Quando si celebrano anniversari di documenti ecclesiali, importanti come l’Evangelii gaudium (24.11.2013), si rischia sempre una forma di celebrazionismo. Ma in questo caso…
di Rocco D’Ambrosio
Globalist.it, 24 novembre 2023. Quando si celebrano anniversari di documenti ecclesiali, importanti come l’Evangelii gaudium (24.11.2013), si rischia sempre una forma di celebrazionismo, in cui si tentati di ricadere in una retorica nostalgica di un passato visto come un grande periodo, con grandi personalità e grandi idee, mentre l’oggi è… piccolo, piccolo, in ogni contesto. Non penso che l’Evangelii gaudium meriti questo trattamento sterile, anche perché essa non è una “normale” esortazione apostolica ma il programma dell’attuale pontificato. Quindi riprenderla tra le mani, dopo dieci anni, vuol dire chiedersi se quel programma è stato attuato abbastanza, in parte o per niente proprio. L’occasione mi è stata data dalla partecipazione, questa mattina, in Vaticano, al Symposium at the Dicastery for Integral Human Development on The tenth anniversary of Evangelii Gaudium. Di seguito i punti salienti del mio contributo:
A quelle Chiese esclusivamente ripiegate sui temi etici personali, familiari, sessuali, di inizio o fine vita (si pensi al periodo del ruinismo italiano), papa Francesco ricorda – elemento già presente da sempre nel magistero cattolico – che: “Il kerigma possiede un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri. Il contenuto del primo annuncio ha un’immediata ripercussione morale il cui centro è la carità” (EG, 177). Eppure, questa chiarezza sembra non essere ancora molto assimilata, specie nel nostro contesto italiano. Ma forse ci può aiutare quanto segue.
“La Parola ha in sé una potenzialità che non possiamo prevedere. Il Vangelo parla di un seme che, una volta seminato, cresce da sé anche quando l’agricoltore dorme (cfr Mc 4,26-29). La Chiesa deve accettare questa libertà inafferrabile della Parola, che è efficace a suo modo, e in forme molto diverse, tali da sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi” (EG, 22). Il comunicare di cui parla Francesco è un comunicare la Parola lasciando che sia essa a guidarci, anche quando dormiamo (cfr Mc 4,26-29), gustando la sua molteplice efficacia e rompendo gli schemi dell’attuale stile ecclesiale. Gli schemi da rompere – credo che il quadro sia abbastanza chiaro dopo dieci anni di pontificato – sono relativi a temi cruciali quali: l’opzione preferenziale per i poveri, un nuovo slancio missionario, la povertà e la sobrietà nella vita ecclesiale, l’impegno per la giustizia e la lotta contro la corruzione di tutte le istituzioni (Chiesa cattolica inclusa), il debellare la piaga della pedofilia, la collegialità episcopale e la sinodalità ecclesiale, la promozione del laicato e il problema del clericalismo, l’attenzione ad alcune prassi familiari, un rinnovato impegno ecumenico, la promozione della pace, la cura della natura, per citare i maggiori. E forse il primo schema da rompere è quel modo in cui spesso ragioniamo e comunichiamo, cioè il parlare “più della legge che della grazia, più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del Papa che della Parola di Dio” (EG, 38)
Per la percezione che ho personalmente, specie per la situazione italiana che conosco meglio, non tutti i fedeli laici e i pastori, dei vari settori ecclesiali, hanno accettato l’invito a rompere gli schemi. Questa opera di “rottura” non necessita affatto, specie nella Chiesa, di creare partiti, fazioni o correnti. Per evitare di spaccarsi bisogna accettare il Vaticano II come punto di non ritorno del cammino secolare della Chiesa cattolica. Ma questo, purtroppo, non è successo: attualmente i gruppi a favore o contro il magistero attuale sono sempre più agguerriti e chiusi, a scapito del dialogo, tema, del resto, affrontato da papa Francesco tantissime volte. Per non parlare di coloro, pastori e fedeli laici, che vivono in un’ambiguità ecclesiologica e pastorale, forse in attesa che questo pontificato passi quanto prima e si ritorni a posizioni passate, se non proprio preconciliari.
Una parte cospicua dell’esortazione (EG, 135-159) è dedicata all’omelia come momento privilegiato del comunicare pastorale. Perché tutta questa attenzione? Francesco lo spiega introducendo il discorso: “Mi soffermerò particolarmente, e persino con una certa meticolosità, sull’omelia e la sua preparazione, perché molti sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo chiudere le orecchie”. Considerata questa situazione Francesco tiene a ribadire quanto l’omelia sia “la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità d’incontro di un Pastore con il suo popolo. Di fatto, sappiamo che i fedeli le danno molta importanza; ed essi, come gli stessi ministri ordinati, molte volte soffrono, gli uni ad ascoltare e gli altri a predicare. È triste che sia così” (EG, 135). Il loro, come il disagio di tanti, il papa lo vuole superare invitando i suoi preti a concentrarsi sul valore e sull’importanza dell’omelia. Sono tanti i riferimenti teorici e i consigli pratici che Francesco fornisce. La loro profondità e utilità vanno colte nel testo stesso. Sono migliorate le omelie in questi ultimi dieci anni, magari seguendo le indicazioni di papa Francesco?
Il testo dell’esortazione, un po’ in tutti i suoi molteplici punti dottrinali, esperienziali e comunicativi, si pone come un riferimento che pone ancora molti interrogativi all’interlocutore e lo scuote profondamente. E se questi non vuole essere scosso nelle sue certezze, il testo potrebbe creare in lui una forma di fastidio. Di fastidio Francesco parla quando accenna al rifiuto del mondo politico ed economico delle indicazioni etiche (EG, 203). Tuttavia, non si può negare che questo fastidio anche per temi quali il cattivo potere e la corruzione nella Chiesa e nel mondo (EG, 80, 202-208), l’impegno per la promozione dei poveri (EG, 176-216). Nell’esortazione il papa arriva persino a chiedere umilmente scusa; il suo intento è solo quello di aiutare tutti ad avere “uno stile di vita e di pensiero più umano, più nobile, più fecondo, che dia dignità al loro passaggio su questa terra” (EG, 208). E ciò vale ancora dieci anni dopo.
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