di Giancarlo Infante
Politicainsieme.com, 31 gennaio 2024. È naive parlare di Pace? È impossibile farlo a fronte dell’inevitabilità di situazioni che paiono insormontabili e la cui soluzione appare sempre “non alla nostra portata”? Da che mondo è mondo, la guerra è subita dalle popolazioni travolte da una “inevitabilità” spesso costruita artatamente da un complesso culturale e di interessi in mano a pochi.
“La guerra non è fatale, non è necessaria, non è giusta ma è volontaria e la responsabilità ricade sugli uomini che la promuovono o vi contribuiscono. In un recente intervento, mons Michele Pennisi ha ripreso un concetto di don Luigi Sturzo contro la cosiddetta “inevitabilità” delle guerre.
La guerra, infatti, da che mondo è mondo, non viene a caso. Interessi economici, tra cui quelli legati al controllo delle materie prime, male interpretati sentimenti nazionalistici, ricerca di spazi territoriali, divisioni etniche e religiose tracimano nel conflitto quando qualcuno è certo di essere in grado di scrivere la storia a posteriori a modo suo, e di essere, poi, in grado di fornire la giustificazione di atti voluti e, talvolta, perseguiti con cura nel corso degli anni. Poco conta se, in molti casi, il risultato è quello di fare un deserto da chiamare successivamente “pace”.
Ne abbiamo due dirompenti conferme nei più violenti scontri in atto in Ucraina e in Palestina. Siamo già ad oltre diecimila morti nel primo caso e a più di 26 mila nel secondo. Senza considerare le selvagge distruzioni e il barbaro svuotamenti di intere città e il divellere di infrastrutture essenziali al minimo vivere civile. Siamo in una situazione tale che appaiono del tutto senza senso le discussioni se ci si trovi o meno dinanzi a crimini di guerra o ad un vero e proprio genocidio. Ed anche quelle sulle responsabilità diventano stucchevoli e, talvolta, sono utilizzate persino per giustificare ulteriori massacri ed atti che sfuggono ad una minima logica razionale.
Certo, la domanda sul che fare genera un tremolio dei polsi, sviluppa l’angoscia nell’animo perché forte è il senso dell’impotenza. Soprattutto riconoscendo quella che appare essere un’oggettiva impossibilità già solo nel riuscire a concepire di mettere i rappresentanti delle parti contrapposte sedute attorno al tavolo di una trattativa. Troppi odi e rancori sedimentati e contrapposti. Radicati al punto che ciascuno chiede solo uno schierarsi critico senza condizioni.
Quando Papa Francesco ha parlato del troppo “abbaiare” della Nato alle porte della Russia ha voluto ricordare la complessità del ragionamento sulle responsabilità che, quasi sempre, nel mondo globalizzato in cui viviamo, vanno oltre quelle denunciate dai singoli contendenti. Coloro ufficialmente designati ad essere attori di quella che Francesco, in solitudine, e inascoltato da anni, ha definito la “Terza guerra mondiale a pezzi”. Nel corso degli ultimi decenni troppe volte abbiamo dovuto trovare in numerosi conflitti quelle stesse potenzialità distruttive che ebbe la sanguinosa Guerra di Spagna rispetto alla successiva Seconda guerra mondiale. E cioè scontri giocati sul campo per procura; occasioni per la sperimentazione di nuove armi e la verifica di più raffinate tecniche di combattimento.
C’è anche da chiedersi se quello che il Papa ha definito “abbaiare” non ci debba portare a considerare che il problema della guerra non nasce quando essa scoppia, bensì quando si lascia sedimentare un insieme di questioni destinate inevitabilmente a risolvere i contenziosi tra le parti solamente seguendo l’estrema logica della guerra.
Non si può parlare di Pace solo quando qualcuno spara e colpisce popolazioni inermi. La sua ricerca, se vogliamo anche solo accontentarci di un’assenza di guerra, può, e deve, diventare un’attitudine costante. Un’iniziativa politica, con la P maiuscola, da coltivare pressoché quotidianamente. Solo così sarà possibile partecipare ad un’azione di pacificazione continua e permanente che nulla ha a che fare con il pacifismo di maniera. Giacché si tratta di entrare nel merito delle situazioni oggettive che dividono le parti, e su quelle intervenire. Questo è un compito che dovrebbe essere proprio, in particolare, delle grandi democrazie moderne. Prese singolarmente o, come nel nostro caso, da entità sovranazionali consapevoli del proprio ruolo, nate tra l’altro proprio per assicurare la Pace, come nel caso dell’Europa.
Non è quindi piacevole ascoltare il generale Sir Patrick Sanders, a capo dell’esercito del Regno Unito, quando invita i britannici a prepararsi ad un conflitto con la Russia destinato ad essere del tutto simile alle guerre mondiali del secolo scorso. Per Sanders, i suoi compatrioti “tutti i giorni” devono essere pronti “a un livello di mobilitazione civica che non si vedeva in Europa occidentale dal 1945”. E questo perché. a suo avviso, lo scontro non è legato al Donbass, ma giunge quasi ad essere questione di civiltà.
In realtà, dalla questione palestinese a quella dell’ invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ma solo per restare a ciò che più è oggi all’attenzione di tutti noi, troviamo la conferma di cosa voglia dire davvero ricercare la Pace. Nel primo caso, si è lasciato impunemente che decine di risoluzioni dell’Onu non trovassero applicazione. Nel secondo, non si può non riconoscere che la vicenda russo – ucraina andava affrontata ben prima del 2014, provando a rovesciare completamente il paradigma indicato dal generale Sanders. Sarebbe stata necessaria la ricerca di altri sbocchi, lavorando ad un pieno riconoscimento dei diritti di tutte le popolazioni delle zone oggetto del contrasto. L’ “abbaiare” di cui ha parlato Papa Francesco, dunque, chiama in causa anche le nostre responsabilità di europei che abbiamo solo distrattamente seguito quelle vicende e non mettendo così in campo tutte le azioni possibili per giungere ad una soluzione. De Gasperi e Gruber con l’accordo del 1946 avviarono subito il superamento del problema dell’Alto Adige e riuscirono a delimitarlo e, così facendo, ad evitare che la storia prendesse un’altra sanguinosa deriva.
Il bisogno di petrolio, invece, ha fatto sì che un Occidente sempre più ripiegato esclusivamente sulle proprie esigenze rinunciasse a svolgere quell’azione necessaria a connotare le moderne democrazie più avanzate, e che consiste nel porsi loro come facilitatrici di un processo di soluzione delle controversie, senza che nessuno sia costretto a scegliere quella delle armi come unica soluzione possibile.
E allora, anche nel pieno di una disinformazione che non concede tregue, possiamo rimanere silenti spettatori di un macabro spettacolo televisivo che, tutt’al più, ci consola per non essere ancora tra i più immediatamente coinvolti?
Una domanda che, per quanto riguarda l’Italia, porta a constatare un’assoluta mancanza d’influenza. Che l’accomuna, per carità, ad altri e ben più importanti stati. A partire dagli Stati Uniti che non sono riusciti finora ad imporre a Benjamin Netanyahu neppure una mitigazione della propria azione di guerra e nel rispetto della popolazione civile. Almeno fino a quando non è giunto il pronunciamento della Corte internazionale. Esiste, insomma, una responsabilità collettiva che riguarda anche tutti noi. A cui, però, si può ancora rimediare. Intanto, nel pretendere conoscenza e andando oltre ogni propaganda e retorica.
E a proposito di conoscenza e di un’azione cristallina che dovrebbe essere propria di ogni democrazia realmente tale, è di queste ore l’annuncio della partecipazione italiana alla missione navale nel Golfo Persico. senza che vi sia un accenno di dibattito parlamentare in materia. Si dice che non si tratti di un’azione di guerra. E di questo non ne dubitiamo. Ma mandiamo nostri mezzi e nostri uomini in un contesto di guerra. Sarebbe dunque opportuno che l’intero Parlamento, e suo tramite l’intero Paese, assumessero la consapevolezza piena di quel che si va a fare, delle sue finalità e delle modalità della partecipazione. E, dunque, anche delle cosiddette regole d’ingaggio determinanti per definire l’operazione davvero come pacificatrice e non altro, visto che si tratta di far rispettare le regole internazionali su cui si reggono il commercio mondiale e il diritto alla libera navigazione.
Forse ci siamo già dimenticati del caso dei nostri due fucilieri di marina La Torre e Girone che, imbarcati sulla Enrica Lexie dodici anni fa, hanno pagato con le loro sofferenze il modo con cui pure noi c’impegnammo nella lodevole lotta alla pirateria nell’Oceano Indiano. La nostra Costituzione ci sta a ricordare che dobbiamo partecipare a tutto ciò che possa portare alla Pace consapevoli del fatto che, assieme alle necessarie iniziative di difesa da assumere, noi non crediamo alla soluzione dei conflitti ricorrendo solo all’uso delle armi.
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