In un drammatico documento di Filippo Destephanis del 1859
[Pubblicato in “Rivista Abruzzese” Anno XXXVIII, N 1, 1985 Lanciano. Pgg. 39-42]
«Tempo di pastorizia». Così potrebbe essere definito il periodo compreso tra la primavera e l’autunno del 1983, in cui a più riprese si è discusso in vari convegni abruzzesi sul famoso “progetto transumanza” ideato dal Ministero per i beni culturali ed ambientali. Sono note a tutti le polemiche scoppiate in mento alla scelta dei tratturi e quindi delle aree geografiche da privilegiare mediante interventi statali, diretti alla tutela di tutti i monumenti storici in esse comprese. Nel fervore delle discussioni si è tralasciato, tuttavia, l’approfondimento di alcuni aspetti legati all’attività della pastorizia, come per esempio la compilazione di una carta contenente un censimento di tutte le capanne agropastorali esistenti in Abruzzo e Molise, nonché l’analisi della pastorizia come fenomeno “industriale”, legato cioè agli investimenti, operati nel settore da ricche famiglie, soprattutto romane. Non meno interessanti sarebbero risultate, nell’ambito di tali convegni, delle indagini dirette ad individuare i ritmi d’ascesa economica di alcuni «massari», che da umili pastori si trasformano in breve tempo in veri e propri industriali del settore ovino. Lo stemma infisso su un palazzo settecentesco di Pescocostanzo e contenente una testa di montone al posto delle solite “armi” o insegne nobiliari, rappresenta al riguardo un episodio che non richiede ulteriori commenti.
Il fenomeno poi della «pastorizia di sussistenza», collegato alla cosiddetta “microtransumanza”, resta ancora del tutto inesplorato in relazione al continuo stato di conflittualità fra pastori e contadini locali, come appunto nella conca peligna. Una drammatica pagina di storia ci viene offerta in tal senso da uno scritto del notaio Filippo Destephanis, di Pettorano sul Gizio, padre dello storico Pietro, che sottoponiamo all’attenzione degli studiosi. Il manoscritto in questione, dal titolo “Memoria sull’origine dei tratturi”, faceva parte del fondo Pietro Destephanis, acquistato dall’antiquario Matteo Tonini, di Ravenna, cui va il nostro ringraziamento per la possibilità che ci ha offerto di pubblicarlo.
Franco Cercone
Da “Memoria sull’origine dei Tratturi”: Per avere una notizia dell’origine dei Tratturi è necessario rimontare fino al tempo in cui i romani riunirono al loro Impero il Sannio e le Puglie. Una parte di questa ultima regione fu destinato al pascolo del gregge in tempo d’inverno, col pagamento di un dazio.
Varrone è il più antico scrittore che ci ha lasciato memoria del passaggio del bestiame dal Sannio alle Puglie. Gli abitanti dell’Abruzzo han sempre esercitata l’industria delle pecore, favoriti dai luoghi montuosi ed alpestri, che si rivestono di eccellente e fertilissimo pascolo nell’estate; ma fu osservata la necessità di evitare la rigidezza del clima, e la Puglia con la sua dolcissima temperatura invitava nell’inverno alla trasmigrazione. Ecco, dunque, la trasmigrazione da un pascolo all’altro secondo le stagioni.
Non occorre parlare come fu alterata questa trasmigrazione di animali coll’occupazione dei Barbari, e come fu rimessa in piedi sotto il dominio de’ Normanni. Dopo tante vicissitudini Alfonso I d’Aragona si studiò di riordinare i pascoli della Puglia. Nel parlamento tenuto il 1443, egli, tra le altre
cose, stabiliva tre diversi cammini negli Abruzzi, col nome di tratturi, per la comoda trasmigrazione degli animali, pagando ai padroni il prezzo delle rispettive terre occupate da detti tratturi, i quali ne’ tempi posteriori furono limitati a 60 passi di larghezza, ognuno di 7 palmi napolitani. E, secondo Stefano di Stefano nella sua “Ragion Pastorale”, lo stesso Re Alfonso fe’ venire dalla Spagna le pecore di lana gentile, le quali distribuì tra gli Abruzzesi, come i più atti e pratici al governo di esse, e come abitanti in luoghi montuosi dove si trovano erbaggi teneri in tempo d’estate.
Alfonso, dunque, accrebbe l’industria delle pecore attribuendo le migliori terre del suo regno al pascolo. Oggi si comprende bene che un sistema pastorale non conviene che a popoli erranti e poco inciviliti, ma ciò che è cattivo nei tempi nostri non lo era ne’tempi antichi. Pertanto, sarebbe stato più sano consiglio ristabilire il cittadino insiememente (sic) pastore ed agricoltore.
Posteriormente per le doglianze de’ Pugliesi nel 1457, lo stesso Alfonso accordò loro di coltivare una determinata quantità di terre. Cresciuto il bisogno della coltivazione nel 1536, il Regno supplicava l’imperatore Carlo V per libertà dell’agricoltura nella Capitanata, ma non fu esaudito perché la domanda era opposta dall’interesse de’locati. Queste determinazioni contrastanti la prima sussistenza de’popoli, ad altro non servirono che a mettere in una perpetua guerra i pastori e gli agricoltori.
Le cose si portavano ad estremità pericolose, e si stimò vano il consiglio di non molestare coloro che avevano occupati i tratturi. Perché ancora ristretta l’agricoltura nella Puglia, il Regno fu travagliato da una carestia; il che obbligò il Governo nel 1555 ad accrescere altre terre all’agricoltura, come similmente fu fatto nel 1745.
Il secondo dei tre tratturi stabilito da Alfonso, incominciando da Celano per Popoli e Sulmona, svolgesi nella pianura lungo il fiume Gizio, e, passando vicino le mura di Pettorano, taglia a questi cittadini i più fecondi terreni e più adatti all’agricoltura, perché son là dove gli Appennini quasi dividendosi aprono il bacino peligno: i più atti dico e più fertili, non solo per la migliore qualità della terra, che per lo scolo di tutti gli umori delle due montagne.
Mentre poi tali terre, sì perché site nel piano fra le due montagne, perciò cretose; sì perché intersecate dalla strada consolare, il polverio di questa, innalzato nella primavera e nell’autunno dalla colluttazione dei venti, naturalmente inaridisce l’erba, e disseccandola fa si, che nel passaggio degli armenti non si ha più l’erba tenera e fresca, ma arida e secca.
Il che non avverrebbe se il tratturo volgesse e si portasse lungo la falda della montagna orientale, cioè in una zona tra l’inculto macchioso, e le terre coltive. La quale incominciando dalle Pietreregie, confine dei due territori di Sulmona e Pettorano, montando lievemente e poi prendendo una linea orizzontale lungo le coste e man mano rispetto a quest’ultima Terra, andrebbe pianamente a ricongiungersi col tratturo che traversa il tenimento di Roccavallescura.
Il poco bisogno dei terreni, per lo scarso numero degli abitanti, non facea pensare, in tempo che si stabilirono i tratturi, che alienando queste terre si toglieva alla popolazione ventura il mezzo della sussistenza. A questo si unisce pure l’occupazione degli Introdacquesi nelle altre terre anche migliori del Comune, le quali, ad essi alienate dagl’infelici Pettoranesi, formano la loro dimora coll’avervi stabilite case rurali, e prese altre terre a colonia. I Pettoranesi son rimasti colle terre sui monti o sul dorso di essi, le quali, per la scarsezza del ricolto, non son per nulla sufficienti ai bisogni della popolazione cresciuta.
Esuberando le braccia sono obbligati i meschini andar raminghi l’inverno, o nell’Agro Romano, o a Terra di Lavoro, o alle Puglie, imitando gli armenti, pervéro anche in Calabria, dove guadambiando il vitto gli uomini, riportano poche monete alla famiglia, che per lo più a stenti ha tirato l’invernata. Da alquanto tempo anche la State [estate] son costretti uscir dal paese a guadambiare un tantino per pagare i fitti delle terre coltivate dalle donne e bastanti neppure per la sussistenza di queste. Ed oh quante volte il marito, il padre, dovendo ripartire all’incominciar dell’inverno, lascia la moglie, la famiglia in mezzo alle premure del locatore che domanda il fitto del piccolo campicello! e senza la sussistenza per l’intera vernata.
È causa di dolore e di dispiacere il vedere terre attissime all’agricoltura giacere inutili per un sol passaggio di armenti; mentre terre arenose e fresche, produttrici di erbaggi teneri, son rimaste all’agricoltura. Sorge perciò nell’Università il desiderio di domandare un cambiamento pel tratturo e questo volgere a coltura.
Il Comune ha tanta poca rendita che per pagare i pesi comunali è obbligato mettere tanti balzelli che rendono più poveri gli abitanti. Col cambiamento del tratturo verrebbe ad acquistarsi rendita sufficiente per pagare questi pesi. Quindi inutili balzelli. Ed il contadino, preso a coltura dal Comune una porzione della terra occupata dal tratturo, vi ritrarrebbe la sussistenza per l’intera famiglia. Oltre a ciò: il cambio che si propone del tratturo può essere vantaggioso tanto ai Pettoranesi, per le esposte ragioni, essendo il terreno dove trovasi attualmente ben atto all’ agricoltura. Vantaggioso alla pastorizia, dappoiché, trovandosi l’attuale tratturo all’uscita del paese, l’erbaggio ne vien distrutto da’ continui usi degli abitanti; nel mentre che il tratturo nel luogo proposto resterebbe pieno in ogni stagione dell’anno di erba copiosa ed eccellente.
Non giova dire che le contravvenzioni al regolamento del 14 Decembre 1858 son punite. Certo che i tratturi per la loro destinazione (art. 1° del detto regolamento) debbono prestare copioso erbaggio sì nell’autunno quando il bestiame scende nelle Puglie; sì nella primavera quando fa ritorno sui monti.
Ma intanto il Paese per tempo inveterato, solito a servirsi di tale estensione di terreno per i diversi usi: cioè per la trebbiatura del grano, macerazione di canape, assolamento e disseccamento di vivai e fieno, passaggio continuo di animali, non potrebbe senza notabil danno difficilmente esserne impedito. D’altronde col cambiamento del tratturo verrebbe ad essere compensato il disvantaggio con l’accresciuto ricolto: primo e necessario bisogno dell’uomo!
Questo è l’unico mezzo che può prospettarsi al Direttore del Tavoliere per rimuovere l’impedimento dell’uso cui è destinato il Tratturo, ed il meno vantaggioso per avere abbondante erbaggio nel transito de’ greggi e degli armenti de’ censuari pastori del Tavoliere.
Sia quindi tutto zelo dell’amministrazione il rimettere una ragionata domanda di cambiamento di suolo al Tavoliere di Puglia; perché compreso dell’utilità della cosa ne possa provocare la Sovrana Sanzione (Filippo De-stephanis).
Il dì 23 marzo 1859.
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