[Pubblicato in La Valle dell’Orte. Ambiente, cultura e società, “Quaderni di Abruzzo. Collana di Studi Abruzzesi” diretta da E. Paratore e Marcello Di Giovanni. N° 14 Chieti, Vecchio Faggio Edizioni, 1992; pp.389-394.]
di Franco Cercone
Se diamo uno sguardo agli Usi e costumi abruzzesi di Antonio De Nino[1] ed in genere a tutta la produzione demologica del folklorista peligno, notiamo subito che dei centri della Valle dell’Orte si parla in poche occasioni e la maggior parte delle citazioni, come anche nel Finamore, riguardano Caramanico, annoverata fra i centri abruzzesi in cui ancora radicate appaiono le credenze relative al potere curativo ed apotropaico in genere dei cosiddetti carboni di San Lorenzo[2].
Le motivazioni di questo mancato interesse più che nella particolare posizione geografica della valle dell’Orte e nella sua viabilità, certamente non agevole nel secolo scorso, risiedono probabilmente nella circostanza che i nostri maggiori folkloristi, di fronte al grande patrimonio etnografico regionale da registrare, sono stati indotti necessariamente ad operare delle scelte, influenzate talvolta dagli insistenti appelli che provenivano in tal senso dal Pitrè.
L’assenza di particolareggiate descrizioni lascia supporre inoltre che si tratti di notizie raccolte di riflesso e prive di quella freschezza che caratterizzano invece le indagini condotte direttamente sul campo.
Una eccezione è costituita forse dalla singolare costumanza in vigore un tempo a Roccacaramanico, paese più noto con il nome di “Rocchetta”, che è diventato nell’immediato dopoguerra il simbolo di quello spopolamento che ha afflitto l’Abruzzo montano.
La costumanza in questione è descritta dal De Nino nel secondo volume dei suoi Usi e costumi. Si tratta di una sacra rappresentazione del Venerdì Santo che possiamo così sintetizzare: dodici farisei, indossanti tuniche di color verde, danno il cambio con cadenza di un’ora ad altri dodici farisei, indossanti tuniche rosse, che fanno la guardia al sepolcro di Cristo, allestito nella chiesa parrocchiale. L’avvicendamento dei ‘verdi’ e dei ‘rossi’ avviene fino al momento della Resurrezione, con la scena dell’impiccagione di Giuda ad un grosso ramo di quercia sistemato vicino l’altare. Al “Gloria in excelsis” i ‘rossi’ cadevano per terra morti e secondo un copione codificato dovevano lasciare il posto ai ‘verdi’ che facevano irruzione in chiesa. Ciò non sempre accadeva e come abbiamo appreso dal Sig. De Iulio Remo, originario di Roccacaramanico e residente da circa 40 anni a Sulmona, fra i due gruppi volavano talvolta pugni e calci. Sicché, non di rado, qualcuno dei ‘rossi’ o dei ‘verdi’, restava talmente pesto a terra da ingenerare il fondato timore che non potesse più rialzarsi per le percosse ricevute non si sa bene da quale dei due gruppi contendenti.
Il mosaico demologico della Valle dell’Orte ci è pervenuto in tal modo frammentario e la mancanza di spinte culturali, anche a livello del cosiddetto fenomeno “nativistico”, ha contribuito a rendere labile ogni ricordo del patrimonio etnografico locale.
Le difficoltà oggettive che si riscontrano nel reperire i tasselli necessari alla ricostruzione di un particolare mosaico, quello del ciclo dell’anno e della vita, non costituiscono tuttavia un impedimento per lo studioso che voglia scrivere una pagina di storia delle comunità della valle dell’Orte, attraverso una seria indagine di carattere folklorico.
Nel corso delle indagini effettuate sul campo è emerso infatti un tema culturale le cui radici sprofondano in epoche lontane. Si tratta di una prassi cultuale legata alla sacralità delle acque e che richiama devoti provenienti dall’Abruzzo e dalle regioni limitrofe.
Per comprenderne meglio l’importanza e la continuità, occorre partire dal fondamentale contributo dato alla storia di Caramanico, e quindi della valle dell’Orte, da una recente indagine linguistica di Marcello de Giovanni, che ha relegato una volta per sempre al mondo delle amene curiosità, la pretesa e purtroppo diffusa derivazione del toponimo Caramanico dal fantomatico monaco Caro [3]. Si tratta invece di un antroponimo franco, Caremannus, che si presenta come ha ben evidenziato il de Giovanni con il suffisso -icus, dunque Caremannicus o anche Caramannicus, e che assume un valore prettamente prediale.
L’antroponimo Caramannus conferma verso l’anno 800 in tutto il territorio teatino e quindi anche nella valle dell’Orte, la presenza di gruppi ex genere Francorum, qui stanziati probabilmente al seguito di missi regi durante l’azione diretta a ricacciare oltre il Sangro e quindi verso sud i Longobardi del principato di Benevento [4]. Il predominio politico-militare franco, se modifica la struttura politica e sociale preesistente, con la sottomissione dei Longobardi ridotti talvolta a servi della gleba ed alle dipendenze anche di monasteri benedettini [5], non produce tuttavia vistosi mutamenti su quel tipo di civiltà definita dal Giammarco “longobardo abruzzese” [6]. E ciò perché, come ha sottolineato il Dumézil, Longobardi e Franchi sono depositari della medesima Weltanschauung germanica per quanto concerne la concezione animistica della natura ed in particolare della sacralità delle acque [7]. Ma la dominazione longobarda ha inciso più a fondo di quella franca ed i toponimi longobardi, nota il Colapietra, sono infatti abbastanza diffusi per motivi militari ed amministrativi [8].
Sicché dopo la conversione al Cristianesimo, il precedente Pantheon acquatico longobardo viene a proiettarsi tutto nella figura di San Michele Arcangelo, o Sant’Angelo, al quale, secondo una tradizione consolidatasi in Italia nei secoli V e VI ad opera soprattutto di ordini religiosi bizantini, “era stato assegnato da Dio l’intervento miracoloso sulle acque, che mediante la sua protezione venivano purificate e difese dal male” [9]. La toponomastica abruzzese e meridionale in genere si arricchisce così di grotte, colli, monti e chiese rupestri, come appunto quella di Caramanico, dedicati al Santo guerriero e testimoniano la presenza fattiva presso di noi di tali popolazioni di stirpe germanica.
Si può dunque ritenere che le acque salutari della valle dell’Orte abbiano fatto sempre parte dell’economia quotidiana di tutti i gruppi sociali che si sono succeduti storicamente in quest’area della Maiella, anche se ai Longobardi, qui attestati in modo capillare soprattutto dal cartario casauriense e dalla toponomastica relativa a Sant’Angelo, va probabilmente riconosciuto il merito di aver codificato la protezione nei confronti delle acque sorgive e proprio in tm settore vitale in cui la religione cristiana non era stata in grado di sostituire le divinità protettrici pagane.
Forse è il frate domenicano Serafino Razzi, noto predicatore del XVI secolo, che ci dà la prima testimonianza del potere curativo delle acque di Caramanico, durante il suo soggiorno nella cittadina nella primavera del 1576. Egli apprende infatti da un frate del convento di San Tommaso che le persone affette da rogna, all’epoca una vera e propria piaga sociale, si recavano alla sorgente La zolfanaia per bere l’acqua che sgorga dalle Grotte di Santa Croce e guarire così da tale terribile malattia [10]. Non v’è nel Razzi alcun cenno della sorgente oggi assai nota con la designazione di Pisciarello, segno evidente che le proprietà di tale acqua non erano ancora note al suo pur dotto informatore, che viveva nel convento di Caramanico. Ma ciò non può meravigliare. Una sorgente infatti “entra nella dimensione sacrale in quanto manifesta una forza guaritrice e costituisce un punto di riferimento, dotata di sicurezza, indispensabile alla psicoeconomia del gruppo” [11], altrimenti, diremmo con Rudolf Otto, essa rientra nel novero delle acque profane.
Il numero delle fonti e delle sorgenti nella valle dell’Orte era certamente superiore a quello odierno e una spia si coglie al riguardo non solo dalla testimonianza del Razzi, allorché sottolinea: “vedemmo nel viaggio, e passammo molti rivi d’acque, et uno fra gli altri detto la Zolfanaia”, ma anche da una sacra leggenda, riferitaci dal nostro informatore, che sa di blasone popolare, perché da sempre, tra paesi limitrofi come appunto Sant’Eufemia e Caramanico, sono esistiti attriti e divergenze.
Secondo gli abitanti di Sant’Eufemia, San Giovanni Battista soleva ripetere che Caramanico galleggiava sulle acque, posta com’è fra l’Orte e l’Orfento, e per tal motivo avrebbe fatto “una brutta fine”. La Madonna però, che aveva attraversato con la Casa Santa di Nazareth tutto l’Adriatico, da Tersatto a Loreto, e che perciò di acque se ne intendeva, ribadiva che Ella non l’avrebbe mai permesso e non a caso, ha sottolineato il mio informatore, la disastrosa frana che ha sconvolto di recente la strada congiungente i due paesi, si è fermata proprio nei pressi dell’antica chiesa dedicata alla Madonna di Loreto e sita alle porte di Caramanico [12].
L’aspetto terapeutico di alcune sorgenti di Caramanico e della valle dell’Orte viene integrato da un singolare potere galattogeno attribuito alla fonte di Sant’Eufemia, che sorge a circa 300 metri dall’omonimo centro, un tempo tutto occupato nella pastorizia transumante, come ricorda appunto il Razzi [13]. Il culto stesso di S. Eufemia sarebbe stato trapiantato in paese, di cui è protettore S. Bartolomeo, dai pastori calabresi che, d’estate, conducevano le loro greggia ai pascoli della Maiella[14]. Non sappiamo come Santa Eufemia, che aveva subito nel 303 il martirio del rogo in Calcedonia (la
Scena è ricordata in una nota pala del Mantegna conservata nel Museo Nazionale di Napoli) sia diventata, a detta del mio informatore, Santa Eufemia della Calabria, e soprattutto non sappiamo come la Santa abbia acquisito l’importante protettorato galattogeno. Il dato più interessante è costituito comunque dalla continuità del culto fino ai nostri giorni, perché ancora oggi le donne d’Abruzzo si recano a questa fonte per attingere l’acqua che fa aumentare il latte al seno materno ed eliminare addirittura la sterilità. Il mio informatore riferisce anche che le abluzioni, necessariamente segrete, di tale acqua al seno, ha il potere, come l’acqua di S. Scolastica e di S. Agata, di scongiurare quel terribile male che è appunto il tumore.
Il latte del seno materno costituisce ancora oggi un bene insostituibile, sicché possiamo immaginare come esso dovesse essere prezioso in passato, quando era difficile reperire nei ceti umili una nutrice e non esistevano i surrogati offerti dalla medicina moderna. La condizione della donna era qui come altrove disperata: poiché i mariti passavano la maggior parte dell’anno in Puglia, a lei spettava il compito di accudire i figli, lavorare i campi e di recarsi a legnare sui monti, dai quali tornavano nelle condizioni che sono state fissate mirabilmente dal Patini nel notissimo quadro dal titolo “Bestie da soma”.
La fonte di Sant’Eufemia, sulla quale troneggiava sempre in passato una piccola statua, risultante, a causa dei frequenti “furti votivi”, di fattezze antiche continuamente diverse, rientra pertanto nel quadro delle cosiddette fonti lattaie, ma offre nello stesso tempo una variante di notevole interesse demologico. Ancora oggi, infatti, i pastori, e non solo quelli locali, ricorrono all’acqua di tale sorgente che viene somministrata devotamente alle mucche, al fine di far loro aumentare il latte. Si tratta di una pratica votiva che non è dato riscontrare nel culto di Sant’Agata o Santa Scolastica, anch’esse note per il loro protettorato galattogeno. Questa pratica votiva è certamente antichissima e si è tramandata di generazione in generazione presso i gruppi sociali che si sono succeduti storicamente lungo le aspre balze dell’Orte. Pratica antica ed anche diffusa, perché essa è ricordata persino in una preghiera dell’Avesta-Yasna che fissa l’equiparazione dell’acqua salutare al latte: “Alle acque – esordisce il sacerdote orante – offriamo intanto questo sacrificio, all’acqua della rugiada, dei torrenti, della pioggia, delle sorgenti. Veniamo a rendervi onore o acque che penetrate ogni cosa, o liquido che ti spandi in tutto il corpo dell’uomo, noi ti invochiamo o latte” [15].
Sicché mentre le fonti minerali e le terme di varia natura mantengono la loro forza con il suffragio di affermazioni scientifiche e spesso asettiche, le fonti dotate tradizionalmente di poteri curativi assolvono a funzioni che sono psico-liberatorie e coinvolgono nel loro potere galattogeno e rassicurante ogni aspetto dell’economia del gruppo. La sorgente acquista in tal modo anche un valore sacrale, che manca alla moderna industria delle acque minerali.
Le acque della valle dall’Orte ci offrono così una importante pagina che può essere ancora oggi letta contemporaneamente in modo sincronico e diacronico. In una fase della odierna civiltà che segni il passaggio dalla antica sacralità delle acque alla dissacrazione delle acque, come dimostrano appunto i dissesti idrogeologici dei nostri tempi, le acque dell’Orte offrono il destro per stilare una pagina di storia che finora non era stata ancora scritta e ci ricordano un capitolo di quell’importante poema epico che è appunto la storia delle genti d’Abruzzo.
[1] Si tratta come è noto di sei volumi pubblicati in un arco di tempo compreso tra il 1879 ed il 1897 a Firenze per i tipi dell’editore G. Barbera. Ad essi vanno aggiunti altri due volumi, comprendenti scritti inediti e rari del De Nino, pubblicati
a cura di B. Mosca con il titolo di Tradizioni popolari abruzzesi (L’Aquila 1972). Di un certo interesse risulta sotto il profilo storico-artistico il saggio del De Nino dal titolo Escursione artistica nel bacino dell’Orte, “Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti”, fasc. IX e X, Teramo 1896. Altrettanto scarne appaiono le notizie di carattere archeologico e relative ai centri dell’Orte. Cfr. A. DE NINO, Indice delle scoperte archeologiche comunicate alla R. Accademia dei Lincei, edite nelle ‘Notizie degli Scavi’, Sulmona 1906, sec. edizione.
[2] Cfr. A. DE NINO, Usi Abruzzesi, vol. I, p. 58, Firenze 1879; G. PANSA, Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, vol.I, p. 204 sgg., Sulmona 1924. Dal Finamore si apprende una interessante notizia a proposito dei carboni del ceppo di Natale, che venivano conservati e riaccesi quando nascevano i bachi da seta, al fine di “farli crescere forti ed immuni da malattie”; cfr. G. FINAMORE, Credenze, usi e costumi abruzzesi, in “Archivio delle tradizioni popolari”, a cura di P. Pitrè, vol. IX, p. 155, Palermo 1890.
[3] M. DE GIOVANNI, Tracce franche nella Valle dell’Orte: il toponimo Caramanico, in “Abruzzo. Rivista dell’Istituto di Studi Abruzzesi”, genn. 1985-dicembe 1990 p.419 sgg., Chieti 1990. Il volume raccoglie una serie di scritti offerti ad Ettore Paratore ottuagenario.
[4] Cfr. M. DE GIOVANNI, ivi, p. 430.
[5] Cfr. al riguardo G. CELIDONIO, La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. III, p. 143, Casalbordino 1911; AA.VV., Homines de Carapellas. Storia e archeologia della Baronia di Carapelle, Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, L’Aquila 1988; Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, a cura di V. FEDERICI, vol. I, p. 194 sgg., Roma 1925.
[6] E. GIAMMARCO, Storia della cultura e della letteratura abruzzese, Roma 1969.
[7] G. DUMEZIL, Les dieux des Germains, p. 70 sgg., Parigi, Hachette, 1959.
[8] R. COLAPIETRA, Abruzzo. Un profilo storico, p. 42, Lanciano 1977.
[9] V. DINI, Il potere delle antiche madri. Fecondità e culti delle acque nella cultura subalterna toscana, p. 133, Torino 1980.
[10] S. RAZZI, Viaggi in Abruzzo a cura di B. Carderi, p. 116, L’Aquila 1968.
[11] V. DINI, op. cit., p. 11.
[12] Secondo l’Alberico tale chiesa, per voto della famiglia Salerni, sarebbe stata edificata nel 1611. Essa è tuttavia più antica ed è citata dal Razzi che la visitò nel 1576. Cfr. R. ALBERICO, Caramanico Terme. Guida storico-turistica, p. 32, Pescara 1962; S. RAZZI, op. cit., p. 117. La Madonna della tradizione riferita è tuttavia l’Assunta, venerata nella chiesa di S. Maria Maggiore.
[13] S. RAZZI, op. cit., p. 119.
[14] Sulla presenza, poco nota, dei pastori transumanti calabresi in Abruzzo, cfr. W KADEN, Wandertage in Italien, p. 349 sgg., Stoccarda 1874.
[15] V. DINI, op. cit., p. 13.
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