Il quadro storico di un problema di antropologia alimentare
[Contributo di F. Cercone pubblicato in tre parti nella “Rivista Abruzzese” di Lanciano ai numeri: N. 2, N. 4 / 2003 e N. 1 /2004 ]
di Franco Cercone
Il presente lavoro, cui attendevamo pazientemente da qualche anno, doveva veder la luce secondo le nostre iniziali intenzioni dopo ulteriori indagini sul singolare strumento detto appunto chitarra, diventato nel corso del Novecento quasi un simbolo della gastronomia tradizionale abruzzese e della stessa Regione Abruzzo.
La sua pubblicazione è stata tuttavia accelerata dalla conoscenza delle Opere poetiche di Giulio Cesare Cortese (1597-1626 circa)[1], un singolare poeta che scrive in “lingua napoletana” e di cui tesse gli elogi B. Croce nel commento al Pentamerone del Basile, nonché di alcuni articoli e saggi apparsi proprio di recente su tale argomento, che riveste notevole interesse storico-gastronomico per la nostra Regione[2].
I risultati delle nostre ricerche sull’evoluzione degli attrezzi “per far maccaroni”, da considerarsi precursori della attuale chitarra, sembrano confermare che come per altri fatti culturali ci troviamo di fronte ad una poligenesi e dunque ad una evoluzione storica di tali “congegni” non solo nelle varie realtà regionali italiane, ma anche in Francia, grazie all’introduzione oltralpe dei macaroni – è lo stesso Alessandro Dumas a dircelo – “quando Caterina De’Medici venne a sposare Enrico II” [Dictionnaire de Cuisine, Paris 1965].
Se tuttavia, allo stato attuale delle nostre conoscenze, il termine pizza appare per la prima volta nel famoso Codex Cajetanus del 997 ed in area abruzzese in un documento del 1201 pubblicato dal Faraglia[3], lo stesso primato deve essere accordato agli antenati dei maccheroni, cioè i cosiddetti vermicelli, grazie ad una sorprendente notizia del geografo arabo Idrisi risalente alla metà circa del XII secolo e contenuta nel suo noto Libro di Ruggero, di recente ristampa. Scrive Idrisi, parlando del territorio posto “a levante di Palermo” che qui “vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini, con una bella pianura e vasti poderi nei quali si fabbricano vermicelli in tale quantità da approvvigionare oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono consistenti carichi”[4].
Il Rizzitano, noto arabista e traduttore del testo di Idrisi, aggiunge in nota che il termine vermicelli “si dice in arabo itriya ed è rimasto nel dialetto siciliano”. È questa una precisazione non di poco conto, perché – come apprendiamo da M. Montanari – “Il libro della cucina, scritto da un anonimo toscano del XIV secolo, segnala una tria genovese per li infermi, ricetta semplicissima, dove la pasta (tale dev’essere il significato di tria, termine di probabile ascendenza araba indicante appunto il manufatto di semola) viene fatta bollire in latte di mandorla, salata e servita”[5].
Ci troviamo così per quanto riguarda il prodotto, cioè i vermicelli, di fronte al fenomeno opposto all’evoluzione autonoma degli attrezzi per pasta e dunque ad una “monogenesi” e conseguente diffusione delle tecniche di produzione delle tria, dalla Sicilia verso i “territori musulmani e cristiani”, come sottolinea appunto Idrisi nel brano riportato. E per tali territori bisogna intendere oltre a quelli che si affacciano sul bacino medio-orientale del Mediterraneo, anche le coste settentrionali dell’Africa e buona parte della Penisola Iberica.
I particolari rapporti fra le Repubbliche Marinare, soprattutto Genova, con la Sicilia normanna, sono alla base di proficui scambi commerciali e tecnologici. Come si è visto, Idrisi non ci dice se i vermicelli – che comunque dovevano risultare essiccati per la conservazione e trasporto – si ottenessero con l’impiego di un pur rudimentale attrezzo. Certo è che egli compone il Libro di Ruggero nella prima metà del XII secolo e già in quello successivo le itriye tradotte come vermicelli, ma forse nome di diverse paste alimentari, compaiono con altre designazioni nel Compendium de Naturis et Proprietatibus alimentorum, redatto nel 1338 da Mastro Barnaba de Riatinis, di Reggio Emilia, dove a proposito della pasta alimentare , indicata col nome generico di tria, è detto ( foglio 44 a ) che questa vulgariter habet diversa nomina, essendo chiamata “a quibusdam vermicelli, ut a thuscis, a quibusdam orati, ut a bononiensis, a quibusdam minutelli, ut a venetis, a quibusdam fermentini, ut a regiensibus, et a quibusdam pancardelle, ut a mantuanis”[6].
Il Compendium di Mastro Barnaba non registra nella prima metà del XIV secolo la diffusione del termine maccheroni in Toscana, documentata invece dal Boccaccio nel Decamerone, composto com’è noto nel periodo 1349-1353, e propriamente nella terza novella dell’Ottava Giornata, dove -come sottolineano i primi commentatori a proposito del mitico paese di “Bengodi”, da Calandrino posto più là che Abruzzi – i “maccheroni” erano in realtà gnocchi lunghi, affusolati e di piccolo spessore[7], dunque vermicelli, come registra per la Toscana Mastro Barnaba.
Inoltre, sottolinea G. Alessio [op.cit.], della parola maccheroni “non vi è traccia alcuna nel Glossario Latino-Italiano e nel Glossario Latino-Emiliano del Sella, che comprendono lo sfoglio di documenti dello Stato della Chiesa, del Veneto, degli Abruzzi, e dell’Emilia, il che fa pensare che in tali regioni le paste alimentari avessero nel passato altro nome.
Dove invece la parola “maccheroni” compare per la prima volta [8], almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze, è in un Atto notarile genovese, esattamente del 4 febbraio 1279, nel quale è menzionata “Barixella una plena de maccaronis”. [ Il documento si rinviene citato nell’Opera di G. Rossi, Glossario medievale ligure (appendice), Torino 1908].
Nel commentare questo fondamentale documento il Sereni rileva che il termine “sembra impiegato non per indicare gli gnocchi, ma nel senso moderno di pasta alimentare allungata e forata, suscettibile di lunga conservazione”[9]
Questa vivacità, se non inventiva dei pastai genovesi, è confermata secondo il Montanari dalla circostanza che alcuni documenti della metà del XIV secolo attestano la presenza sulle navi genovesi di mastri lasagnari, “segno questo che la pasta era entrata a far parte della normale razione alimentare degli equipaggi” [op. cit.].
Attenendoci alla documentazione della voce maccheroni, ricordata per la prima volta nel citato atto notarile di Genova del 1279, “si sarebbe portati a concludere – rileva l’Alessio – che i maccheroni si diffusero nella seconda metà del XIII secolo da Genova e raggiunsero nella prima metà del XIV secolo la Toscana e la Sicilia e solo agli inizi del XVI secolo Napoli. Ma le cose stanno ben diversamente”[10], come avremo modo di osservare in seguito, perché l’area di irraggiamento del termine maccheroni è costituita proprio dai territori dell’antica Magna Grecia, spesso etichettati semplicemente come “area siciliana”. Qui forse, già all’epoca di Idrisi, i pastai arabi avevano brevettato un metodo per così dire rivoluzionario, la bucatura delle itriya (o “vermicelli”) per favorirne meglio l’essiccazione e la conservazione. Non a caso infatti Mastro Martino, nel suo Libro di arte coquinaria (metà XV secolo), intende per maccheroni sia “strisce di pasta tagliata larga un dito piccolo” che una pasta “bucata nel senso della lunghezza”, forma che si ottiene “modellando dei piccoli rotoli di pasta all’interno dei quali si fa passare un ferro per tutta la sua lunghezza”. Con questo procedimento si ottengono quelli che Martino chiama “maccheroni alla siciliana”[11], a proposito dei quali il Montanari osserva che “la loro produzione era già a quel tempo affidata a degli specialisti” [op. cit.].
Fra quest’ultimi nel corso del XV e XVI secolo vanno annoverati anche i Conventi e certamente prodotti in un Cenobio erano i “maccheroni col formaggio parmigiano” offerti il 23 maggio 1577 a Fra’ Serafino Razzi dai monaci di Cassino[12] , mentre A. Cirillo-Mastrocinque ci ricorda alla luce di molti documenti che “nelle grandi cucine dei monasteri napoletani si lavoravano nel XVII secolo e si rivendevano lasagne, tagliolini, pappardelle e casatielli” [op. cit.].
Allo stato attuale delle nostre conoscenze ci troviamo così di fronte ad una paradossale situazione, che potrà essere chiarita solo a seguito di nuove fonti archivistiche: abbiamo cioè, come sottolineano alcuni autori in precedenza citati, la certezza – a partire dal ‘400 – della produzione di maccheroni, “lunghi e forati” ed “adatti a lunga conservazione” [L. Sada, op. cit.], ma non notizie in merito agli attrezzi con cui venivano ottenuti.
E l’orizzonte d’indagine, pieno di incertezze, non comprende – come erroneamente è stato fatto finora – solo il mosaico delle realtà italiane, ma gli ambienti di corte francesi all’indomani dell’arrivo di Caterina dei Medici in Francia, ed anche il mondo arabo, a conferma, come sottolinea l’Aubaile-Sallenave, “de la varieté des cultures de ce vaste bassin méditerranéen”[13].
È probabile che, a differenza degli ambienti di corte, nel mondo rurale meridionale fosse diffuso nei secoli passati un singolare strumento per ottenere maccheroni, assai in auge soprattutto in Cilento ma sconosciuto, per quanto ci risulta, in Abruzzo. In quell’area del Salernitano si ottenevano particolari “fusilli” mediante un ferro quadrato attorno al quale si avvolgevano strofinando abilmente con le mani in senso orario ed antiorario delle strisce sottili di pasta, larghe all’incirca 3-4 cm. e lunghe a piacere[14].
Questi particolari fusilli, lasciati asciugare sopra delle spianatoie, potevano conservarsi per alcuni giorni e risultavano di particolare bontà con i vari condimenti, perché la salsa veniva trattenuta nelle spire della pasta attorcigliata, una forma questa che sarà esaltata in seguito dall’introduzione del pomodoro in cucina[15].
Al di fuori di questo rudimentale strumento, dalle mie informatrici salernitane ritenuto di antica origine, le fonti storico-letterarie non ci hanno tramandato fino al XVI secolo nomi o descrizioni di attrezzi per far maccaroni , a meno che ad essi non si voglia ascrivere anche il “ferro” di cui parla il Maestro Martino e che si faceva passare attraverso i rotoli lunghi di pasta per forarli ed ottenere così i particolari “maccheroni alla siciliana”, simili per forma agli gnocchi, un binomio che si è protratto semanticamente fino a tempi non lontani da noi. Agli inizi dell’800 il Placucci scrive infatti nei suoi “Usi e pregiudizj de’contadini della Romagna” che in occasione della nascita di un bimbo “il pranzo sarà di gnocchi, ossiano maccheroni, s’è maschio; e s’è femmina di lasagne”[16].
Probabilmente la separazione concettuale fra gnocchi e maccheroni, come è intesa nei nostri giorni, si verifica nell’utimo decennio del XVIII secolo e soprattutto con la pubblicazione da parte di Vincenzo Corrado del “Trattato delle patate” (Napoli 1798), in cui appaiono codificati sia la ricetta patate in gnocchi che l’uso di mescolare farina di grano e patate nella panificazione[17].
Va rilevato che ancora nell’Inchiesta Iacini, i cui atti furono pubblicati nel periodo 1880-85, emergono dati impressionanti sull’alimentazione dei ceti sociali indigenti, a base per lo più di formentone, mentre nell’impasto casalingo per gnocchi e maccheroni solo di rado veniva impiegata farina di grano. I cereali usati da questi ceti erano di norma il miglio, l’orzo, il farro e soprattutto la segala, nella quale si sviluppava un fungo ritenuto causa dell’ergotismo cancrenoso o “fuoco di Sant’Antonio”, una devastante cancrena che causava la perdita degli arti inferiori e superiori[18]. Questi cereali erano impiegati anche nella panificazione e specie nei paesi dell’area della Maiella è tuttora viva l’espressione “l’hanno messo a pane bianco”, per indicare una persona moribonda cui veniva somministrato un po’ di pane bianco per soddisfare, quale lugubre viatico, un desiderio rimasto spesso inappagato per tutta la sua vita.
È arrivato tuttavia il momento, dopo il quadro storico generale descritto in precedenza, di entrare nel vivo del problema analizzando i risultati cui sono pervenuti i linguisti nella spiegazione della parola maccheroni, strettamente legata alla chitarra, risultati che possono essere ritenuti decisamente sorprendenti.
Sull’origine del nome maccheroni, “cibo dei morti”.
Quella che non è più una supposizione, la diffusione cioè dei maccheroni e vermicelli non solo da ambienti arabi e siciliani, ma anche da quell’area geografica più ampia corrispondente alla Magna Grecia, viene riaffermata dalla Diodato, la quale sottolinea che “uscita dalle cucine di ricchi privati siciliani, che perpetravano una tradizione araba, la produzione della pasta trova già nel XII secolo i suoi artigiani nelle città della grande isola. A metà del XII secolo alcuni produttori di paste alimentari si sono installati a Napoli, altri aprono botteghe in numerose città liguri”[19].
Quest’ultima affermazione va presa tuttavia, in assenza di fonti sicure, con molta cautela, alla luce soprattutto di un fondamentale studio sull’argomento per lo più sconosciuto agli studiosi di storia della gastronomia. Alludiamo al già citato saggio di Giovanni Alessio dal titolo Storia linguistica di un antico cibo rituale: i maccheroni.
L’illustre linguista, passato a miglior vita alcuni anni fa, ci offre l’etimologia della parola maccheroni con una rigorosa impostazione storico-linguistica, da considerarsi oggi esemplare e fondamentale per ogni ricerca sull’argomento, i cui risultati possono essere sintetizzati come segue, avvertendo però che si rimanda alla lettura del saggio citato per ogni altro aspetto storiografico da noi non trattato in tale sede.
Si è detto in precedenza che la più antica documentazione della parola maccheroni appare in un atto notarile genovese del 4 febbraio 1279, nel quale è menzionata barixella una plena de maccaronis. Alla luce di tale documento, sottolinea l’Alessio, “si sarebbe portati a concludere che i maccheroni si diffusero nella seconda metà del XIII secolo da Genova e raggiunsero nella prima metà del XIV sec. La Toscana e la Sicilia e solo agli inizi del XVI sec. Napoli”. Ma, avverte l’Alessio, “le cose stanno ben diversamente”.
Infatti alcuni studiosi, come per es. V. De Bartholomeis, avevano invano richiamato l’attenzione dei ricercatori sul soprannome Mackarone, assente nei documenti coevi dello Stato della Chiesa e degli Abruzzi, ma presente in alcune carte della prima metà dell’XI sec. soprattutto nel Salernitano e nell’antico “territorio della Magna Grecia”.
Quello che nelle suddette aree era evidentemente un “nomignolo”, comunque significativo, appare in Sicilia un vero e proprio nome. Di conseguenza, scrive l’Alessio, “questi dati rendono legittima la ipotesi che la patria dei maccheroni vada ricercata nella Magna Grecia piuttosto che nella Liguria”.
Pertanto “nulla vieta di pensare che a Genova i macheroni siano stati introdotti proprio dalla Sicilia”, dato che i rapporti fra la Repubblica marinara e l’isola furono particolarmente intensi durante la dominazione normanna. Questa ipotesi, sottolinea l’Alessio, “prende maggior consistenza se consideriamo che più tardi da Genova si diffonde anche il nome di fidelli o fedelini… dal greco moderno fides, ma di origine araba, cui corrisponde la tria della Sicilia, che risale all’arabo al-itriya”. Tale voce è documentata dal IX sec. ed indicava “un manufatto di semola, che veniva preparato come un tessuto di stuoie che veniva di poi seccato e cotto, ed è ancor viva nelle parlate arabe per designare una specie di vermicelli. La voce, che l’arabo ha in comune con l’aramaico e con il siriaco, è un prestito dal greco itria”, termine presente come si è visto nel testo di Idrisi dal quale apprendiamo che “la Sicilia era già nel secolo XII un centro di esportazione di pasta, chiamata itriya, in tutto il bacino del Mediterraneo. C’è da scommettere, come sottolineano S. Serventi e F. Sabban (ivi p.41), che si trattasse proprio di pasta del tipo vermicelli.
Una scommessa, questa, vinta in partenza, avrebbe rilevato l’Alessio, perché nel famoso dizionario arabo del persiano al-Firuzabadi (XIV sec.) l’itriya è definito un “piatto di pasta filiforme”.
Da quale voce, si chiede l’Alessio, derivano sia il soprannome che il nome mackarone presenti nei documenti siciliani e del Salernitano dell’XI e XII secolo citati, che si presentano su un piano sincronico e differente rispetto a quello delle tria o itriya per indicare comunque “paste filiformi”? Ricollegandosi ad una intuizione, definita “mirabile”, dello storico e linguista francese Gilles Ménage (1613-1692), Giovanni Alessio perviene dopo ulteriori riscontri filologici alla eliminazione di ogni dubbio sulla vexata quaestio: la parola maccheroni deriva dal “greco tardo makarìa, cioè “cena funebre”, termine a sua volta collegato al sostantivo makàrioi che significa “i beati, i morti”. Si tratta dunque di “una formula di buon augurio a favore del morto, pronunziata da ogni convitato al pasto funebre, una sopravvivenza rituale del perideipnon che nell’antica Grecia seguiva il seppellimento e che tutt’ora si pratica nei paesi di rito bizantino con il nome di makarìa:
makarìa e mneme tou kekoiménou”,
cioè buona cena funebre in ricordo di chi giace (dunque del morto).
Alla “cena funebre” fatta in comune – prosegue l’Alessio – fu più tardi sostituito il pranzo che dai vicini si manda nella casa di un defunto nei primi giorni dopo la morte, noto in Abruzzo con i termini cònzele o recùnzele. Il termine tardo-greco makarìa diventa successivamente nel “latino regionale” dell’area della Magna Grecia macario-onis ed è in rapporto con il “grecismo regionale maccum”, nel senso di puls fabata, cioè una sorta di polenta a base di fave da cui deriva l’italiano macco, “vivanda grossa di fave sgusciate, cotte nell’acqua e ridotte come in pasta”.
Ci sembra molto probabile, prosegue l’Alessio, dato che le due voci appaiono originariamente diffuse nella stesa area, cioè nella Magna Grecia, che maccum possa essere una forma ipocoristica, con geminazione espressiva, del ricostruito macario e che da una contaminazione delle due voci, passate più tardi ad indicare cibi differenti, si possa spiegare l’ageminazione che vediamo in maccheroni”.
Si focalizza così il valore semantico insito nella fusione delle due parole maccum-makàrioi (puls fabata – morti) cioè “polenta di fave in onore dei morti”, che ci restituiscono a distanza di secoli il significato originario di maccheroni come cibo rituale nei banchetti funebri in onore del defunto.
Infine – sottolinea l’Alessio – va ricordato che da maccum derivano le voci dialettali tuttora in uso nel Mezzogiorno ed in Abruzzo: macche oppure màcchene, nel senso di “polenta molto dura”.
A Cansano, Campo di Giove, e Pacentro, lu màcchene viene tagliato a fette, data la sua durezza, con uno spago o filo di ferro. Forse non a caso nei paesi sopra citati gli spaghetti sono tuttora chiamati la pasta delle nozze e d’altro canto costituiscono il primo piatto preparato dalla famiglia del compare (lu San Giuanne) dopo la fine delle esequie.
Il Cinquecento e l’Opera di Bartolomeo Scappi.
È nel corso del XVI secolo che abbiamo notizie precise su alcuni attrezzi “per far maccaroni”, in uso prima nelle cucine di corte, nobiliari o di alti prelati e dopo discesi, come tanti altri fatti culturali, nel variegato mondo subalterno tramite gli stessi scalchi, sottoscalchi, trincianti, inservienti ecc., tutti di modesta estrazione sociale.
Non mancano casi opposti perché da sempre l’arte della cucina ha affascinato persone a prescindere dal ceto di appartenenza. È il caso per es. del nobile ferrarese Cristoforo Messisburgo, autore della nota opera culinaria Compendi pubblicata nel 1549. Egli è un gentiluomo diventato scalco ducale per soddisfare le complesse esigenze di corte che si accompagnano ai “servizi di credenza e di cucina”, quali danze, musica, giochi ecc. destinati a rallegrare i commensali al pari della bontà delle vivande servite.
La presenza presso la Biblioteca del Convento di Santa Chiara a L’Aquila di una rarissima copia dell’Opera di Bartolomeo Scappi, stampata a Venezia nel 1570 per i tipi di Michele Tramezzino, ci indusse a riproporre in uno dei “Quaderni” pubblicati dall’Istituto Alberghiero di Roccaraso, allora da noi presieduto, i brani più significativi dell’Opera composta dal “cuoco secreto” di Pio V[20].
Il prezioso cimelio bibliografico è corredato di 28 tavole “universalmente considerate – come sottolinea D. Adacher nell’introduzione al citato Quaderno – un punto di riferimento nella storia della gastronomia italiana”, che già il Montaigne, nei suoi Essai, riteneva “splendido esempio dello spirito rinascimentale”.
Le Tavole che corredano l’Opera dello Scappi, divisa in sei libri, rivestono una straordinaria importanza perché riproducono gli spazi riservati alla cucina, ampi ed ariosi, nonché l’immagine quasi fotografica di tutti gli utensili e suppellettili adoperati dal personale in servizio. Anticipando con mirabile intuito alcuni princìpi della moderna gastronomia, lo Scappi ricorda al suo allievo Giovanni il modo di comportarsi da parte del personale e la tecnica dei servizi, sottolineando nel primo libro che le vivande devono risultare sia “saporose et grate al gusto, che piacevoli et dilettevoli all’occhio, con loro bel colore, et vaga prospettiva”.
Ma veniamo ora alle immagini che particolarmente interessano, tratte dall’Opera diScappi. Nella figura n°1 è riprodotta quasi “a volo d’uccello” la cucina di un palazzo signorile dell’epoca, al centro della quale alcuni scalchi – come si legge nella didascalia – “lavorano de pasta” attorno ad un tavolo sul quale spiccano una sfoglia di pasta con il matterello (dallo Scappi chiamato nel testo bastone) ed uno strano attrezzo con manico, raffigurato due volte (all’inizio e verso la fine del lungo tavolo), costituito da una ruota con due file di denti.
L’attrezzo in questione non è stato certamente raffigurato per caso sul “tavolo da pasta” (come si legge in una didascalia) e probabilmente serviva per tagliare la sfoglia in modo tale da ottenere strisce di pasta della stessa larghezza. Che potesse trattarsi di uno “sperone” è assai improbabile, perché quest’ultimo attrezzo, come nei nostri giorni, era usato all’epoca dello Scappi per “tortiglioni ripieni”, “raviuoli” ecc. e dunque per il ritaglio di pezzi di sfoglia destinati a contenere ripieni di ricotta, verdure o formaggi grattugiati, spesso impastati con l’uovo, ed è chiaramente raffigurato ed indicato in un’altra Tavola insieme a diversi utensili (figura n°2).
Di particolare importanza risulta invece un altro attrezzo illustrato nella stessa Tavola, dove insieme ad una serie di coltelli adibiti a vari usi (coltelli da torta, coltelli da pasta ecc.) viene raffigurato un ferro da maccaroni (figura n°2), che, osserva giustamente il Marsilio, “è identico all’odierno rentròcelo usato in Abruzzo in area frentana, anche se ora è costruito in legno”[21]. Si tratta, come risulta dalla figura, di un “matterello scanalato” avente alle due estremità un manico per far pressione sulla sfoglia di pasta e tagliarla a strisce. Lo strumento, sia quello raffigurato nell’Opera dello Scappi, che quello in uso in area frentana, poteva essere di ferro o di legno. Se di metallo, l’attrezzo aveva ovviamente una maggior durata e risultando più pesante esercitava maggior pressione sulla sfoglia, che veniva così tagliata in modo più netto.
I “maccaroni” in tal modo ottenuti venivano afferrati con le “molete (sic) per pasta” raffigurate in alto nella figura n°3 e posti ad asciugare prima della loro cottura, se destinati al consumo giornaliero, su un telaio di legno in una stanza arieggiata posta a fianco della cucina.
B. Scappi non ci offre nella sua Opera una immagine di questi telai, raffigurati invece nel famoso Tacuinum Sanitatis (seconda metà del XIV sec.) in ambienti che possono essere considerati aziende casalinghe per la produzione e lunga conservazione della pasta.[22] Assai importante ai fini della nostra ricerca risulta il Libro V dell’Opera in cui lo Scappi tratta le paste, ed in particolare il cap. CLXXIIII, sfuggito all’attenzione del Marsilio e di altri gastronomi, che ha come titolo: Per far minestra di maccaroni alla romanesca. Scrive infatti lo Scappi:
“Et impastata che sarà essa pasta … facciasene sfoglio con il bastone
lasciando esso sfoglio alquanto più grossetto … et facciasi asciugare;
con il ruzzolo di ferro o di legno, taglinosi i macaroni”.
L’attrezzo genericamente indicato nella Tavola dello Scappi come ferro da maccaroni aveva dunque un nome, cioè ruzzolo, che poteva essere, come il rentrocele frentano, di legno o di ferro. Introducendo il discorso sulle paste (Libro V), Bartolomeo Scappi precisa a proposito della tavola de pasta che questa deve essere “un tavolone liscio, et spianato, di lunghezza di quindici palmi ed altezza di palmi tre e mezzo, ove si possa lavorare d’ogni sorte di paste”.
L’impasto avviene nel modo tradizionale e dunque a mano, come si vede chiaramente nella immagine in cui è raffigurato un inserviente che ammassa, mentre sul tavolo spicca la didascalia “lavorano de pasta”.
Non è rappresentata nelle Tavole la gramola a briga, forma arcaica della gramola a stanga, già segnalata in documenti del XIII sec. e nel “Codice Diplomatico Barese” ma diffusasi come mezzo tecnico per un efficace impasto alla fine del XVI sec. con lo sviluppo delle piccole aziende pastaie [Serventi-Sabban, op. cit.]. Tuttavia lo Scappi ne aveva previsto la grande utilità anche per le cucine private e signorili allorché afferma nel libro primo che fra gli attrezzi deve essere annoverata “una gramola per gramolar ogni sorte di paste, acciocché tal cucina habbia ogni commodità”.
Il taglio della sfoglia avveniva di norma anche con i “coltelli da pasta” raffigurati nelle diverse Tavole, specie per i maccheroni alla genovese, che si ottenevano avvolgendo la sfoglia attorno al matterello e sfilato quest’ultimo si tagliava il tubo di pasta in anelli più o meno larghi. Si intuisce che con il ruzzolo descritto dallo Scappi il taglio della sfoglia avveniva secondo la forma desiderata ed i “maccaroni” in particolare risultavano identici per lunghezza, spessore e larghezza, un risultato questo non sempre garantito dall’impiego del coltello o dello “sperone”, quest’ultimo adoperato comunque per il “riquadro” della sfoglia prima di effettuare il taglio con il ruzzolo.
Vien fatto di pensare così che il principio della “armonia delle forme” abbia pervaso in pieno Rinascimento non solo le straordinarie realizzazioni artistiche e architettoniche, ma anche gli aspetti più impensati della vita quotidiana, dalle fogge di vestire fino agli stessi attrezzi da cucina. Sicché nell’allestimento di sontuosi banchetti nei palazzi di nobili famiglie o di alti prelati, di cui lo Scappi ci offre alcuni esempi, le tavole sono apparecchiate con “cocchiari, forcine e cortelli d’oro o d’argento”, ed ornate con statue “di zuccaro e butiro”. Così in una collatione (colazione) organizzata nel giardino di una lussuosa dimora in Trastevere, Bartolomeo Scappi realizza “cinque Ninfe” e “Diana con l’arco et cane al laccio” con grande stupore e plauso degli illustri commensali.
In tale atmosfera rinascimentale il tradizionale e pur sempre indispensabile coltello da pasta è relegato ad un ruolo secondario nel taglio della sfoglia, lasciando il posto al ruzzolo, attrezzo più consono a conferire omogeneità geometrica alla forma dei maccaroni e – come sottolinea lo Scappi – ad “allietare l’occhio del Principe”.
Insomma, nota acutamente l’Adacher, leggendo l’Opera dello Scappi “vengono subito alla mente i trattati rinascimentali, ad es. quelli dell’Alberti o di Leonardo, in cui tutto deve concorrere a dare senso di armonia e bellezza”[23]
La “chitarra” per maccheroni. Origini e diffusione.
Il ruzzolo è un attrezzo diffuso presso le cucine di corte ed assai adatto alla divisione della sfoglia di pasta fatta di semola di grano duro. Quello più ricercato dalla seconda metà del XVI sec. era la saragolla, che perderà tale primato soprattutto in Abruzzo nella seconda metà del ‘700 con l’impiego del grano solina, più adatto alle caratteristiche dei terreni appenninici[24]. Poiché i ceti indigenti solo di rado avevano la possibilità di mangiare pane bianco oppure pasta fatta di semola di grano – per gli impasti infatti venivano usati di norma farina di miglio, orzo, segala e farro – ne deriva che il ruzzolo fosse in origine un attrezzo in auge presso le cucine signorili e successivamente diffuso dal personale di cucina negli strati sociali più umili cui essi stessi appartenevano.
Noi propendiamo dunque, per le ragioni suddette, a favore di un “fenomeno di discesa” dell’attrezzo, ma non mancano opinioni opposte, di “ascesa” cioè dai ceti umili e rurali verso quelli nobili e comunque agiati, come sostengono appunto Serventi e Sabban, secondo i quali il ferro da maccheroni (i due Autori ignorano il termine ruzzolo usato dallo Scappi) “utilizzato nell’ambito della confezione domestica, non poteva essere ignoto ai professionisti” [op. cit.] ma cadono come ci sembra in contraddizione quando affermano (ivi) che “il ferro da maccheroni ha conosciuto una vasta diffusione, per lo meno nelle grandi cucine dell’alta società”.
Nelle cucine di corte il ruzzolo deve avere avuto comunque vita breve, perché di esso si perdono le tracce mentre con il nome di rentrocele si è conservato nel mondo rurale – e non solo frentano – fino ai nostri giorni. Ne abbiamo uno sotto gli occhi acquistato a Pretoro (Ch). Esso è lungo 38 cm., con 18 cm. di spirale[25] al centro e 10 cm. in ciascun lato nei due manici. Un altro rentrocele ci è stato mostrato dal sig. Rocco Di Clemente, proprietario dell’Albergo Ristorante “Vistamonti” di Ortona (Ch). Quest’ultimo tuttavia non è di origine frentana, ma proviene invece dal Gargano e precisamente da Monte Sant’Angelo.
Il sig. Di Clemente l’ha ricevuto in dono dal sig. Franco Gatta, pensionato di 74 anni originario di Monte Sant’Angelo, ma residente da molto tempo ad Ortona. Secondo il sig. Gatta ‘u ‘ndròccele – così suona in dialetto foggiano lu rintrocele (o rentrocele) frentano – era diffuso in tutta l’area della Capitanata e presentava spirali di diversa larghezza a seconda della forma desiderata di pasta. Qui l’attrezzo tuttavia viene ancora usato nei giorni festivi ed i maccheroni da esso ottenuti si chiamano lintorci.
Ci sarebbe da indagare molto sul ruolo svolto a tal riguardo dalla pastorizia transumante, cui si deve lungo i territori attraversati dai tratturi la trasmissione di questo come di tanti altri fatti culturali e lo scambio di esperienze che attraverso un metodo dialettico hanno portato all’ampliamento delle cognizioni materiali e spirituali dei vari gruppi sociali.
Indagini, queste, tanto più opportune perché lu rentrocele è del tutto sconosciuto in Molise, come ci assicura il noto studioso Enzo Nocera, di Campobasso, autore di importanti saggi storico-gastronomici, e di tale fenomeno non è certamente agevole scoprirne le cause.
Le perplessità tuttavia aumentano quando si riflette sulla circostanza che in area teramana esiste un attrezzo chiamato pure runtròccelo, ma completamente diverso da quello frentano. Di tale attrezzo abbiamo immagini fotografiche effettuate a Borgonovo dal compianto studioso Rino Faranda, durante le sue “peregrinazioni” storico-gastronomiche nell’area orientale del Gran Sasso e dei Monti della Laga. Si tratta in breve di un cilindro di ferro filettato, chiuso alla base da un coperchio forato e sostituibile (trafila), nel quale si introducono uno alla volta pezzi di pasta ammassata, spinti in basso da un lungo ferro, anch’esso filettato e dotato di manico. A causa della pressione esercitata, la pasta fuoriesce dai fori in forma di maccheroni, simili a quelli che si ottengono con la chitarra. La base forata del runtròccelo non è saldata perché – come avverte lo stesso Faranda – “si possono ottenere forme di pasta diverse, a seconda della trafila voluta ed usata”[26].
Ciò che sorprende tuttavia è che questo runtròccelo, che il Faranda dopo attive ricerche fa risalire alla fine del XVIII sec., presenta straordinarie somiglianze con un attrezzo descritto nei seguenti termini da Alessandro Dumas nel suo Grand dictionnaire de cuisine [s.v. macaroni]:
“Il macaroni è stato introdotto in Francia dai fiorentini, probabilmente quando Caterina de’ Medici venne a sposare Enrico II … l’Italia e soprattutto Napoli è la patria dei maccaroni. Tutte le specie di farina con le quali si fa il pane, possono servire per fare i macaroni … La semola, convertita in pasta, schiacciata e pestata, è messa in un cilindro metallico … Sul fondo del cilindro si trova un crivello bucato da piccole fenditure della larghezza che si vuol dare alle fettucce del macaroni. Premendo fortemente, la pasta fuoriesce dallo stampo sottoforma di nastro del quale si riuniscono i bordi che si attaccano e formano così i tubi destinati al consumo. I veri golosi introducono in questi tubi, con l’aiuto di una piccola siringa, del sugo di carne o di pesce”.
Il passo da questo tipo di “fettuccine” che venivano arrotolate, ad un crivello “dello spessore di un grosso fuscello di paglia” di cui il Dumas parla in altro luogo, deve essere stato breve e salutato anche in Francia come evento gastronomico, perché eliminava “la riunione dei bordi” e l’impiego di molto tempo superfluo. Vien fatto di chiedersi come mai due attrezzi diversi, quello frentano e teramano, abbiano lo stesso nome di rintrocelo e solo il primo sia spiegabile etimologicamente in base al movimento rotatorio compiuto dall’attrezzo sulla sfoglia di pasta. L’unica spiegazione plausibile è che nel teramano si conoscesse il ruzzolo oppure il rintrocelo frentano, da cui si ottenevano maccheroni simili a quelli ricavati con l’attrezzo risalente – come scrive il Faranda – alla fine del XVIII sec. e dunque al periodo di dominio francese, il che spiegherebbe la somiglianza del runtròccelo teramano con l’attrezzo descritto da A. Dumas.
Ma frattanto a Napoli erano stati fatti progressi notevoli in questo campo, poiché – sottolinea Jeanne C. Francesconi [La cucina napoletana, Roma 1992] – “agli inizi del ‘600 … era stata inventata una primitiva macchina detta ingegno, nella quale la pasta, dopo essere stata lavorata con i piedi, veniva fatta passare forzandola attraverso dei fili tesi o a quella che doveva essere la prima idea della trafila”. Si tratta, per completare e chiarire il passo riportato della Francesconi, di una innovazione importante costituita dal torchio, simile a quello del vino. Se in un primo momento l’impasto avveniva con i piedi, come facevano fino a mezzo secolo fa i vignaiuoli che pigiavano l’uva, alla forza dei piedi fu sostituita subito dopo quella esercitata dalla gramola a stanga e l’impasto ottenuto con questa macchina veniva inserito nel torchio dotato di trafila [Serventi-Sabban, op. cit.].
Siamo in grado oggi, a distanza di dieci anni, di precisare il periodo alquanto vago indicato dalla Francesconi (“inizi del ‘600”) a proposito dell’invenzione a Napoli della “primitiva macchina detta ingegno”, grazie all’Archivio Storico Municipale di Napoli che ha permesso agli studiosi di poter consultare le delibere riportate nelle Assisae, cioè nei pubblici parlamenti. A seguito di una risoluzione adottata in una riunione precedente, fu emesso a Napoli in data 24 ottobre 1565 un’ordinanza che fissava il prezzo dei “maccheroni, vermicelli e altre robbe de pasta fatte all’ingegno a grani sette il rotolo, con ordine espresso che debbiano li vermicellari fare roba di pasta di semola assoluta”[27].
Pur non essendo Napoli – a differenza di quanto scrive A. Dumas – “la patria dei maccaroni”, l’importante data del 1565 è indice di un mutamento in atto presso la società partenopea ed i Napoletani, non più “mangia foglie”, come si è detto in precedenza, cominciano ad essere apostrofati come “mangia maccheroni”.
Il termine ingegno continuò a designare per tutto il ‘600 l’attrezzo citato nella Assisa del 1565, che era tuttavia di carattere professionale ed usato nelle piccole aziende a carattere familiare che si diffondono rapidamente, come scrive la Cirillo-Mastrocinque, a Napoli ed in altri centri del Regno.
A riprova tuttavia del fenomeno della poligenesi nel settore delle “invenzioni” finalizzate alla produzione di paste filiformi, abbiamo la notizia di un’altra “macchina” chiamata ingegno per li maccheroni di cui ci dà notizia Cristoforo Messisburgo[28], che prestava servizio come scalco nella prima metà del XVI sec. a Ferrara, presso la corte Estense.
Non si tratta tuttavia di un “ingegno” come quello napoletano con torchio e trafila, bensì di uno strumento descritto come segue dal frate domenicano Giovan Battista Labat agli inizi del ‘700 in occasione del suo Viaggio in Italia. Esso consiste, scrive padre Labat, in una “siringa il cui cannello presenta una gran quantità di forellini e con la quale si fanno questi vermicelli nelle case private” [Serventi-Sabban, op. cit.].
Insomma nel XVI e XVII sec. il termine “ingegno” sta ad indicare per lo più – come vedremo ancora nel corso dell’800 – un congegno meccanico, un apparecchio oppure un attrezzo collegato ad una trafila e “proprio in quest’epoca si diffonde nella lingua napoletana l’espressione pasta d’ingegno, ossia modellata alla trafila”. [Serventi-Sabban, op. cit.]
Queste innovazioni meccaniche scaturite da esigenze di commercializzazione da parte delle fiorenti aziende pastaie, risultavano di dimensioni comunque notevoli rispetto agli spazi fruibili nei modesti ambienti familiari. Per la casa occorreva dunque non una macchina, ma un attrezzo. Sicché dai telai con fili di ferro tesi ed adibiti all’essiccazione dei maccheroni deve essere scaturita la prima idea della “chitarra”. E non – come riteniamo – in area campana, dove tutt’ora essa è estranea per tradizione, ma lungo la fascia orientale attraversata dai tratturi, cioè Abruzzo, Molise e Puglia, regione quest’ultima in cui i pastai mostrano una vivace attività produttiva e commerciale a partire dal XV sec.
Premesso che almeno in area frentana, teramana e, come si è visto, in Capitanata, lu rentrocele ha avuto modo di convivere comunque con la “chitarra” fino ai nostri giorni, è possibile ipotizzare – pur sulla base di scarne notizie – in quale periodo la “chitarra per maccheroni” abbia iniziato a diffondersi nelle tre regioni sopra ricordate ed in parte anche nel Reatino. La prima riflessione parte proprio dallo “strumento musicale” chitarra, che ha conferito per evidenti somiglianze lo stesso nome all’attrezzo “col quale vengono fatti tradizionalmente gli spaghetti (sic!) in Abruzzo ed in altre regioni meridionali della Penisola”. [Serventi-Sabban, op. cit.]
Come si è detto [cfr. nota 1], nella tradizione Napoletana esistevano nel XVIII sec. due strumenti, il colascione e la tiorba, che trovano grande eco nella storia letteraria e musicale partenopea. Nella prima metà del XVIII sec., ed in ambiente abruzzese, troviamo citato il colascione nel poemetto di Romualdo Parente Zu matremonio a z’uso, in dialetto scannese, (stanza 21: Mazzuòcco ‘ntanno … comenzette a sonà zu qualascione)[29]. La prima edizione del poemetto risale 1765 e fu pubblicata a Napoli, dove il Parente si forma culturalmente e consegue la laurea in Diritto Civile.
Ma dove emerge, particolare questo di grande importanza, l’assenza completa dell’attrezzo “chitarra per maccaroni” è negli Inventari e Carte Dotali dei secoli XVII e XVIII nonché nei Riveli dello stesso periodo, quest’ultimi contenenti “la descrizione analitica dei beni mobili ed immobili posseduti dalle singole chiese, cappelle, ospedali e confraternite delle diocesi, redatti dalle autorità civili dei singoli paesi in forma di atto pubblico”.
Nel Rilevo stilato nel 1721, relativo all’Ospitale di S. Antonio de Padova, di Pettorano, troviamo elencati tutti gli attrezzi di cucina possibili ed immaginabili, ma non la chitarra:
“Una caldarella di rame, un cotturo, un caldarello, una conca, una fressora, una statela, due catene di ferro per il foco, una cocchiara di maccaroni usata, due spiti, un ferro per le pizzelle, un spianaturo, una botticella ecc.”.
Nell’inventario stilato nel 1808 nel Convento dei Padri Carmelitani di Pettorano, sono elencati nel capitolo Cucina i seguenti attrezzi: “Vari ordegni di ferro per il fuoco, due candelieri, una lucerna, due conche di rame, uno scolatoio, tre caldai, una statera, un braciere, cinque treppiedi, un polsinetto, un pignato (sic), una sartagine (specie di padella) per friggere, una tiella, due cocchiare, una graticola, una grattacacio, un coltellaccio, due cati o siano cottorelle, un mortaio, un’arca da far il pane, una cassa da tener farina vuota, un mezzetto, una coppa, sette fra botti e vascelli, un barile per trasportar vino …” [Cfr. E. Mattiocco- E. De Panfilis, La Terra di Pettorano, Teramo 1989].
Gli stessi attrezzi sono elencati poi nell’Inventario della “Cucina e Refettorio”.
Non meno importanti risultano le “Carte Dotali” di Scanno pubblicate da G. Morelli [Pagine scannesi, Roma 1996], dove accanto agli arnesi ed attrezzi da cucina non viene mai menzionata la “chitarra per maccaroni”. In un Inventario del 5 maggio 1693, fatto nella “Casa dell’heredi del quondam Dr. Francesco Giuseppe De Angelis”, compare tuttavia accanto ad un “arciliuto” un altro strumento chiamato “quitarra spagnola”.
Nell’Inventario de’beni del fu Don Orazio Barone Serafini, stilato nel 1840, sono elencati addirittura utensili ed attrezzi relativi a due cucine, ma della “chitarra per maccheroni” non v’è alcuna traccia. Nella cucina del secondo piano sono solo citati: tre casserole, tre tielle co’coverti di rame, tre sartagini, due manieri di rame, sette cochiare di ferro, due graticole di ferro, sette trepiedi di ferro, due spiedi anche di ferro, un trita caffè, un fiasco di rame, una bilanciola, vari piatti e pignatte, quattro candelieri, due bracieri di rame, due tavolini ed una spianatora di faggio, una mesa da far pane, numero 18 sedie vecchie, un mortale di metallo, un cassone di legno, oltre a piatti, bicchieri , forchette ed altri utensili citati in altri elenchi.
Se è vero che la storia è fatta dai documenti, dovremmo concludere che alla data del 1840, quella appunto dell’Inventario in precedenza ricordato, non si ha notizia nell’Abruzzo Aquilano dell’attrezzo noto come ’ngegne, adibito alla produzione di maccheroni in casa. Ma sappiamo che le ricerche d’archivio riservano sempre sorprese e non si possono di conseguenza trarre conclusioni affrettate. Infatti maggior fortuna ha avuto lo storico Nicola Fiorentino che in tale sede ringraziamo vivamente per una preziosa notizia fornitaci inerente all’area frentana.
Nel X volume dei suoi “Regesti in terra Casularum” [doc.177], il Fiorentino ha trascritto una carta dotale del 1779, redatta a favore di Felicia Sirolli, di Altino, che va sposa ad un tal Antonio Travaglino, di Casoli, nella quale è menzionato assieme ad altri beni mobili “un maccaronaro con corde di ottone”, stimato “carlini 6”.
Ciò significa che l’attrezzo cominciava gradualmente a diffondersi nella seconda metà del XVIII sec. non solo in area frentana, ma forse in tutto l’Abruzzo Citeriore. Quando il termine maccaronaro e le altre voci ‘ngegno e carraturo (quest’ultimo in uso – come mi assicurano alcuni informatori – maggiormente nell’attuale area del Pescarese)[30] saranno sostituiti dalla parola chitarra, è difficile da accertare. Ciò è avvenuto probabilmente nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, quando si completa l’attuale rete ferroviaria regionale e cominciano ad apparire le prime guide turistiche sull’Abruzzo, più esaurienti rispetto a quelle precedenti pubblicate da Karl Baedeker in lingue straniere dal 1869 in poi[31]. Occorreva infatti riunire in una singola voce, operazione questa di “origine dotta” e desunta dalla somiglianza dei vari attrezzi con lo strumento “chitarra”, tutte le diverse designazioni esistenti nelle varie aree regionali ed indizio sicuro della diffusione già in atto del termine “chitarra” è costituito dal Vocabolario del Finamore (1893), nel quale oltre alla voce areale maccarunare, vengono registrate in forma dialettale anche catarre e chetarre. Come si è detto in precedenza, in area peligna ed in genere nell’Abruzzo Aquilano la voce più diffusa è lu ‘ngegne, anche se non manca qualche rilevante eccezione. A Pettorano è in uso infatti il termine maccarunare. Va comunque sottolineato che i termini ‘ngegne, maccarunare e carrature non sono riportati nell’opera giovanile di G. Pansa, Saggio di uno studio sul dialetto abruzzese, (Lanciano 1885).
È rimasto famoso il richiamo degli ombrellai di Secinaro (Aq.), i quali per attirare l’attenzione della gente gridavano per strada “acconcia ‘ngegne e acconcia ‘mbrelle!”, oppure – come si legge in una bella poesia di E. Ricci, di Secinaro – “Acconcia piatte e ‘ngegne rutte!”. [Ju Surente Nustre, Sulmona 1966].
Merita di essere riportato il seguente brano di L. Braccili [Folk Abruzzo, Ferri ed., L’Aquila 1979] sugli ombrellai di Secinaro, i quali, secondo l’A., girando per i paesi del Chietino o del Teramano gridavano, al fine di richiamare l’attenzione della gente “assette pure li maccarunare!”, (accomodo anche i maccarunare!),sostituendo così per una vera e propria esigenza semantica il termine ‘ngegne, in uso a Secinaro ed in area peligna, ma sconosciuto in altre parti d’Abruzzo, con quello di maccarunare:
“Giravano di paese in paese, con a tracolla una cassetta piena di attrezzi. Il loro grido era: «ombrellaroooo!» con la “o” finale allungata, come quella che caratterizzava il grido dell’arrotino. Dopo una breve pausa però l’ombrellaio, aggiungeva, in dialetto, «assette pure li maccherunare!». Sì perché quei modesti artigiani quando avevano fra le mani qualche ombrello da riparare chiedevano sempre alla massaia se aveva in casa una chitarra con i fili rotti da rimettere in sesto. Provenivano da Secinaro (altri ne esistevano anche a Pretoro dove era diffusa la lavorazione del legno) e ciò spiega il fatto che si trovavano disposti ad accomodare anche ombrelli da spiaggia, sedie a sdraio, tinozze per il bucato Gli ombrellai insistevano molto nel richiedere quelli che chiamavano “li maccherunare” perché sapevano che in Abruzzo in ogni casa c’è una chitarra per fare i maccheroni carrati. La chitarra non è altro che un telaio rettangolare di legno di faggio che presenta fra i due lati inferiori del rettangolo dei fili di acciaio molto tesi disposti alla distanza di pochi millimetri. Vi sono due tipi di chitarre, secondo i due tipi di maccheroni carrati, il primo per produrre i «maccheroni» tuttuovo, finissimi come i cosiddetti capelli d’angelo, presenta i fili n distanza minima ed il secondo per fare i «maccheroni a mezzuovo», più grossi dei primi e più sodi ed in questo caso la chitarra reca i fili messi ad una distanza più larga.
Su questi fili viene disposta la sfoglia e la massaia lavora con la forza delle sue braccia e con un mattarello per far si che i fili taglino la sfoglia per ridurla in tanti fili sottili.
Questo sforzo della massaia spesso determina la rottura dei fili ed è in questo caso che l’opera dell’ombrellaio diventa indispensabile. Per quanto riguarda gli ombrelli poi ognuno di noi a sue spese si accorge che le piccole cerniere che reggono i fili interni del «paraacqua» sono soggetti facilmente a rompersi.
Purtroppo, quando avvengono queste rotture, siamo costretti a buttare l’ombrello e comprarne un altro. Questo atto dispendioso, dovuto alle implacabili regole del consumismo, lo compiamo abitualmente da quando non sentiamo più gridare in strada: ombrellarooo!”.
La diffusione per tutto l’Aquilano del termine ‘ngegne, di chiara origine napoletana, trova spiegazione negli stretti rapporti esistenti fra l’Abruzzo interno e la capitale del regno a partire soprattutto dal 1820, anno di entrata in esercizio della “Real Strada di Fabbrica” che univa Napoli e Sulmona ed il cui ultimo tratto, quello che da Roccapia perviene a Pettorano, è tuttora noto come Via Napoleonica, perché completato sotto il Regno di G. Murat.
In definitiva, la circostanza che in qualche documento d’archivio o notarile si possa rinvenire già agli inizi o alla metà del ‘700, una delle suddette voci (‘ngegne, maccarunare o carrature) non assume a nostro avviso una decisiva importanza, perché ciò che è rilevante è il periodo in cui le suddette voci cominciano a perdere il loro antico valore semantico e la parola “chitarra” si sostituisce alle diverse voci dialettali. Insomma, per dirla con il De Saussure, quando “la parole” diventa “langue”.
Un singolare racconto del D’Annunzio sull’origine della “chitarra per far maccheroni”.
Concludiamo questa nostra ricerca con un racconto del d’Annunzio sull’origine della “chitarra per far maccheroni”, da ritenersi- almeno crediamo- frutto della fervida fantasia dell’Imaginifico.
Ma procediamo con ordine. Gian Carlo Fusco ha pubblicato di recente una raccolta di saggi gastronomici dal titolo “L’Italia al dente” [Sellerio ed., Palermo 2002], un “libro quasi commestibile – sottolinea l’A. nell’introduzione – dedicato a due galantuomini” che furono appunto Giovanni Voiello, fondatore nel 1879 a Torre Annunziata dell’omonimo pastificio, e Raffaele Fusco, nonno dello scrittore, che fu buon letterato.
Ora uno dei saggi di Gian Carlo Fusco ha per titolo “La chitarra dell’Imaginifico” ed in esso si narra come nel 1926 la Marina Militare Italiana decidesse di “donare a Gabriele d’Annunzio, sistemandogliela fra le amene verzure del Vittoriale, la prora della nave Puglia. Cimelio ambitissimo dal Poeta Soldato, perché su quella tolda, nel 1920, a Spalato, era stato ucciso il comandante Tommaso Gulli”.
L’incarico di quell’operazione fu affidato ad alti ufficiali del Genio Navale, fra cui appunto Carlo Fusco, padre dello scrittore, che per una serie di motivi fu costretto a portare con sé il figliuolo Gian Carlo, che all’epoca aveva 11 anni.
Qualche giorno dopo – scrive Gian Carlo Fusco – il gruppo si ritrovò a pranzo a Gardone, invitato dal d’Annunzio, e “due donne dai capelli corvini iniziarono il servizio recando ciascuna un vassoio colmo di pastasciutta fumante”.
A questo punto il d’Annunzio si rivolse a Gian Carlo Fusco e gli chiese: “Hai guardato bene, nostromo giovinetto, i maccheroni che la mia ancella divota t’ha messo nel piatto? Hai notato la loro foggia singolare, curiosa?”
Guardai il piatto – scrive Gian Carlo Fusco – per la prima volta e notai che gli spaghetti non erano di forma cilindrica. “Questa è la pasta caratteristica dell’Abruzzo – aggiunse il Poeta – ch’è la mia terra. È nomata pasta alla chitarra perché un tempo la sfoglia veniva tagliata proprio con le corde di una chitarra. Al posto della quale venne poi usato un istrumento, munito di alcuni fili metallici ben tesi. Si dice che l’arnese sia stato ideato da un ciabattino di Palena, sulle pendici della Maiella, chiamato Manicone. Questa è la storia di questa pasta abruzzese. La rammenterai, angeluzzo marino?”. Conclude Gian Carlo Fusco: “Si, la ricordo ogni volta che mi capita di mangiare spaghetti alla chitarra”.
La notizia che la “chitarra” sia stata inventata, secondo il d’Annunzio, da un “ciabattino” di Palena va relegata come dicevamo all’inizio, al mondo delle amene curiosità se non delle consuete “bugie” dell’Imaginifico. E fra queste, forse la più vistosa, è quella concernente “la genesi della Figlia di Iorio”, come ha precisato di recente A. Rubini in uno studio storico-critico sull’argomento[32] , nel quale viene smentito il racconto del Vate, secondo cui “lui e Michetti se ne stavano sulla piazzetta di Tocco, allorché vi apparve una donna che fuggiva, inseguita dai mietitori”.
Infatti, sottolinea il Rubini, “sono inesatte le credenze che lo vogliono a Tocco nel 1881,1882 e 1883…e sarebbe impossibile registrare tutti i cambiamenti di umore del Vate, il quale cambiò idea anche a proposito del tempo di realizzazione dell’opera”.
Un’indagine svolta a Palena sul ciabattino “chiamato Manicone” ed inventore secondo il Vate della “chitarra per far maccaroni”, non ha portato ovviamente ad alcun risultato. Ci piace immaginare tuttavia che, come per tanti altri utensili conservati nei nostri Musei Etnografici, ci troviamo di fronte ad un caso di “monogenesi” e diffusione dell’attrezzo ma al di là di ogni ipotesi resta comunque il fatto che la “chitarra” deve essere considerata a giusto titolo come la più bella bandiera del nostro Abruzzo.
Franco Cercone
[1] – Cfr. Giulio C. CORTESE, Opere poetiche, Voll.2, a cura di E. Malato, Roma 1967. Particolarmente importanti risultano due “poemi” inclusi nel 1° volume: la Vaiasseide, poema satirico sulle vaiasse, cioè “serve” o “fantesche”, dal Tassoni definito “eroicomico”, e La Tiorba a taccone. La “tiorba” era una speciale chitarra a due manici, con 8 oppure 10 corde, suonata con un plettro di cuoio detto taccone, donde il suo nome di tiorba a taccone. Essa si distingueva dal calascione (o “colascione”) perché le corde in quest’ultimo strumento “non erano più di due o tre”. Cfr. Giulio C. CORTESE, ivi, Vol. I. Del calascione parla com’è noto Romualdo Parente nel poemetto in dialetto scannese Zu matremonio a z’uso, composto nel 1765, sul quale torneremo in seguito.
[2] – Cfr. L. SADA, Spaghetti e compagni. Prima documentazione per una storia delle paste alimentari e nomenclatura dialettale pugliese Bari 1982; E. SERENI, Terra Nuova e buoi rossi, Torino 1981; A. CIRILLO MASTROCINQUE, Usi e Costumi popolari a Napoli nel Seicento, Napoli 1978; Jeanne C. FRANCESCONI, La Cucina Napoletana, Roma 1995; R. RICCIO, A tavola con i Borboni, Bologna 2002; C. DE BROSSES, Viaggio in Italia. Lettere familiari, prefazione di C. Levi, Bari 1992; V. CORRADO, Del Cibo Pitagorico ovvero erbaceo per uso de’ Nobili e de’ letterati, rist. dell’Edizione Napoli 1781, a cura di T. Gregory, Roma 1991; R. FARANDA, Itinerari turistico-gastronomici dei Monti della Laga, Colledara 1996; Carlo A. MARSILIO, Su alcuni strumenti della cucina abruzzese, in “Rivista Abruzzese”, n° 2, 2002; id., Due attrezzi abruzzesi, in “L’Accademia Italiana della Cucina”, n 127, Milano 2002;M. MONTANARI, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Bari 1988; id.: L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo, Napoli 1979; AAVV, Il mondo in cucina. Storia, identità, scambi, a cura di M. Montanari, Bari 2002.
[3] – Cfr. Dizionario etimologico italiano, a cura di C. Battisti e G. Alessio, s.v. pizza, vol. IV, Firenze 1975; N.F. FARAGLIA, Codice Diplomatico Sulmonese DOC. XLV, Sulmona 1888. Più tardi, nel 1276, compare anche il termine splanata in una “concordia” stipulata fra l’Abate del monastero di Santa Maria de Quinquemilliis e gli uomini dei casali di San Nicola e Scodanibio, villaggi posti nel medio corso del Sangro. Il termine splanatas indica “schiacciate” cotte al forno, o forse anche “focacce”, antesignane delle attuali “pizze”. Cfr. G. CELIDONIO, La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. III, Casalbordino 1910; E. GIANCRISTOFARO, La pasta e la pizza, in “Rivista Abruzzese”, n° 1, 1999.
[4] – Cfr. IDRISI, Il Libro di Ruggero. Il diletto di chi è appassionato per le peregrinazioni attraverso il mondo, a cura di U. Rizzitano, Palermo 1994.
[5] – M. MONTANARI, Alimentazione e cultura … ecc, op. cit.; F. Zambrini (a cura di), Libro della cucina del sec. XIV, Bologna 1863; L. Sada, op. cit.
[6] – Il brano di Mastro Barnaba, tuttora allo stato di manoscritto, è tratto da un fondamentale saggio di Giovanni ALESSIO (sul quale torneremo in seguito) dal titolo Storia linguistica di un antico cibo rituale: i maccheroni, in “Atti dell’Accademia Pontaniana”, Nuova Serie, VIII, 1958. Il passo riportato si trova a p. 265; il manoscritto del Compendium di Mastro Barnaba è conservato nella Laurenziana di Firenze ed è stato scoperto da E. Sereni.
[7] – Cfr. Decameron, a cura di R. Marrone, Roma 1995. Va ricordato che il Sacchetti, discepolo del Boccaccio, scrive nella raccolta delle Trecentonovelle (n° C 101015) che uno dei protagonisti, Noddo d’Andrea, si serviva della forchetta per “raguazzare e avviluppare” i maccheroni, che dovevano essere pertanto lunghi.
[8] – Va corretta pertanto l’affermazione di Serventi e Sabban, secondo cui la parola “maccheroni” compare per la prima volta nel Libro di Arte Coquinaria del Maestro Martino da Como (prima metà del VX secolo). Cfr. S. SERVENTI- F. SABBAN, La pasta. Storia e cultura di un cibo universale, Bari 2000.
[9] – Cfr. E. SERENI, Terra nuova e buoi rossi, op. cit.; M. MONTANARI, Alimentazione e cultura, op. cit.
[10] – G. ALESSIO, ivi, p.264. Va ricordato che nella commedia La vedova (1569) di Giambattista Cini, i Siciliani sono apostrofati “mangiamaccheroni”, al contrario dei Napoletani qualificati come “mangiafoglia”. Cfr. B. CROCE, Commento a Il Pentamerone. Ossia la fiaba delle fiabe tradotta dall’antico dialetto napoletano e corredata di note storiche, ristampa Bari 1957.
[11] – Cfr. S. SERVENTI – F. SABBAN, La pasta…, op. cit.
[12] – S. RAZZI, Viaggi in Abruzzo, a cura di B. Carderi, L’Aquila 1968.
[13] – Cfr. F. AUBAILE-SALLENAVE, Quelques caractères communs aux quisines mediterranèennes, in AA VV. Cultures, Nourriture, p.164, Saint Amand Montrond, Babel Ed. 1997.
[14] – Il metodo tradizionale per ottenere questi particolari fusilli non è del tutto scomparso e qualche anno fa abbiamo assistito a Vallo della Lucania (Sa.) ad una prova dimostrativa da parte di alcune casalinghe della suddetta località del Cilento.
[15] – Cfr. V. CORRADO, Del cibo pitagorico, ovvero erbaceo per uso de’ Nobili e de Letterati, Napoli 1781. Ristampa a cura di T. Gregory, Roma 2001. Il volume presenta in Appendice il Trattato delle patate per uso di cibo, da V. Corrado dato alle stampe a Napoli nel 1798.
[16] – In P. CAMPORESI, Alimentazione, folclore, società, Pratiche ed., Parma 1980.
[17] – La ricetta sarà riportata anche nell’altra opera di V. Corrado, Il cuoco galante (Napoli 1801), che secondo il Camporesi segna il vero e proprio atto ufficiale di nascita dei “moderni gnocchi”.
[18] – Cfr. A. DI NOLA, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino 1976.
[19] – L. DIODATO, Il linguaggio del cibo. Simboli e significati del nostro comportamento alimentare, Saveria Mannelli (Catanzaro) 2001.
[20] – Cfr. La cucina tradizionale italiana nell’Opera di Bartolomeo Scappi, “Quaderno n° 2 dell’IPSSAR Roccaraso”, Torre dei Nolfi (AQ), 1975, a cura di D. Adacher. Dell’Opera di B. Scappi esistono due edizioni anastatiche a cura dell’editore Forni, Bologna, 1981 e 2003. Il titolo preciso del trattato dello Scappi è Opera dell’arte di cucinare di M. Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di Papa Pio V, divisa in sei libri , in seguito citata semplicemente Opera.
[21] – Cfr. Carlo A. MARSILIO, Su alcuni strumenti della cucina abruzzese, in “Rivista Abruzzese” n° 2, 2002 p.163; id., Due attrezzi abruzzesi, in “L’Accademia Italiana della Cucina”, n° 127, Milano 2002; D. COLTRO La cucina tradizionale veneta, Roma 2002.
[22] – Cfr. L. Cogliati Arano (a cura di), Tacuinum Sanitatis, Milano, Casa Ed. Electra, 1979.
[23] – D. ADACHER, La cucina tradizionale italiana, ecc., cit. in “Quaderno dell’IPSSAR Roccaraso”.
[24] – Cfr. G. DEL RE, Calendario per l’anno bisestile 1820. Il quarto del regno di Ferdinando I, Napoli 1820.
[25] – Ci si imbatte spesso nei termini scanalatura o scanalato, assai efficaci per l’immagine che proiettano, ma non riportati nei vocabolari di lingua italiana più accreditati, come per es. quello di G. Devoto-G. Oli.
[26] – Cfr. R. FARANDA, Itinerari turistico- gastronomici ecc., op. cit.; il Faranda scrive che i maccheroni non venivano conditi col pomodoro, per la semplice ragione che ai tempi del runtròccelo, ovverosia alla fine del ‘700, esso era ancora sconosciuto in Italia. L’affermazione non è esatta, perché il pomodoro entra a far parte di molte ricette riportate nell’ultimo decennio del ‘700 nelle Opere di V. Corrado in precedenza citate.
[27] – Archivio di Stato del Municipio di Napoli, Assisae, T. 9, 1576, Foglio 199.
[28] – Cfr. C. MESSISBURGO, Libro Novo nel quale si insegna a’ far d’ogni sorte di vivanda secondo la diversità de’ tempi, così di carne come di pesce, Venezia 1557, ristampa an. Forni, Bologna 1980.
[29] -Cfr. R. PARENTE, Zu Matremonio a z’uso, a cura di E. Giammarco, Scanno 1971; a cura dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo. Contiene anche l’altro poemetto di R. Parente, La fjjana de Mariella.
[30] – Un vivo ringraziamento va in particolare al prof. Nicola D’Alonzo, docente di Cucina presso l’Istituto Alberghiero di Villa S. Maria. Va ricordato che il termine carraturo non è registrato da G. Finamore nel suo Vocabolario dell’uso abruzzese, Città di Castello 1893.
[31] – Cfr. al riguardo L. RUSSI, Viaggiatori Europei dell’Ottocento; in “Atti del Terzo Convegno Viaggiatori Europei negli Abruzzi e Molise”, Teramo 1976.
[32] – Cfr. A. RUBINI, La Figlia di Iorio di G. d’Annunzio compie il secolo; in “Abruzzo e Sabina di ieri e di oggi”, n.2, 2003.
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