IL CULTO DI SAN PANCRAZIO A CARAPELLE
Estratto Pubblicato in Bullettino Deputazione Abruzzese di Storia Patria “HOMINES DE CARAPELLAS – STORIA E ARCHEOLOGIA DELLA BARONIA DI CARAPELLE” L’AQUILA 1988 Pgg. 125-136
di Franco Cercone
La costruzione della chiesa di S. Pancrazio[1] risale verosimilmente ai primi decenni del XVIII secolo, mentre alla prima metà del ‘300 è da attribuirsi, forse, la chiesetta dedicata allo stesso giovane martire, sita accanto all’edificio settecentesco.
La chiesa ha un unico altare, quello appunto di San Pancrazio; ancora nel secolo scorso ve ne erano altri due dedicati rispettivamente a S. Giuseppe ed a Maria Vergine, ma privi di benefìci o lasciti laicali
dovevano trovarsi in uno stato d’abbandono, tale da essere colpiti da interdetto.
Dalla visita pastorale che il vescovo di Valva e Sulmona, Mario Mirone, compie a Carapelle in data 29 luglio 1842, si apprende infatti a proposito di San Pancrazio: “Hec Ecclesia distat ab oppido Carapelle ad milliarium circiter, pertinet ad ipsam communitatem et habet tria altaria nempe. Altare majus sub titulo S. Pancratii, secundum S.Joseph et tertium beate Marie Virginis Costantinopolitani. Aprobabimus primum et reliquimus alios duo sub interdicto”[2].
Carapelle, si sa, era parte integrante della Diocesi di Valva, cui ancora oggi appartiene. Le più antiche bolle corografiche, come quelle di Innocenzo II (1138)[3], Lucio III (1183)[4] e Clemente III (1188)[5],
menzionano una sola chiesa sub titulo S. Pancratii, sottoposta alla giurisdizione valvense. Essa sorgeva a Raiano e precisamente sul colle di San Pancrazio[6].
La Bolla corografica di Clemente III ci dice in particolare che nel 1188 vi erano a Carapelle “Ecclesiam sancti Cipriani, sancti Victorini, sancti Leonardi, sancti Petri, sancti Pauli, sancti Nicholai, et sancti Christofori, sancti Johannis et sancte Marie, sancti Laurentii, sancte Marie, sancti Cataldi, sancte Marie et sancte Marie”[7].
Come è noto, la funzione principale di molte bolle era quella di ribadire l’appartenenza di tali chiese alla giurisdizione ecclesiastica dei vescovi e di difenderle in tal modo dai costanti tentativi degli ordini
monastici, soprattutto Benedettini, diretti ad usurparne il possesso ed a renderle nullius dioecesis. Questo ci spiega come dell’antica chiesa dedicata a San Pancrazio in Carapelle, nessuna menzione vien fatta nelle bolle corografiche in precedenza ricordate. Essa infatti, insieme a 1.600 moggia di territorio, apparteneva al monastero di S. Pietro in Tritas, non lungi da Capestrano, posto alle dirette dipendenze di San Vincenzo al Volturno.
Della plagia Sancti Pancratis (anche: plaia Sancti Pancratis), toponimo che presuppone necessariamente l’esistenza in loco di una chiesa sotto tale titolo, si parla infatti nel Chronicon Vulturnense (anni 779 e 782) a proposito di quidam homines Carapellenses che avevano
occupato, “ingeniose”, alcune terre e boschi appartenenti a S. Pietro in Trite[8].
Si tratta dunque di una chiesa sottoposta alla giurisdizione dell’abate di San Vincenzo al Volturno e per tal motivo non compare nelle bolle corografiche valvensi.
Secondo alcune fonti agiografiche, San Pancrazio subì il martirio il 12 maggio del 304 durante una feroce persecuzione di Diocleziano. Sembra che egli avesse appena compiuto i 14 anni[9], anche se al riguardo è stato osservato che “la passio” di S. Pancrazio, leggendaria, come appare anche dagli errori grossolani di cronologia che vi si trovano, fu probabilmente scritta nel VI-VII secolo da qualcuno degli addetti alla basilica del martire[10].
Sul luogo dove fu decapitato, cioè sull’Aurelia antica, dovette sorgere ben presto una chiesa dedicata al giovane martire, che non più capace di accogliere le masse devote che ivi si recavano in pellegrinaggio, fu sostituita nel 505 da una grande basilica voluta da papa Simmaco[11].
Da San Giovanni Bosco, autore di una nota monografia storica sul martire, apprendiamo che “per dare un pubblico segno della sua grande pietà e devozione verso S. Pancrazio, quel pontefice vi fece fare un arco sopra l’altare, con ornati che pesavano oltre quindici libbre d’argento… La
cosa che poi mirabilmente servì a diffondere il culto verso le reliquie del nostro Santo, fu la maniera sensibile con cui gli spergiuri erano puniti”[12].
Nei suoi Miraculorum libri, San Gregorio di Tours afferma al riguardo che alla tomba di San Pancrazio accorrevano i romani che dovevano prosciogliersi con giuramento da qualche accusa. Il giovane
martire era considerato infatti come uno dei più terribili punitori degli spergiuri e ciò forse per la tenacia e lealtà con cui aveva difeso la sua fede cristiana, in quanto presso la sua tomba “accorrevano i neofiti per giurare fedeltà a Cristo e alla Chiesa”[13].
Allo stato attuale della documentazione in nostro possesso, certamente carente, non sappiamo come mai il culto per S. Pancrazio sia restato circoscritto, nell’ambito della Diocesi di Valva, solo a Raiano e
Carapelle[14].
Anzi, per quanto concerne Raiano, la visita pastorale del Vescovo De Silanis, in precedenza ricordata, ci conferma che nel 1356 non esisteva più qui alcuna chiesa dedicata a S. Pancrazio e con essa deve
essere svanito anche il culto per il martire, il cui nome non figura nel Kalendarium perpetuum ad usum Dioecesis [15].
Una indagine svolta nell’ambito delle diocesi limitrofe a quella peligna e diretta ad individuare altri centri devozionali, ha dato scarsi risultati.
Nella Marsica, per es., troviamo solo due chiese intitolate al martire: la prima nella frazione avezzanese di Castelnuovo (Parrocchia di S. Giacomo e S. Pancrazio)[16], e la seconda a San Sebastiano, frazione di Bisegna, dove è intenso invece il culto per Santa Gemma, natia del luogo ma patrona di Goriano Sicoli, il cui dies natalis viene a coincidere con quello di S. Pancrazio, cioè il 12 maggio.
Carapelle dunque va considerata come epicentro del culto di S. Pancrazio in un’area geografica certamente ampia, ma priva di testimonianze rilevanti sotto il profilo della religiosità popolare.
Nella visita pastorale del 1356, in precedenza citata, risulta rilevante il numero dei chierici e diaconi aventi per nome Pancrazio e ciò è da considerarsi come testimonianza dell’accesa devozione della comunità di Carapelle per il Santo. Poiché un documento pubblicato dal Marinangeli ci parla, verso la fine del’400, del vescovo e della Diocesi di Aufinum (Ofena), sita nella Provincia Valeria, la quale “dipendendo dal Patriarcato romano, era completamente soggetta a Roma” [17], si può ragionevolmente supporre che il culto di San Pancrazio sia penetrato a Carapelle, in circostanze difficili da accertare, grazie ai contatti che Aufinum aveva con le sedi episcopali di Aveia, Pitinum ed Amiternum.
Il particolare culto per alcuni santi, come S. Cipriano e S. Vittorino, professato in Valva solo nell’area settentrionale della Diocesi[18], rappresenta forse una circostanza non casuale ed una spia che ci rivela come l’area tritana fosse più esposta alle influenze provenienti dall’alta valle dell’Aterno e dalla Sabina, una direttrice geografica, del resto, che fin dall’antichità aveva coinciso con un importante itinerario transumante. Quale elemento, forse probante, troviamo infatti a Carapelle una chiesa dedicata a San Cipriano, mentre altre chiese dedicate a S. Vittorino, martirizzato ad Amiternum, si riscontrano in Ofena e Carapelle[19] nonché nella stessa Trite[20].
La festa di San Pancrazio non si svolge oggi con quella particolare solennità di un tempo: il tutto si riduce alla celebrazione della messa nel tardo pomeriggio dell’11 maggio, vigilia quindi del dies natalis del Santo[21].
I pochi fedeli rimasti – oggi Carapelle supera appena i cento abitanti – compiono una piccola sosta all’edicola votiva, anch’essa dedicata a S. Pancrazio, sita lungo la strada campestre che mena al Santuario[22].
In essa, grazie allo zelo del Parroco, Don Ettore Nardecchia, è stato di nuovo sistemato un quadro con l’effigie del giovane martire, vero e proprio ex voto commissionato nel secolo scorso dai primi carapellesi emigrati in America. L’edicola segna dunque, come in altri episodi di religiosità popolare, l’inizio della sacralità di un territorio, posto sotto la protezione di S. Pancrazio, che si estende su tutto il colle dove sorge il Santuario. Diversa da quella dei nostri giorni doveva essere tuttavia la scenografia offerta, ancora negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, dai numerosi pellegrini provenienti per la ricorrenza della festa dai centri limitrofi, soprattutto Capestrano, Castel del Monte,
Calascio, Castelvecchio Calvisio, S. Pio delle Camere ed altri. In base alle notizie forniteci dai nostri informatori, oggi possiamo ricostruire sufficientemente una pagina sconosciuta di religiosità popolare, di cui nessuna eco si coglie nelle opere del Pansa, del Finamore e soprattutto negli Usi e Costumi abruzzesi del De Nino. Sorprendente è poi la circostanza che la folklorista inglese Estella Canziani abbia illustrato molte tradizioni relative a Castelvecchio Calvisio, dove era approdata
dopo “un viaggio avventuroso”, ma nessun cenno fa di Carapelle che pur dista pochi chilometri da quel paese[23].
Fra le “compagnie” che si recavano in pellegrinaggio a S. Pancrazio, quella di Castel del Monte era la più numerosa; essa arrivava la vigilia del giorno di festa e pervenuta al Santuario, procedeva in ginocchio dal portale fino all’altare. La “compagnia” trascorreva la notte dell’11 maggio
sdraiata sul pavimento della chiesa, dove, secondo una pratica largamente diffusa, dovevano svolgersi probabilmente riti di incubatio preposti, mediante la “legge del contatto”, a prevenire o curare malattie
ossee o artriti deformanti[24].
Tali modelli comportamentali sono fondati, come è noto, sul convincimento che il pavimento di un santuario, centro dello spazio sacro, possieda le stesse virtù miracolose delle pietre e delle rocce in
conseguenza di ierofanie o presenza di santi. Il 12 maggio era per i Carapellesi giorno di festa e tutti si astenevano dal lavoro sui campi e nelle botteghe artigiane per non incorrere in sanzioni (“le disgrazie”,
secondo quanto ha affermato l’informatrice) comminate dal Santo. Sul sagrato del Santuario la “Deputazione”, cioè il gruppo degli organizzatori della festa, provvedeva ad offrire ai devoti accalcati attorno al sagrato biscotti, uova e soprattutto le cosiddette ferratelle di S. Pancrazio, confezionate secondo una ricetta tradizionale con uova fresche, farina, zucchero e bucce di limone.
I biscotti, ciambelle, panette, ferratelle ecc. preparati nei giorni in cui si festeggiano determinati santi, assumono il valore ed il potere dei cibi sacrali, con funzione prevalentemente magico-apotropaica, poiché essendo destinati ad essere consumati per lo più in un breve spazio di tempo, quello appunto
“festivo”, ingenerano nei fedeli forze vitali capaci di allontanare qualsiasi male dalla persona, che vive pertanto in uno stato di grazia immunizzante[25].
Dentro il Santuario si svolgevano frattanto riti di comparatico.
Le persone instauravano tale rapporto di “parentela fittizia” facendo tintinnare la campanella posta dietro l’altare e da tale momento esse si chiamavano cumpare e cummare, a seconda che il rapporto stesso venisse a stabilirsi fra soli uomini o sole donne[26].
L’aspetto più importante, sotto il profilo della religiosità popolare, è costituito tuttavia dalle unzioni rituali effettuate dentro il Santuario mediante il cosiddetto olio di S. Pancrazio.
Dietro l’altare, l’attenzione del visitatore è attratta da una pietra rettangolare, misurante all’incirca cm.40 x 60, che presenta nella superficie una cavità resa scura dalla presenza di olio, quello appunto “di
S. Pancrazio”, ritenuto dai fedeli miracoloso per la cura dei reumatismi e delle malattie ossee.
Il rito consiste, da sempre, nell’intingere un po’ di ovatta nella cavità della pietra e di strofinarla sulle parti del corpo malate, soprattutto sulle articolazioni delle ginocchia e delle braccia.
Batuffoli imbevuti dell’olio di S. Pancrazio vengono riportati a casa e donati a persone anziane e malate oppure spediti in America ai Carapellesi ivi residenti, che anche tramite il parroco del luogo, ne fanno continua richiesta. Gli scettici, definiti “miscredenti”, affermano invece che l’olio taumaturgico altro non è se non quello fuoriuscito dai lumini votivi, deposti per atavica consuetudine sopra tale pietra; sicché questa ne è rimasta col trascorrere del tempo così impregnata da trasudare
costantemente il liquido oleoso ai primi caldi primaverili.
Per i fedeli, al contrario, l’olio affiora miracolosamente sul concio calcareo ed anche se di tanto in tanto una mano devota contribuisce, con piccole aggiunte, a mantenerne umida la cavità, esso è considerato un vero e proprio carisma, largito dal santo martire a favore della comunità carapellese. Va subito chiarito al riguardo che l’olio d’oliva, destinato ad uso sacrale-terapeutico, è presente con le stesse caratteristiche nel culto di S. Falco a Palena e della Madonna del Castello, venerata in una chiesetta rurale sita in tenimento di Caramanico, in onore della quale si confezionano caratteristiche boccette che, riempite d’olio, vengono inviate ai fedeli che ne fanno richiesta.
Maggiori affinità con il culto di S. Pancrazio affiorano tuttavia al Santuario della Madonna dell’Incoronata, presso Sulmona, meta, nella terza domenica d’aprile, di devoti provenienti soprattutto da Villalago[27]. Come nell’omonimo santuario di Foggia[28], si svolgono qui unzioni rituali sugli arti mediante il cosiddetto olio dell’Incoronata, quello cioè che alimenta la grande lampada votiva posta a destra dell’altare.
Per guarire dunque dalle malattie artritiche ed ossee, in Abruzzo non ci si affida solo a pratiche idro e litoterapiche basate su “un metodo clinico arcaico”, sottolinea il Di Noia nell’articolo citato, “che comporta l’intervento della fede come predisposizione alla suggestionabilità nella
rete delle influenze psicosomatiche, in appoggio ad una probabile efficacia reale dell’automassaggio su roccia minerale”, ma anche a quelle oleoterapiche, che trovano del resto e non solo nel mondo popolare una vasta gamma di utilizzazioni in merito alle più svariate manifestazioni patologiche.
Il valore simbolico dell’olio d’oliva, adoperato dalla chiesa nell’amministrazione di alcuni sacramenti, cerimonie liturgiche e consacrazioni[29], se da un lato ha rafforzato la credenza nel potere
miracoloso e curativo di questa sostanza oleosa, dall’altro non è sufficiente di per sè a spiegare il suo largo impiego terapeutico, da ricollegarsi, a nostro avviso, anche alla sua capacità di procurare se non
la guarigione almeno un sollievo nei confronti di alcune malattie, come appunto i dolori reumatici, non ancora sconfitte dalla medicina dei nostri giorni. Quest’ultima, d’altro canto, in un passato certamente non remoto, faceva largo uso di olio d’oliva a fini terapeutici. Nel Trattato di Materia
Medica il Signor Cullen, inglese, sottolinea come il massaggio sull’epidermide, effettuato con sostanze oleose, provoca “una maggior flessibilità alle materie secche…ma questa non si può avere convenevolmente che ungendosi d’olio le dite (sic) o le mani di chi deve fregare, e così si ha uno de’ più gran vantaggi che poss’avere l’uso degli oli. Gli effetti di una leggerissima frizione continuata a lungo, par che siano considerevolissimi, eccitando una oscillazione costante ne’ vasi della parte che
sono al di sotto, e potendo propagare questi medesimi effetti fino alle parti le più lontane le oscillazioni eccitate ne’ nervi della pelle”[30].
Secondo una diffusa credenza popolare i reumatismi sarebbero causati infatti dalle ossa che si seccano, donde il rimedio suggerito dallo stesso Cullen, che pure era un medico, di massaggiare l’epidermide “con sostanze oleose”, per dare “flessibilità alle materie secche”.
Per la cura dei reumatismi, pare dunque che ci sia una certa concordanza fra quanto proponeva la scienza medica del XVIII secolo (vedi per es. il Cullen) e la terapia ancora in uso soprattutto presso il
mondo contadino. “I dolori reumatici – scrive il De Nino nel V volume degli Usi e costumi abruzzesi, che ci offre una vasta gamma di utilizzazione dell’olio a scopi terapeutici – si guariscono con le frizioni di un unguento, composto d’incenso maschio fatto bollire nell’olio d’oliva”[31]. Non si deve credere, nota efficacemente al riguardo il demologo peligno, “che sempre i rimedii empirici sono una disgrazia.
Sempre, no: il più delle volte, anzi, giovano potentemente; perché, in realtà, si fondano sopra le esperienze di secoli e secoli. E poi, come farebbe la povera gente sparsa nella campagna, e come farebbero le popolazioni dei piccoli paesi, dove è raro che si veda il medico, o si vede quando il malato sarebbe finito, se non si fosse ricorso alla medicina tradizionale? C’è anche il caso che i rimedi sono innocui. E allora la malattia fa il suo corso; e, se il malato deve guarire, guarirà: senza dire della influenza benefica che quei rimedii avranno esercitato sulla immaginazione dell’infermo”[32].
Se manca il medico o risulta inefficace sia la terapia empirica che quella scientifica, al paziente non resta altro che il santuario, lo spazio sacro cioè capace di scatenare reazioni emotive tali da condurre, spesso, alla guarigione. Un santuario tuttavia, come quello di S. Pancrazio a Carapelle, non è altro, in fondo, se non l’ambulatorio di un medico particolare: il santo o l’anacoreta “specializzati” in alcune malattie. Con questa differenza però, che la visita del medico della mutua dura in genere il tempo necessario per scrivere una ricetta o riempire gli spazi vuoti di un modulo, mentre quella del santo taumaturgo si protrae per tutto il tempo voluto dal devoto paziente, che invoca, pregando ed eseguendo antichi rituali, grazie e guarigioni. E tra le grazie richieste vi è spesso quella di tener lontani i medici dalla propria casa, come si può leggere anche su alcuni piattini di ceramica, venduti un po’ ovunque nei giorni di mercato e destinati ad essere appesi, con funzione apotropaica, alle pareti domestiche. Vien fatto così di pensare alla nota invocazione rivolta a Sant’Ambrogio da parte di una ragazza, tormentata dai medici che invano tentavano di guarirle il braccio: “Sancte Ambrosi, libera me nec medici magis me offendant, nec dolorem faciant michi”[33].
San Pancrazio appartiene dunque a quella schiera di santi che come S. Venanzio, a Raiano, sono preposti alla tutela delle malattie ossee ed artritiche da cui restano affette soprattutto le genti della montagna e delle umide pianure abruzzesi. E’ difficile dire, allo stato attuale di una documentazione lacunosa, in quali circostanze storiche il giovane martire abbia assunto un patronato che possiamo genericamente definire antireumatico e del tutto nuovo rispetto a quello primitivo, che faceva del Santo il protettore di coloro che giuravano il vero e persecutore degli spergiuri[34].
Il fenomeno si verifica frequentemente nel campo della religiosità popolare, dove spesso accanto ad una costante, nel caso il culto per S. Pancrazio, vi è sempre una variante, la “natura” cioè della protezione avvertita da un gruppo sociale. Le funzioni svolte da culti e riti magico-religiosi non sfuggono alle leggi storicistiche e nel loro mutare attraverso il tempo cogliamo la proiezione di bisogni diversi delle nostre devote popolazioni.
Così a Castelvecchio Subequo, un tempo le donne si recavano presso la fonte di S. Agata affinché crescesse nei loro seni il latte con cui nutrire i piccoli; oggi invece vi accorrono per scongiurare mediante abluzioni che il cancro stia lontano dai loro petti.
Il patronato originario di S. Domenico di Cocullo era in origine antifebbrile ed antitempestario; in seguito il santo assume anche quello contro il morso dei rettili velenosi e dei cani affetti da rabbia.
E tanti altri esempi potrebbero essere addotti al riguardo, esempi che tuttavia mal si concilierebbero con le tesi di G. Cafiero, autore di uno studio apparso nel marzo del 1970 sul periodico Atlante e dal titolo, significativo, Gli ultimi pellegrini.
Non ci saranno mai infatti, a nostro avviso, degli “ultimi pellegrini”. Finché il sole brillerà “sulle sciagure umane”, vi saranno sempre uomini esposti a rischi e tensioni psichiche, la cui eliminazione non può avvenire nell’ambito di una parrocchia, priva di quella drammatizzazione rituale che fa del fedele un attore principale, ma nel santuario, luogo di incontro e di diretto contatto tra l’uomo e la divinità. È qui che si scatenano emozioni e reazioni psico-somatiche ancora sconosciute e che portano al miracolo.
Insomma, per parafrasare un noto pensiero di Cesare Pavese, “un santuario ci vuole”.
[1] Il nome deriva dal greco e significa: che domina tutto. Il pancrazio era infatti un esercizio di lotta nel quale potevasi ricorrere ad ogni mezzo per abbattere l’avversario
[2] Biblioteca Diocesana Sulmona, Visite Pastorali di Mons. Mirone, ms, in s.v. Carapelle, 29 luglio 1842.
[3] Cfr. N. F. faraglia, Codice Diplomatico Sulmonese, Doc. XXIII, Lanciano1888
[4] G. celidonio, La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. III, Casalbordino 1911, p. 33.
[5] N F. faraglia, op. cit., Doc. XLI.
[6] Della chiesa di S. Pancrazio, a Raiano, non si parla più comunque in una visita pastorale del 1356. Probabilmente essa era ruralis e già diruta in tale anno. Cfr. G. celidonio, Una visita pastorale nella Diocesi Valvense fatta nel 1356, in “Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte”, n. 8, Casalbordino 1899, p.176. Sul toponimo Colle di S. Pancrazio, presso Paiano, cfr. P. destephanis, [Raiano], ne “Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato”, vol. XVI, Napoli 1853. p.189 sgg.; D.V. Fucinese, Raiano. Notizie storiche e vita tradizionale. L’Aquila 1971, p.23.
[7] Cfr. N.F. faraglia, ivi, op. cit., Doc. XLI.
[8] Cfr. il Chronicon Vulturnense del Monaco Giovanni, a cura di v. federici, vol. I, Roma 1929 p.194 sgg.; G. CELIDONIO, La Diocesi ecc., op. cit. vol. III. p.140 sgg. Il toponimo plagia, o plaia, assai diffuso in Abruzzo ed altrove, indica pendio, piaggia, discesa collinare; cfr. in merito E. giammarco, Dizionario Abruzzese-Molisano, vol. III, s.v. Plagia, Roma 1976, p.1568.
[9] O. pietrobono, San Pancrazio a via Aurelia Antica, Roma 1975 p.3 sgg.; E. fusciardi, Catacombe, Basilica e Convento di S. Pancrazio, Roma 1929 p. 5 sgg.
[10] Cfr. Biblioteca Sanctorum, s.v. Pancrazio, Roma 1968.
[11] O. pietrobono, Op. Cit., p.10 sgg.
[12] san giovanni Bosco, Vita di S. Pancrazio, Roma, Editrice A.V.E., 1939 p. 5 sgg. Il martire, è utile ricordarlo, è uno dei Patroni della Gioventù Italiana di Azione Cattolica.
[13] O. pietrobono, ivi, p.5.
[14] I possedimenti soggetti in Trite a S. Pietro ad Oratorium e quindi a San Vincenzo al Volturno, costituivano una specie di insula benedettina nell’area settentrionale della Diocesi di Valva, la cui circoscrizione territoriale, prima dello smembramento operato da Sisto V, era più ampia dell’attuale.
[15] Cfr. Officia in Dioecesi Valvensi et Sulmonensi recitanda, Napoli 1884.
[16] In precedenza, tuttavia, vi erano due chiese sotto i rispettivi titoli. Da una relazione del 1728, conservata nell’archivio Diocesano Marsi, Avezzano (C/27/ 622), si apprende che “In questa piccola villa di Castelnuovo, che costa solamente di 10 fuochi, luogo miserevole e deserto, vi sono due chiese, ciòè la Parrocchiale sub invocatione S.cti Jacobi Apostoli ed una altra diruta, lontano da detta villa due tiri di mano, dedicata al glorioso Santo Pancrazio”. Devo la notizia al Prof. Angelo Melchiorre che in tale sede ringrazio vivamente.
[17] g. marinangeli, Noterelle di Storia ecclesiastica nella Provincia Valeria, in “Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria”, L’Aquila 1973, p.400
[18] Si vedano al riguardo le Bolle corografiche pubblicate dal Faraglia
[19] Cfr. la Bolla di Clemente III, già citata, del 5 aprile 1188.
[20] Cfr. N.F. faraglia, op.cit., p.44.
[21] Presso la numerosa comunità di Carapelle, residente a Toronto, San Pancrazio si festeggia il 12 maggio. Nella metropoli canadese manca però una chiesa eretta in onore del martire protettore.
[22] Un’altra edicola votiva sorge in tenimento di Capestrano. Gli abitanti di questa località, narra una leggenda, avevano tentato invano di sottrarre la statua di S. Pancrazio ai carapellesi, diventata all’improvviso incredibilmente pesante. La tradizione vuole, secondo schemi codificati relativi alla fondazione dei santuari ed alle impronte miracolose dei santi, che presso l’edicola di Capestrano S. Pancrazio abbia lasciato l’orma del piede. Dalle testimonianze delle nostre informatrici (citiamo per tutte la S.ra Pia D’Andrea, casalinga, residente a Carapelle) non è risultata alcuna notizia in merito a probabili strofinamenti rituali degli arti sull’impronta del piede di S. Pancrazio, al fine di guarire da forme artritiche deformanti. Su tale argomento cfr. g.pansa, Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, vol. I, Sulmona 1924, p.133 sgg.; A. Di nola, Quando una pietra poteva guarire, in “Corriere delle Scienze”, 25/5/1982; V. Dini, II potere delle antiche Madri, p.60, Torino 1980; E. gianciustofaro, Storie del silenzio. Cronache di vita popolare abruzzese, in “Rivista Abruzzese”, n.3, 1984, p.352 sgg.; A. Melchiorre, Tradizioni popolari della Morsica, Roma 1984, pp.65-70.
[23] Cfr. E. CANZIANI, Through the Apennines and the Lands of the Abruzzi. Landscape and peasant life, Cambridge, W. Heffer & Sons, 1928.
[24] Non sappiamo se i riti di incubatio a S. Pancrazio tendessero anche al conseguimento della fertilità nelle coppie sterili, come avveniva per es. a Pratola Peligna nel santuario della Madonna della Libera. Cfr. al riguardo G. pansa, op.
cit., voi. I, p.113; M. C. harrison. A survival of incubation in “Folk-Lore”, London 1906.
[25] Per tale problematica cfr. soprattutto A. Di nola, Gli aspetti manico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino 1976, p.201 sgg.
[26] Questa forma di comparatico non è annoverata fra quelle descritte da A. DE nino in Usi Abruzzesi, vol. I, Firenze 1879, p.l7, p.42 e p.48 sgg. Tutte davano origine, comunque, ad un complesso di diritti-doveri che erano diversi tuttavia dalla potestà spettante al cosiddetto Sangiovanni, cioè il padrino scelto per il battesimo e la cresima. Sia a Carapelle che altrove, lu San Giuànne non era quasi mai parente del battezzando. La struttura del rapporto di comparatico, assai sentito in Abruzzo, sembra rivelare così complessi fattori di natura economica che vietano ai parenti la possibilità di fungere da persone su cui si possa fare affidamento nei momenti di bisogno, dato che è proprio tra parenti che insorgono contrasti in occasione soprattutto di suddivisione ereditaria. Proverbi assai noti in Abruzzo come per es. lu parente è come lu stevale, cchiù è stritte e cchiù fa male. oppure frate e parente, come serpente sono molto illuminanti al riguardo e contribuiscono a comprendere l’humus socioeconomico in cui l’istituto del comparatico affonda le sue radici.
[27] Cfr. A. d’antonio, Villalago, Storie, leggende, usi, costumi, Pescara 1976, p.187.
[28] Cfr. M. torcia, Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’ Peligni fatto nel 1792. Napoli 1793, pp.141-42.
[29] Si pensi per es. all’olio di S. Biagio ed a quanto afferma S. Giacomo il Minore nella sua lettera sull’ unzione degli infermi (v. 4): “C’è qualcuno tra voi che sia ammalato? Faccia chiamare i presbiteri della chiesa che preghino su di lui, ungendolo con l’olio nel nome del Signore”.
[30] Cfr. Trattato di materia medica del Signor Cullen. tomo III. pp. l27-28. Napoli 1791.
[31] A. de nino, Usi e costumi abruzzesi, vol. V, Malattie e rimedi. Firenze 1891, p.27.
[32] A. de nino, Usi e costumi abruzzesi, vol. V, cit., pp. VII-VIII.
[33] Cfr. A. Imelde Galletti, Infirmitas e terapia sacra m una città medievale, in “La Medicina popolare in Italia”, Quaderno n.8 de La ricerca folklorica, Brescia 1983, p.l7.
[34] Probabilmente, in passato dovevano essere collegate al culto di S. Pancrazio alcune credenze relative al ciclo coltivatorio, che persistono oggi nella Germania e nel Tirolo. Qui S. Mamerto, S. Pancrazio, S. Servazio, e S. Bonifacio, venerati dall’11 al 14 maggio, sono chiamali i Santi del ghiaccio (Eisheiligen), in quanto in tali giorni la temperatura è talvolta così bassa da minacciare il raccolto sui campi o gelare le gemme degli alberi da frutta e delle viti (cfr. Wòrterbuch der deutscben Volkskunde, s.v. Pankratius, Stuttgart, A. Kròner Verlag, 1974). Un elemento probante è costituito dalla circostanza, già riferita, che il 12 maggio si festeggia a Goriano Sicoli Santa Gemma ed un proverbio raccolto in tale località sottolinea che se a Santa Gemma chiove, ogne coppe ne fa nove, con evidente riferimento alla seminagione del grano ed alla tensione
provocata dalle incertezze, insite nel ciclo produttivo. Il pellegrinaggio assume pertanto in questo particolare momento dell’anno anche il valore di un ex voto, al fine di ottenere buoni raccolti sui campi. Cfr. al riguardo A. Di nola, Gli aspetti
magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino 1976, p.19.