[Articolo pubblicato in “Rivista Abruzzese”, Anno XLVI, n° 2, Lanciano (Ch.) 1993, p. 161]
di Franco Cercone
Nel 1889 vede la luce a Città di Castello per i tipi di S. Lapi l’opera di A. D’Ancona “L’Italia alla fine del secolo XVI. Giornale del viaggio di Michele Montaigne in Italia nel 1580 e 1581”. Essa contiene un’Appendice di estremo interesse, dal titolo “Saggio di una bibliografia ragionata dei viaggi e delle descrizioni d’Italia e dei costumi italiani in lingue straniere”.
Risultando di ben 142 pagine, il Saggio può a ragione essere considerato “un’opera nell’opera” e si deve essere grati all’Editore M. Tonini di Ravenna che l’ha riproposto di recente in forma anastatica all’attenzione degli studiosi. Esso è strutturato nel modo seguente. I viaggiatori stranieri sono elencati in ordine alfabetico. I titoli dei loro resoconti o, se si preferisce, dei loro “libri di viaggio” sono riportati con il titolo originario, cui segue una specie di “regesto” nel quale il D’Ancona inserisce di tanto in tanto alcuni tratti dalle stesse opere e ritenuti di particolare interesse. Dell’opera altresì sono riportati i titoli in altre lingue quando esse risultano tradotte dalla lingua originaria.
Fatta questa necessaria premessa, introduciamo subito il discorso sul viaggio compiuto in Italia dal Kotzebue, scrittore tedesco nato nel 1761 e morto nel 1819. Le impressioni del Reise, risalente al 1803, sono riassunte nell’opera registrata dal D’Ancona nel seguente modo:
Kotzebue von August, Erinnerungen von einer Reise ans Liefland nach Rom und Neapel, Berlin 1805; traduzione francese a cura di J. Pixérécpout: Souvenirs d’un vojage en Livonie, a Rome et à Naples, faisant suite aux Souvenirs de Paris, Paris, Barba Ed., voll. 4, 1806.
Sottolinea il D’Ancona che la descrizione di Napoli fatta dal Kotzebue offre alcuni particolari curiosi fra cui il seguente: “Oltre alle mucche vengono lasciati liberi in città anche molti vitelli. Quest’ultimi appartengono ai Francescani, i quali, al pari degli altri monaci mendicanti, si fanno non solo nutrire dal buon popolo il loro bestiame, ma affidano alla gente anche la custodia degli animali.
A tal fine è sufficiente legare in testa al vitello una piccola placca quadrata, sulla quale c’è impressa l’immagine di S. Francesco. Muniti di questo “passaporto” essi vanno ovunque, mangiano ciò che trovano e dormono dove vogliono, senza che nessuno frapponga ostacoli. Anzi, quando uno di questi vitelli entra per caso in un palazzo e vi passa la notte, il padrone di casa considera ciò come un segno di buon augurio”.
Non sfugge al lettore la singolare coincidenza fra il privilegio concesso agli Antoniani per i maiali di sant’antonio e quello attestato a Napoli dal Kotzebue ai Francescani. I “vitelli di S. Francesco” circolavano dunque liberamente per la capitale del regno e sul far della notte venivano custoditi dai signori partenopei nei loro palazzi e rimessi in libertà la mattina dopo. Sarebbe interessante accertare se la costumanza (ma forse sarebbe meglio parlare di “rituale”) fosse diffusa in quel tempo in tutte le località in cui erano presenti i Francescani.
Certo è che il culto di S. Francesco d’Assisi non ha registrato un particolare fervore presso i ceti umili e se ne intuisce il motivo. Come ho sottolineato in un articolo apparso sulla “Rivista Abruzzese” (n. 2, 1983) Francesco, il Santo della povertà e della rinunzia ai beni materiali, si presenta latore di un messaggio che scarse possibilità aveva di essere recepito dai ceti umili e soprattutto dai contadini, bisognosi invece di “divinità” preposte alla soluzione di corposi ed angoscianti problemi quotidiani, fra i quali, oggi, va annoverato anche quello della disoccupazione. Per questo motivo, come vuole una credenza assai diffusa a Castelvecchio Subequo, sognare San Francesco porta sfortuna.
Altre Notizie
LETTERA APERTA
PREMIO INTERNAZIONALE GIULIO RAIMONDO MAZZARINO
NATALE NEL BORGO