ed in tal senso l’incanata era favorita forse dal proprietario) e nel contempo la persona stessa che opera l’incanata, e, come hanno precisato tutti i miei informatori, la persona in questione non era mai il proprietario del fondo o del bene prodotto, ma lavoratori «a giornata».
Questo bracciantato, allora, viveva in tali momenti, in una specie di stato psichico di grazia, in un rapporto diretto con l’abbondanza che non voleva che si disturbasse. I mietitori, infatti, quelli che fino a venti anni fa vedevamo sdraiati per terra sulle nostre piazze in attesa di committenti non erano certamente proprietari di fondi.
Anche nell’esempio di incanata tratto dal Pansa dalla Passio S. Eusanii , i mietitori erano al lavoro «per incarico». Lo stesso dicasi per i tosatori di pecore di cui parla il Tanturri e per i vendemmiatori di Pratola Peligna, come appresi tempo fa dal prof. Panfilo Petrella, ivi residente.
L’incanata, dunque, veniva messa in atto dal vasto mondo subalterno, con motti e gesti scurrili che in periodi diversi da quello del raccolto si configurano come tabù. È possibile anche ipotizzare uno status psichico di colpa del proprietario nei confronti del bracciante, status di cui egli si libera favorendo o almeno non impedendo l’incanata, e la coscienza del subalterno di costituire la ricchezza del padrone nel momento particolare del raccolto.
Quest’ultimo sottostava così volentieri in un clima di apparente sovversione di valori, all’esplosione della licenziosità del diseredato.
Se queste sono soltanto delle ipotesi, resta però certo il fatto che l’incanata non si spiega se non nella struttura dei rapporti storici fra latifondo e sottoproletariato, fra capitale e lavoro, fra ricchi e poveri.
*[tòndere : lat. Tondere ant. o letter. – tosare]
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