Nazione, Patria, Libertà
di Giuseppe Lalli
Viene prima lo Stato o la Nazione? In una dimensione ancestrale è difficile dirlo. È come dire: l’homo sapiens sente più forte il senso dell’appartenenza o quello della sicurezza? L’homo sapiens sapiens (il nostro progenitore), scuro di pelle, che dal “Corno d’Africa” viene in Europa e finisce per scontrarsi con l’europeo homo di Neanderthal, bianco, si porta dietro un’idea di appartenenza o solo il bisogno di sopravvivenza?
Sta di fatto, però, che l’homo sapiens, ancorché meno dotato fisicamente, riuscì a vincere il suo cugino perché possedeva un linguaggio articolato, a differenza di quello “proposizionale” dell’homo di Neanderthal. Il sapiens finì per prevalere perché capace di comunicare meglio e quindi di adottare una strategia di gruppo, ciò che depone a favore dell’organizzazione, ancorché sia arduo, in questo contesto, parlare di Stato e Nazione. Una cosa, tuttavia, è certa: entrambe le specie pare che praticassero il culto dei morti, segno che la religione è un tratto distintivo assai profondo dell’umanità, e sicuramente precede sia l’idea della Nazione che dello Stato.
In termini per così dire “moderni”, con la nascita delle “civiltà”, non c’è dubbio che il senso di appartenenza, la Nazione quindi, nella coscienza delle persone, precede il senso dello Stato: lo Stato, nell’epoca “civile”, è “al servizio” della Nazione, non il contrario. La travagliata storia del popolo ebraico ne è la più fulgida dimostrazione: la nazione ebraica sopravvive alla disfatta dello Stato, durante tutta la sua millenaria e commovente storia. Israele è una Nazione che reclama uno Stato: è questa una verità che caratterizza la sua vicenda umana da Abramo in poi.
Nel nostro tempo, abbiamo constatato che il crollo dei regimi comunisti dell’Europa centro–orientale, compresa la Russia, ha indebolito le strutture statali ma ha visto il riemergere dalle macerie il nazionalismo, fenomeno che, sia pure in forma patologica, è espressione del senso dell’appartenenza ad una Nazione. La Nazione, dunque, precede lo Stato ed è destinata a sopravvivergli. Il primato dello Stato è solo apparente, è un primato “psicologico”, il primato della Nazione è reale, è “ontologico”.
Il confronto tra queste due grandi istanze della convivenza umana si porta dietro altri concetti, quali Patria, Libertà, Sicurezza. L’idea di Patria è la stessa idea di “nazione” ma vissuta in una dimensione più sentimentale: richiama le comuni radici in maniera più immediata di quanto non faccia l’idea di Nazione. Non è un caso che il nazionalismo appare – ed è – una degenerazione, ed evoca l’idea di espansione a danno di altre nazioni. La patria invece, che può indicare anche una porzione di territorio più piccola della nazione di appartenenza, evoca la difesa, e si lega più facilmente all’idea di Libertà.
Quest’ultima indica un bisogno profondo, insopprimibile della persona umana, alla quale si può rinunciare, ma solo in via provvisoria, in nome della Sicurezza, sentimento anch’esso forte, perché ha a che fare con l’istinto di sopravvivenza. La Patria è un sentimento più forte di quanto si è voluto far credere da parte di una mentalità cosmopolita e astratta, quella esaltata da una certa ideologia sessantottina e prima ancora dall’internazionalismo di stampo marxista–leninista.
Volendo rifarsi alla storia politica italiana del ‘900, c’è da osservare che pochi storici hanno sottolineato il fatto che Benito Mussolini (1883–1945), alla fine dei travagliati anni che seguirono alla Grande Guerra, vinse la partita politica anche perché comprese che l’ideale della patria, esaltato dalla vittoria dell’Italia nel grande conflitto mondiale, che aveva cementato, nel fango delle trincee, l’appartenenza ad una stessa comunità nazionale, era, al di là della retorica, un sentimento naturale ben più profondo dell’appartenenza ad una classe sociale (Il socialismo, per il futuro “duce”, era stato, peraltro, solo un istinto ereditato). In altri termini, il giovane direttore di «Il popolo d’Italia» comprese che gli abitanti della Penisola, nonostante tutto, si sentivano prima italiani e poi operai o contadini, ragion per cui la “rivoluzione proletaria” era estranea al sentimento prevalente nella nazione.
“Patria e Libertà” può essere un binomio vincente. Fu quello adottato, se non alla lettera come orientamento ideale di fondo, da una parte della Resistenza antifascista, quella più consapevole, minoritaria ma profetica e densa di avvenire. La Nazione, dunque, viene prima di ogni sistema politico e prima dello Stato, come si è mostrato, e questo fu, invece, ciò che Mussolini non comprese. E non lo comprese nemmeno il grande suggeritore del regime, Giovanni Gentile (1875–1944), teorico del cosiddetto “Stato etico”, vale a dire uno Stato che si arroga il diritto di essere fonte originaria di moralità. Uno Stato che si fa Dio: una riforma “religiosa” oltre che politica, che a Gentile gli deriva dalla cattiva lezione appresa da G. W. Friedrich Hegel (1770–1831), che nella sua visione dello Spirito che si invera nella Storia, pone al vertice del processo non la Religione ma la Ragione.
Nella visione del filosofo di Caltagirone la religione, che in Italia ha assunto, storicamente, la forma del cattolicesimo, è ontologicamente inferiore alla filosofia, e il catechismo, che egli ammette nell’insegnamento scolastico, è solo la “filosofia dei piccoli”, un modo per modellare la mente dei bambini alla speculazione astratta. La polemica tra il filosofo dell’Attualismo e Agostino Gemelli (1878–1959), il fondatore dell’Università Cattolica, verteva proprio su questo, ed era questa anche la vera posta in gioco nella diatriba che negli ‘30 oppone i vertici della Chiesa a quelli del regime fascista attorno alle organizzazioni cattoliche (bisogna rispondere, in ultima istanza, a Dio o allo Stato?).
Quello di Hegel e di Gentile è il regno dell’immanenza (Deus qui manet in nobis), a cui non ha accesso alcuna religione rivelata. La trascendenza, che è, a ben riflettere, fonte di libertà, viene così negata alla radice, e lo Stato, che è la meta ultima dell’«incedere di Dio nella Storia», diviene l’unico Dio nel cui seno l’uomo può riposare, il giudice ultimo del bene e del male. Dietro ogni totalitarismo c’è questa grande eresia: uno Stato che si fa Dio e che può assumere, volta per volta, una “ragione sociale” diversa e una diversa idea totalizzante (lo “stato organico”, la “razza”, “la classe”).
Nulla a che vedere con il Dio della rivelazione giudaico–cristiana: il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Gesù Cristo, il Dio dei vivi e non dei morti, vuole uomini liberi e responsabili. Contro il virus del totalitarismo, che tante tragedie ha provocato nel Novecento, il vaccino c’è: la trascendenza, la fede in un Dio che è al di là della storia, la sola che può garantire l’alleanza tra lo spirito di libertà e lo spirito di religione. «Sono incline a pensare – scriveva Alexis de Tocqueville (1805–1859) – che, se non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda».