[Pubblicato in: AA. VV. “L’Abruzzo nell’Ottocento”, Istituto Nazionale Di Studi Crociani; Ediars, Chieti 1996]
di Franco Cercone
«Non è stato mai assalito li giù dai briganti? Questa fu la prima domanda – lo posso documentare con scrupolosità – che mi fu rivolta allorché raccontai di aver intrapreso un viaggio in Abruzzo».
Così inizia il capitolo dal titolo Drei Wochen in den Abruzzen inserito nel libro di viaggio di Alfred Steinitzer, “Aus dem unbekannten Italien” (L’Italia sconosciuta), pubblicato nel 1911, un viaggio compiuto tuttavia nella primavera del 1907 e finanziato interamente dal Deutschen Alpenklub[i].
Presso la sede di Monaco di Baviera lo Steinitzer svolse nel maggio del 1908 un dettagliato resoconto sugli aspetti storico-geografici della nostra regione e sull’ascensione del Gran Sasso da lui compiuta assieme ad una nota guida di Assergi. Si coglie dunque nel passo in precedenza riportato l’eco della persistenza, oltralpe di una psicosi legata al fenomeno del brigantaggio postunitario che ebbe modo di manifestarsi in tutti i territori dell’ex Regno di Napoli ed in particolar modo in Abruzzo, principalmente “in quella vasta terra di nessuno che da sempre è stata la montagna di frontiera tra il Regno di Napoli e lo stato ecclesiastico”[ii] .
Tuttavia, osserva il Monnier, il brigantaggio non fu storicamente una piaga esclusiva del tormentato decennio postunitario, poiché “in queste contrade vi furono sempre briganti. Aprite le istorie, e ne troverete sotto tutti i regni sotto tutte le dinastie, dai Saraceni e dai Normanni fino ai nostri giorni”[iii] Con la presa di Roma e la fine dello Stato della Chiesa, il fenomeno imboccò tuttavia ed inesorabilmente il suo Sunset Boulevard, anche se non sono pochi gli storici che vedono in certi tipi di azioni banditesche dei nostri giorni modalità esecutive che furono proprie del brigantaggio «non politico››.
Senza fissare lo sguardo in epoche lontane da noi, va ricordato che nell’ ultimo trentennio del XVII secolo la recrudescenza del brigantaggio fu così intensa da costringere nel 1764 il viceré d’Astorga ad inviare in Abruzzo ben cinque compagnie di fanteria spagnola, senza ottenere tuttavia vistosi risultati. La situazione migliorò alcuni anni dopo grazie anche alle incessanti pressioni degli armentari regnicoli e dello Stato della Chiesa, le cui greggi erano costantemente depredate dalle bande di briganti che infestavano l’aspro territorio dell’Appennino.
“Il viceré marchese del Carpio e papa Innocenzo XI – scrive il Colarossi Mancini – spedirono fanti, cavalleggeri e cannoni sotto il comando dello spagnolo Alonzo Torresano, che dié loro addosso e li cacciò da ogni luogo, finché i briganti si dettero a servire Venezia, che li adibì al recupero di Castelnuovo, della Morea e della Dalmazia. Così il regno, infestato dai banditi per 14 anni, ebbe pace e i locati abruzzesi, a titolo di riconoscenza, presentarono al viceré sei castrati carichi di quattromila ducati”.[iv]
Il passaggio di queste bande al servizio della Serenissima, specie quella capeggiata nel Teramano da Santuccio di Froscia, fu certamente frutto di accordi e perciò di scelte politiche ben precise. Tanto più che il citato episodio non costituisce a ben osservare un caso isolato, ma trova invece in Marco Sciarra un precedente per così dire illustre. Nel 1593 il famoso brigante, nativo secondo il Palma di Castiglione Messer Raimondo (Te), perì miseramente – dopo essere stato padrone incontrastato della Valle del Vomano ed aver esercitato terrore specie nell’Appennino centrale – per mano di uno dei suoi seguaci.[v] La masnada capeggiata dal “re della campagna” [vi] sembra che fosse costituita da circa 800 briganti, sicché è lecito supporre come da più parti si tentasse di legare al proprio servizio una tale massa di uomini in armi.
Scegliere una bandiera significava però crearsi automaticamente dei nemici, poiché, sottolinea il Monnier, “quando le bande erano troppo numerose e minacciavano di prendere una bandiera, il governo si risolveva a combatterle” [op. cit.].
Le incursioni dello Sciarra fino alle Puglie sono molto significative e lo qualificano, se ci è concessa l’espressione, come brigante transumante, nel senso che la sua attività era diretta di preferenza contro i ricchi proprietari di armenti, i quali, come classe egemone, potevano contare sull’aiuto degli apparati statuali o di potenti famiglie, radicate – come puntualizza il Colapietra – in “zone in sostanza anche giuridicamente sottratte all’autorità di Napoli” [Abruzzo… ecc, op. cit.].
Nella Weltanschauung popolare il brigante costituisce una figura idealizzata, sottratta con fantasia allo scenario economico e politico in cui egli agisce. In questa visione, cristallizzatasi fin da tempi remoti, il brigante si trasforma in difensore della giustizia sociale e degli umili, esigenza mai sopita presso i ceti rurali, e non di rado diventa un galantuomo dotato di spirito cavalleresco, che nutre particolare rispetto per artisti e letterati. “In Abruzzo – scriverà più tardi in epoca romantica Carl L. Frommel – il Popolo ammira il brigante ed odia il ladro”. [Pittoresksen Italien, Leipzig 1840]. Significativo è anche ciò che a S. Razzi raccontano e che puntualmente egli registra nel suo Viaggio in Abruzzo, [L’Aquila 1968]. A Chieuti, in prov. di Foggia, agiva “un certo famoso bandito, Colle di Caserta nominato, il quale assaliva chiunque passava, togliendo a chi avea di superfluo… e dando a chi non avea a sufficienza, e facea tenere un libro dell’entrata, et uno dell’uscita”.
Un brigante “ragioniere”, dunque, e pieno di spirito caritatevole che non a caso attrae l’attenzione di fra’ Serafino Razzi.
Nemmeno Marco Sciarra si sottrae a tale visione, che ha influenzato persino letterati come G. B. Manso a proposito del preteso incontro fra il “re della campagna” e Torquato Tasso, incontro che prima il Solerti e recentemente il Morelli hanno dimostrato, alla luce di documenti, frutto di immaginazione [vii].
La circostanza che figure possenti di briganti appaiano in declino nel corso di buona parte del XVIII secolo è senza dubbio sorprendente e lascia sorgere fondati interrogativi. Si ha l’impressione infatti che il fenomeno sia in relazione con il lento ma inesorabile declino dell’attività armentizia transumante, che secondo il Colarossi-Mancini inizia a verificarsi già dal 1712 con la cosiddetta professazione forzosa, cioè “l’obbligo di rivelare il numero degli animali posseduto da ciascun locato” [op. cit.], mentre in realtà, puntualizza il Colapietra, tale attività “viene sovvertita dalle grandi usurpazioni dell’individualismo agrario, dalla privatizzazione delle montagne e dei pascoli, dall’ingigantirsi delle aziende, risultati di una trasformazione sociale e di un movimento di cultura illuministico che nell’Abruzzo trova un terreno particolarmente fecondo” [Abruzzo…ecc. cit.]. Questa maggior attenzione verso l’agricoltura a danno dell’economia pastorale conduce poi nel 1806, ad opera di G. Bonaparte, all’affrancamento del Tavoliere pugliese, gradualmente sottoposto a coltura[viii].
La grande nemica degli stomaci vuoti, la regina Fame che alberga costantemente nei ceti umili, compare spesso nel XVIII secolo con l’abito da lei preferito: la carestia. E proprio a queste masse rurali e fameliche, a questi «Eredi» in senso Patiniano, molti dei quali – è da presumersi – viventi in uno status perenne di brigante per “furti in pubblico cammino”[ix] ed altri comuni reati, che si rivolge Ferdinando IV nel dicembre del 1798, mentre si accinge a lasciare Roma per rifugiarsi in Sicilia, incalzato dai tragici avvenimenti collegati all’invasione francese.
“Ricordatevi, miei cari Abruzzesi – si legge nel proclama di Ferdinando IV – che siete Sanniti ed avete sempre dato chiare riprove del vostro valore e della vostra fedeltà”. La strumentalizzazione dei ceti umili abruzzesi, di cui il monarca borbonico si ricorda solo nei momenti di pericolo, traluce in pieno in questo demagogico proclama, tanto più che ad organizzare le masse sanfediste contro la “borghesia intellettuale e proprietaria giacobina” provvede la classe armentaria ed aristocratica abruzzese, ben conscia dei pericoli cui andava incontro [R. Colapietra, Abruzzo… ecc, cit.].
D’altro canto, sottolinea il Monnier, “in tempi di crisi politiche il brigantaggio aumentava a dismisura, accogliendo la feccia delle popolazioni delle prigioni dischiuse, i vagabondi e i malfattori in gran quantità. E si vide quasi sempre il partito vinto servirsi di questi banditi a difesa della propria causa” [op. cit.].
Questo passo del Monnier, il quale dimentica che l’adesione alla causa borbonica costituiva comunque una scelta politica e l’occasione – anche per molti detenuti politici – di riacquistare una identità riscattando uno status di “illegalità”, meriterebbe molti commenti che ci porterebbero però oltre il quadro sintetico che ci siamo preposti di raffigurare.
Certo è comunque che strati sociali cui Ferdinando IV si rivolge con il famoso Proclama e considerati come “patrioti”, sono qualificati dai Francesi, prima sotto il regno di G. Bonaparte e dopo sotto quello del Murat, non come difensori della monarchia borbonica, ma come briganti. Basti riflettere a ciò che scrive Rémy D’Hauteroche, giovane ufficiale in servizio nel 1806 nel forte di Pescara: “Vers la fin du mois de septembre – si legge appunto nelle sue Memorie – toujours en l’année 1806, la tranquillité de la garnison de Pescara fut troublée. On apprit que les montagnes des environs étaient infestées d’insurgés, auxquels nous donnions le nom de brigands, nom d’ailleur très mérité”[x] . Non a caso la municipalità e dunque la classe egemone di Vasto conferisce nel 1810 a C. A. Manhés, generale di G. Murat, la cittadinanza onoraria per i suoi meriti di «distruttore di briganti». Ce lo ricorda una lapide affissa sulla facciata della chiesa di San Giuseppe, che sorge nel centro storico di questa bella città abruzzese.
Tuttavia, scrive la Macdonell, “né Manhés, né altri nella sua posizione, avrebbero potuto estirpare il brigantaggio per lungo tempo, in quanto esso era il sintomo di una malattia profonda e radicata che nessuna chirurgia militare avrebbe potuto curare”[xi]. Se, infatti, la repressione ottenne sensibili risultati nell’area frentana e nel Vastese, non altrettanto si può dire del Teramano, “devastato per tutto il decennio francese da un brigantaggio ininterrotto ed endemico, che sembra riprodurre le proporzioni del secondo Seicento, e che sostanzialmente dalla montagna minaccia ed assedia la grande proprietà liberale che è al controllo della Cosa Pubblica” [R. Colapietra, Abruzzo…, cit.].
Noi non sappiamo quanti di quei briganti al seguito del Cardinale Ruffo, liberati dalle carceri dove languivano per reati comuni assieme a uomini politici, abbiano continuato a percorrere la strada del banditismo dopo la fine dell’impero napoleonico e il ritorno dei Borboni a Napoli. È probabile tuttavia che molti di essi, scampati alle persecuzioni durante i regni di G. Bonaparte e G. Murat, si siano ritrovati ancora ai ceppi – perché ormai non più considerati «prodi Sanniti» – insieme a giacobini e liberali, verso i quali si scatenò la repressione dell’amministrazione borbonica.
Circa mezzo secolo dopo Francesco II, chiuso nella fortezza di Gaeta, era costretto a ricorrere ad un proclama non dissimile, in quanto a strumentalizzazione, da quello emanato dal suo bisnonno Ferdinando IV ed in cui faceva leva soprattutto sulla necessità di difendere, contro gli “usurpatori”, la famiglia e la religione.
La “fine di un regno” era tuttavia imminente e ad essa avrebbero fatto seguito tragici avvenimenti. La circostanza che ad accogliere Vittorio Emanuele II sul ponte del fiume Tronto fosse Pasquale De Virgilii, capo riconosciuto dei liberali teramani ed in seguito nominato «prodittatore» della prov. di Teramo, non deve trarre in inganno. L’area montuosa di questo territorio restava infatti realista e la fortezza di Civitella era ancora in mano dei borbonici. Riaffiorava pur nel mutato quadro socio-politico del momento l’antico dissidio, ricco di contrastanti interessi, fra montagna e pianura, fra ceti armentizi e latifondo, fra pastorizia ed agricoltura; e l’antica nobiltà, che aveva fondato la propria ricchezza sull’attività allevatoria, era stata sostituita dai nuovi ceti emergenti, costituiti da famiglie economicamente potenti e di stampo liberale.
Non staremo qui a ricordare i tentativi di noti personaggi quali Lagrange e Giorgi (di quest’ultimo si occupò anche A. Dumas nelle sue Impressions de voyage), operati al fine di sollevare nel dicembre del 1860 le province abruzzesi con una forza di circa 15.000 uomini, composta da soldati sbandati borbonici, contadini, preti e persino reparti di zuavi del Papa, arricchita da bande di briganti che operavano ancora nelle zone impervie dell’Appennino ed ingrossate da gruppi formati da detenuti liberati dalle carceri delle località messe a sacco, soprattutto nella Marsica e nel Cicolano.
Su scala ridotta si è verificato in Abruzzo, subito dopo il mese di settembre del 1860, ciò che era avvenuto – durante la marcia di Garibaldi verso Napoli – nelle Province Meridionali dell’ex regno: lì “le prigioni al suo passaggio erano state aperte; i detenuti avevano indossato la camicia rossa e proclamato il trionfatore” [M. Monnier, cit.]; qui i detenuti si trasformavano in «realisti» appena liberati dalle carceri messe a sacco. E non pochi erano quelli che attendevano la loro assoluzione ed un reinserimento nella legalità attraverso l’adesione ad una delle parti contendenti.
L’insurrezione realista scoppiò come è noto qualche giorno prima del Plebiscito del 21 ottobre 1860, con cui fu sancita l’adesione delle Province napoletane al Regno d’Italia. Quasi ad un segno prestabilito “i montanari di tutta la linea degli Appennini, che separano il Teramano dalla provincia di L’Aquila, si precipitarono nelle pianure” [M. Monnier, cit.], ma in realtà la reazione divampò fin dal 1° settembre in tutto l’Abruzzo e specie lungo la valle del Sangro.
Dalla deposizione del Sindaco di Castel di Sangro, Raffaele Grilli, sui fatti accaduti in questa cittadina fra il 1° ed il 4 settembre 1860 si apprende che, al canto del ritornello Jam ‘a spass’ a spass’/ Viva ru Re e ru popole bass’, “la reazione scoppiò d’improvviso e fu generale sorpresa, poiché la pubblica opinione qua riteneva come impossibile che il popolo di Castel di Sangro fosse reazionario…”[xii] .
La cospirazione borbonica, organizzata a Roma con la benedizione del Soglio di Pietro, è ben consapevole dell’importanza dell’area abruzzese-molisana. Qui, meglio che altrove, i tentativi insurrezionali potevano registrare maggiori successi grazie alla vicinanza con Roma e ad una labile linea di frontiera determinata da condizioni orografiche note solo a bande brigantesche.
Attrarre quest’ultime alla causa di Francesco II fu in un primo momento un compito demandato dagli esuli filo-borbonici a personaggi di spicco della fazione realista, come per es. i già ricordati Giorgi e Lagrange oppure quel famoso Borjès catturato a Tagliacozzo nel dicembre del 1861 ed ivi fucilato mentre tentava con i suoi di guadagnare la frontiera pontificia [xiii].
Una attenta lettura degli avvenimenti che vanno dall’autunno del 1860 fino all’anno seguente alimenta il sospetto che in tale periodo l’azione del clero realista e dei ceti socio-economici, che avevano perso
nel passaggio dal vecchio al nuovo regno molta parte della loro autorità e del loro potere politico, non ebbe pieno successo nel politicizzare le varie bande operanti nel territorio abruzzese. Un contributo per così dire indiretto ma decisivo scaturì dall’estensione della legislazione piemontese.
Soprattutto l’introduzione di nuove tasse e della leva obbligatoria furono fattori che crearono un “diffuso malcontento che diventa aperta e violenta ribellione” specialmente nei ceti rurali delle antiche province napoletane[xiv]. Sono quest’ultimi che vanno ad ingrossare – insieme a gruppi eterogenei formati anche da militari sbandati – le bande brigantesche, ormai legittimate nelle loro rapine. Come scrive il Monnier, costoro “non erano più ladri, ma partigiani” [op. cit.]. Insomma, come sottolinea il Colapietra, “l’Abruzzo è naturalmente la regione in cui le due componenti principali del brigantaggio, quella politica legittimista borbonica e quella sociale contadina autonoma, si intersecano più strettamente, almeno all’ indomani dell’Unità” [Abruzzo… cit.].
Certamente non intendiamo considerare esaustive poche pagine dedicate ad un problema di vasta complessità come quello del brigantaggio post-unitario, nel trattare il quale abbiamo taciuto sugli altrettanto complessi atteggiamenti dei liberali, del clero (vi erano non pochi preti «carbonari» e fondatori di vendite) e dei letterati. Significativo è il manifesto di A. De Nino affisso in data 1° ottobre 1860 a Sulmona e nel quale lo storico peligno inneggia a Vittorio Emanuele ed al “dittatore” Garibaldi.
Ciò che appare interessante è invece la dislocazione delle bande brigantesche sia nello scacchiere di confine con lo Stato della Chiesa che sul resto del territorio regionale.
Nell’area orientale della Maiella operano le bande di Angelo Camillo Colafella (che si definiva “Generale Comandante delle truppe di S. M. Francesco II”) e di Nunziato Mecola. Il Colafella, all’inizio della sua “carriera” per nulla fervente realista, si era distinto nei saccheggi di Caramanico, Salle, Musellaro e Sant’Eufemia, operati nell’ottobre del 1860 durante lo svolgimento del Plebiscito. Dalla deposizione resa in data 17 gennaio 1862 nelle carceri di Chieti e quindi dopo la sua cattura, emergono interessanti particolari sui contatti avuti da lui con Francesco II, prima a Gaeta e dopo a Roma[xv].
Mecola invece agisce a capo di masse di contadini nell’entroterra dell’area ortonese ed occupa al grido di “Viva Francesco II” Ari, Arielli, Canosa, Miglianico, Orsogna, Tollo ed altri centri. Catturato dopo uno scontro con reparti piemontesi e della Guardia Nazionale, finirà i suoi giorni nel bagno penale di Castelluccio (Genova) nel 1876. [Brigantaggio Ottocentesco, cit.].Prima della cattura il Mecola aveva abbandonato la sua area operativa per far parte del battaglione comandato dal Lagrange che agiva nel territorio di Nola.
Uno dei luogotenenti più risoluti della banda Mecola è Salvatore Scenna di Orsogna, che agisce spesso per veloci incursioni e saccheggi insieme ad un’altra nota banda, capeggiata da Domenico Di Sciascio di Guardiagrele. Non v’è praticamente un centro del basso corso del Sangro e dei territori posti sia a nord che a sud dell’area fluviale che non sia stato messo a sacco da queste bande, le quali colpivano per primi, e quindi di preferenza, gli archivi comunali (come ad Altino, Guardiagrele, Orsogna, Fossacesia, Guilmi ecc.) simboli odiati della monarchia sabauda. Vanno segnalati a tal riguardo altri episodi che appaiono significativi. Le bande di Pasquale Mancini e Luca Pastore avevano assalito il carcere di San Valentino e liberato i detenuti che seguirono i briganti sulla Maiella,
rifugio sicuro di molte bande brigantesche. Dopo aver messo a sacco Roccacaramanico, Luca Pastore trattenne per sé il boccone più prelibato; ed al grido di «Viva Francesco II» incendiò la Cancelleria di questo centro situato alle falde del Morrone, perché vi erano conservati, a suo giudizio, “molti documenti di debiti contro la povera gente”. In seguito il Pastore fu catturato dai bersaglieri a Peschio Canale sul Liri, mentre tentava di raggiungere il confine pontificio, e fucilato il 30 ottobre 1862 senza – come sembra – un regolare processo, che si concludeva in molti casi con pena tramutata in lavori forzati. È interessante notare come un compagno del Pastore, avendo “promesso di fare rilevazioni”, ebbe salva la vita [Brigantaggio Ottocentesco, cit.]. Un caso questo da ascrivere in sostanza al fenomeno odierno del “pentitismo”, tanto più che le varie Commissioni Provinciali istituite per la repressione del brigantaggio avevano cura di affiggere manifesti nei quali si promettevano somme di denaro “a chiunque procuri o faciliti l’arresto di briganti, loro complici e somministratori di viveri”.
Fra i «somministratori di viveri» vanno inclusi non solo parenti dei briganti e la vasta gamma di manutengoli, per lo più nobili e borghesi legittimisti, ma anche i contadini, che si recano quotidianamente ai campi spesso lontani dai centri abitati, e soprattutto i pastori. Quest’ultimi infatti sono direttamente esposti in alta montagna alle minacce dei briganti e si comprende pertanto come fra loro sorgessero per così dire dei patti taciti di non aggressione. I pastori infatti non sono proprietari delle gregge ed i briganti trovano in essi degli ottimi informatori sugli spostamenti delle forze di repressione ed altrettanto ottimi messaggeri che trasmettono agli armentari l’entità del ricatto. «Specialisti» in tale attività risultano altri due famosi briganti, Domenico Valerio, un contadino di Casoli soprannominato Cannone, e Croce di Tola, alias Crucitto, di Roccaraso.
Si può dire che Cannone, dopo una spettacolare fuga dal carcere, riesce ad organizzare una numerosa banda che terrorizza dal 1862 tutti i centri del Chietino fino al Trigno. Secondo alcune fonti egli esordisce come spietato esecutore di ordini nella banda di Strillo, alias Antonio Fauci, mugnaio di Lanciano, che dirige l’assalto alla «strada ferrata» il 17 e 18 luglio 1862 nei pressi di Fossacesia, dove fervevano i lavori di costruzione. Non si sa se dopo la cattura e fucilazione di Strillo, avvenuta mesi
dopo, Cannone assumesse il comando della numerosa banda, la quale poteva contare sull’appoggio di “manutengoli appartenenti alla nobiltà lancianese”. L’attacco alla ferrovia è molto significativo, perché questa costituiva un simbolo odiato della monarchia sabauda ed un mezzo veloce per lo spostamento delle forze di repressione piemontesi nelle province dell’ex regno di Napoli.
Sembra invece che i briganti non conoscessero l’importanza del telegrafo, “destinato a ridurre il servizio dei corrieri e delle guide”, la cui linea si iniziò ad estendere nell’Alto Sangro nel 1867 ad opera di un ufficiale piemontese del genio [U. D’Andrea, Il Brigantaggio dopo l’Unità, cit.].
Sul brigante Cannone sono sorti molti aneddoti, probabilmente arricchiti dalla letteratura popolare e dalla tradizione orale. Egli infatti non fu mai catturato e si diffusero solo voci sulla sua presunta morte, che sarebbe avvenuta nel 1868 a seguito di uno scontro a fuoco con reparti della Guardia Nazionale nei pressi della frontiera pontificia[xvi].
Sul Piano delle Cinque Miglia e nell’Alto Sangro agivano di preferenza le bande di Croce Tola e Nunzio Tamburrini, entrambi di Roccaraso[xvii], le quali non di rado si riunivano con altri gruppi operanti nel territorio di Agnone o di Forca d’Acero, che collega la Val Comino (e quindi la Ciociaria) con l’Alto Sangro. In questi due notissimi briganti, alla luce della deposizione fatta dal Di Tola subito dopo la sua cattura, sembra assente ogni componente politica nelle loro azioni delittuose, fra le quali primeggiano i ricatti nei confronti dei ricchi proprietari di greggi[xviii]. Va sottolineato a tal riguardo che “parlare di industria armentizia in riferimento al 1860-1870 significa alludere ai principali elementi che attraevano i briganti: ricchezza da emungere mediante ricatti, amicizia di pastori dalla quale derivavano ottime informazioni, trovarsi in posti alti per spiare i movimenti dei reparti antibrigantaggio e spostarsi al momento opportuno” [U. D’Andrea, Il Brigantaggio…ecc, cit.].
Questo spiega come lo scenario d’azione delle bande Tamburrino e Croce di Tola, spesso congiunte con altre operanti in aree limitrofe (come la banda Cannone), fosse costituito da quel vasto ed impervio territorio compreso fra il Circondario di Sulmona, l’Alto Sangro ed i monti Marsicani, dove d’estate i ceti armentari trasferivano le loro greggi per il pascolo.
Al fine di costituire una valida difesa contro questo brigantaggio transumante furono costruiti a partire all’incirca dal 1865 diversi blockhaus, cioè fortini in muratura o in legno per controllare meglio gli spostamenti delle bande.
Uno di questi, in località «Chiarano» presso il Piano delle Cinque Miglia, fu incendiato da Croce di Tola nel 1871, pochi mesi prima della sua cattura avvenuta nel luglio dello stesso anno (ad opera del leggendario brigadiere dei Carabinieri Chiaffredo Bergia) sul monte Pallottieri, che segna il confine fra i territori di Barrea e Castel di Sangro.
A riprova dell’interesse delle bande per le greggi che pascolavano d’estate sui rilievi montuosi, va sottolineato che il brigante Chiavone, il quale operava con la sua banda anche a Forca d’Acero per controllare i movimenti tra la Val Comino e l’Alto Sangro, venne in forte contrasto con Nunzio Tamburrino allorché tentò di trasferire la propria masnada sul Piano delle Cinque Miglia, considerato da quest’ultimo territorio di propria esclusiva competenza [U. D’Andrea, Il Brigantaggio…ecc, cit.].
Si deve probabilmente a tale circostanza che Chiavone, al secolo Luigi Alonzi di Veroli (Fr.), fosse costretto ad emigrare in un’altra area per le sue operazioni, quella posta fra Villavallelonga ed il medio corso del Liri, lungo la Valle Roveto, dove assorbì e mise al proprio servizio le bande di Vincenzo Mattei e di “Capoccia” che qui operavano preminentemente con grassazioni e ricatti contro famiglie
Armentarie. [L. PALOZZI, Storia di Villavallelonga, Roma 1982]
Non sappiamo se i tre siano venuti a contatto con la singolare figura di un altro brigante, Berardo Viola, il cui teatro d’azione era costituito dalla Marsica e dal Cicolano. Il Viola, pur appartenente alla Guardia Nazionale, imboccò come sembra la strada del brigantaggio dopo aver partecipato ad un’azione di repressione contro gli abitanti di Fiamignano, oggi in prov. di Rieti, che si erano ribellati
per le tristi condizioni economiche in cui versavano[xix] . Arrestato nel 1865, il Viola, pur condannato a morte, ebbe salva la vita per aver collaborato con le forze dell’ordine, e di lui ci parla anche I. Silone nel romanzo Fontamara.
Particolarmente grave si presenta dopo il settembre del 1860 la situazione nel teramano, specie nella Valle Castellana, anche dopo la resa della fortezza di Civitella del Tronto. Si tratta di un’area, sottolinea il Braccili, “i cui abitanti avevano una fede addirittura fanatica per i Borboni”, ma dove le cause del fenomeno del brigantaggio, puntualizza il Colapietra, “a parte le crescenti degenerazioni criminali, si debbono cercare in larga parte autonomamente rispetto alla restaurazione politica” [Abruzzo…, cit.]. La restaurazione appare dunque anche un pretesto per molti che commettono rapine ed omicidi e restano in attesa di amnistie e condoni; in essi, come scrive efficacemente il D’Andrea, “è forte la speranza nel bottino unita al guadagno del perdono”.
Ci limiteremo, secondo la linea fin qui seguita, a ricordare solo alcuni fra i più noti briganti che operarono nell’area intera del Gran Sasso e delle cui gesta ci parla anche Fedele Romani nel suo libro di ricordi “Da Colledara a Firenze” [Firenze 1915, pubblicazione postuma]. Va menzionato per primo quel Giovanni Piccioni che, scrive il Braccili, “aveva tutte le caratteristiche del capo e soprattutto era dotato di un grande spirito di organizzazione”. Le rapine, specie nei confronti dei proprietari d’armenti, e le feroci esecuzioni del Piccioni a danno di esponenti della Guardia Nazionale, si registrano già sul finire del 1860. Le sue incursioni suscitano terrore al pari degli attacchi fulminei e violenti condotti da un altro brigante, Berardo Stramenga, autore del tristemente famoso «Sacco di Campli» messo in atto nell’ottobre del 1860.
L’aspetto preminentemente filo-borbonico, che caratterizza le azioni delle bande brigantesche negli anni immediatamente seguenti al Plebiscito del 1860, svanisce, secondo alcuni Autori già dal 1863, in un orizzonte caratterizzato da mancanza di prospettive politiche.
Quando tale orizzonte non si colora di “diffuso malcontento che diventa aperta e violenta ribellione nel mondo contadino”[xx], esso rappresenta storicamente, come sottolinea il Colapietra, solo il proscenio di “crescenti degenerazioni criminali”.
Una zona particolarmente rischiosa per i viandanti era costituita dal Passo delle Capannelle, teatro delle azioni di briganti quali Andrea Andreani e Giuseppe Palombieri vere “primule rosse” che si spostavano con celerità nell’agro di Campotosto e nel Cicolano, quest’ultimo un territorio “cuscinetto” senza dubbio strategico, perché permetteva in breve tempo di sconfinare nello Stato della Chiesa. L’Andreani, ci informa ancora il Braccili, fu catturato a Campotosto l’8 novembre del 1867 dal vice brigadiere Chiaffredo Bergia e stessa sorte subì il Palombieri nel gennaio dell’anno dopo. La fama del valoroso carabiniere è legata come è noto alla cattura del brigante Croce di Tola, avvenuta il 29 luglio del 1871 sul monte Pallottieri. Si tratta di un episodio che merita, a mo’ di chiusura, qualche riflessione. ll Molfese infatti scrive nella sua nota Storia del brigantaggio [Milano 1964.]che “nel gennaio del 1870 vennero soppresse le zone militari nelle province meridionali, segnando così la fine ufficiale della repressione militare del brigantaggio”.
In realtà il fenomeno, come dimostra l’episodio della cattura di Croce di Tola, persiste per tutto il 1871 nelle aree montuose soggette al pascolo estivo e rappresentanti una preoccupazione costante per le Autorità. Una lettera del Prefetto di Chieti, datata 17 agosto 1871, chiarisce bene questo clima gettando non poche luci sugli ultimi episodi del brigantaggio non politico. Scrive infatti il Regio Prefetto: “Sebbene dopo l’arresto del capobanda Croce di Tola parrebbe che fosse cessato il bisogno di mantenere in Palena un nucleo di forza, pure quel Sindaco fa premure… che i carabinieri rimangano almeno fino alla metà del prossimo ottobre, epoca in cui in quei luoghi vanno via gli armenti e così pure i malviventi” [V. Orsini, Campo di Giove, Sulmona 1970].
Gli ultimi bagliori del brigantaggio vengono così a spegnersi proprio sui monti d’Abruzzo in coincidenza con il declino della pastorizia. Ma ciò rappresenta forse solo la cornice di un vasto e complesso fenomeno che, a nostro avviso, attende ancora importanti pagine di storia finora non scritte.
[i]Il capitolodell’opera, Drei Wochen in den Abruzzen (“Tre settimane in Abruzzo”) è stato da me tradotto e pubblicato a Sulmona nel 1977 per i tipi della casa ed. La Moderna.
[ii] R. COLAPIETRA, introduzione al volume di G. Morelli, Il brigante Giulio Pezzolla del Borghetto e il suo «Memoriale» (1598-1673), Roma 1982.
[iii]M. MONNIER, Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle province napoletane dai tempi di fra’ Diavolo sino ai giorni nostri, ristampa anastatica dell’Ediz. di Firenze, 1862, a cura di A. Polla Editore, Cerchio 1986.
[iv]A. COLAROSSI-MANCINI, Storia di Scanno e guida nella valle del Sagittario, L’Aquila 1921; N. PALMA, Storia ecclesiastica e civile della Regione più settentrionale del Regno di Napoli ecc., vol. III, Teramo 1833.
[v]La bibliografia su Marco Sciarra è molto folta. Oltre all’opera citata di N. Palma, vol. III, vedasi anche G. CELIDONIO, Marco di Sciarra nelle contrade peligne, in «Bullettino della R. Deputazione Abruzzese di Storia Patria», 1905; R. COLAPIETRA, Abruzzo. Un profilo storico, Lanciano 1977; L. BRACCILI, Briganti d’Abruzzo, Roma 1988; G. MORELLI, Contributi ad una storia del brigantaggio durante il vicereame spagnolo, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», an. 1968-69,1971.
[vi]Tale appellativo sarà in seguito appannaggio di un altro famoso brigante, Basso Torneo o Basso Tomeo (il nome è riportato nei due modi dal Monnier), particolarmente attivo con la sua banda durante il regno di G. Bonaparte e G. Murat nell’area del Trigno. Vedasi al riguardo anche A. MACDONELL, Negli Abruzzi, traduzione dell’edizione inglese (Londra 1908), a cura di G. Taurisani, Sulmona 1991.
[vii] Cfr. G. B. MANSO, Vita di Torquato Tasso, Venezia 1621; A. SOLERTI, Vita del Tasso, Roma 1895; C. GUASTI, Lettere di Torquato Tasso. Disposte per ordine di tempo ed illustrate, Napoli 1857; G. MORELLI, Contributi ad una storia del brigantaggio, cit.; A. MACDONELL, Negli Abruzzi, cit.
[viii]In seguito vi furono petizioni inviate a Napoli ed intese ad ottenere lo smembramento dei tratturi in appezzamenti da assegnare ai nuclei familiari indigenti. Cfr. F. CERCONE, Agricoltura e pastorizia a Pettorano sul Gizio in un documento del 1859, «Rivista Abruzzese», N. 1, Lanciano 1985.
[ix]U. D’ANDREA, Gli avvenimenti dal 1791 al 1806 nelle Valli dell’Alto Sangro e del Sagittario ed in alcune zone della Marsica e della Conca peligna, Casamari 1974.
[x] R. D’HAUTEROCHE, La vie militaire en Italie sous le Premier Empire (1806-1809), opera pubblicata postuma. Il brano è riportato in «Atti del Terzo Convegno Viaggiatori Europei negli Abruzzi e Molise», Teramo 1976.
[xi]A. MACDONELL, cít. Nel decennio francese fu sistemata a Chieti, fuori Porta Napoli, una ghigliottina che continuò a funzionare fino al 7 aprile 1853, data in cui salì al patibolo il brigante Antonio Salvatore di Lanciano. Cfr. M. T. PICCIOLI OBLETTER, Le vicende storiche della ghigliottina di Chieti, “Rivista Abruzzese” N.1, Lanciano 1986.
[xii]Cfr. Abruzzo, Montagne e briganti, a cura di M. DI CESARE e S. FERRARI, Ari 1994; Archivio di Stato, L’Aquila, Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali; V. BALZANO, La vita di un Comune del reame. Castel di Sangro, Pescara 1942; U. D’ANDREA, Il brigantaggio dopo l’Unità nell’Alta valle del Sangro e nell’Alto Volturno (1860-1871), Casamari 1992.
[xiii]Cfr. A. ALBONICO, La mobilitazione legittimista contro il Regno d’Italia, Milano 1979. Del notissimo Diario di José Borjès siamo riusciti a consultare una edizione completa dal titolo La mia vita tra i briganti, Lacaita Ed., Manduria 1964. T. Pedio, che ne è il curatore, mette in risalto “le inesattezze” che si riscontrano in quegli appunti di Marc Monnier, pubblicati per la prima volta nella loro traduzione italiana con il titolo Notizie storiche documentate sul Brigantaggio nelle Provincie napoletane dai tempi di fra’ Diavolo sino ai nostri giorni, editi in Firenze nel 1862, per i tipi dell’Ed. Barbera.
[xiv]. Cfr. Brigantaggio ottocentesco in Abruzzo, Presentazione di C. VIGGIANI, Ari 1985, a cura dell’Archivio di Stato, Chieti; cfr. anche Abruzzo. Montagne e briganti, cit.
[xv]Cfr. Brigantaggio ottocentesco, op. cit.; L. BRACCILI, Briganti d’Abruzzo, Roma 1988.
[xvi]Cfr. Brigantaggio Ottocentesco, cit.; L. BRACCILI, Briganti d’Abruzzo, cit. La «Guardia Nazionale Mobile» fu istituita il 14 dicembre 1860 per la tutela dell’ordine pubblico e la lotta al brigantaggio.
[xvii]Nunzio Tamburrini, nei documenti processuali riportato come Tamburrino o Tamborrino, va distinto dall’ altro brigante di Introdacqua Giuseppe Tamburrini. Cfr. G. SUSI, Introdacqua nella storia e nella tradizione, Sulmona 1970. Il Braccili parla di un altro brigante di Roccaraso, Vincenzo Tamburini, di cui non siamo riusciti a reperire notizie. Cfr. L. BRACCILI, op. cit.
[xviii]Cfr. Abruzzo. Montagne e briganti, cit. Particolarmente colpita dalle estorsioni di Croce di Tola, che sapeva scrivere, fu la famiglia Patini di Castel di Sangro, proprietaria di molti capi d’ovini.
[xix]L’istituzione della prov. di Rieti, avvenuta nel 1927 con l’assorbimento di molti centri dell’Aquilano, ha indotto in errori di distrazione non pochi studiosi di Abruzzesistica. Ritenevamo per es., in una nota apposta al citato volume della Macdonell da noi curato, che Rocca di Corno non fosse una località dell’Abruzzo, come scrive appunto l’Autrice inglese. Si tratta invece di un paese che prima del 1927 e quindi anche all’epoca in cui l’Autrice scriveva (1907) faceva parte dell’Abruzzo.
[xx]Cfr. Brigantaggio Ottocentesco, cit. Il problema appare pertanto più complesso rispetto alle tesi di Bianco di Saint-Joroz che divide, forse troppo rigidamente, il fenomeno in due periodi, nel primo del quale avrebbe prevalso il movente politico e nel secondo la delinquenza comune. Cfr. A. BLANCO DI SAINT-JOROZ, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863, Milano 1864.
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