LA SACRALITÀ DELLE FAVE NELL’AGIOGRAFIA POPOLARE ABRUZZESE

[Pubblicato in Rivista Abruzzese, anno XLIX – n. 3, Lanciano 1996]

di Franco Cercone

Premessa

La presente ricerca è scaturita da una osservazione apparentemente irrilevante: nell’agiografia popolare abruzzese (ma, forse, anche in quella di altre Regioni, soprattutto meridionali) si narra di determinati
Santi che inseguiti da uomini perfidi ed animati da intenzioni poco rassicuranti, riescono a sfuggire ai loro persecutori operando una miracolosa fioritura delle fave proprio mentre un contadino è intento a seminare questo legume.

Come è noto la semina avviene di norma a novembre o febbraio, ma tali riferimenti temporali non emergono dai racconti agiografici di cui avremo modo di esaminare in seguito la struttura narrativa.

Sia negli episodi agiografici che in alcuni rituali monastici cluniacensi, le fave assumono il valore di una manna elargita dal cielo per sfamare i ceti rurali e più poveri. Sicché i campi di fave vengono benedetti o dalla Madonna o da vari Santi, che agiscono spesso sotto le spoglie di umili frati. Il legume acquista pertanto la dimensione di un cibo sacrale che sovverte la concezione del mondo classico, il quale considerava la fava un legume inferico e perciò collegato al culto delle divinità
chtonie e dei morti.

Quali sono stati i fattori sociali e religiosi che hanno mutato radicalmente una simile concezione?

E appunto quello che ci siamo chiesti e che tentiamo di chiarire in seguito, pur alla luce di una documentazione certamente non esaustiva.

Un legume inferico

Come è noto il primo precetto della Scuola Pitagorica recita: Astieniti dalle fave. A tal riguardo B. Russel sottolinea che “la peccaminosità del mangiar fave” deriva da “primitive concezioni del tabù, assai diffuse nel mondo mediterraneo del VII-VI sec. a.C.”[1], in quanto la fava era ritenuta un legume inferico.

Il suo fiore, scrive il Beitl, macchiato di nero, “galt als Symbol des Todes”, equivaleva cioè a simbolo della morte e pertanto la degustazione delle fave era vietata ai sacerdoti egizi ed ai Pitagorici[2]. Si tratta
dunque di un frutto che appartiene – sottolinea ancora il Beitl – agli chthonischen Geistern, alle divinità chtonie[3].

Secondo Giovanni Lydo, filosofo neoplatonico vissuto nella prima metà del V secolo a Bisanzio, “le fave masticate ed esposte al sole acquistano sapore ed odore di sangue umano”[4] ed il legume possiede, alla luce di tali concezioni, “un valore carneo che lo fa rientrare tra quei cibi che contengono una psuké”[5] e pertanto – sostiene Plutarco – le fave sono considerate “come alcune parti del corpo, cuore e cervello”[6].

La fava, dunque, possiede un’anima perché “l’acqua nella quale si pone un infuso di fave si tinge di rosso come se fosse colorata di sangue”[7], sangue attinto dal legume (ed in ciò consiste la sua singolare capacità rispetto ad altre piante) con le proprie radici dal sottosuolo e dunque dal regno dei morti, per cui l’impiego delle fave era tassativamente vietato nei rituali orfico-pitagorici.

In un noto passo della Storia Naturale (XVIII, 118) Plinio sintetizza infine i motivi per cui a Roma si avesse del legume una concezione negativa, sostenendo che nelle fave risiedessero le anime dei morti.

Il rapporto della fava con il culto dei morti emerge tuttavia in modo terrificante nei Fasti [V, vv. 429-40] e propriamente nel passo in cui Ovidio parla delle feste dei Parentales e delle Feralia, nonché dei misteriosi rituali che si svolgevano dal 13 al 21 febbraio nel mondo romano.

Su tali rituali Giuseppino Mincione ha scritto un lucido saggio che utilizzeremo ampiamente nel paragrafo seguente.

Fave e Lémures

“Con la descrizione – esordisce G. Mincione – dell’apparizione delle ombre dei morti, dette Lémures, Ovidio (Fasti, V, 429-40) si immette nell’ambito della vita soprannaturale”[8]. Secondo il Poeta sulmonese due periodi dell’anno sono consacrati al culto dei defunti, il mese di febbraio e quello di maggio.

Più antica è la celebrazione dei morti a maggio, perché quando l’anno era più breve, cioè prima della riforma di Numa che aggiunse al calendario i mesi di gennaio e febbraio, era il mese di maggio quello in cui avvenivano le onoranze ai defunti, con sacrifici espiatori alle tombe degli avi.

In seguito alla riforma di Numa, febbraio fu scelto come mese per le onoranze ai morti e non a caso T. Varrone sostiene che la parola febbraio deriva da una voce sabina che significa purificazione[9].

Ma nonostante tale radicale riforma, nel mese di maggio fu conservata la consuetudine di placare le Lémures, cioè le ombre dei morti, poiché – sottolinea il Pastorino – ambigua è la concezione delle anime dei morti, che ora sono chiamate manes, i buoni, ora temuti sotto forma di spettri col nome di Lémures o Larve[10]. Infatti, il Bloch completa il quadro sottolineando che “il morto è la fonte più pericolosa di contaminazione e una famiglia in lutto, familia funesta, deve lasciarsi imporre tutti i riti e le purificazioni indispensabili per cessare di essere lorda e contagiosa. Inoltre, il culto reso ai morti corrisponde non solo a un naturale rispetto, ma anche a una precauzione difensiva. Il defunto
insoddisfatto, infatti, può diventare un essere temibile e pericoloso”[11].

Le cerimonie per pacificare le anime degli antenati morti erano dettate, sostiene Ovidio, dalla situazione dei tempi. Correva voce, infatti, che a causa delle lunghe guerre, soprattutto quella Sociale, erano stati trascurati gli onori ai defunti. Le anime degli avi uscivano spesso dai sepolcri e si racconta “che per le vie di Roma e per le campagne spaziose ululassero spiriti pallidi, vane larve”[12].

In particolare, si credeva a Roma che ciò avvenisse nell’ultimo giorno dei Parentales, il 21 febbraio, chiamato feralia. Tale termine secondo Varrone deriva da Inferi e ferre, perché durante tali feste vigeva l’usanza di portare vivande alle tombe degli avi, ai quali erano dovuti appunto i sacrifici funebri per placare le loro anime.

Le cerimonie per pacificare quest’ultime avvenivano però anche nel mese di maggio, e precisamente nei giorni 9, 11 e 13 maggio, tre giorni non consecutivi e dispari dice Ovidio, intercalati da altri non festivi: Sono queste, dunque, le tre feste del mese né sono congiunte tra loro da giorno alcuno[13].

Le modalità con cui si svolgevano nei suddetti giorni di maggio i rituali in onore delle Lémures, o ombre dei morti, ci sono state tramandate da Ovidio in un passo dei Fasti [V, vv. 429-44] che riportiamo nella versione di G. Mincione. “Appena è mezzanotte e col silenzio si concilia il sonno, e voi, cani e variopinti uccelli, avete taciuto, chi è memore dell’antico rito ed è timorato degli dèi si leva dal letto, senza avere calzari ai piedi, e dà segnali con le dita congiunte, cioè tenendo uniti il pollice
e il medio, perché un’ombra leggera non venga incontro a lui se non fa rumore. E quando ha lavato e purificato le mani nell’acqua di fonte, si gira e prima mette in bocca delle fave nere e stando voltato le getta e dice: Io getto queste fave e con esse redimo me ed i miei. Dice ciò nove volte senza girarsi a guardare: si crede che l’ombra le raccolga e segna lui alle spalle senza che nessuno la veda. Di nuovo si bagna nell’acqua e fa risuonare i bronzi di Témesa e prega che l’ombra esca dalla sua casa.
Quando egli ha detto nove volte: ‘oh paterni mani, uscite!’, si volta a guardare e crede che il rito sia compiuto con purezza”[14].

Abbiamo riportato in corsivo le parole fave nere e nove volte contenute nei versi dei Fasti perché in un altro passo dell’opera [II, 576] Ovidio ci parla di una vecchia maga che mette in bocca sette fave nere
mentre compie sacrifici a Tacita, dea del Silenzio. Il nero, per dirla brevemente con il Beitl, “è il colore dei dèmoni, degli spettri sotto forma di animali (orso nero, gatto nero ecc.) e del diavolo”[15] nonché di molti oggetti che entrano a far parte di rituali magico-satanici.

Sicché da simbolo della morte il color nero diventa la morte stessa e nel nostro caso “le fabae sembrano rappresentare i Lémures stessi”[16].

Rilevante appare inoltre la circostanza che il pater familias, cioè colui che compie il rito nel passo Ovidiano, ripeta nove volte la formula libero me ed i miei avi con queste fave, segno questo, nota G. Mincione, che egli metteva in bocca nove fave per il masticamento rituale e le estraeva una alla volta nel ripetere la formula con le spalle voltate rispetto alla tomba dell’avo[17].

Ma, come si è detto in precedenza, Ovidio ci informa che i giorni dedicati nel mese di maggio ai riti in onore dei Lémures erano tre, e precisamente il 9, 11 e il 13 maggio. Poiché, secondo Plinio, il ciclo di fioritura delle fave si esaurisce il 9 maggio[18], si può dedurre a ragione, come ha sottolineato la Chirassi, “che il 9 maggio fosse anche il giorno centrale dei Lemuria, la nota festa del ritorno delle anime dei morti”[19] e pertanto il numero 9 viene a costituire l’elemento centrale ed unificatore dei terrificanti rituali.

Un legume ambiguo.

II periodo più antico del culto dei morti, connesso ad un terrore ancestrale[20], era denominato dunque Lemuria, spiriti insoddisfatti detti anche Lèmuri o Larve ed assai temibili, che tornavano sulla terra per
tormentare i vivi e perciò venivano pacificati nei giorni 9, 11 e 13 del mese.

Il momento culminante e misterioso del rituale, che aveva luogo a mezzanotte, era costituito come si è visto dalla masticazione di fave nere da parte del celebrante che, restando con le spalle voltate rispetto alla tomba dell’avo, ripeteva per nove volte la frase: “Io getto queste fave e con esse redimo me ed i miei avi”. Ed ogni volta gettava una fava masticata.

I motivi della masticazione appaiono evidenti. Le fave infatti (e qui bisogna intendere quelle secche), infuse nell’acqua, tingono quest’ultima di rosso rendendola simile al sangue, fenomeno dunque attivato anche dalla saliva. È da ritenersi pertanto che l’offerente, gettando le fave sulla tomba, era convinto di rigenerare il defunto con il sangue, sicché – come sottolinea la Chirassi – le fabae sembravano rappresentare i Lémures stessi[21].

Accanto alle notizie che testimoniano la centralità del legume nei rituali dei Parentales, e dei Lemuria, emergono tuttavia altre informazioni dal mondo classico che mal si conciliano con la visione inferica delle fave e del loro rapporto con il culto dei morti.

V’è innanzitutto un aspetto di carattere sanitario, se non igienico, che non sappiamo quanto abbia influito sulla negatività del legume sotto il profilo cultuale e religioso. È probabile, infatti, che sul divieto di cibarsi di fave, condensato nell’imperativo pitagorico “Astieniti dalle fave”, abbiano esercitato un decisivo influsso esigenze alimentari ben precise, in quanto la fava, mangiata fresca ed in grande quantità, fermenta nell’apparato digerente provocando seri disturbi allo stomaco, patologia
questa nota appunto come favismo. Inoltre, ci dice Plinto, le fave sono causa di offuscamento delle capacità sensoriali, di insonnia o di sogni cattivi[22], per cui Cicerone sottolinea che quo in somnis certiora videamus… faba Pytagorei utique abstinere, quasi vero eo cibo mens non venter infletur[23].

Vi sono inoltre ulteriori informazioni agronomiche contenute nei trattati De re rustica (Varrone, Columella, ecc.) le quali attestano che le fave erano particolarmente apprezzate dai ceti umili per il loro potere nutritivo, per cui Cicerone poteva affermare al riguardo che in rationem necessitas versa est. Questa “ambiguità” di cui è portatore il legume nel mondo romano rappresenta la proiezione di una duplice Weltanschauung, ciascuna delle quali appartiene a due strati sociali contrapposti, e riassumibile nei precetti a) Astieniti dalle fave e b) inter legumina faba, con accentuata valenza paremiologica. Sicché mentre per gli ambienti colti e letterari la fava costituisce un elemento fondamentale per i rituali chtonii o nella celebrazione dei Lemuria, per i ceti rurali e umili essa, come sostiene Plinio [Storia Naturale, XVIII, 119], “rappresenta un elemento più rustico, riservato ad una economia più
povera, specie quando erano in uso altri cereali”.

Ebbene, questa dicotomia, almeno alla luce dei documenti in nostro possesso, non si rinviene più nelle fonti storico-letterarie altomedievali ed alla sua eliminazione deve aver contribuito – non sappiamo in quale misura – anche la graduale diffusione del Cristianesimo, che ha cancellato ogni traccia di “inferico” nel legume, sovvertendo così completamente la concezione classica. Anzi, nelle prime comunità monastiche, le fave sono ritenute non solo di grande importanza per l’alimentazione, ma acquistano una patina di sacralità come se si trattasse di un dono elargito dal cielo.

Il rituale della “benedictio fabarum novarum”.

“I legumi – scrive il Montanari – costituivano fin dall’alto medioevo un fattore essenziale del regime alimentare di tutti gli strati sociali. Si trattava di fagioli, piselli, ceci, lenticchie, ma soprattutto della fava, di gran lunga il più diffuso e consumato, specialmente (ma non solo) fra i ceti popolari”[24].

In particolare, le fave secche venivano macinate e con la farina si confezionava appunto il “pane di fava”.

“La fava – sottolinea il Montanari – rappresentava un valore alimentare fondamentale, oggi totalmente perduto. Basti rilevare nei testi monastici… la centralità anche rituale di un avvenimento come la benedizione delle fave nuove[25]. Sia le Consuetudines Fructuarienses[26] che le Consuetudini di Ulrico, entrambe modellate all’esperienza cluniacense, ci offrono infatti un modello di ritualità legato al consumo delle fave che inizia dal momento della raccolta delle fabae novae benedicendo.

Dopo la raccolta e bollitura delle fave, il monaco “le benedice stando su un gradino davanti alla mensa, con il libro in mano e la stola al collo. Data la benedizione, il medesimo depone il libro in fondo alla tavola e prende in mano la scutella; facendo il giro del refettorio, porge ad ogni fratello presente un pugno di fave. Ricevendolo, ciascuno bacia la mano del sacerdote sicut ad hostias[27].

Le fave costituivano dunque l’elemento nutritivo di molte comunità monastiche, elargito anche ai pauperes che attendevano fuori il refettorio oppure ai pellegrini oltre il muro di cinta del convento.

Le Consuetudinì di Ulrico forniscono nell’XI secolo minuziose indicazioni sulla cottura delle fave in convento e sugli “utensili che non devono mai mancare in cucina”. Fra questi sono annoverati il caldarium per le fave, la cuppa per conservarle quando sono semicotte ed il cucchiaio ad fabas.

Era considerato quasi un sacrilegio l’uso di tali utensili per la cottura di altri cibi. Inoltre, le Antiquiores Consuetudines Cluniacensis Monasterii di Ulrico “non omettono di precisare che esclusivamente la cottura delle fave e quella degli ortaggi sono affidate personalmente ai monaci. Tutto il resto – anche gli altri legumi ed anche le fave stesse, quando sono fresche – non viene cucinato dai fratelli in
coquina regulari,
ma dai servi in alia coquina[28].

La preziosità e la ritualità cui si ricollega non concerne qui la fava fresca, facilmente reperibile durante il periodo di tempo della sua maturazione sui campi, bensì la fava secca, che religiosamente conservata
rappresentava nell’alimentazione monastica alto-medievale e soprattutto nei mesi invernali l’alimento base di molti pulmentaria, di quei piatti unici cioè a base di fave (o di altri legumi) ed altre sostanze.

Come ha evidenziato il Duby, vi è una continuità “pratica” fra le scelte alimentari della Regola Benedettina e l’alimentazione povera delle aree di tradizione romana, che coincidono essenzialmente con la regione mediterranea, la quale si aspettava innanzitutto dalla terra “cereali panificabili, vino e fave, e infine olio”[29].

Tuttavia, come “alimentazione dei poveri”, l’umile ma sostanziosa faba proietta la sua importanza oltre i confini del medioevo e si conferma vitale mezzo di sostentamento grazie al quale gruppi sociali pur diversificati vengono sottratti in periodi di guerra, carestia ed altre calamità naturali, alla morte per fame.

La faba dopo il medioevo e nella narrativa popolare

L’importanza della fava nell’alimentazione è attestata dopo il periodo medievale anche da fonti letterarie. “Io cenerò poche cose – scrive per es. il Machiavelli – ma tutte sustanzevole. In prima una insalata di cipolle cotte; di poi una mistura di fave e spezierie”[30]. Tuttavia è nella narrativa popolare in cui sono depositate le testimonianze più significative sul nostro legume, preposto, se non destinato, a lenire il morso della fame che da sempre ha attanagliato lo stomaco della povera gente.

È significativo in special modo un aneddoto popolare assai noto a Vasto e dintorni, riferitomi da un informatore residente in questa bella città adriatica. Si narra che un contadino sia accorso al Palazzo
Davalos per informare il suo Signore che alcuni miseri viandanti erano penetrati in uno dei terreni del marchese, coltivato a fave, ed avidamente si cibavano del fresco legume. Al che il Davalos (non sappiamo chi dell’illustre casato) rispose di “lasciar stare”, perché evidentemente essi erano molto affamati. Più tardi il contadino accorse di nuovo al palazzo, per riferire al suo Signore che gli stessi viandanti continuavano a mangiar fave ma senza le bucce. Il Davalos allora ordinò che fossero cacciati dal proprio terreno perché ormai erano sazi[31].

Collegati al culto di San Camillo de Lellis risultano interessanti sia un racconto popolare, assai noto a Bucchianico, che un miracolo contenuto negli atti del processo di beatificazione del Santo, pubblicati a Roma nel 1681[32]. Si narra che a Bucchianico, durante un periodo di carestia, la gente del luogo stremata dalla fame chiese aiuto a San Camillo, appena tornato da Roma. Il Santo invitò pertanto la popolazione (lu’ pòpele) a recarsi a mangiar fave in un terreno di sua proprietà che, a causa del gran numero delle persone accorse, fu in breve tempo devastato. Il mezzadro corse subito da “Padre Camillo” riferendo che le fave erano ormai finite e la gente, nel penetrare impetuosa nel podere, aveva devastato anche il recinto (la fratte) eretto con perizia dal mezzadro stesso. Al che San Camillo, preoccupato solo della gran fame dei nativi del luogo, disse al suo mezzadro: “Sai cosa devi fare? Il recinto sfascialo tutto!”. Nel processo di beatificazione di San Camillo, un teste, tal Geronimo Roncio di Bucchianico, dichiara quanto segue: “Nell’anno 1612, di marzo, io seminai nella vigna delli Padri di questa Terra… tre coppe in circa di queste fave… e perché nel mese di maggio seguente fu una gran carestia di grano, e li poveri di questo luogo pativano estremamente, occorse che il Padre Camillo venne qua, e vedendo tanta miseria e bisogno… diede a tutti licenzia, che andassero a mangiare le fave alla vigna delli suoi Padri a San Biaso. E perché molti di quelli erano molestati dal gabellotto per fargli pagare la pena per il danno che facevano alla detta vigna in cogliere le dette fave, il detto Padre Camillo, sapendo questo, mandò me a chiamare detto gabellotto… (al quale ordinò) che non molestasse i poveri che andavano a cogliere le dette fave…”. Il teste racconta poi che malgrado i poveri avessero mangiato tante fave, dal terreno si raccolsero 14 tomoli di fave secche, miracolo questo che da tutti fu attribuito a San Camillo.

Pan di fava e pan di frumento.

Nei periodi caratterizzati da abbondanza e migliori condizioni economiche, la fava assurge a simbolo di differenziazione sociale o di contrasto fra la popolazione del contado e quella di città.

Ce ne offre un esempio l’opera di G. C. Croce, dal titolo appunto Contrasto del pane di formento e quello di fava per la precedenza, pubblicata a Bologna nel 1617 per i tipi di Bartolomeo Cochi. Afferma infatti il pane di formento:

“Che sei venuto a fare in questo sito,

o pan di fava, ché fra i contadini

non vai, u’ sei amato e riverito?

Non ti vergogni a stare in ‘sti confini,

dove non sei gradito né prezzato,

come cibo contrario ai cittadini?

E però io ti torno a replicare
che tu torni di fuora tra i villani,
perché in luogo civil non sei da stare”[33].

Nel contrasto fra i due pani è adombrata, nota il Camporesi, “l’alterigia del cittadino nelle relazioni con il villano, resa ancor più acre e pungente dalla carestia che la città addebitava alla malizia delle genti
del contado; e l’entrata in città del pane di fava significava anche l’intrusione del contado e la dipendenza dell’economia cittadina dall’economia rurale: la degradazione del primato urbano vista e sentita attraverso l’impoverimento della tavola”[34]. Il mondo rurale ha rintuzzato tuttavia queste accuse in vari modi e soprattutto facendo ricorso alla paremiologia. Proverbi come farsi beffa delle fave, oppure – come scrive il Parabosco – il cielo manda le fave a chi non ha denti[35],  stanno a significare che “l’intrusione” del pan di fava in città è stata provvidenziale, perché nei periodi di carestia l’umile legume ha costituito un’ancora di salvezza per tutti i ceti sociali.

La fava nell’economia abruzzese.

La fava dunque, sia bollita per minestre che macinata per confezionare pani, ha rappresentato fino a tempi tutto sommato recenti non solo una grande risorsa per le “genti del contado”, ma anche un surrogato del frumento nei periodi di carestia, come appunto quella del 1764, a seguito della quale, scrive il Palma, “si propagò tra i nostri contadini l’uso di seminar il gran turco”[36] e la polenta di mais diventa così in Abruzzo – alquanto in ritardo rispetto ad altre regioni settentrionali – “l’alimento fondamentale e quasi esclusivo, che subentra a quello tradizionale assicurato in precedenza da altri cereali minori”[37], dato che la patata, dopo aver superato numerose diffidenze, si diffonderà in
Abruzzo a partire dal primo decennio dell’800, come dimostrano sia la statistica murattiana che un opuscolo a stampa del 1817 pubblicato a cura della “Reale Società Economica di Aquila”, di cui ci occuperemo prossimamente nella Rivista Abruzzese[38]. Tali diffidenze erano collegate non solo a difficoltà coltivatorie, dipendenti in collina e media montagna soprattutto dalla pioggia, ma scaturivano anche dalla diffusa convinzione che le fave possedessero proprietà nutritive eccellenti e superiori alle patate ed al granturco. Il consumo del mais, infatti, fenomeno osservato anche dal Goethe nel suo Italienische Reise, sarà accompagnato sottolinea E. Sereni [ivi, p. 233], “fin quasi ai tempi nostri da
quel terribile morbo quale è la pellagra”.

Non a caso osserva al riguardo il De Nino (siamo nel 1879): “Quando l’alimentazione delle nostre popolazioni era anche a base di fave, si aveva più salute e si campava di più. Ma a’ dì d’oggi, le fave sono pei carcerati! Sono per la povera gente”[39].

Ma se le fave costituivano uno degli alimenti base della “povera gente”, come precisa appunto il De Nino, a quanto ammontava in media la produzione annua di tale legume in Abruzzo? Una significativa indicazione ci viene offerta da Giuseppe Del Re nella prefazione ad un volumetto dal titolo “Calendario per l’anno bisestile 1820. Il IV del Regno di Ferdinando I”[40]. Nel redigere il quadro statistico della produzione agricola nelle Tre Provincia d’Abruzzo, il Del Re specifica [p. 133] che “alla stagione più o meno piovosa si raccolgono nei Tre Abruzzi: 280.000 tomola di fava; 24.000 tomola di ceci; 6.000 tomola di lenticchie; 50.000 tomola di fagiuoli”.

Si tratta di dati, dunque, che non reclamano alcun commento e confermano che le fave, in conseguenza del loro ampio uso nell’alimentazione quotidiana dei ceti rurali, occupavano il primo posto nella produzione dei legumi m Abruzzo. Premesso che la situazione non doveva essere, come riteniamo, diversa di molto nelle altre Province del regno di Napoli, ci sembra opportuno precisare che i dati riportati per l’Abruzzo daDel Re si riferiscono a varietà di fagioli diffusesi dopo la scoperta
dell’America, in quanto fino alla line del XV secolo “il vecchio mondo non aveva conosciuto che il fagiolo dell’occhio, del genere Dolichos”[41] .

La Costa di maggio e le ‘virtù’.

Il teste di Bucchianico ascoltato nel processo di beatificazione di San Camillo de Lellis riferisce, come si è visto, che nel mese di maggio del 1612 si verificò “una gran carestia di grano”, sicché il Santo diede ordine che i poveri del luogo si sfamassero con le fave seminate in un terreno vignato di proprietà dei Camilliani[42]. Anche se non esplicitamente chiarito nel verbale, il teste intendeva dire che erano finite le scorte di grano dell’anno precedente, al pari degli altri legumi, ed a causa delle forti gelate registratesi nella la primavera del 1612 i raccolti di verdure ed ortaggi andarono largamente distrutti.

Si trattava comunque di crisi cicliche causate dal gran freddo o dall’assenza di piogge nel periodo primaverile. Scrive per es. il Di Pietro che “se furono infauste a Solmona i rammentati anni 1647 e 1648, il seguente non fu men terribile; quasi nell’intiero Abruzzo soffrivasi un intiera, ed estrema carestia, onde il grano vendevasi fino a carlini trenta la coppa, ed in altri luoghi a maggior prezzo; i patimenti, che recarono siffatte penurie produssero in detta Città, e ne’convicini Paesi, una fierissima mortalità…”[43].

Le carestie esplodevano per lo più in tempo primaverile, rendendo drammatica l’esistenza dei contadini, un ceto sociale che cosi viene descritto dal Longano: “Generalmente i contadini sono fittuari annuali ed
è in arbitrio de’ proprietari di espellerli dà loro territorio… A molti manca la terra, o la sementa, o gli instromenti, o la salute, o lo stesso vitto”[44].

Al contadino, dunque, a questo “Erede” in senso Patiniano, si prospettava il problema dell’alimentazione nel primo periodo di maggio, caratterizzato dal quasi letale esaurimento delle scorte dell’annata agricola precedente e dall’assenza sui campi dei prodotti del nuovo ciclo coltivatorio. Questo periodo, angosciante, era tristemente noto nel mondo rurale come “costa di maggio”, il cui ricordo incute ancora oggi timore ai nostri vecchi per i numerosi decessi che causava.

Nel consultare il Liber Mortuorum conservato nella parrocchia di Collelongo, il Cianciusi riporta un elenco di persone morte in questa località della Marsica durante la carestia del 1764 ed i cui nominativi
sono preceduti dalla lugubre annotazione del parroco: fame interfectus, fame repente confecta ecc. Commenta l’A. al riguardo: “Morti di fame, sembra impossibile. E tutti alla costa di maggio!”[45].

Si trattava di una crisi ciclica determinata da una particolare condizione climatica che si manifesta tuttora nella fascia abruzzese-molisana ad aprile, un mese spesso assai freddo e caratterizzato anche a basse quote da abbondanti precipitazioni nevose e gelate. Tale situazione è riassunta da molti proverbi popolari abruzzesi, di cui riportiamo alcuni esempi in lingua: a) Chi non ha la legna d’aprile, fa una brutta fine; b) D’aprile, chi ebbe il fuoco campò, chi ebbe il pane morì. Essi sono sintetizzati efficacemente dal Longano allorché l’abate illuminista afferma che in Molise “Lo foco è in aprile più importante de lo pane”, mentre per l’area abruzzese il Fiordigigli sottolinea che il noto detto “Prima di Natale nè freddo, né fame; dopo Natale, freddo e fame” è scaturito dall’intenso freddo che si registra da sempre ad aprile nelle nostre contrade[46]. E proprio per salutare l’arrivo del primo mese caldo, era assai diffusa in Abruzzo l’usanza di cantare il maggio dietro le porte il primo del mese, atteso – come ci ricorda il Goethe nel famoso sonetto Komm, lieber Mai – con ansia e trepidazione[47].

Avviene dunque di frequente, fenomeno ancora oggi riscontrabile in Abruzzo, che a causa delle primavere assai fredde i legumi presentano un ritardo stagionale assai notevole per quanto concerne la loro maturazione e che comunque il primo di essi a fare la sua comparsa sui campi, anche perché più resistente alle intemperie, sia proprio l’umile fava, il primo dono della terra elargito agli uomini, un modo di manifestarsi della Provvidenza nella natura, donde la Benedictio fabarum novarum codificata nei rituali liturgici monastici e l’offerta di fave ai ceti più umili, particolarmente colpiti dalle carestie e costantemente minacciati dalla costa di maggio. Come ha notato efficacemente G. Di Menna, “se come si suol dire i fagioli sono la carne dei poveri, nelle colline abruzzesi le fave secche e fresche sono i legumi che salvano dalle carestie e dalla fame. Le stagioni propizie erano l’estate e l’autunno, in cui abbondavano la frutta e i raccolti, mentre decisamente infausti l’inverno e la primavera; ancora oggi nella tradizione orale contadina la costa di maggio – nel senso di difficoltà – è metafora di crisi alimentare, scarseggiando in questo mese le provviste e i prodotti dei campi”[48].

All’approssimarsi della costa di maggio ben poche manciate di granaglie e legumi giacevano infatti nel fondo dei sacchi afflosciati, immagine plastica di uno stato d’animo sull’orlo della disperazione. Per la
preparazione delle minestre costituenti l’unico pasto per la numerosa famiglia, venivano utilizzate necessariamente diverse qualità di legumi superstiti, bolliti e conditi con strutto. Granaglie e legumi, designati genericamente in Abruzzo granati e totemàje, venivano chiamati a Cittaducale e dintorni vertuti[49] e con il termine virtù sono sopravvissuti per indicare oggi un tipico piatto di legumi misti preparati per la ricorrenza del 1° maggio non solo nel Teramano ma anche in altre aree abruzzesi, soprattutto nella Valle dell’Aventino. Non mancano tuttavia testimonianze al riguardo in altre regioni meridionali[50].

Dell’antico e drammatico significato collegato al periodo di crisi della costa di maggio, le virtù hanno perso ogni traccia e soprattutto nel Teramano le allegre conviviali del 1° maggio, evidentemente non solo a base di legumi, acquistano il valore di aggregazione sociale e di celebrazione della Festa del Lavoro. Va segnalata una informazione del Prof. Italo Merlino, di Taranta Peligna, il quale ci ha riferito che in questo centro della Valle dell’Aventino le virtù, preparate dalle famiglie benestanti del luogo, venivano offerte ai poveri, a conferma della stessa usanza vigente a Torricella Peligna e di cui ci ha lasciato una precisa testimonianza il Finamore, con la differenza tuttavia che qui i legumi assumevano la designazione di granati.

Fave, Santi e Madonne

Non è un qualsiasi legume, dunque, che recita un ruolo importante nei racconti agiografici popolari, non i fagioli, le cicerchie, i ceci oppure le gustose lenticchie, per un piatto delle quali Esaù rinunciò al diritto di primogenitura, bensì è la fava, il legume benedetto dai Santi e dalla Madonna.

Il modello che predomina nei racconti popolari e nelle sacre leggende di cui sono protagonisti alcuni Santi che operano una fioritura precoce e perciò miracolosa delle fave, sembra scaturito nell’area abruzzese-molisana da un episodio registrato dal De Nino e relativo alla Madonna.

La Vergine, scrive il folklorista peligno, essendo inseguita dai Farisei, decide d’accordo con San Giuseppe di abbandonare le vie maestre, ormai insicure, e di fuggire per le campagne. Dopo aver maledetto un campo di lupini (“Non possiate mai saziare nessuno!”) perché secchi, rumorosi al passaggio della Sacra Famiglia e pertanto capaci di indicarne la direzione della fuga, la Madonna e San Giuseppe “entrarono in un campo dove si seminavano le fave. La Madonna benedisse il campo e andò via. I Farisei passarono vicino ai termini di quel campo, e domandarono ai contadini: – Fosse passata una donna col bambino e anche un vecchierello? – Risposero: – Ci son passati, sissignore. – E
quando? – Quando seminavamo queste fave. I Farisei, vedendo che le fave erano fiorite, tornarono indietro”[51]

Questa sacra leggenda si rinviene anche nella struttura narrativa di altri racconti popolari, di natura agiografica, relativi ad alcuni Santi.

San Domenico di Cocullo, narra uno di tali racconti, era inseguito dai cacciatori di un “paesello alpestre”, decisi ad ucciderlo. Nel fuggire egli passò per Prato Cardoso, località situata tra Cocullo e Villalago, mentre un contadino seminava nei pressi le fave. “Se chiedono di me – disse il santo monaco al contadino – rispondi che mi hai visto passare al momento della semina delle fave”. E così avvenne, ma il buon uomo non si era accorto, nell’informare i malvagi cacciatori, che le fave erano cresciute come per incanto”[52].

Significativo è anche l’intervento di alcuni santi in favore di contadini, sia se a costoro siano state rubate le fave (come nell’episodio registrato dalDe Nino in una non precisata località abruzzese)[53], sia se l’intervento stesso è finalizzato alla crescita delle fave fuori stagione.

Una contadina di Roccascalegna (Ch), sede di un antico santuario eretto a San Pancrazio[54], ci ha riferito la seguente leggenda. Un uomo di Roccascalegna doveva recarsi alla grande fiera del Primo Maggio che ha luogo a Casoli. Nel passare davanti al Santuario di San Pancrazio, egli incontrò un frate che gli consigliò di non andare alla fiera, ma di seminare le fave, perché grande era la penuria di cibo in quel momento.

Il pio contadino, pur restando meravigliato per il singolare consiglio, decise di non andare alla fiera e si recò invece a seminare le fave in un suo piccolo podere, ben consapevole che il legume era prossimo
alla maturazione, a giudicare almeno dai pochi campi in cui la semina aveva dato i suoi frutti.

La sua incredulità ebbe tuttavia breve durata, perché in pochi giorni le fave fiorirono e ad onore di quell’ umile frate che non era altro se non San Pancrazio, il quale in tal  modo assicurò la grascia per tutto l’anno alla famiglia del devoto contadino.

L’offerta devozionale delle fave

La sacralità conferisce alla fava anche un valore apotropaico, allorché il legume viene offerto e mangiato in particolari festività che cadenzano il ciclo dell’anno, come quelle di San Nicola di Bari (6 dicembre) e Sant’Antonio Abate (17 gennaio), con valenza simile a quella dei pani votivi.

Il rito della lessatura e distribuzione delle fave si svolge con particolare solennità a Pollutri nella ricorrenza di San Nicola ed ha costituito l’argomento di una delle più interessanti puntate televisive delle Storie del Silenzio, curate per l’emittente TVQ da Emiliano Giancristofaro. Allo stesso studioso si devono inoltre decisivi contribuii apparsi sull’argomento nella “Rivista Abruzzese”[55].

Un’area abruzzese caratterizzata dall’intenso culto per Sant’Antonio Abate è costituita com’è noto dalla Marsica. In occasione della ricorrenza del 17 gennaio a Luco dei Marsi viene distribuita una minestra di fave, consuetudine questa – come ci informa A. Melchiorre – che risale al 1652[56].

A Villavallelonga la cottura delle fave avviene nella vigilia della festa, cioè il 16 gennaio. I legumi (la favata) vengono fatti bollire come a Pollutri in grossi caldai di rame e distribuiti il giorno dopo
per devozione agli abitami del paese. In una nota inchiesta, E. Giancristofaro ha evidenziato come in questo centro della Marsica si confezionino caratteristiche corone di fave che, benedette in chiesa,
vengono poi infilate al collo dei bambini in chiara funzione protettiva. La corona di fave, che simboleggia “la crascia”, si conservava a Villavallelonga in casa per passarla – come ha dichiarato un contadino del luogo intervistato dal Giancristofaro – sulla mucca e sull’asino quando stavano male”, cioè quando tali animali “avevano il mal di pancia”[57]. L’usanza fa parte di un quadro comportamentale che potremmo definire codificato, per cui nelle società rurali ogni rituale preposto a propiziare salute e benessere delle persone si proietta anche verso gli animali che svolgono una funzione importante per l’economia del luogo.

Il ritorno dei Lémures

Vi sono – e non solo in Abruzzo – alcune costumanze, anche di carattere alimentare, che lasciano supporre come alcuni rituali chtonii o legati al culto dei morti nel mondo classico, non siano mai caduti in disuso e siano invece pervenuti fino a noi filtrati soprattutto dai mutamenti operati dal calendario liturgico chiesastico, i quali hanno proiettato al 2 novembre alcuni aspetti legati al culto dei Lémures nel mese di maggio.

Dal Dizionario etimologico dei termini dialettali di Atessa, redatto nel 1815 dal sacerdote Tommaso Bartoletti e per quanto ci risulta ancora allo stato di manoscritto, si apprende che in questa località vigeva l’usanza di “darsi la fava nel dì due novembre, giorno della Commemorazione dei defunti”[58].

In molte regioni si confezionano ancora oggi per tale ricorrenza dei tipici dolci chiamati Fave dei morti, mentre confetti a forma di fava, ottenuti con pasta di mandorla colorata, erano prodotti a Sulmona dalle aziende del settore ancora all’indomani del secondo conflitto mondiale.

Poiché sono ancora vive oggi nei nostri paesi, come ad Anversa degli Abruzzi ed a Raiano, le credenze relative al ritorno dei morti ed alla processione che, come si ritiene, i defunti svolgerebbero nella notte del 2 novembre, v’è da supporre che la coltura e la distribuzione delle fave come “cibo dei morti” fosse assai diffusa in tale ricorrenza, anche se al di fuori di alcune notizie contenute negli “Usi e Costumi Abruzzesi” del De Nino non ci sono state tramandate precise testimonianze al riguardo.

Certamente quest’ultimo aspetto merita di essere approfondito dagli studiosi in possesso di ulteriori notizie al riguardo, anche se esse non esauriscono la complessa tematica della sacralità del legume.

Non è stato analizzato per es. in tale sede l’uso delle fave (perché non altri legumi?) nelle deliberazioni comunali soprattutto nel periodo rinascimentale (fava nera per l’assenso e bianca per il dissenso) e che
trova la sua massima espressione nell’istituto della “Balia delle 6 fave”, mediante la quale la Signoria di Firenze aveva facoltà di prendere alcune decisioni con l’approvazione dei soli due terzi del Collegio, cioè 6 voti e dunque 6 fave. Inoltre alcuni documenti del XVIII secolo ci parlano dell’usanza, soprattutto da parte dei parroci dei piccoli paesi, di servirsi per il conteggio dei giorni e dei mesi di una zucca essiccata e riempita di tante fave quanti erano i giorni dell’anno e non di normali almanacchi o lunari, da essi considerati “opera del diavolo”, circostanza questa che era all’origine di clamorosi errori di calcolo e di cui parleremo in uno dei prossimi numeri della “Rivista Abruzzese”.

Ritornando ora alla sacralità delle fave nell’agiografia popolare abruzzese, va detto che seppure non esaustivi, le testimonianze ed i documenti analizzati ci permettono di affermare, nel concludere il nostro singolare argomento, che l’umile fava ha saputo riscattare la negatività cui il mondo classico l’aveva condannata, sottraendo alla morte per fame – per essere il primo legume stagionale – non pochi diseredati durante le carestie o quel terribile e ciclico periodo noto tristemente come costa di maggio. In tal modo la fava perde la sua naturale qualità di semplice legume per diventare, anche a livello sovrastrutturale, un dono della Provvidenza elargito agli uomini e benedetto da Santi e Madonne.


[1] B. russel, Storia della filosofia occidentale, vol. I, p. 60, Bologna 1971. Scrive la Chirassi che “il luogo di origine della coltivazione delle fave sembra essere stato il Nord Africa o la zona caspica…, nella varietà nota come vicia faba. Cfr. Ida
chirassi, Elementi di culture precereali nei miti e riti greci,p. 39, Roma 1968.

[2] R. beitl, Handwörterbuch der deutschen Volkskunde, s.v., Bohne, Stoccarda, 1974

[3] R. beitl., ivi.

[4] G. lydo, De Mensibus, IV. 41, a cura di F. Semi, Venezia 1965.

[5] I. CHIRASSI, ivi, p. 42.

[6] plutarco, Moralia, 635.

[7] G. LYDO, ivi.

[8] Cfr. G. mincione, Un antico rito magico nei Fasti di Ovidio. in “Ricerche e studi su Ovidio”, p. 75 sgg., Penne 1983.

[9] “Februm Sabini purgamentum et id in sacris nostris verbum”. Cfr. T. varrone, De lingua latina, a cura di F. Semi, VI, 13, Venezia 1965.

[10] A. pastorino, La religione romana, p. 86, Torino 1973.

[11] R. bloch, La religione romana, in “Storia delle Religioni”, a cura di Henri – Charles Pulch, vol. III, p. 187, Bari 1976.

[12] Fasti, II, vv. 553-554; traduzione a cura di F. Bernini, Bologna 1968.

[13] Fasti, V. vv. 491-92. Trad. a cura di F. Bernini, Bologna 1968. Secondo Plinio i numeri dispari “sono in tutto e per tutto più efficaci”. Cfr. Storia Naturale, XXVIII, 23, vol. IV, Ediz. Einaudi, Torino 1986.

[14] G. mincione, op. cit., p. 85.

[15] R. beitl, op. cit., s. v. Schvarz.

[16] I. chirassi, op. cit., p. 43.

[17] G. mincione, ivi,p. 93.

[18] plinio, Storia Naturale, XVIII, 53.

[19] I. chirassi, op. cit., p. 53.

[20] G. mincione, ivi. p. 83.

[21] I. chirassi, op. cit., p. 43 sgg.

[22] Storia Naturale, XVIII, 118.

[23] cicerone, De divinatione, II, 58, 119.

[24] M. montanari, Alimentazione e cultura nel medio evo, p. 83, Bari 1988.

[25] M. montanari, ivi, p. 83.

[26] Cfr. G. penco, Le “Consuetudines Fructuarienses” in “Monasteri in Alta Italia dopo le invasioni saracene e magiare (sec. X-XII)”, p. 139 sgg., Torino 1966.

[27] M. montanari, ivi, p. 83.

[28] M. MONTANARI, ivi, p. 85.

[29] Cfr. M. duby, Le origini dell’economia europea. Guerrieri e contadini nel Medioevo, p. 23 sgg., Bari 1975.

[30] N. machiavelli, Lettere, p. 212, Milano 1961.

[31] Sig. Paolo Del Casale, commerciante di Vasto, che in tale sede ringrazio vivamente. Tale aneddoto ci ricorda un altro episodio. Al porto di Vasto, Fra’ Serafino Razzi poté osservare che in un grande battello commerciale un gruppo di mozzi “sedendo a una bassa tavola, con silenzio mangiarono biscotto con fave col guscio in più piatti… e come la maggior parte di loro haveano i mestolini di legno per meglio raccorre dette fave…”. Cfr. S. razzi, Viaggi in Abruzzo, p. 241, L’Aquila 1968, a cura di B. Carderi.

[32] Cfr. G. DI Menna-S. Sulpizio, Le feste contadine. Eredità storica e continuità a Bucchianico, p. 68 sgg., Francavilla al Mare 1988.

[33] P. camporesi, Il Paese della fame, p. 192, Bologna 1985.

[34] P. camporesi, ivi, p. 192.

[35] G. parabosco, I diporti, V, 20, Venezia 1550; ristampa anastatica Venezia 1982.

[36] N. palma, Storia ecclesiastica e civile della Regione più settentrionale del Regno di Napoli ecc., oggi Città di Teramo e Diocesi aprutina, vol. III, p. 221, Teramo 1833. Nell’area peligna la coltivazione del granturco risale addirittura al primo decennio dell’800. Panfilo Serafini scriveva infatti nella nota Monografia di Sulmona apparsa nel 1853 ne “II Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato”, che “il grano turco si coltiva da un 40 anni a questa parte”. Cfr. anche G. coppola, Il mais in Lombardia, p. 146, Bologna 1979.

[37] E. sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, p. 231, Bari 1989.

[38] Va notato tuttavia che il giurista Pasquale Liberatore fin dal 1806 auspicava per la prov. di Chieti la coltivazione “de’ tartufi americani, detti volgarmente patate”, invece del granturco, che nel chietino, secondo l’A., aveva sostituito altri cereali da “70 anni”. A conti fatti, dunque, dagli anni 1736-1737. Si tratta senz’altro di una notizia sorprendente che non siamo stati in grado di verificare ed in forte contrasto con quanto affermato dal Palma e dal Serafini (cfr. nota 12). Cfr. P. liberatore, Pensieri civili, economici, sul miglioramento della Provincia di Chieti, ecc., vol I. p. 18, Napoli 1806.

[39] A. de nino, Usi abruzzesi, vol. I, p. 118. Firenze 1879.

[40] Stampato a Napoli nel 1820, con una cartina degli Abruzzi.

[41] E. sereni, ivi, p 230 sgg.

[42] Le vigne coltivate anche a fave rispondevano alla necessità di arricchire il terreno di azoto, contenuto nel legume.

[43] I. Di pietro, Memorie Istoriche della Città di Solmona, p. 347, Napoli 1804.

[44] F. longano, Viaggio per lo Contado del Molise, Napoli 1788, p. 60 della ristampa a cura di R. Lalli, Isernia 1980.

[45] W. cianciusi, Collelongo. Abruzzo Ulteriore II, p. 151, Teramo 1972, Per una diversa interpretazione dell’espressione costa di maggio, da ricollegarsi alle “giornate più lunghe” ed alla “maggior fatica annuale” cui era sottoposto all’inizio di maggio il mondo rurale per i lavori sui campi, cfr. E. giancristofaro, Totemajje. Viaggio nella
cultura popolare abruzzese,
p. 222. Lanciano 1978.

[46] G. fiordigigli, Dal Gran Sasso alla Maiella, p. 47, Teramo 1989.

[47] Cfr. A. de NINO, Usi Abruzzesi, vol. 1, op. cit., p. 171. E. giancri.stofaro, La Pagliaretta di Atessa, in “Rivista Abruzzese”, n. 4, 1989, p. 289 sgg.

[48] G. Di menna, Le abitudini alimentari alla fine del ‘500, in AA, VV., “Cucina d’Abruzzo. Appunti per una storia della cultura alimentare”, p. 14, Bucchianico 1995, Id., A. de cecco, Cultura alimentare tra Settecento e Ottocento nell’Abruzzo Collinare, p. 19 sgg. Alle carestie si aggiungevano spesso calamità naturali. Nel Teramano, nel maggio del 1547, le piogge continue e violente – scrive l’Antinori – travolsero tutti i mulini e non potendosi macinare, “si patì di pane molti giorni, ed alcuni ebbero necessità di ricorrere a minestre di fave fresche o secche…”, cfr. A. L. antinori, Annali d’Abruzzo, ed. anast., vol. XIX, p. 284, Bologna 1972. T. ashby ricorda che nella festa di San Domenico di Cocullo (1909) poche serpi potettero essere gettate sulla statua poiché nei primi giorni di maggio in paese e nei dintorni c’erano stati 30 cm. di neve.

[49] Cfr. M. javicoli, Tradizioni popolari abruzzesi. Cibi di rito, in “L’Abruzzo”, n. 2. 1929. A Torino di Sangro, ci informa il Priori, nove tipi di legumi e granaglie venivano cotti in un recipiente di coccio chiamato “la pignate de lu prime de magge”. Cfr. D. priori, Folklore abruzzese (Torino di Sangro), p. 101, Lanciano 1964. Questi tipici piatti composti da diversi legumi vengono preparati in Abruzzo anche in occasione della festa di S. Antonio Abate ed assumono la denominazione di granati o cecigranati con funzione apotropaica e propiziatoria.

[50] In molti centri del Cilento. “il primo maggio si cucina nelle famiglie legate alla tradizione la cuccia, costituita da ogni sorta di legumi e granaglie bollite, la quale viene distribuita anche ai poveri per assicurare un buon raccolto… Inoltre, si crede che questo cibo protegga dagli assalti dei moscerini d’estate… A Buonabitacolo la preparazione avviene per strada, davanti a un grosso fuoco, con grano e legumi raccolti in tutte le case e poi distribuita al paese, con la raccomandazione di mangiarne perché difendeva dai noiosi insetti. … A Casalbuono, quando è pronta la cuccia, si radunano i bambini in cerchio e la donna più anziana del vicinato, prima di distribuirla ai presenti, ne lancia qualche mestolo in aria, facendo un segno di croce”. Cfr. A. tortorella, A l’us andicu. Le tradizioni nel vallo di Diano, p. 211, Salerno 1982. L’autore ci informa che “la cuccia” si prepara in molti paesi della Calabria il 6 dicembre per la lesta di San Nicola di Bari.

[51] A. De NINO, Usi e costumi abruzzesi. vol. IV, p. 36 sgg., Firenze 1887. Sulla maledizione dei lupini vedasi anche G. Finamore, Quando Cristo andava per il mondo, in “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, vol. IV, p. 472, Palermo 1885. Queste leggende popolari del Finamore su Cristo, Apostoli e Santi sono state di recente ripubblicate a cura di M. C. Nicolai per i tipi dell’Ed. Polla, Cerchio 1992.

[52] Cfr. A. D’ANTONIO, Villalago, Storia, leggenda, usi, costumi, p. 139, Pescara 1976. G. CELIDONIO, Monistero di S. Pietro in lago, p. 6. Casalbordino 1910. Circa il “paesello alpestre” precisa il Celidonio (ivi) che “gli scrittori non lo nominano, ma era Castrovalva. i cui abitanti anche oggi si bollano col nomignolo di persèguitasanti”.

[53] Cfr. A. DE NINO, Tradizioni popolari abruzzesi. Scritti inediti e rari.  a cura di B. Mosca, vol. I, pp. 308-309. L’Aquila 1970.

[54] Sig.ra Cianci Maria, contadina, di anni 50. Di questa sacra leggenda e dell’esistenza di un Santuario dedicato a San Pancrazio siamo venuti a conoscenza dopo la pubblicazione del nostro lavoro dal titolo Il culto di S. Pancrazio a Carapelle, in “Homines de Carapellae. Storia e Archeologia della Baronia di Carapelle”, Bullettino DASP, Studi e Testi, n. 10, p. 125 sgg., L’Aquila 1988.

[55] Ricordiamo soprattutto, di E. GIANCRISTOFARO, Le tavolette devozionali, in “Rivista Abruzzese”, n. 2, 1991, p. 115 sgg., contenente una ricca bibliografia sull’argomento.

[56] Cfr. A. MELCHIORRE, Tradizioni popolari della Marsica, p. 6.5 sgg., Roma 1984.

[57] E. GIANCRISTOFARO, La Panarda in “Rivista Abruzzese”, n. 2, 1993, p. 125. Vedasi al riguardo anche A. DI NOLA, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, p. 187 sgg., ‘Torino 1976; L. palozzi, Storia di Villavallelonga, p. 211 sgg., Roma 1982.

[58] Cfr. E. GIANCRISTOFARO, Ancora  tracce del verde Giorgio in Abruzzo, in “Rivista Abruzzese”, n. 4, 1989, p. 292.




DOMANI SI VOTA

Dopo la Sardegna tocca all’Abruzzo. Si vota domani dalle 7 alle 23. Due sono i candidati: Marco Marsilio e Luciano D’Amico

Torrevecchia Teatina, 9 marzo 2024. Come si vota?  Munirsi di tessera elettorale e documento di riconoscimento. L’Ufficio elettorale del Comune è sempre aperto per eventuali smarrimenti. Recarsi presso il proprio seggio; vi sarà consegnata una sola scheda, di colore verde, con una matita copiativa.

Non è consentito il voto disgiunto, quindi l’elettore ha tre possibilità di voto:

  1. votare un candidato presidente, e il voto non si estende alle liste a esso collegate
  2. votare una lista, e il voto si estende anche al candidato presidente a essa collegato
  3. votare un candidato presidente e una delle liste collegate

Attenzione: la scheda verrà considerata nulla esprimendo un voto per un candidato presidente e uno per una lista diversa da quelle a lui collegate

L’elettore può esprimere uno o due voti di preferenza per i candidati consigliere di una sola lista prescelta, scrivendo il cognome o il nome e cognome in caso di omonimia.

Se si esprimono due voti di preferenza, è obbligatorio che siano di genere diverso: una donna e un uomo, o viceversa, purché della stessa lista. In caso contrario la seconda preferenza espressa è considerata nulla e resta valida solo la prima.

Espresso il voto, la scheda deve essere ripiegata correttamente e depositata nell’urna, insieme alla matita copiativa.




LE MOLESTIE SUL LAVORO

Sette donne su dieci le subiscono

Politicainsieme.com, 9 marzo 2024. La Fondazione Libellula ha condotto un’indagine (L.E.I. – Lavoro, Equità, Inclusione) su oltre 11 mila donne sulla violenza di genere e le discriminazioni registrate nei luoghi di lavoro in Italia dal quale emerge che circa 7 su 10 si sono dichiarate vittime di molestie.

Il 70% del campione ha dichiarato di aver ascoltato battute sessiste o volgari, e la cosa ha riguardato soprattutto le lavoratrici che non hanno un partner stabile o che lavorano nelle piccole aziende.

Il rapporto prosegue registrando che il 43% delle donne intervistate ha dichiarato di aver dovuto subire avance esplicite indesiderate, che il 27% ha segnalato richieste e comportamenti di natura sessuale non graditi o non sollecitati e il 40% ha subito contatti fisici indesiderati.




LUCE D’ABRUZZO

Concorso fotografico

Roseto degli Abruzzi, 9 marzo 2024. Il Lions Club ‘Roseto degli Abruzzi Valle del Vomano’ promuove  la terza edizione del concorso fotografico dal titolo  “Luce D’Abruzzo”, 

la Giuria, presieduta da Piero Del Governatore – fotografo e composta da Elio Torlontano, Console regionale del Touring Club Italiano per l’Abruzzo e Coordinatore del Club di territorio di Pescara, Riccardo Celommi, pittore; Elvira Grilli regista; Vincenzo Arangiaro, architetto; Mirella Lelli giornalista, premierà lo scatto che saprà cogliere e interpretare la luce migliore per enfatizzare il soggetto scelto, che sia un paesaggio o un monumento della nostra terra.

Il concorso si avvale del patrocinio del Touring Club Italiano – Club di territorio di Pescara.

Si può partecipare con scatti realizzati con fotocamere professionali, con le compatte ma anche con lo smartphone, l’importante è scattare una foto che parli al cuore e che sappia interpretare la passione per la terra d’Abruzzo.

Ogni concorrente potrà partecipare con una sola foto, a colori o in bianco e nero, non sono ammesse foto con margini. Il materiale fotografico partecipante al concorso deve essere inedito.

La quota di iscrizione di 10 euro deve essere versata tramite bonifico bancario sull’IBAN IT20U0708677020000000016543 intestato al Club Lions organizzatore, indicando la causale “Quota di partecipazione Concorso Fotografico” – oltre al nome e cognome.

Una copia del versamento e la foto in formato JPG – risoluzione minima 300 dpi –

Le foto vanno spedite  entro le 23.59 del 31 maggio 2024  a questo indirizzo e-mail:  gst@lcrosetovalledelvomano.it

Nell’oggetto della mail dovrà essere indicato il titolo del concorso “Luce D’Abruzzo”; nel testo della mail si dovrà scrivere nome e cognome dell’autore, titolo della foto, il luogo dove è stata scattata la foto e un breve commento.

Al primo classificato andrà un premio in denaro di 300 euro, al secondo e al terzo classificati una targa, nonché attestati di merito per i primi dieci classificati.

REGOLAMENTO

1. Il concorso è aperto a tutti. Unico requisito la maggiore età.

2. Ciascun partecipante potrà presentare solo UNA Fotografia, in formato jpeg, a colori o in bianco e nero.

3. La fotografia deve avere una risoluzione minima di 300  dpi.

4. Non verranno ammessi fotomontaggi.

5. Saranno altresì escluse le fotografie con contenuti offensivi della pubblica morale o inneggianti alla violenza, o comunque offensive rispetto a qualsiasi creatura vivente. Saranno altresì escluse le fotografie che ritraggano figure umane riconoscibili.

6. La quota di partecipazione è di euro 10,00 e dovrà essere versata a mezzo bonifico bancario Conto corrente intestato a: Lions Club Roseto degli Abruzzi Valle del Vomano, Iban: IT 20 U 07086 77020 00000 0016543, indicando nella causale: “Quota Partecipazione Concorso Fotografico, Nome Cognome” e copia della relativa ricevuta di versamento dovrà essere allegata all’e-mail.

7. La fotografia e la copia della ricevuta del versamento dovranno pervenire con una unica e-mail all’indirizzo  :  gst@lcrosetovalledelvomano.it  entro e non oltre le ore 23:59 del 31 maggio 2024; la quota versata e il materiale inviato non saranno restituiti in alcun caso.

Nell’oggetto dell’e-mail dovrà essere indicato il Titolo del concorso “Luce D’Abruzzo”.

Nel testo dell’e-mail dovrà essere indicato:

a. Nome e Cognome dell’autore;

b. Titolo dell’opera;

c. Luogo dove è stata scattata la foto;

d. Un breve commento.

Alla e-mail dovrà essere allegato:

a. File della foto in bianco e nero o a colori in formato jpeg;

b. Ricevuta di pagamento del contributo di partecipazione di euro 10,00.

8. Il materiale inviato e la fotografia vincitrice saranno valutati in completo anonimato (ad ogni fotografia verrà attribuito un numero, e il nominativo dell’autore sarà svelato solo a scelta avvenuta) e a giudizio inappellabile della Giuria citata nel bando.

9. Il materiale inviato non sarà restituito e, con l’invio, l’autore ne cederà tutti i diritti al LC Roseto degli Abruzzi Valle del Vomano autorizzando, a titolo gratuito, il Lions Club Roseto degli Abruzzi Valle del Vomano, e quanti ad esso collegati, a pubblicare le immagini/fotografie inviate nell’ambito del concorso fotografico “Tra le nuvole”, ad utilizzarle nella mostra fotografica legata al concorso, nonché in altre eventuali pubblicazioni sia cartacee sia elettroniche.

10. Il materiale fotografico partecipante al concorso deve essere inedito e non deve violare in alcun modo i diritti di terzi, le leggi e i regolamenti esistenti e il partecipante si assume ogni responsabilità relativa al contenuto, sollevando sin d’ora gli organizzatori da qualsiasi responsabilità inerente alla pubblicazione dello stesso.

La partecipazione al concorso comporta l’integrale accettazione del presente Regolamento.




PRIVATIZZAZIONE  SECONDA TRANCHE POSTE ITALIANE

Rischi di chiusure sportelli e ridimensionamento territoriale. Incontro del Presidente Anci Abruzzo Gianguido D’Alberto con i rappresentanti sindacali di Slp Cisl, Slc Cgil e Uil Poste

Teramo, 9 marzo 2024. Ieri mattina, il Presidente Anci Abruzzo Gianguido D’Alberto ha ricevuto i rappresentanti sindacali di Slp Cisl, Slc Cgil e Uil Poste per un confronto sul processo di cessione sul mercato di una seconda tranche di Poste Italiane. Un processo rispetto al quale i sindacati di categoria hanno espresso forti preoccupazioni, relative soprattutto al rischio della futura chiusura di uffici, sportelli e posti di lavoro, e rispetto al quale D’Alberto si è impegnato a promuovere, subito dopo le elezioni, una cabina di coordinamento con il nuovo governo regionale, le sigle sindacali, i parlamentari abruzzesi e tutte le istituzioni del territorio con l’obiettivo di avviare un confronto con il Governo che vada nella direzione di tutelare un patrimonio della collettività, quale Poste Italiane, e il suo valore di servizi universalistico sul territorio.

“In questi anni, come Anci, tutte le nostre iniziative sono andate nella direzione di garantire diritti e servizi su tutto il territorio nazionale. Un percorso che abbiamo fatto insieme e nel confronto costante con le parti sociali. D’altro canto, lo stesso spirito del PNRR, così come dello stesso progetto Polis, finanziato proprio sul piano di ripresa e resilienza e che le Poste stanno portando avanti, è quello di accorciare le distanze – ha evidenziato D’Alberto – mentre la decisione del Governo di cedere sul mercato ulteriori quote di Poste va in una direzione del tutto contraria. Oggi Poste Italiane, che anche durante la pandemia ha assicurato sempre i servizi sul territorio, grazie all’abnegazione del proprio personale, rappresenta un presidio forte che può e deve aiutare il Paese, e in particolare l’Abruzzo e le aree interne a colmare quel divario legato all’abbandono dei territori di altri importanti presidi istituzionali. Siamo consapevoli del ruolo di coesione sociale che le Poste hanno sempre svolto e per questo, subito dopo le elezioni, mi farò promotore di una cabina di coordinamento con il nuovo governo regionale, i sindacati di categoria, le istituzioni locali e i nostri parlamentari, coinvolgendo anche le altre Anci Regionali perché sui servizi di prossimità sindaci, istituzioni e parti sociali devono lavorare insieme a tutela della collettività. I sindaci ci sono sempre stati, ma non possono essere lasciati soli nella difesa di diritti e servizi su tutto il Paese”.

All’incontro, per i sindacati, hanno preso parte il segretario interregionale Abruzzo Molise Slp Cisl Stefano Di Domenico, il coordinatore territoriale per Teramo della Slp Cisl Moreno Di Paolo, il segretario interregionale Abruzzo Molise della Slc Cgil Guido Cupido, la coordinatrice territoriale per Teramo della Slc Cgil Maria Milano, il segretario regionale Abruzzo e il segretario provinciale di Teramo della Uil Poste Tiziano Del Gallo e Giuseppe Gentile.

“Poste Italiane svolge un servizio universale a forte vocazione sociale, con una presenza capillare anche nei piccoli centri dove spesso l’ufficio postale rappresenta, insieme alla Caserma dei Carabinieri, l’unico presidio istituzionale – hanno sottolineato i sindacati – ed è per questo che siamo preoccupati di un possibile arretramento dello stato rispetto a uno di quei servizi essenziali che, a nostro avviso, devono continuare ad essere garantiti dallo Stato”.

I rappresentati di categoria, nel ricordare come già in passato, grazie a una forte mobilitazione, siano state scongiurate possibili chiusure, hanno evidenziato in particolare come le loro preoccupazioni siano legate al fatto che un’ulteriore privatizzazione di Poste possa portare ad operazioni che, mirando più al profitto, di fatto potrebbero concretizzarsi in chiusure di uffici e riduzioni di personale, facendo venir meno quella presenza del servizio sul territorio che oggi rappresenta anche un presidio di tenuta del sistema sociale sui territori.

“Premesso che ad oggi la vendita di quote rappresenterebbe un’operazione anti economica, visto che la cessione sul mercato delle quote previste determinerebbe un incasso di 3,8 miliardi di euro, che lo Stato incasserebbe negli anni attraverso la redistribuzione dei dividendi – hanno proseguito i sindacati – i rischi di operazione sono molteplici, a partire dai risvolti negativi che potrebbe avere in termini occupazionali, soprattutto per quanto riguarda la componente femminile che oggi, in Abruzzo, rappresenta il 65% del totale”.




CACCIA AL MICHELUOVO

La Caccia alle Uova inclusiva di Michelepertutti per bambini 1-10 anni

San Benedetto del Tronto, 9 marzo 2024. Michi il coniglio ha fatto irruzione nei parchi per organizzare una sorpresa ma non ha visto che nel frattempo qualche burlone ha nascosto le sue uova di cioccolato: e adesso? A Michi il coniglio servono degli aiutanti per recuperare le sue uova! MICHELEPERTUTTI, associazione no profit che da 10 anni aiuta bambini con bisogni speciali e le loro Famiglie, organizza per il 2° anno la CACCIA AL MICHELUOVO una attività benefica per raccogliere fondi per regalare settimane di attività al prossimo MICHELEPERTUTTI CAMP 2024, un centro estivo inclusivo ed accessibile per bambini con bisogni speciali da tutta Italia.

Con i proventi delle raccolte fondi precedenti l’Associazione ha ospitato gratuitamente al camp estivo dell’anno scorso ben 80 bambini provenienti da 11 diverse regioni d’Italia!

L’attività è organizzata per bambini da 1 a 10 anni e grazie ai volontari della associazione anche per persone con disabilità, il cui coinvolgimento ed inclusione nel gruppo è indispensabile per la buona riuscita della festa!

La CACCIA AL MICHELUOVO è realizzata grazie alla collaborazione con le associazioni Stelle a Colori, L’Astrolabio e Abilita, la scuola di inglese Helen Doron e l’azienda dolciaria Giammarini.

Ma come funziona la CACCIA AL MICHELUOVO?

L’attività consiste in prove di gruppo al termine delle quali verranno consegnati ovetti di cioccolato a tutti i partecipanti. Sono previsti 6 turni con inizio alle 15:00 e fine alle 18:00 (max 10 partecipanti per volta). Posti limitati. Richiesta prenotazione.

Novità: quest’anno ben 3 appuntamenti:

17 Marzo Parco Bachelet (Monsampolo del Tronto)

23 Marzo Parco Colle San Nicolò (Ripatransone)

24 Marzo Parco Cerboni (San Benedetto del Tronto)

In caso di pioggia o maltempo gli eventi si terranno in locali chiusi siti nelle vicinanze




SICUREZZA STRADALE

“Stop al nuovo codice della strage”, all’interno di una mobilitazione nazionale contro la revisione del nuovo codice della strada proposta dal ministro delle infrastrutture Salvini

Teramo, 9 marzo 2024. FIAB Teramo si mobilita, insieme a tante altre città in Italia, per fermare la revisione del Codice della Strada proposta dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti che sarà discussa nei prossimi giorni in Parlamento e ribadire “Stop al Nuovo Codice della Strage”.

Appuntamento: venerdì 8 marzo 2024 H. 9:00 P.zza Martiri della libertà Teramo

h. 9:15 Partenza da Teramo per Torricella Sicura dove ci sarà un volantinaggio aspettando la partenza della tappa

L’invito è a tutte e tutti di aderire partecipando alla mobilitazione a piedi o con la propria bici.

3.159 sono le persone morte in collisioni sulle strade nel 2022, con un aumento del 9% rispetto al 2021 e solo una leggera diminuzione rispetto al 2019. 223.475 sono stati i feriti. Il 73% delle collisioni avviene in ambito urbano. L’assenza di sicurezza stradale è la prima causa di morte per le e i giovani sotto i trent’anni.

Una situazione, quella italiana, che è un’anomalia in Europa: se in Gran Bretagna i morti in strada per milione di abitanti sono 26, in Germania 34, in Spagna 36, in Italia siamo a 53 (Fonte: Commissione Europea 2022), dato in crescita rispetto all’anno precedente.

Le principali cause di morte sono (secondo l’Istat) l’eccesso di velocità, la guida distratta e la mancata precedenza ai pedoni sugli attraversamenti.

Queste cause non vengono prese in considerazione dalla riforma del Codice della Strada voluta dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti che sarà discussa nei prossimi giorni in Parlamento.

La riforma viene proposta “per salvare vite in strada”, ma nella sostanza prefigura il persistere della strage. Infatti, limita pesantemente l’autonomia di azione delle amministrazioni comunali, attacca e depotenzia ZTL, aree pedonali, sosta regolamentata, controlli elettronici e mobilità ciclistica. Misure che ci allontanano dagli obiettivi del Piano Sicurezza Stradale 2030.

La proposta di riforma da una parte promuove “misure-vetrina”, come l’inasprimento di alcune pene, e dall’altra strizza l’occhio a chi vìola sistematicamente le regole. Vengono meno i presupposti per la tutela di chi è più vulnerabile e si indebolisce la convivenza tra i diversi utenti della città. Misure inefficaci e dannose che non migliorano le norme attuali e addirittura vanno ad aggravare la situazione, poiché non agiscono sulle cause della strage e sulla prevenzione.

La richiesta è una: città vivibili e strade sicure, la sicurezza stradale ha un’altra direzione.

Serve un approccio scientifico e sistemico: agendo sulla moderazione della velocità, non solo attraverso i limiti ma anche con controlli e ridisegno dello spazio pubblico.

Occorre realizzare interventi normativi a favore della mobilità attiva e del potenziamento del trasporto pubblico, e agevolare percorsi verso le città 30, prendendo esempio da Bologna.

“Stop al Nuovo Codice della Strage” è una mobilitazione che parte dalla piattaforma #Città30Subito (1) a cui si uniscono numerose associazioni e attiviste/i di tutta Italia.




ROSETO PREMIA LE DONNE

Le donne che hanno contribuito al benessere e allo sviluppo della società. Venerdì 15 marzo la cerimonia del “premio donna 2024” e del concorso “d’amore non si muore”.

Roseto degli Abruzzi, 9 marzo 2024. L’Amministrazione Comunale e la Commissione Pari Opportunità del Comune di Roseto degli Abruzzi, in occasione dell’8 marzo, Giornata internazionale dei Diritti delle donne, annunciano la cerimonia del “Premio Donna 2024”, che si terrà venerdì 15 marzo alle ore 18:30 presso la Sala Consiliare del Municipio.

Una manifestazione organizzata con lo scopo di valorizzare le donne che, con il loro impegno, la loro professionalità e la loro creatività, hanno contribuito allo sviluppo e al benessere della comunità rosetana. Nell’occasione si svolgerà anche la consegna dei riconoscimenti del contest “D’Amore non si muore”: concorso di disegno e di produzione di cortometraggi rivolto agli studenti iscritti nelle scuole primarie e secondarie di Roseto degli Abruzzi.

IL PREMIO DONNA. I riconoscimenti del “Premio Donna 2024” sono stati suddivisi in quattro sezioni riguardanti il talento al femminile in tutte le sue espressioni: Alla maestra Emma Furia è stato attribuito il premio sezione Cultura; all’imprenditrice Erika Rastelli del gruppo Aran World è stato assegnato il Premio sezione Impresa, per la sezione Sport sarà premiata la tennista Rossana Bacchetta e per la sezione Sociale il premio è stato attribuito alla compianta Tiziana Gimminiani.  Anche in questa occasione, le premiate saranno omaggiate con delle splendide serigrafie realizzate appositamente per l’evento dall’artista Pierpaolo Barnabei, in arte “Frutti”. Serigrafie caratterizzate dai simboli che contraddistinguono ogni sezione del premio stesso.

“Sono lieta di aver rinnovato anche per il 2024 il “Premio Donna” – afferma la Presidente della Cpo Roseto Silvia Mattioli – C’è ancora molto da fare per un vero cambio culturale ed una vera parità, nel panorama delle opportunità professionali, purtroppo la figura della donna risulta ancora discriminata. Le donne non hanno ancora un’equità di trattamento rispetto ai colleghi uomini. È quindi importante continuare a lavorare e a sensibilizzare, soprattutto i giovani, su questi temi. La cerimonia del 15 marzo sarà quindi l’occasione per premiare le donne rosetane virtuose ma anche per dare un riconoscimento alle scuole rosetane che si sono impegnate nel concorso “D’Amore non si muore” dedicato alla dottoressa Ester Pasqualoni” e con gioia invitiamo tutta la cittadinanza a partecipare alla cerimonia di premiazione”.

“Il Premio Donna rappresenta un esempio e uno stimolo per tutte le donne e per l’intera comunità di Roseto degli Abruzzi – aggiungono la Presidente del Consiglio Comunale Gabriella Recchiuti e la Consigliera Comunale con delega alle Pari Opportunità Toriella Iezzi – Si tratta di un’occasione per festeggiare le donne che hanno fatto la differenza nel nostro mondo, ma anche per ricordare le sfide che ancora le attendono. Sappiamo che la violenza di genere purtroppo è ancora un problema grave e diffuso, che colpisce milioni di donne ogni anno in tutto il mondo. Per questo, vogliamo contribuire a creare una cultura di rispetto e solidarietà, partendo dalla consapevolezza, dai diritti e dalla sensibilizzazione che deve coinvolgere tutte le generazioni. L’evento del 15 marzo, quindi, sarà un’occasione per rendere omaggio a queste donne eccezionali, per dire No ad ogni forma di discriminazione, per promuovere l’uguaglianza di genere e per rinnovare la nostra promessa di un mondo più equo e sicuro per tutte e per tutti”.




IN MEMORIA DI DON ENNIO LUCANTONI

Inaugurazione, sabato 16 marzo, della scultura monumentale. La cerimonia alle 11, sul fronte ovest del parco Franchi. Stampata per l’occasione una cartolina commemorativa, che sarà messa a disposizione dei presenti.

Giulianova, 9 marzo 2024.  Nell’anno del 50esimo anniversario della consacrazione della chiesa di San Pietro Apostolo, il Sindaco Jwan Costantini e l’ Amministrazione Comunale hanno inteso realizzare una scultura monumentale in memoria di don Ennio Lucantoni, promotore della realizzazione della chiesa e parroco della Natività di Maria Vergine dal 1960 al 2018.

L’inaugurazione dell’opera, collocata sul fronte ovest del parco Franchi e realizzata dallo scultore Nicola Monticelli, si terrà sabato prossimo, 16 marzo, alle 11. Impartirà la benedizione l’attuale parroco della Natività, don Luca Torresi.

Un piccolo ulivo, grazie alla collaborazione dell’associazione “Un albero in più” e dell’ Ente Porto, sarà piantumato in prossimità del monumento.

Don Ennio è stato un parroco molto amato dalla sua comunità, stimato dalla città e dalla diocesi, animatore instancabile di gruppi e movimenti ecclesiali . Per quasi sessant’anni è stato punto di riferimento per le famiglie, i giovani, le persone in difficoltà. Forte anche il legame con la marineria locale e la realtà portuale.

Al termine della cerimonia di sabato, sarà messa a disposizione dei presenti una cartolina commemorativa.




ANNULLO SPECIALE DI POSTE ITALIANE

La Commissione e l’ Assessorato alle Pari Opportunità di Giulianova festeggiano la mattina dell’ 8 marzo con la cartolina

Giulianova, 9 marzo 2024. La Commissione Pari Opportunità del Comune di Giulianova, con il Vicesindaco e assessore alle Pari Opportunità Lidia Albani, ha raggiunto questa mattina la filiale di Poste Italiane di via Gramsci per manifestare concretamente plauso ed adesione all’iniziativa promossa dalla società pubblica in occasione dell’8 marzo.

Poste Italiane ha infatti celebrato la Giornata Internazionale della Donna con una cartolina filatelica e un annullo speciale. Entrambi  sono disponibili, a Giulianova, nell’ufficio con sportello filatelico di via Gramsci.

“Un’occasione unica – si legge in un comunicato dell’azienda -per ogni collezionista o per chi, semplicemente, vuole ricordare in modo originale una giornata particolare, facendo dono della colorata cartolina a una persona cara o inviando un messaggio a un destinatario. La presenza femminile in provincia di Teramo ha avuto un ruolo determinante anche nel conseguimento dei risultati legati alla sostenibilità, all’inclusione e alla parità di genere. Poste Italiane ha ottenuto infatti, per il quarto anno consecutivo, il riconoscimento Top Employer che seleziona in tutto il mondo le aziende che si distinguono per le migliori politiche di gestione delle risorse umane. L’Azienda, inoltre, con una presenza femminile del 53%, ha confermato la leadership globale nelle politiche di parità di genere secondo il Gender-Equality Index di Bloomberg, un indicatore mondiale punto di riferimento per valutare l’impegno delle società nell’affermazione dei valori di genere”.