… e le tradizioni religiose abruzzesi nel periodo pasquale
di Franco Cercone
[Pubblicato in “Theate Antiqua” – Chieti, Edizioni Vecchio Faggio, 1991, pp. 483-494.]
La settimana di Pasqua è caratterizzata in Abruzzo da rituali chiesastici e sacre rappresentazioni che, in armonia con quanto accade nella natura, celebrano il grande mistero cristiano della morte e della resurrezione. È settimana santa che invocata nei suoi giorni a mo’ di historiola (lunedì santo, martedì
santo, ecc.) è preposta, come ricorda il De Nino, a funzioni apotropaiche e persino terapeutiche[1].
È inoltre “tempo sacro ciclico”, perché viene a coincidere con un periodo equinoziale in cui riaffiorano credenze magiche ed antiche consuetudini divinatorie, mai sopite, che coesistono in modo sincretico con la liturgia ed hanno modo di manifestarsi a partire dalla Domenica delle Palme. È tuttora tradizione diffusa in Abruzzo quella di gettare in tale giorno alcune foglie d’ulivo sul fuoco per trarre auspici sul corso dell’anno. Se bruciano immobili, se si afflosciano senza scoppiettare, o se si consumano senza produrre fiamma il responso è infausto, perché vuol dire che si muore entro l’anno, si rompe un fidanzamento, si perde la salute e via dicendo[2]
La palma benedetta è anche simbolo di pace. Mediante lo scambio di ramoscelli d’ulivo si cancellano vecchi rancori o si instaurano rapporti di comparatico[3] Non meno significativa è un’altra costumanza abruzzese quella cioè di recarsi nella Domenica delle Palme in cimitero per deporre un ramo d’ulivo benedetto sulle tombe di amici o parenti[4]. In genere le palme benedette svolgono una vasta funzione apotropaica e per tal motivo esse vengono poste sui letti, nelle stalle (accanto al santino di Antonio Abate), dietro l’uscio di casa, dentro le automobili e soprattutto sui campi, “a protezione e benedizione del raccolto” [5]; sicché l’usanza rispecchia un tema culturale che il Wörterbuch der deutschen Volkskunde definisce “europeo” e “radicato” in tutti gli strati sociali, non solo dunque nelle società agro-pastorali ma anche nei ceti definiti, nella concezione gramsciana, egemoni[6].
I primi giorni della settimana di Pasqua non presentano in Abruzzo, sotto il profilo demologico, particolarità degne di rilievo[7].
Nel pomeriggio del mercoledì santo avviene da parte dei fedeli l’omaggio dei vasi in cui si lasciano
germinare al buio cereali di diverse specie, seminati, per tradizione, la mattina del 17 gennaio, e con i quali si adorna un altare secondario della chiesa in cui viene allestito il cosiddetto sepolcro. Si tratta dello “spazio sacro” dove viene posto per l’adorazione il Sacramento e che rappresenta simbolicamente il sepolcro di Cristo. Fino a tempi recenti tuttavia, con l’espressione fare i sepolcri non si intendeva, come avviene oggi, far visita ad almeno tre chiese nella sera del giovedì santo, bensì allestire una serie di scene interpretate da attori, scelti per lo più fra i parrocchiani, ed ispirate ad episodi della Passione di Cristo. Nota al riguardo il De Nino: “Nella Settimana Santa si fanno i Sepolcri. In una di quelle sacre rappresentazioni i giudei intorno a Cristo sono uomini vestiti alla medioevale”[8]. Specifica meglio al riguardo il Finamore: “Il Sepolcro è la rappresentazione scenica di un atto della Passione che si fa nelle principali chiese del luogo”[9].
In tal senso però il Sepolcro, o “sacra rappresentazione”, costituisce una tradizione consolidatasi verso la metà del secolo scorso, poiché le disposizioni scaturite dal Concilio di Trento vietavano ad attori di impersonare le figure di Cristo e della Madonna. La Chiesa aveva espresso di conseguenza una ferma condanna nei confronti di tali rappresentazioni. Gli incidenti che da esse scaturivano[10] erano infatti decisamente riprovevoli, poiché avvenivano in un momento, come la Settimana Santa, assai significativo per la Cristianità. La condanna dei sepolcri viene ribadita così nei Sinodi celebrati nel periodo post-tridentino e per quanto riguarda l’Abruzzo citiamo per tutti quello indetto e celebrato nel 1629 dal vescovo di Valva e Sulmona, Francesco Cavalieri, nel capoluogo peligno. Nella parte III il vescovo ordina che durante la Settimana di Pasqua “nec comediae, tragediae, aliave iocularia in publico recitentur, aut repraesententur, sub poena excommunicationis ecc.” [11], risoluzione da cui non dovettero sortire risultati di un certo rilievo, dato che in un altro Sinodo celebrato nel 1715 a Sulmona, il vescovo Bonaventura Martinelli sancisce quanto segue: “Repraesentationes virorum ante Sepulchrum adstantium, ubi Sanctissima Eucharistia feria quinta in Coena Domini in memoriam Passionis ejus reponitur, omnino prohibemus sub poena suspensionis a Parocho, ab Actoribus vero excommunicationis illico incurrendae”.[12]
Va sottolineato che il Sinodo di mons. Cavalieri, celebrato come si è detto a Sulmona, fu pubblicato nel 1633 per i tipi di Ottavio Terziani e Bartolomeo Pavese, stampatori in Chieti, e con regolare nihil obstat da parte delle autorità religiose teatine, ben al corrente del medesimo problema esistente in tutta l’Arcidiocesi.
Di conseguenza le sacre rappresentazioni furono allestite in seguito con l’impiego di statue, come si può ancora osservare a Sulmona e Lanciano la mattina di Pasqua ed a Corropoli il martedì dopo Pasqua, oppure con scene della Passione disegnate su cartoni collocati in chiesa nei pressi del Sepolcro. Quest’ultimi non costituivano affatto una novità. Più noti con la designazione di “quadri devozionali”, essi sono attestati ovunque, specie nel Mezzogiorno, come lontani eredi di quelle pergamene in cui venivano miniati episodi della Passione ispirati all’iconografia bizantina[13]. Di essi parla ampiamente il Mayer, che sottolinea in particolare come verso la metà dell’800 fosse assai viva
l’usanza di erigere nelle chiese, nel periodo pasquale, “grandi scenari che rappresentavano la tomba del Salvatore”[14]. Questa particolare forma devozionale non è scomparsa del tutto in Abruzzo. Ad Introdacqua per es., nell’ambito delle usanze ricorrenti nella Settimana Santa, “occupano il primo posto le figure montate su cartone o su legno rappresentanti scene o personaggi della Passione di Cristo”[15]. Individuare le cause che determinarono l’affievolimento di tale particolare tradizione non è agevole. Probabilmente le pitture su cartone non dovevano suscitare forte emotività e sentimenti di immedesimazione nei fedeli, indotti a prediligere, in base ad un comprensibile processo di identità psicologica, sacre rappresentazioni allestite con statue[16] oppure, come si può ancora vedere oggi a Gessopalena, quadri viventi interpretati da attori e realizzati con particolari giochi di luce all’aperto. Insieme ai Sepolcri vanno annoverate nel quadro delle tradizioni del Giovedì Santo altre interessanti costumanze. Innanzitutto da tale giorno fino al Sabato Santo si legano le campane e per richiamare i fedeli ai riti religiosi si adoperano ancora oggi nei piccoli centri particolari strumenti di legno che assumono in Abruzzo nomi diversi (raganelle, gnaccole, tricche-tracche, ecc.). Assai diffusa è anche l’usanza di spargere in campagna (soprattutto nei vigneti ed oliveti) i cereali germogliati nei vasi e preposti ad ornamento degli altari in cui sono stati allestiti i Sepolcri. A tali germogli si attribuiscono particolari poteri apotropaici, perché favoriscono l’abbondanza del raccolto[17] Va ricordato inoltre come sia tuttora diffusa in Abruzzo la consuetudine di non battezzare i bambini nella settimana di Pasqua, divieto questo di cui si coglie un’eco in molti Editti Vescovili del XVIII e XIX secolo e la cui ratio risiedeva probabilmente nella circostanza che le feste collegate all’evento più importante del “ciclo dell’uomo” mal si conciliavano con il mesto riserbo da osservare nei giorni della Passione di Cristo. È noto che in passato la mortalità infantile era molto alta soprattutto nei primi giorni di vita, per cui angosciante era il timore che i bambini nati nel periodo pasquale fossero sepolti senza aver ricevuto il battesimo. Da tale prescrizione chiesastica è scaturita probabilmente la consuetudine in questione, ovunque profondamente radicata ed assurta a valore di norma comportamentale.
Il Venerdì Santo in Abruzzo e la Processione del Cristo Morto a Chieti. Radici di una sacra rappresentazione.
L’animazione che si avverte ovunque durante il giorno di Venerdì Santo scompare quasi d’incanto all’imbrunire allorché dalle chiese madri o dalle cattedrali cominciano a snodarsi le processioni del Cristo Morto. Le città soprattutto, prive nel centro storico di alcuni “segni” che rammentano la frenetica civiltà delle macchine, riacquistano in parte per tale solenne manifestazione il fascino del tempo passato e si trasformano in un teatro degno di rappresentare il dramma più grande della storia dell’umanità. Dallo sguardo commosso delle persone si avverte l’intensa partecipazione ad un evento che è rivissuto psicologicamente con la morte e la resurrezione di Cristo.
Le processioni del Venerdì Santo assumono particolare importanza nei maggiori centri abruzzesi, come a L’Aquila, Sulmona, Lanciano e Teramo, gestite da confraternite per lo più di antica fondazione. La manifestazione più suggestiva e spettacolare resta comunque per unanime riconoscimento quella di Chieti, che rivela sia caratteristiche proprie che aspetti comuni alle processioni allestite, per tale solenne ricorrenza, in altre località.
Va sottolineato in via preliminare che tali processioni sono sacre rappresentazioni che scaturiscono attraverso lente e complesse rielaborazioni dal dramma liturgico medievale e che ad esse “partecipavano forse fin d’allora i personaggi della Passione: Cristo, la Madonna, la Maddalena e militi a cavallo vestiti alla romana, insomma una rievocazione ottenuta col canto narrativo e i personaggi processionanti”[18]. Il momento più importante nell’evoluzione di tali manifestazioni è dato, come è noto, dalla sostituzione del latino con il volgare, il cui uso, nella sacra rappresentazione, “comunque incominciato ed affermatosi, ebbe una portata immensa. Per esso il clero cessava di essere
l’unico impresario del teatro. La poesia drammatica usciva dal chiuso del presbiterio e dall’aula scolastica per irrompere nella piazza”[19]. Alle antiche confratriae subentrano così in seguito “pii sodalizi laicali”, omogenei sotto il profilo sociale, che a partire in special modo dalla seconda metà del XVII secolo sono portatori nell’ambito del tessuto cittadino di complessi interessi economici.
La ricerca affannosa del regio assenso o dell’affiliazione ad influenti confraternite romane rappresenta un riconoscimento indispensabile al ruolo che tali sodalizi rivestono, siano essi formati dalla nobiltà cittadina oppure facciano capo all’Arte, quell’associazione cioè di persone esercitanti lo stesso mestiere e legate reciprocamente da speciali diritti e doveri. Come pio sodalizio dedito anche ad opere caritatevoli, la confraternita ha di solito la sua sede naturale e “legale” in una parrocchia ed in tal modo si verifica fra quest’ultime una convergenza spontanea di interessi, nel senso che il peso esercitato dalla confraternita nella vita economica e sociale della città si proietta di riflesso nella stessa gerarchia parrocchiale[20].
Malgrado la peste del 1656, che fa registrare a Chieti solo 840 fuochi dopo il debellamento del morbo, malgrado alcune carestie che, a partire dal 1697, afflissero le Terre del Mezzogiorno, la Diocesi di Chieti nel 1721 annovera 45 000 abitanti, occupati soprattutto nel capoluogo marrucino nel settore emergente artigianale e manifatturiero[21], organizzato nell’Arte. Nell’esplosione dei piati per il noto “diritto di precedenza” fra le varie confraternite, che aveva luogo particolarmente in occasione delle processioni del Venerdì Santo e del Corpus Domini, si coglie anche a Chieti l’eco dell’importanza che ogni settore artigianale riteneva di aver raggiunto nell’economia locale[22]. La Confraternita che gestiva la Processione del Venerdì Santo ed alla quale appartenevano quasi sempre le famiglie nobili cittadine, precedeva di solito gli altri pii sodalizi. A Sulmona per es. i nobili facevano capo alla Confraternita della SS. Trinità ed a Chieti al Sacro Monte dei Morti, sicché qui la processione, sfilando davanti alle dimore dei nobili teatini, o case palaziate, aveva modo di riconfermare il prestigio delle famiglie che vi abitavano.
Il percorso della processione sacralizza quasi per “legge di contatto” gli antichi e nobili edifici, esorcizzandoli dal male, e nello stesso tempo rappresenta un itinerario rituale, quello appunto delle processioni delle rogazioni, le quali fin dal periodo medievale si svolgevano, come ha evidenziato il Guidoni, “lungo i due assi ortogonali nord-sud ed est-ovest, segnati da quattro croci, la Processione segna così una croce orientata sul terreno e la benedizione è diretta alle quattro direzioni dello spazio, ricalcando un antichissimo rituale di orientamento sacro, cardodecumanico”[23]. Questa particolarità è confermata dal tracciato della processione del Venerdì Santo a Chieti, anno 1879, scoperto e pubblicato dal Meaolo nel volume più volte citato[24] che non risulta, a ben osservare, molto dissimile dallo schema processionale osservato la sera del Venerdì Santo del 1990 e risultante precisamente dal seguente tracciato: Cattedrale, via Pollione, piazza Valignani, via De Lollis, piazza Matteotti, via Arniense (sezione ovest), via dei Crociferi (fino alla chiesa di S. Agostino), via degli Agostiniani, via Toppi, corso Marrucino, Pozzo, corso Marrucino, via dei Domenicani, via Vezio Marcello, piazza Templi Romani, via Priscilla, via Ravizza (fino a via Zecca), piazza Trento e Trieste, corso Marrucino, piazza Valignani (Pozzo), via Pollione, Cattedrale. Come si capisce, il braccio verticale coincide all’incirca con il corso Marrucino, [oggi più lungo in seguito ai noti lavori di ristrutturazione effettuati
alla fine dell’Ottocento]. I due bracci laterali sono abbozzati ad oriente da via C. De Lollis e ad occidente da via dei Crociferi, è evidente come quest’ultimi risultano condizionati dal tessuto urbano cittadino, che si è sviluppato già dal periodo romano necessariamente in senso longitudinale e non in larghezza.
Non a caso la maggior parte delle chiese sono sorte a Chieti nel periodo medievale lungo i due assi ortogonali, sicché la loro ubicazione nella struttura urbana proietta lo stesso l’idea di una croce, cioè di un orientamento sacro con funzione chiaramente protettiva.
La processione del Venerdì Santo doveva svolgersi, pur se di mattina, in una atmosfera penitenziale da memento mori e non molto dissimile da quella rappresentata dal Michetti in un noto quadro dipinto nell’ultimo periodo del secolo scorso. Nella scenografia della manifestazione, come era appunto allestita nel secolo scorso e forse ancora nei primi decenni del nostro, si coglie in tal senso la sapiente regia della Confraternita del Suffragio ovvero Monte dei Morti, la quale, come si legge nella Bolla di Papa Innocenzo X del 1648, era aggregata alla Confraternita dell’Orazione e Morte di Roma, il cui compito era soprattutto quello di “dare sepoltura ai morti abbandonati nella Campagna Romana”[25]. Rientrava infatti fra le missioni della Confraternita del Sacro Monte dei Morti quella di accompagnare al cimitero i cadaveri dei confratelli defunti o di altri fedeli, non disgiunta, alla luce delle disposizioni post-tridentine, da “doveri sociali”, come quelli di “seppellire i morti ed assistere i carcerati”[26].
Risulta invece dai Parlamenti Teatini che durante la peste del 1656 furono impiegati a Chieti, per trasportare e seppellire fuori porta S. Giovanni le persone decedute a causa del terribile morbo, tutti i detenuti condannati a morte ed in attesa dell’esecuzione della sentenza. E vi furono costretti “al servizio del Re, del publico e di Dio, qual mutazione di ruolo di morte, perché con la loro morte riparino la vita di tutta la Città”[27]. Linguaggio, questo, allucinante, che richiama il tema del “sacrificio umano” in funzione liberatoria presso le società antiche e quelle di interesse etnoantropologico.
Si diceva in precedenza che la processione si svolgeva, e non solo a Chieti, nel corso della mattinata. Si trattava infatti non di una consuetudine locale, protrattasi fra l’altro a Chieti all’incirca fino alla fine del secolo scorso, bensì di una precisa disposizione impartita da Napoli il 10 dicembre 1767 a tutte le
Diocesi del regno. Nel Libro de li Editti Vescovili della Diocesi di Valva e Sulmona, si legge infatti a firma del vescovo Filippo Paini quanto segue: “La Maestà del Re, avendo comprovato coll’esperienza che le processioni, se queste si fanno di giorno… invece di riuscire di onore a Dio e de’ Santi, siano occasione piuttosto di rissa, scandali et altri dissordini, con suo Real Dispaccio del diece corrente Decembre ha risoluto, che le Processioni tutte si debbano far di mattina… Nel partecipare alle SS.VV. questo Sovrano Real Comando, che passaranno alla notizia del clero secolare, e regolare, e delle Confraternite tutte, incarichiamo nel Regal nome ad invigilare per l’esatta puntual osservanza… ecc”[28]
Il “Regal Dispaccio” si preoccupava non solo delle liti che scoppiavano fra le Confraternite per il “diritto di precedenza” nelle processioni, ma anche dell’abitudine, ovunque radicata nel regno di Napoli, di approntare lungo il tragitto della Processione del Cristo Morto alcune fontes nempe artificiales, dalle quali sgorgavano buon vino preposto a rinfrancare le forze dei processionem comitantes con conseguenze facili da intuire. Certo, oggi tali portentose fontane non vengono più allestite lungo le strade percorse dalla processione la sera del Venerdì Santo. Tuttavia, se ci è concessa l’espressione, il “vizietto” è rimasto in Abruzzo, e non solo a Chieti. Ovunque infatti è possibile constatare l’improvviso scomparire e riapparire dei Confratelli, soprattutto lungo le anguste vie dei centri storici attraversati dalla processione.
Va notato comunque che la precisa disposizione impartita da Napoli trovò scarsa applicazione, tanto è vero che da una “deliberazione” del Sacro Monte dei Morti, si apprende che nel 1829, e presumibilmente prima ed anche dopo tale data, la processione del Venerdì Santo si è svolta a Chieti di mattina e con il beneplacito, come sembra, dell’Arcivescovo e dell’Intendente regio[29].
A parte questa nota di colore, vi sono degli aspetti interessanti che vanno sottolineati e soprattutto il sostrato culturale da cui germina a Chieti la Sacra Rappresentazione della processione del Venerdì Santo, che costituisce comunque reliquia vivente di uno dei drammi liturgici medievali che nel corso del XVI secolo doveva essere rappresentato in città con particolare solennità e concorso di fedeli. E non solo sul sagrato, che allarga idealmente le pareti del tempio, non solo nel centro storico, ma anche nei conventi di clausura, “ad uso e consumo” delle stesse suore, le quali, nota il Toschi, per il loro particolare status furono sempre “attrici e spettatrici dello spettacolo sacro”[30] In un codice del Cinquecento scoperto dal Pansa nel 1886 a Sulmona ed acquistato due anni dopo dalla Biblioteca Nazionale di Roma [Inventario: Cod. V.E., 361], sono contenuti infatti dei frammenti di drammi, alcuni dei quali hanno per titolo: La rappresentazione della Passione, La rappresentazione della Resurrezione, l’Apparizione ad Emmaus ecc., trascritti da una suora di clausura del convento di S. Chiara in Chieti e pubblicati dal De Bartholomaeis nel 1924 nella sua fondamentale opera sul teatro abruzzese del medio evo[31]. Esula da queste brevi note il compito di determinare la fonte dei testi, frutto per lo più, come ha sottolineato l’Inguanez, di rielaborazioni in volgare di antichi Codici Cassinesi[32]. Sottolineata va invece la carta 64b del Codice in questione, in cui si legge: “Hora nona, lo primo dì de julii 1577 Pregate Dio per la povera scrictrice” E chi era costei? È lei stessa a dircelo
nella carta 95b dello stesso Codice: “Maria Jacoba Fioria Teatina, indigna Serva del Crucifixo et de sua Matre Maria”.
Osserva il De Bartholomaeis al riguardo, eliminando un legittimo dubbio del lettore: “Non è il caso di pensare che la buona Maria Jacoba, dicendosi Teatina, abbia voluto qualificarsi suora dell’Ordine Teatino. La Congregazione Teatina fu fondata, come è risaputo, solo nel 1583, sei anni dopo ch’essa
trascrisse il nostro Codice”[33].
Nel trascrivere i frammenti dei drammi, Suor Maria Jacoba ha operato delle scelte dipendenti anche da esigenze sceniche del suo convento di clausura in Chieti. Proprio in questo periodo, e precisamente negli anni 1577 e 1578, soggiorna a Chieti fra’ Serafino Razzi, notissimo predicatore domenicano che
era stato eletto dall’Ordine priore del convento di Penne, con mandato di riorganizzazione della regola in tutto l’Abruzzo. Il Razzi ci dice che nel 1578, un anno dopo quindi la trascrizione dei frammenti di drammi da parte di Maria Jacoba, compose 15 inni “ad istanza della Molto R.M. la Signora Leonora
Valignana, Badessa di Santa Chiara, in Civita di Chieti, sopra il modo d’un Hinno della Passione di Nostro Signore, fatto dal Serafico Padre San Bonaventura… Sono i prefati Hinni semplici e divoti indiritti alla Serenissima Madre di Dio, sopra la vita, et azzioni del suo dolcissimo Figliuolo, da recitarsi nel proprio Oratorio”[34].
V’è dunque nella Chieti del XVI secolo, epoca in cui si registra ad opera di Isidoro Faciy l’introduzione dell’arte della stampa, un fervore culturale che anima anche le comunità religiose in essa presenti. La trascrizione di inni, laude, drammi liturgici o frammenti di questi, destinati – come informa fra’ Serafino Razzi – ad essere recitati nei vari oratori locali, va inquadrata nella continuità di una tradizione consolidatasi in Abruzzo nei secoli precedenti e testimoniata dal corpus del teatro abruzzese medievale raccolto dal De Bartholomaeis. Questa attività svolta da religiosi all’ombra dei chiostri non era destinata a restare fine a sé stessa, poiché – sottolinea Otto Mann – è fenomeno non solo italiano ma europeo l’interdipendenza ed il reciproco influsso, nell’ambito della civitas, fra la Weltanschauung laica e quella religiosa.[35]
Il punto d’incontro fra i due mondi, certamente ideale, è costituito proprio dalle confraternite; sicché le sacre rappresentazioni, e quindi anche la processione del Venerdì Santo a Chieti, gestite da pii sodalizi ed allestite con grande concorso di fedeli nelle strade o sulle piazze cittadine, rappresentano comunque la proiezione di frammenti di drammi liturgici, che non sempre archivi e biblioteche hanno restituito alla luce. Né deve trarre in inganno la veste in cui oggi tali manifestazioni si presentano; essa rivela infatti solo il continuo adattamento delle sacre rappresentazioni alle realtà locali, una “sovrastruttura” che diventa più marcata a partire dal periodo della Controriforma.
In tale ottica vanno visti a Chieti i “simboli della Passione” di Raffaele Del Ponte, le varie confraternite che partecipano alla Processione del Venerdì Santo nonché il bellissimo Miserere del Selecchy, ovunque conosciuto ed eseguito in tale ricorrenza. Non vanno dimenticati tuttavia i caratteristici “pianti” intonati in vari paesi abruzzesi, nella sera del Giovedì Santo, presso il Sepolcro, oppure nelle processioni del Venerdì Santo. Citiamo per tutti quello cantato a Cansano (Aq). Si tratta di una toccante melodia seicentesca denominata pianto delle zitelle e riproposta ogni anno da Radio Abruzzo nel pomeriggio del Venerdì Santo.
Il Sabato Santo e la Pasqua in Abruzzo.
Siamo arrivati così, con pennellate necessariamente rapide, alla conclusione della settimana di Pasqua. Per quanto riguarda Sabato Santo, vanno sottolineate le seguenti usanze, tuttora assai vive in Abruzzo. Allo “sciogliersi delle campane”, segno “sonoro” della Resurrezione di Cristo, si usa far muovere i primi passi ai bambini, perché in tal modo da grandi “cammineranno sempre spediti”[36], mentre gli adolescenti sogliono rotolarsi per terra in segno di gioia[37].
L’acqua ed il fuoco benedetti la sera del Sabato Santo hanno un efficace potere apotropaico: con l’acqua si cosparge soprattutto la casa per difendersi dal noto “malocchio” e da quel generico male qualificato in antropologia culturale come “negativo esistenziale”. I carboni invece hanno il potere di preservare gli alberi d’ulivo e da frutta, nonché i vigneti, da molti parassiti[38].
Le superstizioni relative al Battesimo dei bambini durante la Settimana Santa e di cui abbiamo parlato in precedenza, sono completate da un’ulteriore credenza ancora viva soprattutto nell’area peligna. Regna qui il sacro terrore che i neonati possano essere benedetti, anche se dopo la settimana di Pasqua,
mediante l’acqua santa rinnovata con il rito del Sabato Santo, poiché “si crede che chi per primo riceverà il battesimo con tale acqua, diventerà strega o stregone”[39] Nel corso della tarda mattinata del giorno di Pasqua avviene infine l’incontro della Madre con il Figlio Risorto. La sacra rappresentazione, gestita in Abruzzo da confraternite, raggiunge la massima spettacolarità a Lanciano e Sulmona, località, quest’ultima, in cui è nota come la Madonna che scappa in piazza.
Il tema della corsa si rinviene anche nella manifestazione di Corropoli, incentrata appunto nella corsa che San Giovanni compie per le vie del paese per annunciare la Resurrezione di Cristo[40].
I giorni della Settimana Santa compresi tra il Venerdì e la Pasqua, sono rappresentati così simbolicamente da due modi d’incedere: al passo lento e faticoso dei processionanti e quindi delle statue, denominato a Sulmona “lo struscio”, simile a quello di una persona che procede con le catene ai piedi, subentra il passo agile e gioioso della corsa nel giorno di Pasqua. L’umanità redenta dal Cristo risorto, riprende così il suo cammino verso le imperscrutabili mete cui è stata destinata.
In Foto: La Processione del Venerdì Santo a Chieti lungo Corso Marrucino
[1] Cfr. A. De Nino, Usi e Costumi Abruzzesi, vol. II, p. 70 sgg., Firenze, Tip. G. Barbera, 1881.
[2] A Roccapia (Aq.), mentre la palma brucia, si recita il seguente sponsorio: “Palma mia benedetta / che viene una volta l’anno / dimmi se campo quest’anno”. Cfr. O. Leone, Roccapia, p. 257; Sulmona, Tip. Angeletti, 1977; W Cianciusi, Collelongo. Abruzzo Ulteriore II, p. 41 sgg., Collana “Storia e Documenti” diretta da G. Porto, Serie I, n. 4, Teramo, Edigrafital, 1972.
[3] Cfr. al riguardo A. De Nino, Usi Abruzzesi, vol. I, p. 39; Firenze, Tip. Barbera, 1879; D. Fucinese, Raiano. Notizie storiche e vita tradizionale, p. 130; L Aquila, Japadre Ed., 1971.
[4] Cfr. E. Jovenitti, Paganica attraverso i secoli, p. 526; Sulmona, Tip. Labor, 1973; W Cianciusi, op. cit. p. 41.
[5] Cfr. D. Fucinese, op. cit. p. 130; A. De Nino, Usi Abruzzesi, vol. I, cit., p. 39.
[6] Cfr. Wörterbuch der deutschen Volkskunde, s.v. Palmsonntag, a cura di R. e K. Beitl; Stoccarda, A. Kröner Verlag, 1974. Nella Domenica delle Palme si usa anche “pronosticare che tempo farà durante il periodo della mietitura. Si dice infatti Palma ‘mbosse, metetùre assùtte”, cfr. D. Fucinese, op. cit. p. 130 sgg.
[7] Vanno ricordate tuttavia le cosiddette “pulizie di Pasqua”, preposte, come sottolinea il Toschi, “non soltanto a spazzar via la polvere accumulatasi durante l’inverno; con esse, nella mentalità del popolo, se ne vanno da casa tutti i malanni”; cfr. P. Toschi, Tradizioni popolari italiane, p. 94; Roma, Ediz. Eri, 1959. Non si fanno tuttavia pulizie di Giovedì Santo, perché altrimenti “la polvere cade sopra Gesù Cristo”. Cfr. A. De Nino, Usi e costumi Abruzzesi, vol. II, cit., p. 209.
[8] A. De Nino, Usi Abruzzesi, vol. 1, cit. p. 174.
[9] G. Finamore, Credenze, usi e costumi abruzzesi, in “Curiosità popolari tradizionali”, a cura di G. Pitrè, vol. VII, p. 118; Palermo, Clausen Ed., 1890.
[10] Citiamo solo alcuni esempi. In una sacra rappresentazione del periodo pasquale che si allestiva a Pacentro (Aq.), Lazzaro non volle “risorgere” la mattina di Pasqua del 1925 perché in quel momento si era levato un forte vento e temendo per la propria salute, preferì restare nella bara [cfr. C. Tollis, Pacentro. Storia, Tradizione, p. 161, Sulmona Tip. La Moderna, 1979]; a Montechiaro d’Asti, riferisce il D’Ancona, i manigoldi che dovevano accompagnare Cristo al Calvario “pigliavano sul serio la loro parte e si infervoravano in essa. Anzi un anno menarono con tanto ardore le mani che il povero Cristo, deposto il cilicio, si mise a letto e si trovò pesto in così bel modo da ispirare qualche timore che non si potesse più rialzare”. Cfr. A. D’Ancona, Origini del teatro italiano, II Ediz., vol. II, p. 225; Torino, Loescher, 1891.
[11] Gli atti del Sinodo furono pubblicati nel 1633 per i tipi di Ottavio Terziani e Bartolomeo Pavese, “stampatori in Chieti”.
[12] Cfr. Synodus Diocesana ab Illustriss. ac Reverendiss. Domino D. Bonaventura Martinello Episcopo Valvensi ac Sulmonensi celebrata in Cathedrali Ecclesia Sancti Pamphili Sulmonis, Dominica Pentecostes ac sequentibus Festis anno 1715, p. 78, Roma 1717.
[13] Cfr. E. Bertaux, L’art dans I ‘Italie Meridionale de la fin de l’Empire Romain à la conquete de Charles d’Anjou, p. 201 sgg., Paris, Fontemoing, 1904.
[14] C.A. Mayer, Vita popolare a Napoli nell’età romantica, p. 243; Bari, Laterza, 1948.
[15] Cfr. G. Susi, Introdacqua nella storia e nella tradizione, p. 476; Sulmona, La Moderna, 1970. Va ricordato che sono definiti “quadri viventi” anche gli episodi della Natività interpretati da attori e messi in scena a Rivisondoli nella sera dell’Epifania.
[16] Le statue, come si legge nelle Constitutiones da papa Urbano VIII (n. 163), dovevano comunque rispondere a determinati requisiti e suscitare, grazie alla loro eccellente fattura artistica, forte commozione nei fedeli. In caso contrario dovevano essere interdette dai vescovi e sottratte all’adorazione dei devoti (“a fidelium aspectu arceantur”).
[17] Questa “uccisione simbolica” della vegetazione insita nella germinazione al buio dei cereali destinati ad ornare i sepolcri, è indice di antichissime sopravvivenze magico-religiose, confluite in seguito nei rituali di Pasqua. Si tratta probabilmente di una conferma dell’intuizione frazeriana, secondo la quale l’uccisione dello spirito della vegetazione in primavera rappresenta un rituale indispensabile per ottenere l’abbondanza delle messi. Questa concezione ben si innesta nel mistero della morte-resurrezione della Settimana Santa, fondamento del Cristianesimo. Cfr. J. G. Frazer, Il ramo d’oro, vol. I, p. 465 sgg., Torino, Boringhieri, 1973.
[18] P. Toschi, Le origini del teatro italiano, p. 691, Torino, Boringhieri, 1969.
[19] V. De Bartholomaeis, Origini della poesia drammatica italiana, sec. ed., p. 195 Torino, SEI, 1952.
[20] Cfr. G. Maria Monti, Le Confraternite medievali dell’Alta e Media Italia, vol. II, p.120; Venezia, La Nuova Italia, 1927.
[21] A. Di Vittorio, Gli Austriaci e il Regno di Napoli. 1707-1734. Ideologia e politica di sviluppo, p. 106; Napoli, Giannini, 1973. Il fenomeno va inquadrato, come ha sottolineato il Colapietra, nell’ambito di “una trasformazione sociale e di un movimento di cultura illuministico che nell’Abruzzo trova un terreno particolarmente fecondo” Cfr. R. Colapietra, Abruzzo. Un profilo storico, p. 115; Lanciano, Carabba, 1977.
[22] Il fenomeno è stato ben evidenziato dal Lalli, il quale sottolinea come il clero delle varie parrocchie, sedi di confraternite, non rimanesse estraneo a tali controversie. Cfr. R. Lalli, La Sagra dei Misteri a Campobasso, p. 14 e sgg., Campobasso, Nocera Ed., 1976. Nella stessa Cattedrale di S. Giustino a Chieti erano state istituite diverse confraternite fra le quali vanno annoverate particolarmente quelle dei sarti e dei calzolai. Cfr. al riguardo G. Meaolo, Venerdì Santo a Chieti, p. 41, Chieti, Solfanelli, 1986.
[23] E. Guidoni, L’ architettura popolare italiana, p. 114; Bari, Laterza, 1980.
[24] G. Meaolo, op. cit. p. 24.
[25] Cfr. M. Zuccarini, L’Arciconfraternita del Sacro Monte dei Morti di Chieti e la Processione del Venerdì Santo nella storia religiosa d’Abruzzo, p. 3 sgg. Chieti, 1977.
[26] G. Meaolo, op. cit. p. 12.
[27] Cfr. Parlamenti Teatini, Archivio di Stato, Chieti, sez. “Diplomatica”, voll. 1-18; la citazione è contenuta nel vol. IX, c. 90. I primi casi di peste furono registrati a Chieti il 4 agosto del 1656 ed a causa dell’epidemia perirono circa 1.500 persone. Cfr. L. Del Vecchio, La peste del 1656-57 in Abruzzo. Quadro storico, geografico, statistico, in “Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria”, annate 1976-78, p. 87 sgg., L Aquila 1979.
[28] Biblioteca Diocesana, Sulmona, Manoscritto, Editti Vescovili Mons. F Paini.
[29] Cfr. G. Meaolo, op. cit. p.37.
[30] P. Toschi, Le origini del teatro ecc., op. cit., p. 670 sgg.
[31] V. De Bartholomaeis, Il teatro abruzzese del medio evo, pagg. 344-45; Bologna, Zanichelli, 1924.
[32] Mauro P. Inguanez, Un dramma della Passione del secolo XII, sec. ediz., p. 7 e sgg., Badia di Montecassino 1939.
[33] V. De Bartholomaeis, Il teatro abruzzese ecc., op. cit., p. 345.
[34] Cfr. S. Razzi, Viaggi in Abruzzo, p. 22; L Aquila, Japadre, 1968, a cura di B. Carderi.
[35] Cfr. O. Mann, Deutsche Literaturgeschichte, p. 83 sgg., Guetersloh, Bertelsmann 1969.
[36] Cfr. P. Toschi, Tradizioni popolari ecc., op. cit., p.98. A tale credenza si ispira, come è noto, Giovanni Pascoli nella poesia dal titolo “Il morticino”.
[37] Si tratta probabilmente di un atto finalizzato a trasmettere sul corpo, mediante la “legge di contatto”, le forze della natura particolarmente vitali ed immunizzanti nel momento della Risurrezione.
[38] Vedasi al riguardo P. Toschi, Tradizioni popolari ecc., op. cit., p. 95.
[39] Cfr. al riguardo D. Fucinese, op. cit., p. 74.
[40] Cfr. F. Cercone, La Madonna che scappa in piazza a Sulmona, Sulmona, Accademia degli Agghiacciati 1982. Prefazione di A. Di Nola.
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