[Contributo Pubblicato alle pgg. 148-152in “Rivista Abruzzese”, anno XXXII – N.3-4 Lanciano 1979]
di Franco Cercone
Nell’archivio della Cattedrale di Corfinio, gentilmente messomi a disposizione da Don Cesiro Di Francescantonio, mi sono imbattuto in un voluminoso fascicolo manoscritto raggruppante gli «Atti del Vicario generale della Curia di Valva Mons. Liberati».
Tali atti, che abbracciano gli anni 1723-1726, si riferiscono al processo contro un certo Fra Francesco di Naro, località in tenimento di Agrigento, e detto perciò «il Siciliano», il quale, pur non essendo stato ordinato sacerdote, aveva celebrato messa, confessato ed amministrato il Sacramento della Comunione non solo in Umbria (soprattutto a Spoleto) ma anche in numerose località dell’Abruzzo aquilano e nel Sulmonese, fra cui Pettorano e Pacentro. «II Siciliano» però, cioè Fra’ Francesco, possedeva l’abilità di eludere continuamente la sorveglianza ecclesiastica e di fuggire al momento opportuno dai monasteri appena avuto sentore di essere ricercato. Così, per es., si apprende (pag. 99 del manoscritto) che «il Siciliano» si trovava a Pacentro nel gennaio del 1724 presso il Convento dei Minori osservanti.
Su segnalazione del Priore, il Vescovo di Sulmona invia in ricognizione alcuni frati che riferirono, dopo, di essere arrivati troppo tardi, in quanto «il Siciliano… se ne fugiva dalla parte della ferrata di ferro che corrisponde all’orto… ignudo con le semplici asciucatori seu tovaglie di lino
bianco, e con le motande e scarpe…».
Del fatto comincia ad interessarsi anche la Santa Congregazione, che in data 27 maggio 1724 raccomanda da Roma, una volta a conoscenza che «il Siciliano» era nelle carceri vescovili di Sulmona, che «Fra’ Francesco di Naro… sia costantemente custodito, però trattato con carità, moderando la supposta asprezza de’ ferri a’ piedi e manette a le mani».
Inoltre la Santa Congregazione raccomandò al Vescovo di Sulmona, Matteo Odierna, di cui torneremo a parlare, che tutti gli atti relativi al processo le fossero poi trasmessi.
Il mistero di quest’uomo, che pur vestito da frate non aveva ancora la potestà di celebrar messa, si svela allorché durante il lungo processo di Sulmona pervengono all’autorità ecclesiastica inquirente gli atti del processo svoltosi a Spoleto contro Fra’ Francesco, alias «il Siciliano», atti inviati dalla stessa Santa Congregazione al Vescovo di Sulmona per conoscenza. Da essi risulta che «il Siciliano» era esperto in magia bianca e nera ed aveva partecipato a diverse sedute al fine di «cavar tesori». Alcune
di queste pratiche e riti magici risultano sorprendentemente simili a quelli messi in atto da un gruppo di religiosi implicati nel processo Centini, svoltosi un secolo prima circa (1634-1636) ed oggetto di un ampio studio pubblicato da Giuseppe Profeta[1].
Nelle ultime udienze del processo a Spoleto – egli riuscì come al solito a fuggire prima della sentenza e pertanto condannato in contumacia – Fra’ Francesco di Naro confessa che in una delle sue tante peregrinazioni si ritrovò a Capestrano in compagnia di un frate cappuccino di cui, disse, non ricordava il nome.
Questo frate lo portò «in casa d’un tal Sig.r Gioacchino ed in un piccolo stanziolino di detta casa, ove dicevasi esserci di certo un grosso tesoro; cominciò detto prete a recitare un’orazione, che
l’aveva presa dal breviario, e scritta in una carta, ne io so, che orazione si fusse. e quella unitamente alla rovescia, cioè l’ultime parole nel primo e le prime nell’ultimo. Poi disse detto prete cappuccino spogliato, che ci voleva un breviario nuovo, alcune candele di cera non ancora usata, come anche alcuni spachetti (sic) non mai toccati da donna ed io ancora dicevo di si, che ci volevano queste cose alla presenza di detto Signor Gioacchino e sua moglie, ma non sortì nientaltro in quel luogo. Poi ci partimmo io et il detto prete cappuccino spogliato in altri luoghi, e fra gli altri in un torrione di detta città che dicono la Porta d’Assisi, ed ivi ancora col detto Pre’ dicessimo certe parole di questo tenore, ricordandomi alcune parole di esso che sono: Sasmois, Canoismus, Mausmis, Daufanis et altre delle quali che hora non mi sovvengono, dicendomi ancora il detto Padre che se in quel luogo vi fosse stato il tesoro, mentre si dicevano le dette parole, sarebbe comparso avanti gl’occhi l’oro come raggi di sole: lui diceva che vedeva non so che cosa, ma io non vedeva cos’alcuna, e nè in questo luogo sortì altra cosa… ».
Nella seduta del 2 dicembre 1724 «il Siciliano» fa questa confessione:
« Essendo capitato circa li 25 o 26 settembre del 1723 in una osteria da 6 miglia prima d’arrivare all’Aquila, la sera di detto giorno capitò ancora in detta osteria mentre io ed altri uomini stavamo mangiando, un uomo di giusta statura, un poco grassotto che mostrava d’essere d’età di
45 anni in circa, di carnagione olivastra, con perucca in testa di colar biondo, barba negra, e canuto alquanto, vestito di sciamberga di colar cinericio il quale in discorso disse che si chiamava Monsù Simone di natione francese e perché portava come una borsa di calice per cercar la limosina, e. detta borsa era di color rosso e disse, che lui era Pagano convertito alla fede e per segno di ciò mi mostrò alcuni attestati di Roma, che lo raccomandava agli ordinarj de’ luoghi, a’ fine di questuare. Quest’uomo fu da me invitato a mangiare in detta osteria ed io in fatti pagai il mangiare per
me e per lui. Stassimo alquanto in discorso di cavar tesori e lui disse in presenta di quegli altri che erano in nostra compagnia che se fussimo stati in un patto di cavar tesori, sarebbe a lui bastato l’animo d’esentare me ed esso medesimo dalle bastonate ma non gl’altri. Da questo motivo essendo io dormito col sopradetto Monsù Simone, ci presi confidenza e discorrendo di molte materie e specialmente de’ tesori, che la mattina m’avrebbe insegnato altri secreti quanti io ne volevo. Ed infatti la mattina doppo d’aver fatta colazione che io la pagai, lui mi diede una moneta d’oro che mi disse
che valeva un Luiggi, e detta moneta era antica di Nerone imperatore, e mi disse che aveva cavato un tesoro nelle parti di Calabria e richiedendogli io di quello che promesso m’avea la sera, lui mi disse di si, che perciò si cavò dalla sacca molte carte ed un libro in ottavo foglio manoscritto,
che il carattere dava del rosso e mi fece scrivere le seguenti cose.
In primis mi fece scrivere prò vendicatione inimicorum, quale fu di questo tenore:
si prende un panno negro et destendendolo in un luogo, di sopra vi si mette la croce, alle braccia della quale vi si pongono due candele di cera negra ed a’ piedi la testa de morto e le candele dette devono stare accese, e poi ponendosi inginocchioni si dice il Salmo Miserere Mei Deus al rovescio, cioè dove diceva mei vel meam si doveva dire illi vel suam, che è l’istesso che dire quelle parole che in detto Salmo esprimono la persona di quello che lo reciti dicendolo giusto; alla rovescia poi quelle parole si dicevano in persona terza. E mi pare che per detto affetto vi fusse un altro
Salmo del quale io non me ne ricordo; e questo si deve fare per tre giorni che poi se ne vedeva l’effetto con la morte di quello per qual si faceva detta funzione.
In secondo luogo mi fece scrivere pro flussu sanguinis alcune parole, delle quali io non ne ricordo in verun modo. In terzo luogo mi fece scrivere pro tortura delle quali parole non mi ricordo bene, solo mi ricordo, benché in confuso, che ci andassero mischiate queste parole cioè che il latte di Maria Vergine sia dolce in quello che riceve la tortura, che la morte e passione di Cristo sia dolce e soave: e sopra questo non mi ricordo altro. In questo luogo mi fece scrivere di poter ritrovare il luogo preciso del tesoro ove era nascosto con questo modo: si prende un’oncia di grasso umano con
due oncie di cera o vergine o non vergine; delle quali se ne fa una candela ed il stuppino della quale deve essere di camiscia d’un morto, poi detta candela si mette nell’altare sotto la tovaglia nella parte dell’evangelo; facendoci celebrare una Messa in detto altare per l’anima di quel morto, del
quale si prese la camiscia per far detta candela. Doppo che è celebrata detta Messa si prende la sopradetta candela e nel luogo ove si crede possa star il tesoro s’accende, recitandoci il Salmo dove sta questo versetto: Ut viderunt oculi mei et considerabo mirabilia de lege tui, che se vi è il tesoro,
la candela vi tira nel sito ove sta, ed ivi si smorza.
Mi voleva ancora far scrivere che per fare d’un altra maniera più sicura la detta candela, oltre le sopradette cose, ci voleva l’oglio santo, e particole consecrate e che queste ancora l’impastavano nell’istessa candela, e che poi quella candela si poneva accesa sopra un bastone che si fissava
in terra e dicendoci alcune parole, fra le quali solo mi ricordo e poco bene: Taumaturgo, o Tumaturgo, o altra parola simile non ricordandomi bene, e che poi il detto bastone con detta candela accesa sarebbe che se andato nel sito ove era il tesoro, e che ivi si sarebbe smorzata la candela; ma quest’ultimo secreto non lo volli scrivere, perché m’inorridij nella detta superstizione. Quinto mi fece scrivere che per tirare una donna al proprio amore, si prende un poco di cera vergine, e se ne fa una piccola statua, al collo della quale statua, s’avvolta un filo di seta cremsi, lasciandone pendere di un palmo di detta seta, colla quale detta statuetta appendere in un chiodo, ponendo sotto la statuetta un lentissimo fuoco, acciò la statua si scaldi, ma non si distrugga. Poi si prendono tre spille, e si pongono la prima mi pare nella mano destra, l’altra nella sinistra, e la terza nella parte del cuore. Poi si dice:
O vos tres a’ me invocate, Nempe, Uf, et Giul, e queste tre parole me le fece scrivere con le lettere maiuscole; e mi ricordo, che ogni volta, che si proferisce una delle tre parole sopradette, si pone per ciascheduna volta una spilla delle già dette ne’ sopradetti luoghi, affisandole dalla parte della testa, e non della punta di dette spille, senza farle trapassare dall’altra parte di detta statua. Affissate con le sopradette parole le dette spille si segue a dire alcune parole, delle quali solo mi ricordo
queste cioè: Denvo vos per polestatem qua habetis super Sidera Levantem, Ponente, Grecu et Favoniun, poi ne seguono altre parole, che non me ne ricordo, e finalmente: Luna est scabellum pedum vestrorum: Sol est corona capitum vestrorum, ed altre parole, che non mi ricordo, fra le quali
mi pare che vi siano: Vos estis principes prophetorum et imphropetari, o pure Creatarum et increatarum, visibilio duniun et invisibilium, mettendoci ancora fra l’altre parole il nome di quella donna per la quale era fatta la statua. E mi ricordo che nell’ultimo si diceva: Ut luscoriosa veniat inter
brachia mea. Poi ci pigliava la detta statuetta, e si poneva sotto un matone
della porta della chiesa, dove la femina se n’andava a sentir la messa. E che ciò fatto se ne sarebbe veduto l’effetto soggiungendomi che questo secreto l’aveva in seguito ad un Sig.re di Cosenza, di cui non mi ricordo il nome, e che detto Sig.re ne vidole l’effetto[2].
In sesto luogo mi fece scrivere un secreto contro l’armi, e fu così, si prende un poco di carta vergine, e la quale si fa con la seconnina di donna, a modo di carta pecora, ed in detta carta facendoci un piccolo giro con punta di cortello, o di forbice nova, dentro detto giro vi si pongono queste parole, cioè:
Heli, Heloim, Lasach, Lamasabactani, Agios, Atheos, Athenateos, seu Imos e per ciascheduna di queste parole ci si fa’ il segno della croce e che poi della carta si portava addosso e che non c’era pericolo d’offesa d’armi.
Mi ricordo hora, che quando m’insegnò il modo di ritrovare tesoro nella candela mi disse, che ci disegnava la verga d’Aronne[3] e lui medesimo me ne fece il disegno con la penna nella carta in modo della detta verga, e questo me n’ero scordato di dirlo di sopra. Tutto ciò che ho riferito mi
fece scrivere il sopradetto Monsù Simone, il quale mi voleva far scrivere altri secreti, dicendomi ch’erano più belli, ma io non me ne curai. Tutte le sopradette cose io me le copiai in un foglio di carta, e le portavo con me, si la sopradetta copia come l’originale, che erano più cartuccie, ove
prima l’avevo scritte…».
Interrogato ancora a Spoleto sulle pratiche magiche dirette ad assicurare l’immunità dalle ferite d’armi, Fra’ Francesco di Naro precisò ancora:
«Nelle carceri dell’Arcivescovato di Chieti io diedi il secreto sopradetto contro l’armi a’ due sbirri di quella corte, de’ quali io non so come abbiano il nome, e cognome, ne so’, che essi sene siano serviti, stanteché io ancora gli lo misi in dubbio, se poteva essere veridico, o no detto secreto. Quando io poi fui nelle Carceri della Regia Audienza di Chieti, a quel che mi ricordo nel mese di decembre 1723, trovandomi in conversazione d’un certo Zi’Avenzio ed un prete, che non so come si chiami, ma mi pare, che dicesse ch’era della Ripa, o pure di Villa Magna et in conversazione discorrendo di tirar le donne per via di parole, e di cavar tesori, ancor io dissi richiesto da loro, che sapevo un secreto per ritrovar il loco preciso del tesoro, e gli copiai il sopradetto secreto della candela, che dissi nell’altro mio esame, ed acciò no avesse fatto alcun effetto ci aggiunsi altre cose false, o’dir meglio a’ mio capriccio[4].
Mi ricordo, che maggiormente beffeggiarlo ci feci una copia di memoriale co molte parole a’ capriccio come Sasmois, Muluis, Musfis e gli dissi, che quello era il memoriale che doveva ponersi sopra il luogo del tesoro, e che poi ritornandoci in termine di ventiquattro hore si sarebbe trovato il
tesoro aperto. Ma io non so, se gli detti si servirono di quel ch’io gli dissi, perché io mai più gli viddi. Nè mi ricordo se gl’insegnai nessun altro degli sopradetti secreti. Circa il tempo di Pasqua del corrente anno 1724 un carceriere della Regia Audienza di Chieti, che si chiamava Micuccio, essendosi questo accorto che io teneva il secreto per cavar tesori, venne con uno del Vasto nelle dette Carceri, e mi supplicò, che gli avessi fatta la candela, che si richiedeva per cavar il tesoro, io gli dissi di si per rispetto che era carceriere, e lui mi portò il grasso umano cioè della pianta della mano, ed un poco di cera, che si richiedeva per fare la sopradetta candela, come anche un pezzo di camicia che disse che l’aveva presa nella sepoltura di un figliolo morto…».
Questi sono i passi più rilevanti del processo, alquanto appesantito da una serie di deposizioni che nulla aggiungono agli importanti riti magici in esso menzionati. Fra’ Francesco di Naro, detto «il Siciliano», fu condannato nel 1724 alla fine del processo svoltosi a Sulmona dal Vescovo Francesco
Odierna, il quale concludeva il dispositivo della sentenza con queste parole: «… impostegli penitenze salutari, lo condanni alla galera in perpetuo», e ciò per aver detto messa, confessato senza essere ancora prete e per le pratiche magiche da lui «presi ed insegnati», come conclude il fascicolo del processo.
[1] G. Profeta, Magia e Politica, L’Aquila 1975. Il processo si concluse a Roma con la condanna a morte di Giacinto Centini e due frati, rei di aver attentato alla vita di Papa Urbano Vili mediante riti di magia nera svoltisi in diverse località, fra cui Campli e Corropoli, entrambe in prov. di Teramo.
[2] Nel processo Centini si apprende che uno dei frati che congiurarono contro Urbano VIII si era follemente innamorato d’una donna che non voleva corrispondere al suo amore. Avendo confessato ad un altro frate il suo segreto, ricevette da quest’ultimo un rimedio infallibile per piegare tale donna alle sue voglie. Egli fu invitato ad appendere ad una finestra una
statua «di cera vergine» legata ad un filo, «per che fosse agitata dal vento, presupponendo, che si come la statua s’andava voltando in qua, et in là, così si muovessero le viscere della donna ad amarlo». Cfr. G. Profeta, op. cit.pag. 159.
[3] Aaronne, come è noto, operò diversi prodigi con il suo bastone o «verga», fra cui la divisione del Mar Rosso per permettere il ritorno degli Ebrei alla Terra Promessa (Esodo, XIV, 9), il flagello delle rane su tutto l’Egitto (Esodo, VIII, 5) ecc… Già nel medio evo la «verga d’Aaronne» viene usata a scopi magici. Si tratta di un bastone per la «circumscriptio» dello spazio magico. Allo stesso uso erano destinati altri bastoni chiamati «le clavicole di Salomone» o «clavicola di Salomone». Cfr. al riguardo G. Profeta, op. cit. pag. 159, ove per altro «La Clavicola di Salomone» appare come titolo di un libro di arti magiche.
[4] È evidente come «il Siciliano», viste le brutte acque in cui si trovava, cerchi di porre, ma invano come vedremo, tutto il suo operato sul piano dell’irrilevanza, tentando di commuovere l’autorità ecclesiastica inquirente.