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IL VINO MONTONICO NEL TERRITORIO DI BISENTI E CERMIGNANO  

[Contributo di Franco Cercone, pubblicato in Bullettino della D.A.S.P., Annata CIV 2013. (CXXV dell’intera collezione). L’Aquila 2014.]

1 – Una breve ma necessaria premessa

 L’istituzione di una Facoltà di Agraria in seno all’Università di Teramo non rappresenta a ben riflettere solo un normale provvedimento amministrativo o il risultato di un disegno politico della Provincia, ma anche un riconoscimento della Regione Abruzzo alla fertilità del territorio aprutino ed alla sua antica vocazione storica nel campo della viticoltura; se ne ha una conferma anche dalla vivace attività di compravendita di terreni vignati o da destinare alla coltura della vite, di cui si sono resi protagonisti di recente operatori originari del nord della Penisola e che hanno “scommesso” sul patrimonio ampelografico abruzzese , specialmente  teramano.

Impegnati in seno alla Facoltà di Agraria nell’insegnamento di Storia della vite e del vino, abbiamo ritenuto pertanto doveroso offrire un nostro pur modesto contributo di carattere storico-ampelografico alla Facoltà in cui abbiamo prestato la nostra attività, riunendo in un breve saggio le notizie di cui siamo venuti man mano a conoscenza e relative ad un particolare vitigno, qual è appunto il “Montonico”, che ancora prospera in un angolo di territorio ascritto un tempo all’Abruzzo Ulteriore I.[i]

Va subito detto che dall’indagine non sono emersi risultati straordinari: se ne ha una conferma, senza rivolgere lo sguardo ad epoche molto lontane da noi, dai Saggi su l’Agricoltura, Arti e Commercio della Provincia di Teramo, di Gianfrancesco Nardi, apparsi nel febbraio del 1789 e dunque proprio nell’anno fatidico della Rivoluzione Francese.

Va anche ricordato che di recente essi sono stati di nuovo raccolti e pubblicati da A. Marino in una preziosa opera dal titolo La Montagna Teramana. Risorse e ritardi [Andromeda, Colledara 1994].

Il Nardi, come è noto, era un esponente di spicco del “Circolo di Melchiorre Delfico” a Teramo ed intrisa di spirito illuministico appare appunto questa raccolta di scritti agronomici, dai quali si evince un quadro decisamente critico dell’agricoltura ed in special modo della viticoltura teramana nella seconda metà del XVIII secolo, a proposito della quale l’Illuminista teramano sottolinea quanto segue:

Noi tutto giorno attendiamo a coltivare le vigne…eppure ancora non sappiamo fare un buon vino…Sono infinite le qualità delle nostre uve, si maturano perfettamente…ma ignoranti ed indolenti fino alla stupidezza, ci è incognito fino il di loro nome vero. Perciò i libri di agricoltura non possono istruircene, poiché dove ci parlano di una qualità d’uva, che forse noi avremo fra le nostre, e del modo come coltivarla, spremerla, conservarla, mischiarla con altre spezie per averne un buon vino, noi non la conosciamo, né sappiamo adattarvi le regole per mancanza delle nozioni dei nomi. Sarebbe necessario quindi o avere alcun buon Agricoltore di Toscana, o pure andarvi noi stessi colà ad apprenderle”[G. Nardi, Saggi…, op. cit.].

Con l’occasione il Nardi spende una parola a favore del vino cotto, detestato soprattutto dai viaggiatori europei del Gran Tour (si pensi a Richard Keppel Kraven ed a Edward Lear), ed aggiunge a proposito della necessità della cottura del mosto:

Lo mosto del caldaio si cuoce, fintantoché cali il terzo [ii], ed indi si porta alle botti. La pratica del cuocersi si è dovuta adottare per conservare i vini, dacché i crudi appena sostengono fino a’ principi dell’està[iii].

Oggi, tuttavia,  la viticoltura del Teramano ha riscattato il giudizio negativo del Nardi acquisito in passato, compiendo nell’ultimo mezzo secolo passi da gigante, a questo successo,  – a parte il Montepulciano, il Trebbiano, il Pecorino e la Cococciola – ha contribuito pur se in minor misura anche il “Montonico bianco”, non annoverato a torto o a ragione fra i vitigni importanti nel panorama ampelografico abruzzese e nel cui ambito ha comunque avuto una sua “storia”, come dimostrano significativamente i dati ricavati nel 1868 dal Saggio di ampelografia abruzzese e dai successivi indici statistici desunti dal Catasto Viticolo 1970, Fonte ISTAT [ G. Giuliani, Il vino in Abruzzo, Japadre Ed. L’Aquila 1975].

Per porre in evidenza questi ultimi dati li abbiamo messi a confronto con le aree coltivate a Trebbiano, un vitigno quest’ultimo che presenta forse maggiori affinità elettive con il territorio abruzzese e che allo stato attuale delle nostre conoscenze risulta “importato” in Abruzzo dalla Toscana: ciò è avvenuto nella seconda o forse nella prima metà del secolo XVI su iniziativa dei Colonna, 1 quali hanno coltivato il Trebbiano nei loro possedimenti marsi situati attorno al Lago di Fucino[iv]. Ed è da qui che con ogni probabilità, alla luce dei documenti finora conosciuti, il trebbiano toscano si espande nel restante territorio abruzzese, acquistando una fisionomia diversa da quella della sua patria di origine.

 2 – Prime notizie sul “Montonico” in Italia.

Nessun cenno fa Pier de’Crescenzi del Montonico nel “Liber ruralium commodorum”, composto come è noto fra il 1304 e 1305, mentre gli studiosi moderni – si pensi per esempio a Federigo Melis – non annoverano la presenza di tale vino fra quelli che dalla Sicilia e dalla Calabria (soprattutto dall’agro di Tropea) pervenivano in Toscana e Liguria, fra cui il ‘mamertino’ ed alcuni ‘grechi’ puntualmente annotati nei Registri della Società Datini di Firenze [F. Melis, I vini italiani nel Medioevo, Le Monnier , Firenze 1984].

Allo stato attuale delle nostre conoscenze chi ci parla del Montonico del vino che se ne ricava è Vincenzo Tanara, autore della nota opera “L’Economia del Cittadino in villa”, pubblicata a Venezia nel 1687 [Ed. G. Battista Tramontin], ove il nome del vitigno è registrato come “montonego”.

Il Tanara sottolinea un aspetto singolare del Montonico, cioè la sua bontà negli “uvaggi”, ed enuncia una legge universale al riguardo, una sorta di principio teorico, tuttora ritenuto assai valido, allorché sottolinea che “il vino fatto di diverse sorti d’uve riesce meglio che il farlo di ciascheduna specie”. Per esempio, sostiene il Tanara, “l’Albana fa lega mirabile col Montonego, aggiungendo l’uno il saporito al dolce dell’altro”. E chiarisce meglio: “Il montonego non si può lasciare su le viti fino alla sua matura perfettione (sic), perché essendo buona da mangiare e conservandosi assai per il verno, viene rubato. Esso non fa vino dolce, ma saporito” [V. Tanara, L’economia…, Libro I, op. cit.].

Questa caratteristica del Montonico viene sottolineata da L. Seghetti [ne “Il Segnaposto” n 7-2004], il quale ricorda l’attitudine di tale uva “da appendere (cioè, conservare) e consumare nel periodo invernale, soprattutto natalizio”. Tuttavia, secondo una antica tradizione, nell’Abruzzo interno l’uva da conservare e da mangiare a Capodanno non deve essere bianca, essendo il colore bianco associato alle lacrime, ma per buon auspicio rigorosamente nera.

Da una indagine che abbiamo svolto “sul campo” nel Teramano è risultato che alcuni viticoltori locali aggiungono al Montepulciano una quantità di Montonico che oscilla dal 5 al 10 per cento; anzi, secondo i nostri informatori, a tale ‘modus vinificandi’ non sarebbero estranee nemmeno alcune note Aziende vinicole abruzzesi, in barba a quanto dichiarato nelle etichette apposte sulle bottiglie.

Nel suo noto trattato dal titolo “Delle viti italiane”, pubblicato a Milano nel 1825, Giuseppe Acerbi scrive che il Montonico era diffuso in Sicilia nell’agro di Termini Imerese con il nome di “mantonicu”, nelle due qualità biancu e niuru (bianco e nero), ma aggiunge qualcosa che costituisce decisamente una novità. Infatti, l’Acerbi menziona anche una terza qualità, il “Montonicu reusu”, di cui ci offre la seguente descrizione ampelografica, che presenta alcune affinità con quella fatta dal Seghetti:

Foglia quinquelobata, dentata, irregolare, cotonosa, di un verde cupo. Acino bianco, poco ovoide, spesso. Grappoli solitari. Pessimo vitigno” [G. Acerbi, Delle Viti italiane; Silvestri, Milano1825; Rist. Anast., G. Zazzera, Lodi 1999].

Tuttavia, questo giudizio negativo – aggiunge l’Acerbi – è riscattato in Sicilia dal montonico bianco, una diversa qualità che prospera “nei contorni di Palermo” [G. Acerbi, op. cit.].

Il sospetto che il montonico potesse essere un vitigno siciliano viene subito fugato dall’Acerbi il quale ci presenta sorprendentemente il “Montonego bianco” come uno dei pregevoli vitigni “de’contorni di Bologna”, non citato tuttavia, come si è detto in precedenza, da Pier de’ Crescenzi agli inizi del XIV secolo in agro felsìneo, dove il vitigno si diffonderà, come è da supporsi, nei secoli successivi; peraltro vanno notate le diverse designazioni del “Montonico bianco”, senza riportare per ora le rispettive voci dialettali che saranno indicate in seguito: mantonicu in Sicilia, mantonico in Calabria (in agro di Tropea), montonego in territorio felsìneo, montonico in Abruzzo e nelle Marche, regione quest’ultima dove secondo il Moretti il “Montonico”, insieme ad altri vitigni considerati “minori”, aveva “perso d’importanza commerciale”.[v] Queste presenze ampelografiche, così eterogenee fra loro dal punto di vista geografico, non permettono dunque di ipotizzare un’area originaria, dalla quale il vitigno si è irradiato in seguito verso altre Regioni della nostra Penisola.  

3 – Le prime testimonianze del “Montonico” in Abruzzo        

Nel saggio “Conferenze enologiche nel Comitato Agrario Aquilano” [Aquila, Tip.B. Vecchioni, 1878], Speranza Relleva ci offre nella seconda metà dell’800 un quadro della viticoltura che per quanto riguarda l’Abruzzo Ulteriore I non si distacca da quello descrittoci dal Nardi circa un secolo prima.

Infatti nel 1878 il Relleva scrive che nel suddetto territorio, quello aprutino appunto, “la vigna è mista e non bene coltivata. Qui si apprezzano e si preferiscono le cosiddette capanne, cioè le viti maritate agli oppi[vi].

“Questi alberetti (sottolinea ancora il Relleva) sostengono delle viti che producono abbondantemente un’uva bianca chiamata montonico, forse dal grappolo grosso, serrato, con acini di colore verdognolo-sbiadito, che danno un mosto abbondante, insipido-acquoso”.

Nel Teramano, aggiunge il Relleva, in generale “i vini non hanno specialità o pregio distintivo per quanto conosco, e non sono intrinsecamente conservabili e commerciabili. Gli stessi vini cotti di Montorio sono densi, foschi e carichi di vapori di zolfo” [vii]

La descrizione ampelografica fatta dal Relleva nel 1878, conferma che il Montonico era presente anche nelle aree abruzzesi interne e montuose, come appunto quella peligna, e che tale vitigno era noto ovunque per lo più con il nome di “Grappalone, in vernacolo racciappolone o racciapparone” [cfr. F. Cercone Storia della vite e del vino in Abruzzo, Carabba, Lanciano 2008].

È interessante notare come il Montonico non venga menzionato nella già ricordata “De naturali vinorum Historia” di Andrea Bacci [1596] e nello Statuto Municipale di Lanciano del 1592, nel cui agro venivano coltivati solo “moscatello, pergolo, uva pane, uva donnola, precoccio et malvasia” [L. Cirulli, Gli Statuti antichi della Città di Lanciano, Lanciano 2001].

 Il ‘racciapparone’, cioè il montonico, veniva preferito nelle aree di alta collina per la grande resa di mosto e per tal motivo è citato nel 1876 dall’agronomo sulmonese Giuseppe Sebastiani fra le uve coltivate nella Conca Peligna [F. Cercone, Storia … op. cit.].

Il Montonico, sottolinea Giovanni De Plato nel 1908, non arriva mai a completa maturazione e dà un mosto che “risulta acquoso, ricco di sostanze mucillaginose e povere di zucchero”. In breve, “tale mosto deve essere posto a cottura[viii] e ciò spiega il giudizio negativo del barone Giuseppe Durini, appassionato ampelografo di Chieti, il quale in un saggio apparso nel 1820 negli Annali Civili del Regno delle Due Sicilie considera “pessimo” il racciappolone, valutazione che persiste anche nell’Abruzzo Citra in documenti notarili risalenti al primo ventennio dell’Ottocento. [F. Cercone, op. cit.].

Per esempio, in un rogito del notaio Luigi Pagliari di Lettopalena, stilato in data 9 ottobre 1828, si legge che Don Giulio Carosi di Taranta Peligna dà in affitto a tal Vincenzo Toro una vigna con l’obbligo di “rinfortirla con viti di buona uva, tranne lo racciapparone” [Archivio di Stato di Lanciano].

La maggior diffusione di tale vitigno nei Tre Abruzzi si verifica pertanto nella seconda metà del Settecento in concomitanza, forse non a caso, con lo sviluppo demografico che si registra nella nostra Regione e nell’ambito del quale il vino assurge nei diseredati ceti sociali a valore di alimento, donde l’esigenza della quantità rispetto ad una sterile qualità reclamata dai ceti egemoni, per i quali il vino è solo una “bevanda”: in questa dicotomia, dunque, sta tutto il dramma dei ceti rurali!

Giova ribadire tuttavia che la nostra indagine vuole restare nell’ambito prettamente storico e non enologico; pertanto, sottoponiamo all’attenzione degli studiosi ulteriori documenti per meglio inquadrare l’importanza che il Montonico (emergente in paremiologia solo nella funzione di “empibotte”),ha rappresentato nel complesso mondo dell’ampelografia abruzzese.

 4 – Il “Montonico bianco” e l’Esposizione Agraria del 1868 a Chieti

Nel 1868 e dunque sette anni dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia si svolse a Chieti la prima Rassegna dei prodotti agrari della Regione Abruzzo, regione che andava perdendo ormai l’antica suddivisione di Abruzzo Citeriore ed Abruzzo Ulteriore (Primo e Secondo), donde la denominazione “I Tre Abruzzi” con cui era noto nell’ambito del Regno delle Due Sicilie. In tale occasione comparve, a cura di un non identificato F. C., un Saggio di ampelografia della Regione Abruzzese, pubblicato nel 1869 a Chieti per i tipi dell’Editore Del Vecchio. Nel Saggio si legge che il Montonico bianco, noto in area regionale per lo più con i sinonimi di racciapolone, racciapparone e chiapparone (in agro piceno e nel territorio di Macerata anche con i nomi di bianchello o biancame) [ix], era annoverato in Abruzzo tra le uve bianche da vino più coltivate (non vengono fornite notizie sul montonico rosso), e se ne illustrano anche le motivazioni di carattere ampelografico:

“La grossezza dei suoi grappoli, che raggiungono fino al peso di 1 kg ognuno, e la copia del liquido che se ne spreme, hanno fortemente fissata l’attenzione dei nostri contadini e proprietari, contenti più della quantità che della qualità del vino, sicché la si coltiva su larga scala, ma sarebbe necessario limitarne la coltivazione. La maturazioneè lenta, poco uniforme, perché i grappoli sono a chicchi rotondi assai serrati, che nel loro accrescimento esercitano fra loro ai punti di contatto una pressione tale da produrre un sensibile schiacciamento e impedirne la maturità. La disposizione a produrre di questo vitigno è tanta che in un sol tralcio ho contato fino a 16 grossissimi grappoli”.

Il brano riportato è di estremo interesse e merita qualche commento di carattere socioeconomico.

Storicamente, che i ceti rurali si siano preoccupati più della “quantità” – che generava non semplici inconvenienti relativi alle botti o vasi preposti alla conservazione del vino – costituisce un problema di cui tenteremo in seguito di illustrare le cause. Tuttavia, questa visione “commerciale” – il predominio cioè della quantità rispetto alla qualità – sembra che persista ancora nei giorni nostri anche per il Montepulciano, coltivato in aree non abruzzesi (soprattutto in Molise e in Capitanata) e vinificato da alcune Aziende abruzzesi, sicché – vien fatto di pensare – tale uva diventa “abruzzese”appena varca in direzione nord le sponde del Trigno!

Comunque, l’antico “vizietto” di prediligere la quantità rispetto alla qualità era in passato una esigenza comprensibile nel mondo rurale, ma oggi non appare più giustificabile per le nostre Aziende, le quali devono misurarsi con una domanda globale sempre più qualitativamente esigente nell’ambito di mercati diventati ormai mondiali.

In un passato certamente non lontano da noi vi erano invece ragioni profonde, di carattere storico ed antropologico, che nel mondo rurale giustificavano l’esigenza di privilegiare cioè la quantità a scapito della qualità: il contadino infatti ha sempre considerato il vino non solo come “alimento” e “sostanza energetica”, indispensabile nel faticoso lavoro sui campi, ma anche come unico “liquido” a disposizione della famiglia rurale negli anni ’50 del secolo scorso, epoca in cui l’acqua si attingeva ancora con le conche nelle poche fontane pubbliche o in sorgenti spesso poste assai lontane dai centri abitati. Le prime reti idriche, infatti, specie nelle località di montagna (e non solo nei paesi abruzzesi) appaiono per lo più alla fine del secondo conflitto mondiale.

A Cansano (L’Aquila) ancora alla metà del secolo scorso costituiva un dono assai gradito quello di ricevere a Capodanno una “conca di acqua nuova”, la rituale acqua gnova attinta alla sorgente della Canala, posta ai piedi del centro abitato.

Così a Pratola Peligna ed a Vittorito, centri vinicoli della Conca Peligna, il vino era l’unico “liquido” a disposizione della famiglia rurale e con esso non solo si spegnevano gli incendi in casa (causati quasi sempre dal camino lasciato acceso nelle lunghe e rigide notti invernali), ma addirittura si lavavano anche i neonati proprio per mancanza d’acqua in casa!  Nei suddetti paesi era pertanto diffusa la credenza (necessità fa virtù!) che lavare i bambini con il vino fortificasse i loro corpi e li preservasse dalle malattie.[x]

Ma torniamo al nostro “Montonico”, il quale più che nell’area teatina sembra aver trovato le proprie “affinità elettive” non solo in area aprutina ma anche in territorio piceno, ove è ancora noto per lo più con il nome di Chiapparone annoverato, insieme all’Albana, al Marzemino, al Canaiolo nero ed altri, fra i “vitigni minori” delle Marche[xi]. Notizie preziose sulla sua coltivazione si rinvengono tuttavia agli inizi del Novecento in area teramana, che all’epoca si estendeva – giova ricordarlo – fino alla riva sinistra del fiume Pescara, ad esse pertanto occorre far riferimento.

5 – Il “Montonico” nella Provincia di Teramo agli inizi del Novecento

Nel 1904 un noto enologo marchigiano, Rodolfo Forlani, pubblicò uno studio sul vino cotto prodotto in area teramana [xii]ed in tale occasione si interessò anche del Montonico, mettendo in risalto la straordinaria capacità di questo vitigno di adattarsi ad ogni tipo di terreno, anche sotto il profilo altimetrico. Sicché se da un lato si rinveniva diffuso lungo la fascia adriatica, dall’agro di Silvi fino a Tortoreto, dall’altro esso prosperava perfettamente lungo l’entroterra collinare, come appunto a Bisenti, ed anche nei territori di località come Castelli, Isola del Gran Sasso, Civitella del Tronto ed altre situate in media ad altitudini superiori.

Il “Montonico”, secondo il Forlani, veniva coltivato per la sua grande “resistenza alle avversità meteoriche, specie alla grandine, agli attacchi di parassiti e per la consistente resa in mosto (circa 85 litri per quintale d’uva)”, mentre in media per ottenere un ettolitro di mosto occorrono, come è noto, circa 1,35 quintali di uva.

Di conseguenza, il Giuliani sottolinea [Il vino in Abruzzo, op. cit.]:

“Queste proprietà, assieme a quella di ben adattarsi ai diversi terreni, giustificavano la larga diffusione di questo vitigno. Tuttavia, il ritardo del germogliamento (sic) e della fioritura determinava quasi sempre la imperfetta o troppo differita maturazione dell’uva, tanto da essere costretti a ricorrere alla pratica della cottura del mosto”.

Tuttavia, la germogliazione tardiva del Montonico non doveva rappresentare, con ogni probabilità, un fenomeno ampelografico costante, per cui la cottura del mosto, che nelle annate favorevoli poteva – come è da ritenersi – essere omessa, va intesa più come risultato di una prassi di natura precauzionale, cioè come una necessità, e non come regola nella vinificazione. Infatti, la trasformazione del vino in aceto significava per il contadino vanificare un anno di duro lavoro, donde il detto con valore paremiologico e tuttora assai diffuso nel mondo rurale: “Chi tiene la vigna, tiene la tigna”!

Degna di attenzione è poi la circostanza che le viti di Montonico venissero “maritate” nel Teramano agli oppi (aceri campestri) e che le sue uve venissero esportate per ferrovia come uva da tavola,soprattutto in Germania ed in area mitteleuropea: come ci ricorda il Franchetti, le stazioni di spedizione, erano soprattutto Castellamare Adriatico (poi Pescara), Rosburgo (poi Roseto degli Abruzzi) e Giulianova. Il “Pergolone” invece veniva spedito da Ortona.

L’uva, sottolinea il Franchetti, veniva trasportata fin dal 1875, quando ormai era stata completata la linea ferroviaria adriatica, utilizzando – incredibile a dirsi! – ben “sei o sette treni speciali al giorno”[xiii].

Il Giuliani scrive che le uve Montonico erano conosciute anche col nome di “Porto Rose”e che la provincia di Teramo esportava ogni anno circa “duecentomila quintali di tale uva”: in realtà si trattava di una sottovarietà del Montonico, denominata “uva di Poggio delle Rose”, la già menzionata frazione del Comune di Cermignano (Teramo), come ricorda anche Aurelio Manzi [Origine e storia delle piante coltivate in Abruzzo, Carabba, Lanciano 2006].

Quasi a porre fine alle dispute sull’argomento il Giuliani sottolineava nel 1975, che “sembra lecito poter concludere come nella situazione viticola odierna non vi sia più posto per il montonico” e ciò spiegava, secondo tale Autore, come nella Provincia di Chieti si fosse registrata “una persistente flessione di vigneti di tale varietà”. [G. Giuliani, Il Vino in Abruzzo, op. cit.]

A nostro avviso tale andamento appare condivisibile solo come fenomeno che abbraccia il decennio 1965-1975, alla luce dei quadri statistici che andiamo subito ad esaminare e nei quali le superfici vignate a Montonico sono state messe a confronto con quelle vignate a Trebbiano, subentrato gradualmente nei territori coltivati a Montonico. Diciamo subito che la graduale sostituzione del montonico con il trebbiano, rappresenta, come vedremo nel prossimo capitolo, un fenomeno che appare più evidente nella provincia di Chieti.

6 – Superfici vignate con “Montonico Bianco” nelle 4 Province Abruzzesi, Anno 1970, in ettari

L’Aquila: Montonico… ettari 16,19   (Trebbiano 15,54)

Teramo: Montonico…   ettari 204,30 (Trebbiano 476,05)

Pescara: Montonico…   ettari     6,47   (Trebbiano   97,34)

Interessante è l’incremento del Trebbiano (476 ettari)registrato nella provincia di Teramo negli Anni Settanta del secolo scorso, ma va sottolineata nello stesso periodo anche la tenuta di tutto rispetto del Montonico.

Per quanto concerne la provincia di Chieti, non inclusa nella Tabella sopra riportata, abbiamo i dati che si riferiscono – sempre in ettari – al decennio 1965-1974, forniti per tale periodo dall’I.P.A. (Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura):

Anno 1965 Chieti Montonico bianco … ettari 580

Anno 1970 Chieti Montonico bianco … ettari 476

La provincia di Chieti, dunque, attorno agli anni Settanta del secolo scorso, era quella che presentava una maggior produzione di Montonico (più del doppio rispetto alla provincia di Teramo), un dato questo decisamente rilevante.

Mentre da un lato, nel periodo 1971–1974, furono realizzati in provincia di Chieti nuovi impianti di Montonico soltanto per complessivi ettari 10, dall’altro nello stesso periodo furono estirpati nel solo anno 1974 circa 381 ettari di “Montonico bianco”, sostituito con “Trebbiano toscano”, un vitigno quest’ultimo – sottolinea il  Giuliani – che “è particolarmente generoso, ma una tale caratteristica non dovrebbe essere sfruttata al massimo dai viticoltori abruzzesi, per evitare il conseguimento di una produzione di scarso pregio qualitativo, specie per quanto attiene al limitato contenuto zuccherino” [G. Giuliani , op. cit.].

Relativamente all’anno 1970, che potremmo definire “fatidico” anche a causa del costante regresso del “Montonico bianco” in area teramana, il Catasto viticolo “pro tempore” segnalava comunque per tale vitigno una coltivazione di ettari 721,38, sicché malgrado tutto la coltivazione del Montonico, per la sua elevata resa e resistenza ai fenomeni atmosferici, conservavanella provincia di Teramo un’importanza tutt’altro che trascurabile.   

Nelle loro descrizioni di carattere ampelografico gli enologi non appaiono propensi a mettere in rilievo sostanziali differenze tra il Montonico di Bisenti e quello di Cermignano e di Poggio delle Rose: in particolare, il Manzi sottolinea che l’uva di Poggio delle Rose costituisce una sottovarietà locale di Montonico destinata alla vinificazione, mentreRosario Quieti, nel saggio dal titolo “Vino e commercio dell’uva da mensa nell’Abruzzo Teramano” [Cioschi, Teramo 1925], ne metteva in risalto la qualità come “uva da tavola”, quasi a ribadire le due anime dello stesso vitigno.

Il “Montonico” di Bisenti e di Poggio delle Rose

I rogiti più antichi che abbiamo consultato e relativi al territorio di Bisenti (Teramo), sono quelli stilati dai notai Domenico De Amicis (1641- 1642) e Nicola Eusanio Basilicati (1827- 1832), ma da essi – che abbiamo ritenuto i più importanti per il periodo in cui gli atti furono rogati – non sono emerse notizie utili ai fini della nostra ricerca sulla coltivazione del Montonico a Bisenti nei secoli XVII-XIX. [xiv]

Va tuttavia segnalato che recentemente sono state effettuate ulteriori descrizioni ampelografiche del Montonico, con particolare riferimento all’uva coltivata proprio in territorio di Bisenti e di Poggio delle Rose e con la specificazione di nuovi impieghi di questo straordinario vitigno:

“Il grappolo è grande, lungo, compatto o molto compatto, cilindrico-piramidale. La maturazione tardiva avviene in media nella seconda decade di ottobre ma il periodo di raccolta può variare in funzione dell’uso del mosto. Se anticipato, viene utilizzato per base spumante grazie alla sua discreta acidità. Il montonico predilige un ambiente temperato e fresco, con terreni non molto fertili e non presenta un comportamento vegeto-produttivo molto costante. Il vino è di colore giallo più o meno carico, a volte con riflessi verdognoli, di gradazione medio-bassa, con profumo di fruttato e spezie non ben marcati, lievemente astringente e dotato di buona struttura” [M. Di Cintio, Il territorio, le Aziende, i vini d’Abruzzo, a cura di ARSSA, Pescara 2008].

Riteniamo sia utile riproporre anche la descrizione presentata da P. Celli, in Coltura della vite, [op.cit.]:

“Il montonico detto anche nei diversi paesi fermano, racciappoluta, uva chiusa, chiapparone, uva serrata, è tardivo nel germogliamento; di vegetazione robusta, mostra una resistenza relativa alla peronospera e non all’oidium. L’esposizione meridionale e il terreno sciolto gli sono favorevoli. Ha tralcio robusto e ruvido, striato finamente con midollo abbondante; internodi della lunghezza media di centimetri 13, gemme leggermente tomentose; cirri robusti biforcati e frequenti alla sommità. Foglia piuttosto grande, consistente, di un bel verde cupo nella pagina superiore, di un verde sbiadito nell’inferiore, liscia superiormente, un po’ ruvida e lanuginosa inferiormente; quinquelobata, largamente ed irregolarmente dentata, con seni ottusi, i due inferiori molto meno profondi dei superiori e chiusi sul picciuolo, che è piuttosto lungo; la caduta delle foglie è tardiva. Grappolo di forma varia, ora alato, ora conico, ora gemino o trigemino sull’istesso picciuolo, peduncolo e pedicilli corti, acini grandi rotondi dapprima, ma che poi prendono la forma schiacciata, formando un grappolo molto serrato. Essi all’epoca della maturanza, che si avvera ordinariamente in ottobre, diventano di color verde giallastro, e solo a maturanza inoltrata prendono un colore giallo fulvo. Buccia piuttosto dura, con polpa molto succulenta, sapore piuttosto acido, non raggiungendo che raramente la perfetta maturanza; da ciò la necessità in alcuni luoghi della cottura del mosto per scemare l’acqua ed accrescere relativamente lo zucchero. Con questa qualità d’uva è raro che si faccia vino speciale, ma si mescola senza proporzione alcuna a altre qualità. è questo il principalissimo dei vitigni in tutto il teramano a causa dell’abbondanza del prodotto”.

È superfluo aggiungere che il ben articolato saggio di Prospero Celli contiene molte e assai notevoli informazioni sui vitigni, sui vini e su quanto abbiamo via via presentato e discusso nel nostro presente scritto.

È interessante al riguardo anche la descrizione delle Caratteristiche varietali fattane da L. Seghetti [Il Montonico…  op. cit.]:

Apice: piccolo a ventaglio, lanuginoso, di colore verde-giallo;

 Foglia: medio-piccola, pentagonale, quinquelobata, margini tormentati, seno peziolare semi-aperto o   chiuso a lira, dentatura regolare di media grandezza, picciòlo corto;

Grappolo: grosso-lungo, cilindrico allungato, a volte con ala piccola, compatto;

Acino: medio-grande, rotondo, di colore verde-giallo, buccia spessa e consistente;

Avversità: media tolleranza nei confronti della botrite;

Vino: giallo paglierino con riflessi verdognoli e profumo leggermente fruttato, con sentore di erba fresca e fieno, fresco (acidulo), retrogusto amarognolo, buon corpo, persistente.”

Tuttavia nel saggio dell’ARSSA in precedenza citato e pubblicato nel 2008, la presenza del Montonico (i.g.t.) viene segnalata solo in due aree dell’Abruzzo Teramano, in agro di Morro d’Oro ed in quello di Torano Nuovo: dunque non si parla – e ciò appare sorprendente – della produzione di “Montonico” a Cermignano e Bisenti, località quest’ultima che presenta una vocazione per così dire “storica” nei confronti di tale vitigno. Nella ricorrenza della famosa “Festa dell’asino”, che un tempo si celebrava il 2 agosto in tale ridente paese del Teramano[xv], si coglie probabilmente un residuo dei “vinalia rustica” che in epoca romana si svolgevano il 19 agosto per scongiurare le manifestazioni del maltempo e soprattutto la temutissima grandine, capace di vanificare in pochi minuti il lavoro di un intero anno sui campi e ridurre in povertà il viticoltore.

A questo punto c’è da chiedersi quale destino sia riservato in futuro al “Montonico” nell’ambito dell’attuale politica vitivinicola regionale. Guido Giuliani, nel suo importante e già citato saggio del 1975, Il vino in Abruzzo, concludeva che:

“allo stato delle cose, tutto considerato, sembra lecito poter concludere che nel quadro della situazione viticola odierna non vi sia più posto per il Montonico. Ed è perciò spiegabile perché nella Provincia di Chieti, negli ultimi dieci anni, si è registrata una persistente flessione di vigneti di tale varietà. La cultivar è tuttavia compresa nell’elenco dei vitigni per uve da vino, la cui coltivazione è raccomandata alle Province di Catanzaro, di Frosinone, di Ragusa e di Teramo, mentre è autorizzata in quelle di Cosenza, di Foggia e di Reggio Calabria. Nessun disciplinare di produzione di vino a denominazione di origine controllata prevede l’impiego delle uve di Montonico Bianco”.

Cosa rispondere all’illustre ampelografo? Noi non siamo così pessimisti: è probabile che i nostri enologi sapranno trovare in un futuro non molto lontano da noi una giusta “utilizzazione” di questo vitigno, che va salvaguardato perché appartiene comunque alla storia ampelografica del nostro Abruzzo.

Non ci resta, pertanto, che ringraziare Walter Capezzali e Marcello Sgattoni per le segnalazioni bibliografiche fatteci sull’argomento.

                                                                                                                            Franco Cercone


[i] Come necessaria anteprima bibliografica occorre segnalare alcune importanti opere sul nostro argomento (qualcuna non particolarmente ricca ma pur sempre significativa) che sono state scritte e pubblicate quando la suddivisione geografica e amministrativa dei Tre Abruzzi era in essere, ancor dopo l’Unità d’Italia: G. M. Galanti, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, Napoli, Gabinetto Letterario, 1793 (t.I), 1794 (t. II e t. III); nuova ed. a c. di F. Assante e D. Demarco, Napoli, E.S.I., 1969, voll. 1-2 (la poderosa opera, sebbene relativa anche all’agricoltura e ai suoi prodotti, non considera né Bisènti né Cermignàno; le “voci” – in verità sommarie e di carattere prevalentemente descrittivo della situazione “feudale” del momento – redatte da L. Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli…, Napoli, Vincenzo Manfredi, 1797, t. II,  voce “Bisenti” (ove non si menziona la coltivazione della vite); t. III, voce “Cermignano” (ove si menziona Podio [delle Rose] ma non specificamente la coltivazione della vite); B. Quartapelle, I principii della vegetazione applicati alla vera Arte di coltivar la terra per raccorre dalla medesima il maggior possibile frutto, Teramo, Berardo Carlucci e Sebastiano Polidori, 1802 [ristampa anastatica: Sala Bolognese, Arnaldo Forni, 1981, a c. del Consorzio di Bonifica Integrale dei Colli di Tortoreto e Sant’Omero, Nereto (TE)] t. II, Cap. XXI, Della Vite, e della scelta delle Uve; Cap. XXII, Della maniera di piantare e di coltivar le viti; Cap. XXIII, Delle principali opere annuali necessarie per le viti; Cap. XXIV, Della raccolta dell’Uva e della maniera di farne il Vino; L. Ercole, Dizionario Topografico Alfabetico Portatile…della provincia di Teramo…, ivi, Berardo Carlucci, 1804, voce “Bisenti” («Il Territorio è in parte selvoso, ma fertile assai principalmente in vino ed oglio»);  voce “Cermignano” («Il suo territorio benché montuoso è nondimeno fertile specialmente in grano e vino…Ha con sé quattro Ville, cioè Poggio delle Rose di anime 521…»); G. Cornacchia, Ricordi di economia campestre, Teramo, Giuseppe Marsilii, 1831 [ristampa anastatica: Sala Bolognese, Arnaldo Forni, 1983, a cura del Consorzio di difesa delle produzioni intensive – Teramo], t. I, Cap. XIV, Divisione delle coltivazioni [anche delle viti]; Cap. XX, Viti, Olivi, Frutteti; t. II, Cap. I, Della Cantina e del Vino,  [f.1-2] f.t., Strettojo da Olio e da Vinacce; A. Amary Storia naturale inorganica della provincia teramana, Aquila, Tipografia Aternina, 1854 [ristampa anastatica a cura del Centro Culturale Aprutino, Bellante (TE), con scritti di G. Di Cesare, Ai Signori sottoscrittori, pp. VII-XIV; Indice onomastico e toponomastico, pp. XXXV-XLIV (Bisènti, p. 14, p. 125; Cermignàno, pp. 13-14, p. 108); M. Sgattoni, Presentazione, pp. XV-XIX; 1. “Memorie” scientifiche di Antonio Amary pubblicate o segnalate ne «Il Gran Sasso d’Italia» di Ignazio Rozzi, pp. XX-XXIII; 2. Scritti, pp. XXIV-XXXI; Clary Caradonna Carelli, Introduzione, pp. XXXII-XXXIII]; «Monografia della provincia di Teramo», Teramo, Giovanni Fabbri, 1893, vol. III, Condizioni economiche, Cap. XIX, L’Agricoltura nella provincia di Teramo. Cenni del prof. Prospero Celli, e più in particolare il § Estensione territoriale – Zone agrarie, e il § Coltura della vite; Ignazio Rozzi e la storia dell’agricoltura meridionale. Convegno (Teramo, 28-29 giugno 1970) organizzato dal Centro di Ricerche Storiche “Abruzzo Teramano”, S. Atto di Teramo, Edigrafital, 1970 [con “interventi” relativi anche alla viticoltura]; Centro di Ricerche Storiche “Abruzzo Teramano” (a c. di), Una Rivista agraria dell’Ottocento preunitario: «Il Gran Sasso d’Italia» di Ignazio Rozzi, S. Atto di Teramo, Edigrafital, 1970 [anche con riferimenti sui vitigni, sui vini, sui mosti, ecc., pubblicati sulla «Rivista»].

[ii] L’A. allude forse alla sapa, che ci viene descritta da Plinio nel XIV Libro della Naturalis Historia, ma in questo procedimento il mosto è ridotto mediante ebollizione alla metà mentre il defrutum risulta ridotto di due terzi.

[iii] Non è dello stesso avviso G. Battista Pacichelli, il quale nelle sue Lettere familiari, istoriche ed erudite, Tomo I,  Napoli 1695, soggiornando a Penne come Visitatore degli Stati Farnesiani, poté degustare “moscati crudi” a proposito dei quali osserva : “E allora conobbi in vero che non sono malagevoli nell’Abruzzi i vini non bolliti, se da persone non pigre dipendano le vendemmie”, volendo con tale osservazione sottolineare, come fa anche A. Bacci nel 1596 nel suo trattato De naturali vinorum historia (a proposito dei vini prodotti nella Marsica circa Fucinum lacum) che i  vini crudi richiedono grande attenzione e maggior lavoro, se non impegno, rispetto ai cotti.

[iv] Cfr. A. Bacci, De vinis Italiae ecc., Libro V (De locis ac vinis circa Fucinum Lacum), Roma 1596. È significativa a proposito la circostanza che il trebbiano non sia annoverato fra i vitigni elencati negli Statuti del 1598 di Lanciano, il che lascia supporre che dall’area Marsa tale vitigno si sia diffuso nel resto della Regione.

[v] G. Moretti, Evoluzione della viticoltura nella Marca Anconetana a partire dal 1871; in AA. VV. Vitigni e vini della Marca di Ancona, a cura di R. Ceccarelli e della C.C.I.A.A., Prov. di Ancona 1998. Cfr. anche Il Montonico. La riscoperta di un vitigno, a c. di G Moretti, L. Seghetti, B. Serra, A. Tarquini, in “Vignevini”, 2001, n. 1-2.

[vi] “Oppio”, “Acero Oppio”, varietà di “Acero campestre” (acer campestre L.).

[vii] Oggi sappiamo che questa ‘negatività’, evidenziata nella prima metà dell’800 soprattutto dai Viaggiatori inglesi (E. Lear e R. Keppel Craven), è stata riscattata a Montorio al Vomano (Teramo) da alcune Aziende che producono un raffinato vino cotto, assai apprezzato soprattutto come “digestivo”.

[viii] G. De Plato, I vini annosi abruzzesi; in “Annali delle Stazioni Agrarie Sperimentali”, vol. XLI, 1908, p.673.

[ix] Secondo alcuni Autori il Bianchello del Metauro è da annoverarsi tra i vini destinati ‘in futuro’ a rappresentare la viticoltura marchigiana. Cfr. Dalla vite al vino. Miti, tradizioni, arte e storia, a cura di B. Salvucci e con il patrocinio della Prov. di Macerata e l’Ass. Pro Loco Piediripa; Pollenza (Mc.) 2001. 

[x] Cfr. AA. VV., Quarta Sagra del vino; Vittorito, 7-8 agosto 1998, con il Patrocinio del Comune di Vittorito. Per il problema, in generale, cfr. G. Dell’Orso, Aufinum-Ofena. La Terra dei Padri; Japadre Ed., L’Aquila 1999.

[xi]Cfr. Vitigni e vini della Marca di Ancona, a cura di R. Ceccarelli, CIA, Ancona 1998. In territorio di Osimo e Loreto il chiapparone è noto anche con il sinonimo di biancame. Cfr. AA.VV., Primi studi sulle viti della Prov. di Ancona eseguiti nel 1871 dalla Commissione Ampelografico, Ancona 1871.

[xii] Cfr. R. Forlani, Il vino cotto nella Regione Aprutina; in ‘Agricoltura Italiana’, n° 539, Anno 1904. Nella prima metà dell’800 furono i Viaggiatori Europei del Grand Tour, soprattutto gli inglesi Keppel Craven ed Edward Lear, a lanciare anatemi nei confronti del vino cotto aprutino, in special modo contro quello prodotto a Montorio al Vomano. Vedasi per tutti K. Craven, Viaggio attraverso l’Abruzzo e le Province Settentrionali del Regno di Napoli, vol. I, a cura di I. Di Iorio, Sulmona 1982.

[xiii] L. Franchetti, Condizioni economiche ed amministrative delle Province Napoletane, Firenze 1875.Cfr. anche F. Cercone, La meravigliosa storia del Montepulciano d’Abruzzo, Amaltea Ed., Corfinio 2000.

[xiv] Come del resto sembra evincersi anche dalle indagini pubblicate nei repertorii dell’epoca (cfr. supra,*). Vogliamo esprimere un vivo ringraziamento alla dott.ssa Claudia Rita Castracane, già Direttrice dell’Archivio di Stato di Teramo, per la preziosa collaborazione offertaci al momento delle nostre ricerche.

[xv] G. Pansa, Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, vol. II; Sulmona 1927.

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