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IL CERASUOLO DELLA CONCA PELIGNA

Una breve ma necessaria premessa

[Saggio di Franco Cercone, pubblicato da MAC Edizioni, Corfinio AQ 2016. Contiene integrazioni dell’A. rispetto all’edizione stampata.]

Nell’ottobre del 1868 ebbe luogo a Chieti la Prima Esposizione Agraria Regionale e con l’occasione fu redatta a cura di uno sconosciuto agronomo (che si firma F.C.) un importante Saggio di Ampelografia della Regione Abruzzese, pubblicato l’anno successivo (1869) per i tipi dell’Editore teatino Del Vecchio.

Questo Saggio conferma la lenta espansione del vitigno montepulciano lungo la Val Pescara, ostacolata circa cinque anni prima dalla nefasta apparizione della fillossera nella nostra Regione, in concomitanza con la proclamazione del Regno d’Italia.

Il vitigno, partito – si fa per dire – dalla sua storica sede abruzzese, cioè la Conca Peligna, dove è segnalato nel 1792 dal bibliotecario di re Ferdinando IV di Borbone, Michele Torcia, era ancora sconosciuto in area marrucina e frentana. Se ne ha conferma da una operetta dell’agronomo Raffaele Sersante (ma in realtà si trattava di una monografia composta dal noto enologo Francesco de Blasiis, di Città Sant’Angelo) dal titolo “Trattato teorico-pratico dell’arte della vinificazione, con riguardo specialmente alle diverse qualità di uve” [Tip. F. Vella, Chieti 1856].

Il de Blasiis, ricercato dalla polizia borbonica per le sue idee liberali, era stato costretto a rifugiarsi a Firenze, dove fu benevolmente accolto dall’Accademia dei Georgofili e prima di fuggire aveva affidato in custodia il suo manoscritto al Sersante, il quale, ad onor del vero, conferma nella Introduzione la paternità dell’opera al De Blasiis e ne tesse gli elogi.

Dopo aver sottolineato l’importanza del “tagliamento dei vini”, il Sersante stila un elenco di uve da lui ritenute ideali per “affinità elettive” negli uvaggi, e fra queste sono annoverate “le uve aromatiche dette moscato, malvagia e aleatico”, nonché il trebbiano, chiamato uva passa ma anche camplese. Tuttavia su una probabile derivazione del camplese da Campli, nota località del Teramano, egli non si pronuncia ed anzi si trincera in un prudente silenzio,perché la dizione antica di questo aggettivo sostantivizzato non era “camplese”, ma “campolese”, non citato comunque da G. Pansa [Saggio di uno studio del dialetto abruzzese, Lanciano1885], daG. Finamore[Vocabolario dell’uso abruzzese. Città di Castello 1898], daE. Giammarco[Dizionario Abruzzese e Molisano, voll. 4, Roma 1976] e soprattutto nel recente “Vocabolario del dialetto raianese”, di D. Venanzio Fucinese[Raiano2008], località situata a nord-ovest della Conca peligna.

Ora fra i vitigni menzionati dal Sersante non è annoverato il montepulciano, malgrado il pressante invito,  rivolto ai viticoltori abruzzesi dal barone teatino Giuseppe Durini nel periodico  Annali Civili del regno delle Due Sicilie [n° 36, Napoli 1820], a “moltiplicare nei Tre Abruzzi la Lagrima,  l’Aleatico e il Montepulciano”, in modo da privilegiare la ‘qualità’ e non la ‘quantità’ dei vini nella nostra Regione, un appello, questo, da ritenersi ancora valido oggi malgrado che non poche aziende vinicole abruzzesi facciano talvolta orecchie da mercante su questo scottante tema che investe il futuro della nostra viticoltura.

Questo pregiato vitigno, il montepulciano appunto, si rinviene citato – allo stato attuale delle nostre conoscenze – per la prima volta da Michele Torcia, il colto bibliotecario di re Ferdinando IV di Borbone, nella sua opera dal titolo “Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’Peligni fatto nel 1792” [Napoli 1793], dove evidentemente prosperava da alcuni lustri.

E pensare che questa splendida uva, pervenuta – non sappiamo precisamente quando – dall’agro toscano di Montepulciano a quello peligno, aveva anche avuto, per dirla con il Veronelli, il proprio “Vate Sacro”. Il famoso storico sulmonese Panfilo Serafini aveva infatti illustrato nella sua Monografia Storica di Sulmona, apparsa nel 1853 (nel periodico Il regno delle due Sicilie descritto e illustrato), l’evoluzione ampelografica del montepulciano, che già nella prima metà dell’800 si presentavadiversificato nelle due specie di premutico (o primaticcio) e cordisco (o tardivo), anche se era quest’ultimo ad essere considerato il vero e proprio montepulciano.

Vien fatto di pensare dunque che già agli inizi del ‘900 Sulmona poteva non solo fregiarsi del titolo di “Patria del Montepulciano d’Abruzzo” ma anche di Città del Cerasuolo, dato che allo stato attuale delle nostre conoscenze la prima notizia storica su questo particolare “modus vinificandi”, del vitigno montepulciano ci è offerta dal colto Viaggiatore tedesco Woldemar Kaden, durante il suo pur breve soggiorno nella Patria di Ovidio nell’agosto del 1874. 

Ora, ci sembra proprio questa la sede opportuna per sottolineare che noi non siamo né enologi e né ampelografi. Apparteniamo infatti alla famiglia degli studiosi (ahimè sempre più rari!) che si basano nelle loro ricerche storiche solo sui documenti conservati nei nostri polverosi Archivi pubblici e privati. Pertanto per onestà intellettuale dobbiamo evidenziare ancora una volta l’importanza di un documento segnalato nel nostro saggio “Storia della vite e del vino in Abruzzo” [Carabba Ed., Lanciano 2008]. Si tratta di una non nota opera di G. Battista Pacichelli (il famoso Autore de Il Regno di Napoli in prospettiva, Napoli 1703), dal titolo Lettere familiari, istoriche et erudite, pubblicate a Napoli nel 1695 e che merita la massima attenzione.

Infatti nel Tomo I delle citate “Lettere familiari”, il Pacichelliscrive che trovandosi a Capestrano in qualità di Visitatore degli Stati Farnesiani in Abruzzo, apprende dai nativi del luogo che un esponente della Casa fiorentina dei Bardi “manipolava” nella suddetta località “vini assai simili alli verde e Montepulciani, e che per tali ne facesse gratuito spaccio a Roma e Firenze”.

Si noti innanzitutto il nome “(vini) Montepulciani”, indice questo di più vini originari dell’agro di Montepulciano e diffusi negli Abruzzi, ribadendo così quanto aveva sottolineato Sante Lancerio (bottigliere di papa Paolo III) all’incirca un secolo e mezzo prima, nel saggio Della natura dei vini e dei viaggi di Papa Paolo III (1549):

“Il vino di Montepulciano è perfettissimo tanto il verno quanto la state,

et meglio è il rosso la state”.

Del resto, quando compone il ditirambo Bacco in Toscana, che termina con il celebre verso “Montepulciano, d’ogni vino è re”, il Redi non intendeva affatto il vino Montepulciano, all’epoca inesistente, ma il toponimo Montepulciano, il che reclama alcune notizie di carattere storico per comprendere meglio il senso dell’espressione “vini montepulciani”.

Era avvenuto infatti che nel 1579 Costanza Piccolomini, “utile Signora del Marchesato di Capestrano e Baronia di Carapelle”, avesse venduto i suoi possedimenti situati nella Valle del Tirino (o Valle Tritana) al Granduca di Toscana Francesco dei Medici, il quale come si evince dal  carteggio con il suo Governatore Gentile Acciaioli, aveva ampliato il patrimonio ampelografico della Valle arricchendolo di diversi vitigni originari del territorio di Montepulciano, i quali ci chiariscono così il significato del termine “montepulciani” (e non montepulciano) usato al plurale da Giovan Battista Pacichelli.

Dopo la prima menzione fatta dal Torcia nel 1792, bisognerà attendere all’incirca un ventennio, prima di avere ulteriori notizie del montepulciano in agro peligno. E ci aiutano in tal senso alcuni atti notarili, segnalatici da R. Carrozzo, oppure venuti alla luce durante le nostre ricerche condotte negli Archivi di Stato.

Ne citiamo uno per tutti. Sub anno 1819, Notar Vincenzo Stecchini, di Sulmona, stila un contratto d’affitto di un terreno tra la famiglia sulmonese De Amicis Aceti ed un contadino di Sulmona, tal Giuseppe La Vella, con l’obbligo da parte di quest’ultimo di “piantarci viti di buona qualità, vale a dire di Monte-Polciano (sic) e Tivolese… e di impalare detta vigna a sue spese”.

Nel frattempo si era verificata (seconda metà del ‘700) una diffusione del Montepulciano anche nell’Italia centro-settentrionale. Così Girolamo Baruffaldi nel suo Bacco in Giovecca (1758) ci parla della presenza del montepulciano nel Ferrarese ed altrettanto fa con maggior numero di notizie un grande ampelografo del Mantovano, Giuseppe Acerbi, il quale parlando del montepulciano nel suo trattato Delle viti italiane (Milano 1825) sottolinea in riferimento a Valenza Po quanto segue:

“Questa specie di uva, venuta a noi dalla Toscana da non molti anni, è già sufficientemente sparsa sul nostro territorio e ritiene tuttavia il nome Montepulciano forse per essere stata presa su quei colli, non essendovi in Toscana nessuna uva che ne porti il nome”.

Erano noti dunque i vini di Montepulciano ma non un vino montepulciano, all’epoca del tutto inesistente. Ce lo conferma un famoso passo del “Candido” di Voltaire, il quale nel Cap. XXIV descrive una lauta cena innaffiata con “vino di Montepulciano”, allorché trovandosi a Venezia nel 1759, invitò alcuni amici in una locanda sita in piazza San Marco in cui dimorava, “a mangiare maccheroni, pernici di Lombardia, uova di storione, ed a bere vino di Montepulciano”, a riprova della fama raggiunta ovunque dai vini prodotti nel territorio di tale località toscana.

Più tardi, nel 1853, il patriota e storico sulmonese Panfilo Serafini ci offre nell’opera Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato un importante quadro evolutivo del montepulciano che risale almeno ad un quinquennio precedente. Scrive il Serafini che le viti più comuni nella Conca peligna, “sono il montepulciano, sia cordisco che primaticcio, ed il Tivolese”. Era il cordisco tuttavia ad essere considerato “il vero e proprio montepulciano”.  

Il Serafini segnala tuttavia anche “una diversa specie di montepulciano”, difficile oggi da individuare (forse il Prugnolo, oppure il Sangiovese).

Nessuna menzione fa invece lo Storico sulmonese in merito al Cerasuolo, vino ricavato (per mutuare una espressione medievale benedettina) da un particolare modus vinificandi il montepulciano, sul quale tace nel 1876, come vedremo in seguito, l’agronomo peligno Giuseppe Sebastiani. E ciò appare decisamente singolare, perché due anni prima, nell’agosto del 1874, il colto Viaggiatore tedesco Woldemar Kaden nel suo pur breve soggiorno a Sulmona ci offre come vedremo in seguito quella che allo stato attuale delle nostre conoscenze è da considerarsi la prima menzione del Cerasuolo.        

Il Sebastiani, su richiesta del sindaco pro tempore di Sulmona, redige una Relazione sulle viti e sui vini di Sulmona, dalla quale stralciamo per ora solo la parte iniziale, quella appunto che in tale sede interessa:

“Sulmona 30 marzo 1876,

Le viti che comunemente si coltivano nel tenimento di Solmona (sic) e dalle quali si ricava la maggior quantità di mosto, sono di uva appellata montepulciano nero, e questo è di due specie, cioè il primaticcio, che chiamasi pure “gaglioppo”, ed il serotino (cordisco o tardivo), che si coltiva a preferenza dell’altro. Coltivasi pure e molto attesamene la vite che dà l’uva detta Camplese, ossia il trebbiano, ed avesene bianca e nera. Per formare vino sonovi altresì le seguenti specie di uva, cioè la Malvagia bianca e nera […], Moscatello bianco e nero […], il Canaiolo bianco e Canaiolo rosso […]”.

Vi erano dunque diverse uve a bacca nera che potevano essere vinificate secondo la “tecnica” del Cerasuolo,ma su quest’ultimo il Sebastiani tace del tutto ed altrettanto fa l’agronomo a proposito della Lagrima, segnalata in agro sulmonese dal Torcia nel 1792 insieme al Montepulciano e scomparsa misteriosamente dal panorama ampelografico peligno, dove attende da circa due secoli e mezzo di farvi nuovamente ritorno come Ulisse alla sua Itaca.

Tuttavia, come si è accennato, due anni prima della Relazione del Sebastiani fa il suo ingresso trionfale nel panorama enologico peligno quella notizia che attendevamo nel corso delle nostre indagini. Infatti il Viaggiatore tedesco Woldemar Kaden, di passaggio in terra peligna, ci fornisce quasi per caso, come vedremo in seguito, la prima notizia che possediamo in Abruzzo sul Cerasuolo, da lui chiamato (e ciò è significativo) “vino di color rosa”, ottenuto con una particolare vinificazione del montepulciano, la nuova uva che da poco aveva riempito di sé la Conca Peligna. 

Ci sia concesso pertanto, a mo’ di conclusione di questa necessaria premessa, di sottolineare come il nostro saggio dal titolo La meravigliosa storia del Montepulciano d’Abruzzo [Amalthea, Corfinio 2000] abbia costituito l’unico documento presentato nel 2007 dal Ministro per le Attività Agricole pro tempore, G. Alemanno, nel contenzioso sollevato a Bruxelles  dal Comune di Montepulciano e dalla Provincia di Siena contro la Regione Abruzzo, per il nome Montepulciano dato al nostro famoso vino, che occupa ormai il terzo posto nell’ambito delle vendite a livello mondiale.

Sappiamo come è andata a finire questa vexata quaestio e la riferiamo utilizzando un articolo apparso in data 26 ottobre 2010 sul quotidiano “Il Centro” e dal titolo “La Carica delle DOC. L’Abruzzo scala il podio dei vini di qualità”:

 “Nei giorni scorsi il Ministro Galan ha fugato alcuni timori rispetto all’utilizzo del nome Montepulciano, (che è) il nome geografico delle tre denominazioni di origine ( Vino Nobile di Montepulciano, Rosso di Montepulciano, Vin Santo di Montepulciano) riferite al territorio del Comune di Montepulciano […] Il  Regolamento (U.E. n.d.r.) n° 401/ 2010 della Commissione ha rafforzato la protezione della denominazione, limitando le deroghe solo all’Italia e unicamente alla DOC Montepulciano d’Abruzzo e Montepulciano d’Abruzzo Colline Teramane. Un passaggio normativo – sottolinea il Ministro Galan – che ha permesso di non estendere la deroga all’Australia, che ne aveva fatto richiesta alla Commissione Europea”.

Questo ambìto riconoscimento si deve dunque anche al nostro saggio “La meravigliosa storia del Montepulciano d’Abruzzo”, a proposito del quale due illustri studiosi italiani, Alessandro Calò ed Alessandro Costacurta, in occasione della Tornata ad Atri (settembre 2008), promossa dall’Accademia Italiana della Vite e del Vino, hanno espresso nel loro contributo dal titolo “Il Montepulciano, una storia lunga secoli”, un lusinghiero giudizio, affermando di “concordare pienamente con quanto ipotizzato da Franco Cercone nell’ottimo saggio storico La meravigliosa storia del Montepulciano d’Abruzzo…

Ma se da un lato è venuto il riconoscimento di illustri enologi ed ampelografi nazionali, non altrettanto si può dire da parte dei “vinattieri” abruzzesi. Ed anzi il nostro saggio, frutto di una ricerca decennale in fonti d’archivio, è stato saccheggiato a dovere da parte di numerosi pseudo- storici del settore, i quali hanno ripetuto talvolta citazioni erronee contenute soprattutto nei resoconti dei Viaggiatori Europei del Grand Tour, che in passato hanno soggiornato, anche se per brevi periodi, a Sulmona e Corfinio.

Ma di questo aspetto parleremo necessariamente in seguito, se non altro al fine di evitare, per dirla con il De Saussure, che la parole diventi langue…

L’arte del Cerasuolo prima della comparsa del Montepulciano in Abruzzo.                  

Errata corrige…

Nel periodo anteriore all’introduzione del Montepulciano in Abruzzo, documentata in modo irrefutabile nel 1792 da Michele Torcia, nell’agro sulmonese, vi erano diverse uve a bacca nera che si prestavano ad essere vinificate nella Conca Peligna come il Cerasuolo, che rappresenta – se ci è concessa l’espressione – la “seconda anima” del meraviglioso vitigno poliziano.

Anche se il Torcia non ne fa menzione, all’epoca in cui tale studioso redige il suo “Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’Peligni” [Napoli 1793], prosperavano ancora in territorio peligno, pur se non citati, i vitigni greco, gaglioppo e hosmanum (quest’ultimo di difficile individuazione) e già menzionati nel Cap.350 degli “Statuta Civitatis Aquile” del 1355, pubblicati da A. Clementi [Roma 1977].

Sui vini e soprattutto sui vitigni  coltivati nella Conca Peligna, definita nel celebre verso Ovidiano “Terra ferax Cereris, multoque feracior uvae”, tacciono sorprendentemente i Viaggiatori Europei del Grand Tour che soggiornano nel corso della prima metà dell’800 soprattutto a Sulmona e Corfinio ed i cui resoconti o “Libri di viaggio”, quelli  appunto che in tale sede maggiormente interessano, sono stati tradotti e pubblicati per lo più a Sulmona, a partire all’incirca dall’ultimo trentennio del secolo scorso.

Il primo Viaggiatore di cui vogliamo far cenno è il famoso storico tedesco Ferdinand Gregorovius, Autore dell’opera (in 5 volumi) dal titolo Anni di peregrinazione in Italia [Wanderjahre in Italien, Lipsia 1877, trad. ita. M. Corsi, Roma 1906-1909].

Nel volume III e precisamente nel Cap. II, dal titolo Una settimana di Pentecoste in Abruzzo, lo storico tedesco descrive il viaggio da lui compiuto in Abruzzo insieme al suo amico e noto pittore, K. Lindemann-Frommel durante la settimana di Pentecoste, festività che si celebra come è noto 50 giorni dopo la ricorrenza della Pasqua.

I due studiosi, provenienti da Aquila, scendono in carrozza dalla piana di Collepietro e sostano poche ore a Popoli, dove assistono alla sfilata della “dote della sposa”, un caratteristico corteo ancora in voga – e non solo in Abruzzo -fino alla metà del secolo scorso.

Lasciata Popoli essi si dirigono poi a Pentima, nome che Corfinio conserverà fino al 1929, e qui il Gregorovius osserva affascinato: “Io non vidi mai un paesaggio così superbamente stilizzato come questo di Corfinio!”.

Secondo l’agronomo G. Giuliani [Il vino in Abruzzo, Japadre, Aquila 1970], il Gregorovius visitò anche Pratola Peligna ed aggiunge che:

“questa visita viene ricordata pure da Ignazio Silone, il quale scrive in una pagina di rara bellezza che è impossibile trovandosi a Pratola non parlare di vino. Quando Gregorovius venne da queste parti, pagò un soldo un litro di ottima qualità” [1].

Non sappiamo da dove il Silone abbia tratto questa strabiliante notizia. Infatti l’itinerario del Gregorovius e del Lindmann, come risulta dalla fedele lettura del testo tedesco, segue il tratto Collepietro – Popoli – Corfinio – Raiano e Forca Caruso, da dove i due scendono verso la piana del Fucino, che all’epoca del viaggio (1875) non era stata ancora del tutto prosciugata[2] .

Lo storico tedesco dunque non ha mai messo piede a Pratola Peligna, località del resto che non viene mai citata nel testo. Sicché il brano tratto dalla citata opera di Ignazio Silone viene pedissequamente riprodotto dal Giuliani. Resta comunque l’aspetto più paradossale e cioè che il Gregorovius non fa mai cenno nella sua Opera al Montepulciano o al Cerasuolo, quello che in tale sede particolarmente interessa.

Questo riferire in modo errato o fantasioso brani tratti da opere di altri Autori ci ricorda pertanto il famoso “giuoco dei mattoni”, cui tutti noi da ragazzi abbiamo partecipato: se cade il primo mattone, cadono tutti gli altri che compongono la fila!

Ma il danno che queste “errate citazioni” provocano è da considerarsi irreparabile nel campo delle ricerche storiche ed ampelografiche… E non è tutto! Vi sono infatti ulteriori precisazioni da fare anche in merito a quanto scrive Silone nel citato volume Abruzzo. Lo scrittore infatti sottolinea in merito al vino di Pratola che si tratta di un “vino schietto, limpido, secco, con un bouquet che varia da una cantina all’altra e persino da una botte all’altra”.

Fin qui Silone ha pienamente ragione e non è difficile arguire dalla descrizione che fa che egli si riferisca al Cerasuolo, senza tuttavia mai citarlo esplicitamente. Ma in seguito egli afferma che tale vino si ottiene “secondo la diversa proporzione di uva bianca e nera, che al momento della pigiatura viene lasciata quasi sempre al caso”, e conclude dicendo: “E’ un vino che non ama viaggiare, perché decade nel trasporto in altra altitudine”.

Queste due ultime osservazioni dello scrittore di Pescìna reclamano decisamente alcune precisazioni. Secondo il Silone infatti il Cerasuolo si otterrebbe a Pratola Peligna con un uvaggio (“uva bianca e nera”), il cui rapporto al momento della pigiatura viene lasciato “quasi sempre al caso”. Ciò non sembra rispondere a verità, perché “il colore”’, nella tradizione vinicola peligna, si otteneva per lo più da una determinata quantità di chicchi d’uva messi a fermentare con il mosto nella botte. Lo stesso dicasi riguardo all’affermazione che si tratta di un vino il quale “non ama viaggiare, perché decade nel trasporto in altra altitudine”. Infatti già il Torcia avvertiva nel 1792 nel suo citato Saggio Itinerario Nazionale, che nella Concapeligna “tutti i luoghi aprichi producono ottimi vini, ed imbottati nelle gelide cantine di Scanno acquistano un gusto superiore”.

A tal proposito un altro storico peligno, Pietro De Stephanis, scrive nella sua monografia storica su Raiano (1853) che il vino prodotto in quest’ultima località peligna, come pure a Prezza e Bugnara, presenta questa caratteristica, che “traslato in luoghi di più fresca temperatura, acquista perfezione tale da non temere il paragone del miglior vino straniero”.

Se ne ha conferma anche da un esperto enologo teatino, il barone Giuseppe Durini, il quale nel Saggio De’vini degli Abruzzi, apparso negli “Annali del Regno delle Due Sicilie” [n° 36, 1820], sottolinea che gli abitanti di Scanno fanno incetta di vino, che “acidulo a valle, riacquista sapore e profumo se messo in botti ad altitudini superiori”.

Ma v’è qualcosa di più incredibile nelle dichiarazioni del Giuliani. L’agronomo scrive infatti che “già nel 1792 il Torcia ebbe modo di rilevare l’esistenza del Montepulciano nella vallata di Cansano”, località distante 12 km a sud di Sulmona. Ma anche ciò è inesatto. Il Torcia infatti scrive solo che visitando la parte meridionale della Conca peligna, gli apparve quasi all’improvviso “Cansano, appesa su di un colle invisibile, nella sua secca ma vignata Valle”, senza specificare dunque di quali uve si trattasse [M. Torcia, Saggio Itinerario… op. cit. p. 61.].

Non si fermano qui, comunque, i guasti prodotti dal citato Agronomo. Nel commentare un pensiero che il famoso Viaggiatore inglese Edward Lear esprime durante un pranzo ad Amatrice (3 ott. 1844), il Giuliani si lascia sfuggire il seguente commento: “Giudizio di rilievo, quest’ultimo, fatto dal Lear, che sta a dimostrare come il Cerasuolo della vocata Valle del Tirino avesse già da allora una meritata rinomanza”.

Sembra di sognare! Ci siamo sottoposti ad una ulteriore ed attenta lettura dell’opera di E. Lear, dal titolo Viaggio Illustrato nei Tre Abruzzi[3],ma in nessun punto il famoso viaggiatore inglese cita il Montepulciano oppure il Cerasuolo. Anzi: il vino offertogli dai suoi anfitrioni era quasi sempre il “vino cotto”, dal Lear qualificato con orribili aggettivi, come “imbevibile” o addirittura “infamante”, come per esempio a Rocca di Corno (presso Aquila) ed addirittura a Miglianico. L’unica eccezione si rinviene a Civita d’Antino, nella Valle Roveto, dove il Lear degusta nel palazzo dei Signori Ferrante “un vino bianco da pasto, particolarmente degno di lode”.

La confusione operata dalle affermazioni del Giuliani ha prodotto in seguito ulteriori danni, fornendo agli studiosi notizie errate e fuorvianti. Sicché solo il Torcia ci offre nel 1793 (la sua ricognizione si riferisce tuttavia all’anno precedente) la prima e fondamentale notizia sulla presenza del Montepulciano nella Conca peligna, dove il vitigno prosperava evidentemente già da un periodo anteriore al 1792, insieme alle altre uve citate dal Torcia: “muscatella, muscatellone, zibibbo, lacrima, cornetta, monte-pulciano (sic), pane del Vasto senza granelli e malvasia”, quest’ultima bianca e nera [M. Torcia, op. cit. p.67].

Di rilevante importanza appare in area peligna la conferma della coltivazione della lagrima, originaria di Somma Campania, dalla quale si ricavava uno squisito Ciliegiuolo.Varicordato che la notizia più antica su questo pregiato vitigno è contenuta in un rogito del notaio Vincenzo Giannitti di Pettorano sul Gizio, stilato in data 21 gennaio 1606 [4]e quindi circa mezzo secolo dopo rispetto alle notizie forniteci dal “bottigliere” di papa Paolo III, Sante Lancerio, contenute nell’Operetta “Della natura dei vini e dei viaggi di papa Paolo III Farnese, descritta da Sante Lancerio, suo bottigliere” [L’Operetta apparve nello stesso anno di morte di papa Paolo III Farnese (1549) ed è dedicata al cardinale Guido Ascanio Sforza].

La Cianfruscola e le uve labrusche.

Nessuna menzione fa invece il Torcia, nella sua citata Opera, di una misteriosa uva chiamata dai ceti rurali peligni Cianfruscola, la quale cresceva soprattutto fra le pietraie e le siepi che segnavano il confine fra i diversi appezzamenti di terreno e che sfuggiva ad ogni tentativo di coltivazione.

Ce ne parla come vedremo meglio l’agronomo sulmonese Giuseppe Sebastiani nella sua Relazione sullo stato della viticoltura peligna nel 1876. Si trattava forse della designazione locale dell’uva labrusca (o ambrusca), di cui parla anche Plinio nella Storia Naturale [XIV, 25]; un’uva che dava “forza e colore” alle altre uve nere durante la vinificazione. Per l’importanza che rivestiva, l’impiego della “lambrusca o uva selvatica” era regolamentato dagli Statuti Municipali, come per esempio quello di Atri promulgato nel 1531 [Statuto Municipale di Atri, CCXLIII, “La lambrusca o uva selvatica” a c. di F. Barberini, Atri 1972.]

Più tardi, probabilmente agli inizi del ‘600, Rodolfo d’Acquaviva (Priore del Collegio dei Gesuiti di Montepulciano ed esponente della Famiglia Acquaviva di Atri) redige un importante quanto finora sconosciuto Poemetto dal titolo “L’arte del vino a Montepulciano”, in cui sottolinea nel processo di vinificazione la funzione delle uve labrusche,definite “concia dei vini deboli”. [5]

Rodolfo precisa, sulla base di informazioni attinte dai viticoltori poliziani, che la quantità delle uve labrusche da impiegarsi nella fase di vinificazione era fissata in agro poliziano “in uno a dieci”, cioè una parte di uve labrusche per 10 parti di uve nere da vinificare[6], una percentuale che assicurava ai vini rossi la giusta gradazione e colore.

Rodolfo consiglia comunque “per far buon vino” di scegliere i grappoli più maturi e di “sollevarli con la mano sinistra, in modo da tagliare la punta del grappolo con la mano destra”. Ed aggiunge: “Si taglia la punta del grappolo quasi dal mezzo in giù, perché quell’uva è sempre mal matura”.

Nell’ambito di una necessaria politica vinicola, che punti nella Conca peligna sulla qualità e non sulla quantità, il “precetto” di Rodolfo d’Acquaviva ci sembra decisamente importante e dovrebbe essere più che mai osservato nell’attuale processo di vinificazione.

Per tornare comunque in argomento, c’è da augurarsi che i nostri viticoltori abbiano maggior fortuna nella ricerca dell’uva cianfruscola, dato che le nostre indagini non hanno avuto finora in agro peligno alcun esito positivo. Tuttavia, come ammoniva Costanzo Felici nella seconda metà del Cinquecento, bisogna sempre riflettere sulla circostanza che un medesimo vitigno si nasconde spesso con nome diverso in territori talvolta non molto distanti l’uno dall’altro e dunque le ricerche sulla cianfruscola andrebbero effettuate anche sotto quest’ultima ottica.

Sante Lancerio e i “Chiarelli” italiani del ‘500.

Nel 1882 lo storico ed ampelografo piemontese Giuseppe Ferraro diede alle stampe per i tipi della UTET due Operette di Sante Lancerio, bottigliere personale di Sua Santità Paolo III Farnese, eletto papa nel 1534 e morto nel 1549. La divulgazione di questi scritti enologici si deve tuttavia alla loro recente ristampa, apparsa nella Collana dell’Editore Veronelli [Alpignano 1992], riscuotendo un buon successo per le preziose notizie forniteci.

La prima di tali Operette ha per titolo “I vini d’Italia giudicati da Papa Paolo III Farnese e dal suo bottigliere Sante Lancerio”,pubblicata nel 1536 (in seguito citata semplicemente I vini d’Italia) e la seconda “Della natura dei vini e dei viaggi di Papa Paolo III descritta da Sante Lancerio, suo bottigliere” (in seguito citata Della natura dei vini e dei viaggi di Papa Paolo III), pubblicata nel 1549, proprio nello stesso anno di morte di Paolo III, e dedicata al Cardinale Guido Ascanio Sforza.

La prima Operetta scaturisce da un episodio storico. Paolo III, come è noto, dovendo recarsi a Nizza per “pacificare Carlo V Imperatore Cattolico con Francesco, Cristianissimo re di Francia”, ordina a Sante Lancerio di precederlo nel suo viaggio a Nizza e di segnalargli le località dove a suo avviso si producevano vini conformi ai gusti raffinati di Papa Paolo III e ben noti al suo fidato “bottigliere”. Il Lancerio doveva pertanto contrassegnarli con l’espressione “vino da signori”, oppure con il pessimo giudizio di “vino da osti” o “vino matto”. Questo episodio ci ricorda -commenta il Veronelli – “la storiella dell’Imperatore Arrigo, che in viaggio verso Roma, dove era atteso per la sua incoronazione (anno MCXI), si fece precedere dal suo vescovo Johannes Fugger, con l’obbligo di segnalare con un EST le cantine con vino buono”. Ma il pio vescovo, buon sacerdote non solo di Dio ma anche di Bacco, pervenuto a Montefiascone, nel Viterbese, “apprezzò tanto il vino di una cantina da lasciare come messaggio sul muro EST EST EST, come tuttora serbato da questo delizioso vino bianco”.

Ai fini della nostra ricerca l’Operetta di Sante Lancerio I vini d’Italia risulta di scarsa importanza, in quanto i vini citati non esorbitano dalla dicotomia biancorosso oppure buonocattivo, evidenziata nei giudizi del bottigliere pontificio. Rilevante è invece la seconda Operetta (Della natura dei vini e dei viaggi di Papa Paolo III) composta come si è detto nel 1549, proprio nell’anno di morte del Pontefice e dedicata al Cardinale Ascanio Sforza.  

Qui il Lanceriofa un preciso resoconto dei vari vini, alcuni dei quali già noti a Paolo III nel corso di precedenti viaggi effettuati per lo più nello Stato della Chiesa ed in Toscana e diligentemente annotati dal Lancerio per il favore riscosso da parte del Pontefice.

In tal modo il fedele bottigliere poteva facilmente disporre nelle cantine pontificie di tali vini, assai graditi al Papa e confortati spesso dai suoi lusinghieri giudizi. Insomma il Lancerio organizzava la cantina vaticana soprattutto secondo i gusti di Paolo III Farnese. Ora della seconda Operetta noi citeremo solo i vini chiarelli (chiamati anche chiaretti, oppure ciliegiuoli), partendo proprio dal famoso Chiarello che perveniva – informa il Lancerio – alle cantine pontificie “da una Terra denominata Chiarella, nella provincia di Calabria, distante dal mare 3 miglia”, ma soggetto a sofisticazioni “fin dal suo arrivo alla Ripa (sul Tevere), dove molti hosti lo vendono per Chiarello”.[7]

Movendo dalle citazioni del Lancerio, incontriamo il Vino di Pavola, giudicato“molto buono e viene da una Villa nella prov. di Calabria…La sorta di tale vino…non è né bianco né rosso, ma ciliegiuolo” [p. 69]; il vino del Ciragio viene invece “dauna Villa così nominata della Provincia di Calabria…molto scarico di colore. Raro ne viene a Roma, perché Don Pedro di Toledo, già Viceré di Napoli, se li faceva condurre nelle sue cantine” [p. 71]; i vini di Salerno, “sono per la maggior parte rossi ed alcuni non del tutto bianchi, ma sono ciregiuoli” [p. 81]; “buon nome avevano i ciregiuoli di Santo Severino, i vini francesi provenienti dalla Provenza e soprattutto i vini claretti di Avignone…che sono molto buoni per i Francesi, sicché in Roma non sono ritenuti  vini da Signori” [p. 83].

Un particolare “Chiarello”: la lagrima di Somma Campania e la sua diffusione in Abruzzo.

Interessante è la dissertazione del Lancerio in merito alla Lagrima di Somma [p. 85 sgg.], che derivava con ogni probabilità dal vitigno Fistignano coltivato nella Montagna di Somma Campania e che assume anche con il nome di lagrima per il particolare modusdi vinificare le sue uve, dalle quali si ricavava un pregiato ciliegiuolo.

Il divin Bottigliere di papa Paolo III esordisce dicendo che pur coltivandosi la lagrima a Somma, alle falde del Vesuvio, “per tutte le parti del mondo dove si fa vino, si può fare”, sottolineando così l’adattabilità ad ogni terreno di questo vitigno, dal quale si otteneva uno squisito Chiaretto.

Sottolinea il Lancerio che di lagrima “ne viene a Roma poco, perché i Viceré lo vogliono per loro… nella vinificazione non sia del tutto bianco, … et del colore si faccia sempre prova”.

A tal riguardo – continua il Lancerio – molti hosti lo falsificano con vino bianco et rosso mistiati, et a Roma lo vendono per lagrima.” [p. 87]:

“Si domanda lagrima perché alla vendemmia colgono l’uva rossa et la mettono nel Palmeto, ovvero ‘alla Romana’ vasca […] Et quando è piena cavano, innanzi che l’uva sia ben pigiata, il vino che può uscirne, et lo imbottano. Et questo domandano lagrima perché nel vendemmiare, quando l’uva è ben matura, sempre geme. Ne viene a Roma poco, perché i Viceré lo vogliono per loro, ma il meglio è quello della Montagna di Somma. A volere conoscere la sua bontà, non sia del tutto bianco, sia odorifero, mordente, polputo et del colore si faccia sempre prova. Tuttavia molti hosti lo falsificano con vino bianco et rosso mistiati, et a Roma lo vendono per lagrima.”

Sistemata l’uva nella “vasca”, sottolinea il Lancerio, si raccoglieva dunque tutto il mosto che si poteva ottenere “per naturale pressione”, ma non doveva risultare, avverte il Lancerio, “del tutto bianco”, bensì rosato,forse grazie alla macerazione di una piccola quantità di chicchi d’uva, aggiunta nella botte dove il mosto della lagrima doveva entrare “in ebullitionem”.

Particolare attenzione merita il passo del Lancerio in precedenza riportato, “innanzi che l’uva sia ben pigiata” in cui si sottolinea che la lagrima si ottiene “innanzi che l’uva sia ben pigiata”. Evidentemente l’uva che aveva cessato di lagrimare veniva sottoposta poi a normale pigiatura per ricavarne a parte un vino rosso (rubino) che doveva risultare di grande bontà.

Si comprende così quanto scrive Bernardo Valera nel suo ditirambo Le Quattro Stagioni a proposito

della lagrima di Tollo: “Questa località non molto lontana dal mare Adriatico è celebre pel suo vino rosso volgarmente detto lacrima[8]

Il Valera non dice dunque che si trattava di un ciliegiolo ma di un vino rosso, detto anche rubino, con riferimento forse all’antico nome del vitigno fistignano, chiamato anche lagrima, perché parte delle sue uve veniva lasciata a stillare “naturalmente”. Secondo quanto scrive Fra’ Bernardo Valera, verso la metà del ‘500 la lagrima designava “volgarmente” sia il vitigno che il vino. [Poesie edite ed inedite, Tomo II, Teramo 1835, dove si celebra “il di Tollo vivace Rubino”]

Chiarelli e Cerasuoli in Abruzzo.

Per quanto concerne l’Abruzzo abbiamo alla fine del ‘500 vaghe notizie solo sui chiarelli della Marsica e si devono ad Andrea Bacci, medico personale di Papa Sisto V ed Autore della monumentale Opera, scritta in latino, composta da 7 volumi dal titolo De naturali vinorum Historia ecc., apparsa a Roma nel 1596. In essa è citata per la prima volta in Abruzzo il trebbiano, originario della Toscana e diffuso dai Colonna nei loro possedimenti marsi.

 Nel V libro e precisamente nel paragrafo dal titolo De locis ac vinis circa Fucinum Lacus, il Bacci scrive che “L’agro di Trasacco…ricco di cereali e di biade, è reso esuberante dalle vigne da cui si ottengono ottimi Chiaretti (clarellis)” [9], senza citare i rispettivi vitigni. Il color “ciliegiuolo” di tali uve era dovuto forse alla loro scarsa maturazione che perdurava fino al tempo della vendemmia, malgrado l’azione benefica esercitata in tal senso dalle acque del lago di Fucino.

Comunque per l’area marsa il Bacci non parla di “lagrima” e per quanto concerne l’Abruzzo si ha notizia di essa per la prima volta nella Conca peligna, nel citato atto del notaio Vincenzo Giannitti di Pettorano sul Gizio, rogato nel 1606 [Archivio di Stato, Sulmona, Atti del Notaio V. Giannitti, 21 gennaio 1606].

A questo vitigno, in origine chiamato fistignano, fu dato in seguito con ogni probabilità anche il nome di lagrima per un particolare processo di vinificazione cui erano destinate le sue uve (o parti di esse), così sintetizzato dal Corongiu che al riguardo scrive:

“I chicchi più perfetti, raccolti in un tino, non venivano spremuti ma lasciati a stillare naturalmente come lagrime” [A. Corongiu, Il vino fra sacro e profano, MIBAC Milano 1999].

Donde appunto il nome di “Lagrima” dato al vino ed al vitigno, non più chiamato fistignano, originario come si è detto della Montagna di Somma (Campania).

Nell’agro peligno dunque la diffusione di questo vitigno va ascritta ad un periodo decisamente anteriore alla lagrima di Tollo, dalla quale si ricavava come scrive fra’ B. Valera anche un “rosso rubino” parte del quale veniva vinificato evidentemente con la tecnica della lagrima, che permetteva di ottenere uno squisito Cerasuolo, come abbiamo sottolineato in alcuni nostri lavori[10].

Si comprende così l’ammonimento del Lancerio a proposito della Lagrima: “Del colore si faccia sempre prova” fino ad ottenere il rosa desiderato, che presenta come vedremo in seguito diverse gradazioni. Tuttavia, commenta il Lancerio a proposito della Lagrima di Somma, molti “la falsificano con vino bianco e rosso mistiati et a Roma lo vendono per Lagrima”.

Esisteva dunque nel mercato vinicolo anche una “Lagrima” ottenuta per uvaggio, il che conferma come fosse forte la domanda di tale vino.

Il Monelli, in base ad ulteriori fonti storiche riguardanti Paolo III Farnese, scrive a proposito dei Chiarelli che questo papa “ricercava anche il vino aglianico, specie quello di poco colore, definito bevanda delli vecchi” e pertanto dal principio di marzo fino a tutto l’autunno il papa beveva di preferenza il Chiarello di Calabria, assai ricercato per il suo profumo di ciliegia [P. Monelli, Il vero bevitore, Longanesi Milano 1971].

Con la diffusione del Montepulciano, segnalato per la prima volta in Abruzzo dal Torcia e precisamente nella Conca peligna (1792), i chiarelli, chiaretti o cerasuoli si ricavarono con ogni probabilità solo dal Montepulciano, che presenta – come scrive il Giuliani – “particolari caratteri organolettici” che lo rendono ideale per questo tipo di vinificazione.    

 Il “Montepulciano” nell’analisi di Sante Lancerio.

Per l’importanza che riveste in Abruzzo ed in particolar modo nella Conca peligna, merita una pagina a parte il Montepulciano, perché il Cerasuolo, a ben osservare, è da considerarsi la seconda  (o la prima ?) anima del vitigno “portabandiera” della nostra Regione.

Il Lancerio riserva a questo tema un capitolo a parte dal titolo Il vino di Montepulciano (cioè della località Montepulciano, in provincia di Siena), ricavato da uno dei diversi vitigni che nel territorio poliziano prosperava ad una altitudine compresa all’incirca fra i 400 ed i 500 metri e dunque non molto diversa da quella dei terreni vignati della Conca peligna.

Siamo in grado così – giova ripeterlo – di comprendere l’esatto significato dell’ultimo e famoso verso del ditirambo Bacco in Toscana di Francesco Redi: “Montepulciano d’ogni vino è re”, ove Montepulciano viene citato non come nome di un vino, ma come località, come topos, poiché -precisa il Giuliani – di vino Montepulciano in Toscana si parla solo a partire dagli Anni Settanta del secolo scorso, in quanto in precedenza era “pressoché sconosciuto in Toscana” [G. Giuliani, op. cit.]

Scrive, come si è visto, il Lancerio:

“Il vino di Montepulciano è perfettissimo tanto il verno quanto la state, et meglio è il rosso la state, io ne sono certo. Tali vini hanno odore, colore et sapore et volentieri Sua Santità ne beveva …Volendo conoscere questo vino, vuole essere odorifero, polputo, non agrestino, né carico di colore. Volendolo per la state alli caldi grandi, sia crudo et di vigna vecchia. Di questa sorte Sua Santità beveva volentieri et faceva honore … sicché è vino da Signori” [S. Lancerio, Della natura dei vini e dei viaggi di Papa Paolo III ecc., op. cit. pagg. 89- 90].

I vini di Montepulciano dovevano risultare dunque per i gusti del papa “non carichi di colore” – e come raccomanda anche per l’Aglianico -“di poco colore et pastoso … cioè ciregiuolo”.

Possiamo immaginare cosa direbbe oggi il divin bottigliere di papa Paolo III in merito all’attuale Montepulciano, “nero come la pece”, specie dopo il suo soggiorno in barrique.

In tal modo dunque il Lancerio, bottigliere di papa Paolo III, rivela la preferenza per i cerasuoli, perché osservando questi vini in candide coppe e controluce, come dice Dante, vedi ‘l calor del sol che si fa vino.

Vicende sulla “Lagrima” in Abruzzo.

Come si è detto in precedenza, la fondamentale Relazione dell’agronomo sulmonese Giuseppe Sebastiani del 30 marzo 1876, di estrema importanza, contiene in allegato l’elenco delle uve da vino coltivate in agro peligno, che inizia con la descrizione delle caratteristiche ampelografiche del montepulciano primaticcio (o gaglioppo) e Montepulciano cordisco (quest’ultimo già definito da Panfilo Serafini nel 1853 “il vero e proprio Montepulciano”).

Tuttavia nell’elenco del Sebastiani non si rinviene più la lagrima, citata per la prima volta in Abruzzo in territorio peligno, in un Atto del notaio di Pettorano sul Gizio, Vincenzo Giannitti, stilato in data 21 gennaio 1606, ed in seguito da Michele Torcia nel suo citato Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’ Peligni [1792], stessa opera in cui fa la sua apparizione per la prima volta in Abruzzo anche il Montepulciano.

Il Lancerio come si è visto sostiene che la lagrima “per tutte le parti del mondo in cui si fa vino, si può fare”. Sicché in tale occasione il bottigliere di papa Paolo III ci sorprende, perché non tiene conto della lezione magistrale di Plinio contenuta nel XXIV Libro della Storia Naturale, in cui il grande storico romano invece ammonisce che “un medesimo vitigno, piantato in terreni diversi, dà vino diverso”. Ma riassumiamo meglio la tecnica usata per ottenere la lagrima, nome che già nel XVII secolo indicava (come per il Montepulciano) sia il vino che il vitigno.

La parte superiore dell’uva contenuta nel “Palmeto”, cioè nella vasca riservata normalmente alla “pigiatura con i piedi” fin dall’antichità, esercitava dunque, attraverso il suo peso, una pressione naturale su quella inferiore e causava una lenta fuoriuscita dai chicchi del “succo d’uva”, che veniva raccolto in un tino posto più in basso rispetto al Palmeto, sicché a causa del gocciolio sembrava – dice il Lancerio – che l’uva gemesse e lacrimasse, donde il nome di “lagrima” attribuito al poco ma pregiato vino che se ne ricavava.

Finito di lacrimare, l’uva veniva poi pigiata, forse prima con i piedi e dopo con torchi a vite, per ricavarne un tipo diverso di vino, meno pregiato ma comunque – come è da ritenersi – di grande bontà.

Come sottolinea il bottigliere di papa Paolo III, la “lagrima non doveva essere del tutto bianca, ma di color ciregiuolo”, cioè cerasuolo.

Ma come si ottenevano nella vinificazione queste “sfumature” diverse del color rosa?

Forse sistemando alla base del tino che raccoglieva le lagrime una quantità variabile di chicchi d’uva a seconda del color rosato che si intendeva ottenere.

Il Lancerio lamentava comunque che “molti falsificano la lagrima con vino bianco et rosso mistiati, et a Roma lo vendono per lagrima, ma spesso si fa giallo”.

Per quanto concerne il territorio abruzzese va osservato che la lagrima non è compresa fra i vitigni citati in area frentana negli Statuti di Lanciano del 1592 e precisamente nel Cap. 87, che menziona per tale area solo il moscatello, pergolo, uva pane, precoccio, uva donnola et malvasia” [L. Cerulli, Gli Statuti antichi della Città di Lanciano, Lanciano 2001].

V’è però un singolare personaggio, fra’ Bernardo Valera, il quale come abbiamo precedentemente accennato ci parla nel 1743 della lagrima coltivata nell’agro di Tollo.

Il Valera era nato nel 1705 a Giuliano Teatino ed era stato inviato dai suoi Superiori di Lanciano al Convento dei Minori di Siena per i necessari “perfezionamenti” spirituali. Qui il Valera compone alcuni ditirambi nei quali esalta i vini abruzzesi e cita i bianchi di Prezza ed i vini di Tollo, “piccola Terra nell’Apruzzo Citeriore… celebre pel suo vino rosso, volgarmente detto lagrima” [cfr. F. Cercone, La lagrima …ecc, op. cit.].                                   

Non si trattava dunque, scrive il Valera, di un chiaretto o di un cerasuolo ma di un “rosso rubino”, da ritenersi (contrariamente a quanto scrive il Redi nel suo ditirambo Bacco in Toscana)superiore ai vini rossi di Montepulciano.

A causa della sua bontà non erano pochi gli studiosi che sollecitavano una maggior coltivazione del vitigno lagrima nel nostro territorio. Il barone teatino Giuseppe Durini, noto enologo, sottolinea per esempio nel suo citato Saggio apparso nel periodico Annali Civili del Regno delle Due Sicilie (1820) che in Abruzzo “certamente tornerebbe utilissimo il moltiplicare la lagrima, l’aleatico e il montepulciano”.

 La lagrima osservata nel 1792 da Michele Torcia nell’agro peligno derivava sicuramente dalla stessa lagrima citatanel 1606 nel rogito del notaio di Pettorano V. Giannitti, di cui si è parlato in precedenza, e certamente era diffusa per contiguità in tutta la Conca Peligna.

Lo storico napoletano Giuseppe Del Re conferma comunque nel 1835 che negli Abruzzi “di luogo in luogo si sono piantate moltissime uve negre e specialmente il montepulciano e la lagrima”.[11]

Tuttavia circa venti anni dopo lo storico sulmonese Panfilo Serafini conferma nella sua Monografia storica di Sulmona [1853] solo la presenza del montepulciano e non più quella della lagrima, scomparsa misteriosamente dal panorama ampelografico della Conca Peligna, dove non vi ha fatto più ritorno.

La lagrima è tuttavia sopravvissuta in area marrucina-frentana, come risulta dalla citata Operetta dell’enologo teatino Raffaele Sersante, dal titolo Trattato teorico-pratico dell’arte della vinificazione [Chieti 1856], dove era assai utilizzata per gli “uvaggi” e quindi anche per i cerasuoli. In concomitanza con l’Unità d’Italia la lagrima scompare tuttavia ovunque in Abruzzo, e non viene più citata, avendo concluso il suo ciclo produttivo a causa probabilmente del devastante oidio.

Essa è coltivata oggi in agro di Jesi e costituisce insieme al Verdicchio la fortuna di questo territorio. Malgrado le ricerche condotte in loco, non è risultato chiaro come e quando questo vitigno sia approdato in area marchigiana. C’è solo da augurarsi che esso possa tornare a prosperare ancora, come nei secoli passati, in agro peligno e ne diventi il vessillo, visto che questo riconoscimento, per scarsa lungimiranza, non è stato perseguito dai Concittadini del poeta Ovidio.  

Woldemar Kaden ed il primato del Cerasuolo nella Conca Peligna.

Abbiamo constatato in precedenza l’importanza dei “resoconti” dei Viaggiatori Europei nella Conca Peligna, e soprattutto a Sulmona e Corfinio, i quali contengono talvolta notizie preziose per le vicende ampelografiche del suo territorio. A tal riguardo vogliamo ricordare il nostro Saggio dal titolo Sulmona negli scritti dei Viaggiatori tedeschi del XVIII e XIX secolo, pubblicato a Sulmona nel 1985 a cura del Centro Studi Panfilo Serafini, perché esso risulta prezioso per quanto concerne l’indagine da noi condotta sul Cerasuolo.

Fra questi Viaggiatori riveste grande importanza lo scrittore tedesco Woldemar Kaden, il quale nella sua opera Wandertage in Italien (Passeggiate in Italia) fa una poetica descrizione della Conca Peligna e di Sulmona, dove sosta provenendo dal Piano delle Cinquemiglia in un caldo pomeriggio di agosto del 1873, insieme al suo compagno di viaggio e giornalista Carl Stieler.

Dopo aver trovato alloggio per la notte nella Locanda “di un certo Signor Bonitatibus”, i due gironzolano per Sulmona attratti dai solenni monumenti artistici della Città d’Ovidio e sostano, come sembra arguirsi dal racconto, a “Piazza Grande”, che assumerà a partire dal 1882 la denominazione di Piazza Garibaldi [12].

Dopo un po’ di tempo una giovane inserviente del Sig. Bonitatibus raggiunge i due turisti e li avvisa che la cena è pronta. Il Kaden resta affascinato dai prodotti della terra che spiccano sulla candida tovaglia posta sul tavolo apparecchiato, fra cui “grappoli d’uva purpurei e pesche coperte di lanugine. Ma su tutta la scena – sottolinea il dotto Viaggiatore tedesco – troneggiava un imponentefiasco di vino color rosa (rosafarbig Wein)”, fatto fuori dal Kaden e dallo Stieler nel giro di poco tempo.

Come si è detto l’opera Wandertage in Italien fu pubblicata a Stoccarda nel 1874 e si può supporre pertanto che il viaggio del Kaden, in assenza di altre informazioni al riguardo, risalga a qualche anno prima (1872 o forse 1873). L’aspetto più interessante è rappresentato tuttavia -come vedremo in seguito- dalla circostanza che nella Relazione Ampelografica dell’agronomo sulmonese Giuseppe Sebastiani, del 30 marzo 1876, e di cui si parlerà in seguito, non si accenna minimamente al Cerasuolo, al Rosato o al Ciliegiolo, ottenuti con un modus vinificandi che invece era assai diffuso – come dimostra l’episodio del Kaden- nel mondo rurale peligno e nella produzione vinicola della Conca. 

Come si è detto l’opera Wandertage in Italien fu pubblicata a Stoccarda nel 1874 e si può supporre

pertanto che il viaggio del Kaden, in assenza di ogni informazione al riguardo, risalga a qualche anno prima (1872 o forse 1873). L’aspetto più interessante è rappresentato tuttavia, come vedremo, dalla circostanza che nella Relazione Ampelografica dell’agronomo sulmonese Giuseppe Sebastiani del 30 marzo 1876 e di cui si parlerà in seguito, non si accenna minimamente al Cerasuolo, al Rosato o al Ciliegiolo, ottenuti con un modus vinifcandi che invece era assai diffuso – come dimostra l’episodio del Kaden – nel mondo rurale peligno e nel commercio vinicolo della Conca.

Allo stato attuale delle nostre conoscenze, il passo del Kaden rappresenta pertanto la prima notizia che possediamo sul Cerasuolo d’Abruzzo, o – se si preferisce – sul “vino color rosa”come erachiamato dai contadini nella Conca peligna. Questo episodio viene ad incrementare paradossalmente la summa delle occasioni storiche perse da Sulmona e dal mondo rurale peligno nel campo della viticoltura, dato che il medesimo e triste primato va riconosciuto anche per il Montepulciano, citato lo stesso per la prima volta in Abruzzo nella Conca Peligna, come testimonia appunto Michele Torcia nel suo ormai noto Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’ Peligni fatto nel 1792. Anche in tal caso nessuno ha saputo utilizzare commercialmente nel nostro territorio tale importante primato e pertanto, “non ci resta che piangere” per la grande occasione che si è persa. 

Cenni sulla tecnica di vinificazione del Cerasuolo.

Riportiamo qui di seguito due brevi descrizioni sul modo di ottenere il Cerasuolo dalle uve Montepulciano, le quali appaiono indispensabili ai lettori che, come noi, non sono enologi o “vignaiuoli” di professione. Queste due descrizioni hanno il pregio di risalire quasi a mezzo secolo di distanza l’una dall’altra e dunque ci offrono una idea sul piano diacronico di come la vinificazione si sia evoluta in questo non breve arco di tempo e faccia ormai parte della nostra storia ampelografica ed enologica, dominata oggi ahimè da leggi fisiche e chimiche!

D’altro canto già Plinio lamentava nella sua Naturalis Historia [XIV, 25] che ai suoi tempi, nel corso della vinificazione, i viticoltori “aggiungono al vino delle sostanze coloranti, come una sorta di belletto ed in tal modo diventava più denso grazie a numerose sofisticazioni, sicché il vino è costretto di conseguenza a piacere!”  Passando a tempi più recenti, va ricordato il biasimo del famoso conte Odart, il quale “non voleva che mani temerarie toccassero, in nome della chimica, sostanze di prim’ordine, come il vino, tanto bene preparato dalla sapienza del Creatore”.[13]

Ma veniamo al nostro cerasuolo einiziamo con quanto scriveva il Giuliani nel 1975:

Nel Montepulciano d’Abruzzo rosso, comunemente chiamato fermentato, la fermentazione più o meno prolungata si svolge sempre a contatto delle bucce, o dei raspi e delle bucce. Nel vino della varietà cerasuolo è invece prevista la vinificazione in bianco: le uve restano a contatto delle bucce solo poche ore, in presenza di dosi ridotte di anidride solforosa, e vengono subito svinate. La vinificazione in bianco tuttavia può essere anche condottafacendo fermentare il mosto completamente in assenza di vinacce, con l’aggiunta se mai, di mosto proveniente dalle vinacce vergini torchiate… Per il tipo cerasuolo il colore deve essere rosso ciliegiuolo, anche tenue, e le ceneri possono avere un limite di grammi 1,3 per mille …”.

Conclude infine il Giuliani, sulla base della nota relazione di L. Laporta del 1962, che “il Montepulciano rosso, ed il Montepulciano cerasuolo pur rivelandosi entrambi vini generosi e di alta gradazione, sono sostanzialmente differenti”[14]. Più particolareggiata risulta un’altra Relazione coeva, a cura di Giovanni Garoglio, sulle caratteristiche organolettiche del Cerasuolo, il quale secondo tale Autore:

“ha un colore rosso ciliegiuolo, molto chiaro, quasi rosato, brillante, tenue, sapore rotondo, gradevolissimo, asciutto, talora leggermente amabile, morbido…, delicatamente profumato… leggermente aromatico, talora mandorlato come il cerasuolo della Valle Peligna, talvolta ricordante quello delle viole” [Enciclopedia vitivinicola mondiale, Vol. I, Milano 1973].

Lasciamo ai ‘tecnici’ del settore i giudizi su tali brani e riportiamo invece una diversa e più efficace descrizione del cerasuolo fatta di recente da un noto enologo abruzzese:

“Dalle stesse uve che compongono il Montepulcianod’Abruzzo, ma utilizzando una diversa tecnica di vinificazione che limita il periodo di fermentazione in presenza delle bucce a poche ore, ovvero mediante vinificazione “in bianco”, si ottiene un vino con un caratteristico colore rosso ciliegia, più o meno carico, denominato Cerasuolo. Il Cerasuolo ha un odore gradevole, delicatamente vinoso, fruttato, fine ed intenso; il sapore è secco, morbido, armonico, delicato con retrogusto mandorlato…” [G. Cavaliere, L’Abruzzo del vino. Storia e caratteristica di un territorio, a c. dell’AIS, Bibenda, Roma 2003].

Nel saggio Il piacere del vino. Manuale per imparare a bere meglio[15], si passano in rassegna “le tonalità dei vini rosati”, le quali “percorrono l’infinita gamma di sfumature tra l’aranciato e il rosso chiaro, ed è difficile quindi codificarle. Valgano come orientamento questi termini: rosa pallido, rosa fior di pesco, rosa cerasuolo, chiaretto, buccia di cipolla. Il rosa pallido, è tenue, il rosa fior di pesco è quello dei petali dell’omonimo fiore; il rosa cerasuolo richiama certe ciliegie primaticce; il chiaretto si avvicina al colore dei vini rossi; il (colore) buccia di cipolla è carico di riflessi aranciati”.

Merita un cenno il modo di ottenere tradizionalmente nel mondo rurale peligno il cerasuolo, che viene chiamato in gergo “il vino di casa”. La colorazione infatti, secondo alcuni contadini intervistati, si ottiene con la vinificazione in bianco del mosto nel quale si lascia macerareuna determinataquantità di chicchi d’uva. Il primo travaso si effettua alla fine di dicembre, il secondo alla fine di febbraio. L’imbottigliamento, solitamente con tappi a corona, avviene di norma nella prima metà di marzo, quando il vino “ancora dorme”. Con i primi caldi “il vino si sveglia” e fa una leggera fermentazione in bottiglia, perdendo il senso di abboccato e – sottolineano i viticoltori intervistati – aumentando alquanto la gradazione, il che conferisce un gradevole senso di freschezza ed una piacevole effervescenza, che può essere paragonata al classico perlage.

Probabile influenza dei mandorli coltivati nei terreni vignati della Conca Peligna.

Sono tanti gli Autori che insistono fin dalla seconda metà del secolo scorso sul gusto mandorlato del Cerasuolo peligno, che per tal motivo si contraddistingue meglio dai Cerasuoli dell’entroterra adriatico. Già il Nardi, illuminista teramano del Circolo di Melchiorre Delfico, metteva in rilievo la circostanza che “i mandorli son alberi salutevoli e amano terre brecciose”, come sono appunto quelle della Conca peligna ed in verità anche della Valle del Tirino.

È quanto evidenzia l’agronomo svizzero De Salis von Marschlins, il quale, sempre nel 1789, soggiornando a Sulmona, resta attratto dalla visione offerta “dai boschetti di alberi di mandorli che si alternavano nella Conca ai vigneti”.[16]

Non meno affascinante risulta la descrizione fatta al riguardo dallo storico tedesco G. Vom Rath, il quale nel marzo del 1887, viaggiando in treno da Sulmona a L’Aquila, ha modo di osservare dalla stazione di Raiano “milioni di mandorli sbocciati, che conferivano al paesaggio un particolare ornamento ed essi a tratti erano così folti da celare con un velo di fiori i luoghi pietrosi in cui crescevano”. [17]

La grande diffusione della coltivazione del mandorlo nella Conca Peligna va messa in relazione con il notevole sviluppo dell’industria dei confetti di Sulmona, a partire soprattutto dal XVII secolo. Tuttavia è sul probabile rapporto fra mandorli e terreno vignato che va riposta la nostra attenzione, come già evidenziato da Plinio nel Capitolo XIV della sua Naturalis Historia, dove appunto il grande storico sottolineache “meravigliosa è la natura delle piante di tirare a sé il sapore del terreno ove sorgono”, siano esse viti che altre piante. 

Sicché nei terreni in cui esistevano mandorli, in seguito recisi perché ormai vecchi, sembra che le radici di questa pianta – sostengono i vecchi contadini intervistati – continuino a nutrire il terreno circostante, che una volta vignato, entra in simbiosi con le radici dei mandorli, ricreando un rapporto di amorosi sensi che agronomi moderni ed enologi, sommersi da una marea di formule chimiche, sembra abbiano dimenticato.

Solo in tal senso si spiega a nostro avviso quel “retrogusto mandorlato”, proprietà che sembra possedere maggiormente il cerasuolo peligno, non disgiunto dal profumo di mandorle, che lo contraddistingue rispetto agli altri cerasuoli abruzzesi. Ci sia concessa pertanto una riflessone: le grandi opere degli storici del passato, attenti osservatori di quella natura che noi stiamo distruggendo, andrebbero lette di nuovo, e con grande attenzione, se non altro perché ci aiutano talvolta a dubitare delle certezze che regnano ovunque nel campo scientifico e quindi anche nell’ambito dell’enologia.

Aspetti storico-etnografici del vino nella Conca Peligna.

A partire dalla fine del ‘700 emerge in territorio peligno una dicotomia fra quantità e qualità della produzione vinicola, che a ben osservare non è del tutto scomparsa nei nostri giorni in Abruzzo.

Il fenomeno si presenta già descritto dal citato agronomo svizzero C. Ulisse De Salis von Marschlins, il quale nel settembre del 1789 – anno fatidico della Rivoluzione Francese – dopo aver visitato il Lago di Fucino sosta per alcuni giorni nel Capoluogo peligno ed annota che “nei dintorni di Sulmona, pur essendo quasi tutta pianura, si produce molto vino…che qui ha pochissimo valore;   pur tuttavia si piantano giornalmente nuovi vigneti “ [op. cit. p. 259]

Per una curiosa coincidenza nello stesso anno 1789 Gianfrancesco Nardi, rappresentante di spicco del Circolo Illuminista di Melchiorre Delfico a Teramo, lamentava lo stesso problema nell’Abruzzo Ulteriore I, cioè nel Teramano, al punto di consigliare il ricorso ad esperti vignaioli toscani anche per quanto concerneva la tecnica di vinificazione, in cui erano impiegate tante qualità di uve “di cui non si conoscevano nemmeno il nome”. [18]

Dalla lettera trasmessa da A. De Nino allo storico russo Zwetaieff, apprendiamo ulteriori notizie al riguardo [G. Papponetti, Carteggio De Nino- Zwetaieff, Sulmona 2006].  Scrive il De Nino:

“Ora anche nei terreni irrigui si vengono mettendo vigne, sicché tutta la Valle (peligna) pare un solo vigneto… Ogni proprietario ha la sua cantina con grosse botti che contengono generalmente da 40 a 50, a 100 e 200 ettolitri. A Sulmona la botte detta di Granata contiene 490 ettolitri ed è la più grossa degli Abruzzi”

seguita subito dopo da una botte di 365 ettolitri che tuttora troneggia come un Santo nella sua nicchia nella cantina della nota azienda vinicola Pietrantoni di Vittorito.

Il De Nino, nella comunicazione inviata allo storico russo Zwetaieff, che ne aveva fatto in tal senso richiesta, precisa tuttavia la funzione principale cui era preposta la grande produzione vinicola nella Conca Peligna: “Il vino – sottolinea lo storico di Pratola Peligna – va all’estero per mezzo delle Case Enologiche dell’Alta Italia e da qualche anno in qua, più che il vino si trasporta l’uva in casse formate da asticelle”. 

Tale particolarità è confermata dal Franchetti, che fissa nel quinquennio precedente questo fenomeno commerciale: “L’uva nell’autunno scorso,1874, era trasportata nell’Alta Italia dove se ne faceva vino; e sulla Popoli-Pescara, aperta da poco, il trasporto necessitava fino a sei o sette treni speciali al giorno”. [19]

Restavano sempre tuttavia delle quantità di vino invendute, a prezzo decisamente conveniente, che diventavano preda dei paesi montani della Conca Peligna, specie di Scanno, ed “imbottate di nuovo – scrive il Franchetti – non solo si bevono ma dilettano e piacciono ancora”.

La quantità di vino che restava nelle cantine di casa costituiva comunque una ricchezza per la famiglia contadina. Entriamo così nell’ambito di un aspetto sociale del vino, di grande importanza e pressoché sconosciuto al mondo etnografico, cui va comunque ascritta anche la viticoltura.

Ancora nell’ultimo ventennio dell’800 la maggior parte dei nostri paesi non possedeva una rete idrica. Esistevano infatti per tutto il centro abitato due o forse tre fontane pubbliche fornite di abbeveratoio per asini e muli, dove le donne si recavano soprattutto di sera ad attingere acqua da bere, trasportata a casa con le caratteristiche conche di rame. Sicché, come accennato in precedenza, l’unica sostanza liquida a disposizione dei ceti rurali (e non solo nella Conca peligna), era proprio il vino, con cui si spegnevano i frequenti incendi causati dal camino acceso, unica fonte di riscaldamento per la famiglia rurale, oppure si lavavano neonati e bambini per assenza di acqua corrente.

L’impiego necessario del vino si riveste così nella visione popolare di una sovrastruttura culturale; lavare i bambini con il vino significava immunizzarli da ogni malattia; inoltre un tuorlo d’uovo in mezzo ad un bicchiere di vino, costituiva nella visione delle madri di famiglia, la miglior colazione per i bambini prima di recarsi a scuola, dove arrivavano talvolta secondo alcune anziane maestre intervistate, in uno stato di evidente sonnolenza.

In una brochure edita in occasione della Quarta Sagra del vino aVittorito, 7-8 agosto 1998, viene sottolineato che il rimedio offerto dal vino per la cura di forti raffreddori ed altri sintomi influenzali costituiva, secondo il parere di alcuni vecchi contadini, un vero e proprio toccasana.

Anche sotto il profilo alimentare si riteneva un tempo a Vittorito ed in altri centri limitrofi che i bambini nutriti con il vino “venivano più robusti”, come vuole un antico proverbio del luogo che riportiamo in lingua per una sua miglior comprensione:

  “Pane con l’olio e zuppa di vino, fanno crescere di più il bambino”.

La pulizia dei bambini con il vino, l’unico liquido a disposizione delle madri in famiglia, avveniva, secondo la brochure pubblicata a Vittorito, nel modo seguente: “Si mettevano tre bicchieri di vino in una pentolina di terracotta, si bagnava una pezzolina di canapa e con questa si lavava il bambino”[20].

Ricordiamo che anche in altri paesi peligni era assai diffuso il detto “chi tiene la vigna, tiene la tigna”, con riferimento ai faticosi lavori che reclama il vigneto. Ce ne offre un’idea un atto del notaio Aquili di Popoli, rogato il 15 marzo 1653, relativo all’affitto di un terreno vignato a Popoli, in cui si stabilisce:

“In primis che le vigne siano tenute da essi conduttori a farci tutto quello che abbisognerà, come potarle, zapparle, ripianarle, e recallarle…” [21], termini tuttora presenti nel linguaggio dei viticoltori dei nostri paesi. In particolare con “recallare” si intendeva ed ancor oggi s’intende in area peligna “una lieve zappatura del terreno attorno alle viti”.

La figura dello “zappatore”, che si reca al lavoro nella vigna con un fiasco di vino in mano, era poi un’immagine a stampa comune a Napoli ed assai richiesta fin dalla prima metà del XVIII secolo dai Viaggiatori Europei come souvenir. Il vino infatti era l’unica sostanza energetica a disposizione dei contadini, data la rarità del miele e l’alto costo dello zucchero nel regno di Napoli Di conseguenza per la preparazione dei dolci fatti in casa, come ricorda opportunamente la brochure citata, edita a Vittorito nel 1998, “si utilizzava il mosto cotto oppure il vino annoso”.

La revanche del Cerasuolo

Piacevole è stata negli ultimi decenni la riscoperta del Cerasuolo come vino da dessert, oppure da accompagnare a particolari vivande, per esempio il baccalà o lo stoccafisso, esaltati in alcune sagre abruzzesi come quella che si svolge a Sant’Omero nel Teramano. Tuttavia la stampa regionale si è soffermata a ragione sulla valorizzazione del Cerasuolo anche come aperitivo, specie se associato nel periodo estivo alla nostra saporitissima frutta, soprattutto alle pesche.

Al riguardo va ricordato un antico detto con valore paremiologico, cioè: “Il cocomero nasce nell’acqua e muore nel vino”. E se si tratta del cerasuolo, questo accostamento, dimenticato dalle nostre abitudini alimentari, diventa decisamente sublime.

Non sono poche comunque le riserve avanzate di recente persino dai produttori nei confronti del Cerasuolo o, se si preferisce, del “vino color rosa”, come lo chiama per la prima volta il Viaggiatore tedesco Woldemar Kaden.

Nella stessa brochure in precedenza citata e pubblicata a Vittorito nell’agosto del 1998, sono contenute alcune sorprendenti affermazioni. A pag. 23 si legge:

oggi, purtroppo la quasi totalità dell’uva ‘Montepulciano d’Abruzzo’ di Vittorito viene vinificata in Cerasuolo, appiattendosi su un livello qualitativo di certo inferiore a quello che potenzialmente compete a tale uva”.

Si dimentica così l’insegnamento di Sante Lancerio, che già alla metà del ‘500 aveva ammonito i vignaioli sulla fondamentale caratteristica del Cerasuolo (chiamato chiarello o ciliegiuolo), il quale per piacere “deve risultare di colore non acceso, né in tutto scarico, et così si havrà buona bevanda”.  E questa “bevanda”, certamente, non si è giovata di una appropriata divulgazione delle sue qualità organolettiche, specie in abbinamento con i cibi, anche se Plinio nella sua Storia Naturale sottolineava: “Per Ercole! Strano a dirsi, ma il prodotto più genuino è ormai quello meno conosciuto!” [Naturalis Historia, Cap. XXIII, 34.]

L’affermazionecontenuta nella brochure di Vittorito non è pertanto condivisibile, tanto più che nel quinquennio 1961- 1965 il Cerasuolo era il vino più conosciuto d’Abruzzo ed a diffondere tale notorietà, a parte i successi registrati al riguardo dall’Enologo Valentini di Loreto Aprutino, aveva contribuito anche l’Alitalia, la Compagnia Aerea Nazionale, che lo offrivaai passeggeri transoceanici riscuotendo un lusinghiero successo, specie quello prodotto da una Azienda a Bagnaturo ( Aq.) e destinato ad aperitivo o ad  accompagnare i pasti dei viaggiatori in bottigliette di circa un quarto di litro.   

Ma non è tutto. Noi siamo stati invitati nel novembre del 1998 a Montreal dall’Institut du Tourisme

et d’Hotellerie du Québec, dove il 16 novembre del suddetto anno abbiamo svolto nel Palais des Congrés una Relazione dal titolo La Gastronomie italienne: aspects historiques et prospectives futures. Ebbene fra il grande numero di ascoltatori presenti alla manifestazione vi erano molti ristoratori di origine abruzzese, i quali lamentavano (incredibile a dirsi!) le difficoltà incontrate all’epoca in Canada nella distribuzione del Cerasuolo d’Abruzzo, non disgiunte dalla mancanza di manifestazioni preposte alla valorizzazione ed alla conoscenza di questo eccezionale vino nel settore fondamentale del Food and Beverage.

Nella brochure citata, apparsa a Vittorito nel 1998, viene sottolineata tuttavia la necessità di “mantenere le rese per ceppo su livelli tradizionalmente contenuti”, al fine, aggiungiamo noi, di evitare, come avviene di tanto in tanto, che di celebri vini circolino nel mondo milioni di ettolitri, a fronte della scarsa quantità d’uva prodotta.

Questo problema si avverte oggi anche per il Montepulciano d’Abruzzo, perché in alcune annate sfugge il rapporto fra superfici vignate e produzione vinicola, malgrado l’aiuto che proviene in tal senso dalla stampa regionale. Ed i conti si fanno presto, sostengono i nostri contadini intervistati, perché da 1,30 quintali d’uva si ricava all’incirca un ettolitro di vino e pertanto il quotidiano regionale Il Centro, in data 26 ottobre 2010 [pag. X], ha così riassunto questa semplice operazione di natura matematica:

“In Abruzzo la superficie coltivata a vigneto (relativamente all’anno citato, n. d. r.) è di 33.685 ettari. La produzione totale di uva è di 4,6 milioni di quintali, il vino prodotto 3,3 milioni di ettolitri…Nel 2009, riguardo il solo Montepulciano, sono stati prodotti1.350.000 quintali di uva, trasformati in 950.000 ettolitri di vino, dei quali sono stati imbottigliati 747.000 ettolitri, pari a 100 milioni di bottiglie…”.

Ciascuno tragga al riguardo le proprie conclusioni. Scarse notizie si hanno dunque in merito ai 950.000 ettolitri di Montepulciano, di cui non viene indicata per l’anno 2010 (qui preso in considerazione come campione) la percentuale vinificata a Cerasuolo, un datoquesto che sarebbe interessante conoscere per seguirne l’andamento nel mercato, dato che fra vino e cibo v’è un rapporto di cui non sempre si coglie l’eco nella stampa regionale. La quale tuttavia, a partire all’incirca dall’ultimo decennio del secolo scorso, è stata scettica, ma a torto, sull’abbinamento del Cerasuolo con il pesce,proposto da coraggiosioperatori gastronomici regionali, a fronte di una tradizione consolidata che vuole per i prodotti ittici l’abbinamento con i vini bianchi, specialmente trebbiano, cococciola e pecorino.

A parte l’abbinamento consigliato con il pesce, l’AIS (Associazione Italiana Sommeliers) ha rivalutato il Cerasuolo anche come aperitivo, in sostituzione di analcolici contenenti probabilmente coloranti artificiali assai dannosi alla nostra salute.

Il Cerasuolo nel pensiero di Paolo Monelli.

Come si è visto in precedenza, il Lancerio non mancava mai di suggerire ai vignaioli: “dei chiaretti si faccia sempre prova”, fino ad ottenere il color rosa desiderato, ed altrettanto si raccomanda nel citato volume “Il piacere del vino”, pubblicato da Arcigola slow Food.

Nel 1971 apparve per i tipi della Longanesi un Saggio di Paolo Monelli dal titolo Il vero bevitore, da considerarsi uno dei lavori più preziosi della letteratura enologica italiana.

Dopo aver rivolto parole di biasimo per i “Sommeliers prezzolati”, per gli “osti ignoranti” e soprattutto “contro gli astemi”, il Monelli aggiunge che ha voglia di “dirne quattro anche a queiproduttori che si son messi afabbricare il vino rosa” ed a tal riguardo precisa:

“Intendiamoci: non quei rosati che si producono da un pezzo ed hanno una tradizione e nobile origine, come il rosa di Ravello, il vin rosa di Parendo, i Cerasuoli d’Abruzzo, i rosa della Valténesi (basse colline lungo la riva destra del Garda) … e un rosa vispo e petulante che bevvi molti anni fa all’Osteria del Sudicio a Savona…” [P. Monelli, op. cit. p.47 sgg.]

Inutile sottolineare l’importanza del riconoscimento attribuito, da parte di un grande giornalista ed enologo come il Monelli, al Montepulciano Cerasuolo d’Abruzzo ed al ruolo rivestito da questo grande vino abruzzese nell’ambito dei cosiddetti vini rosa italiani.

Il motivo che spinge il Monelli ad arroccarsi su una rigida posizione è che:

“da qualche tempo si sta progettando da parte di parecchi produttori di ‘scolorire in rosa’ tutti i vini rossi e neri, mescolando al loro mosto pallide vinacce… e questo perché si dice dai commercianti che i consumatori preferirebbero i vini color di rosa agli altri”.

A sostegno di quanto affermato, il Monelli cita “il dotto enologo Francesco De Blasiis, abruzzese, di Città Sant’Angelo, il quale nel suo Saggio dal titolo Istruzione teorico-pratica sul modo di fare il vino [Firenze 1869] sottolinea che “tutti i sensi domandano di essere appagati dalle estrinseche qualità del vino: il gusto, l’odorato e la vista” […] e nessun vino soddisfa meglio la vista come il Cerasuolo”.

Commenta tuttavia in tal senso il Monelli:

“Se sia vero che il gusto degli Italiani, come affermano giurie e tecnici, si orienta verso i vini rosa (ma io ne dubito; credo piuttosto ad un capriccio di produttori, ad una ricerca ad ogni costo di originalità, o all’invidia per certi vini rosa, legittimi, antichi e celebrati) opera savia sarebbe non assecondarne le matte, ma ricondurli sul retto cammino…”.

Insomma il Monelli non riesce ad immaginare, forse perché figlio del suo tempo, “chianti, barbera e sangiovese rosati”, sangue purissimo di tralci e di raggi solari e cosmici. Sicché nel ribadire la sua preferenza per i rossi, il Monelli fa suo il famoso pensiero espresso da Galilei nel corso di una lectio magistralis edannotato dal conte Lorenzo Magalotti, Segretario a Firenze dell’Accademia del Cimento, pensiero che recita:

                                        “Il vino è come il sangue della terra,

                                           sole catturato e trasformato da una struttura

                                          così artificiosa qual è il granello d’uva,

                                          mirabile laboratorio in cui operano ordigni

                                          e potenze congegnate da un clinico occulto e perfetto.

                                          Il vino è un composto di umore e di luce…”.                

Quello che ci preme sottolineare è dunque che circa mezzo secolo fa vi erano in Italia ampelografi ed enologi del calibro del Monelli, che riconoscevano nel Cerasuolo abruzzese, ricavato dal vitigno Montepulciano, una qualità di “vino di gran razza”, citato per la prima volta nella Conca Peligna  dallo storico tedesco Woldemar Kaden nella sua citata opera Wandertage in Italien, pubblicata a Stoccarda nel 1874, ma tale testimonianza si riferisce evidentemente all’anno precedente, 1872 oppure 1873.

La circostanza poi che molti Enologi e Sommeliers abbiano sottolineato nel cerasuolo della Conca Peligna un “retrogusto mandorlato”, più accentuato rispetto ai cerasuoli di altre aree abruzzesi, ha richiamato alla nostra memoria il nesso, forse non casuale, con il territorio sulmonese che negli ultimi decenni dell’800 era descritto dal Viaggiatore tedesco Von Rath come “uno splendido mandorleto”, fungendo da supporto all’industria dei confetti, tuttora vanto della Città d’Ovidio.

La Conca peligna può considerarsi non solo patria del Montepulciano e della sua seconda anima che è appunto il Cerasuolo, ma anche della lagrima, testimoniata come si è visto fin dal 1606 in un rogito notarile stilato nel territorio di Sulmona. E proprio in questa varietas giace la risposta più efficace che i viticoltori locali dovranno dare alla sfida enologica dell’immediato futuro.  

Appendice Bibliografica

 Le fonti storico-letterarie sulla presenza del Montepulciano e del Cerasuolo nella Conca Peligna.

  • Michele Torcia e la prima notizia sul Montepulciano.

Anche se “Archivista e Bibliotecario di Sua Maestà Ferdinando IV di Borbone”, Michele Torcia (1736-1808) resta – come sottolinea I. Di Iorio – un Figlio dell’Illuminismo che fa dei Viaggi la fonte più importante per l’acquisizione di informazioni storico-culturali non solo dei popoli europei (assai noti restano i suoi resoconti in Francia ed in Olanda) ma anche delle Province che costituivano quello straordinario mosaico che era appunto il regno di Napoli.

Nell’ultimo decennio del ‘700 il Torcia pubblica l’importante “Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’ Peligni fatto nel 1792” pubblicato a Napoli l’anno successivo. In esso troviamo citato in Agro peligno e per la prima volta in Abruzzo il vitigno montepulciano da cui si ricavava l’omonimo vino portabandiera della nostra Regione.               

La citazione del Torcia è contenuta a pag. 67 e la riportiamo fedelmente qui di seguito:

 “… Le uve muscatella, muscatellone, zibibbo, non grosso come l’arabo Zebib di Calabria e Sicilia di cui fansi i passi psithii (Virgil., georg., II, v. 93, e IV, v. 269; Plin. l. 14, c. 9, sert. II p. 323), ma piccolo; lacrima, Monte-pulciano, cornetta, pane (bumasta), del Vasto senza granelli, e la malvasia, ma non la veracebiondina, l’antica lageos cioè di color simile a quello di lepre, che col suo melato gusto in uva ed in vino, soprattutto in Lipari, annoda per ebrietà la lingua e rende tremule le ginocchia. (Virgil. georg., II, v. 93) …: tenuisque lageos Tentatura pedes olim vincturaque linguam …”.

  • Atto del notaio Vincenzo Stecchini di Sulmona: Anno 1819, 15 Novembre

Contratto d’affitto di un terreno di proprietà dei signori De Amicis Aceti con l’obbligo di “piantarci viti di buona qualità, vale a dire Monte Polciano  e Tivolese, escluso il Clampese (sic: Camplese)”.

[Archivio di Stato Sulmona, Atti del Notar V. Stecchini, in data 15 nov. 1819.]

  •  Panfilo Serafini e la sua “Monografia storica di Sulmona”

Nel 1853 viene pubblicata a Napoli nel periodico Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato la “Monografia storica di Sulmona” di Panfilo Serafini, contenente preziose notizie sull’evoluzione ampelografica del Montepulciano e sulla viticoltura della Conca Peligna. Scrive il Serafini nel Capitolo relativo all’Agricoltura:

“La pianta più coltivata in Sulmona è il maiz e la vite, come anche in altri Comuni del nostro bacino. Le vigne del nostro Distretto venti anni addietro occupavano un 12 mila moggi di terreno; al presente ne occupano forse 20 mila. Sulmona e Pratola però più che gli altri Comuni amano questa coltura. Noi ne abbiamo circa 30.000 salme di vino annualmente (1 salma è di 132 caraffe).

Le viti più comuni sono il Montepulciano, sia primaticcio, sia cordisco o tardivo, e il Tirolese. Le migliori sono il moscatello ed anche in parte una specie di Montepulciano, la malvasia, il Campolese, e per tavola l’uva corniola, l’uva di pane, la ragia, l’ursina, la sanguinella, il zibibbo ecc. Le viti sono per lo più propagate con magliuoli in autunno ed anche ne’ principi di primavera; potansi basse in febbraio e in marzo; e basse, piane, e distanti fra loro circa tre palmi si mantengono. Si appoggiano generalmente a pali cinti con vimini, eccetto poche maritate ad alberi o sostenute a pergolato”.

  • Woldemar Kaden (1838- 1909) e la prima testimonianza storico-letteraria del “cerasuolo” in area peligna ed in Abruzzo.

Nel 1874 lo storico e Viaggiatore tedesco Woldemar Kaden pubblica a Stoccarda l’opera Passeggiate in Italia [titolo originale: Wandertage in Italien], in cui l’Autore descrive un breve soggiorno fatto nella Città di Ovidio nell’agosto del 1872 o 1873 insieme al connazionale C. Stieler (i due, insieme ad E. Paulus, visiteranno ancora Sulmona nel 1883, descritta in un’altra opera: Italia. Viaggio pittoresco dalle Alpi all’Etna [Casa Ed. Treves, Milano 1885].

Del resoconto di tali viaggi ci siamo occupati nel nostro Saggio dal titolo Sulmona negli scritti dei Viaggiatori tedeschi del XVIII e XIX secolo, Sulmona 1985, a cura del Centro Studi P. Serafini.

Nel suo primo soggiorno, illustrato nell’opera Wandertage in Italien, Woldemar Kaden, cui a Sulmona è stata dedicata una Via Cittadina, resta affascinato dalle pesche e dai grappoli d’uva che facevano spicco sulla candida tovaglia apposta sul tavolo da pranzo della locanda dove avevano preso alloggio ed aggiunge: “Su tutta la scena troneggiava un imponente fiasco di vino color rosa, quel vino appunto che nel giro di alcuni lustri si accingeva ad assumere il nome di Cerasuolo, ricavato con una particolare vinificazione dalle uve Montepulciano.

  •  Relazione dell’agronomo Giuseppe Sebastiani sulle viti coltivate in agro sulmonese:30 marzo 1876

La richiesta da parte del sindaco di Sulmona pro tempore, in data 30 marzo 1876 e diretta all’agronomo comunale Giuseppe Sebastiani, è intesa a conoscere il patrimonio ampelografico del territorio della Città d’Ovidio e costituisce un documento di estrema importanza per la storia della viticoltura della Conca Peligna ed anche dell’Abruzzo. Il quadro tracciato per l’agro di Sulmona non doveva essere differente da quello dei Comuni confinanti, soprattutto Pratola Peligna e Corfinio, data l’omogeneità e le comuni caratteristiche territoriali della Conca, che appare già nei primi decenni dell’800 senza soluzione di contiguità per quanto concerne la coltivazione di alcuni vitigni, fra cui predominanti erano il Montepulciano ed il Trebbiano.

A cosa servisse la Relazione richiesta al Sebastiani non viene specificato. Certamente essa era preposta alla conoscenza del patrimonio ampelografico della Conca peligna in vista di un importante convegno che forse si intendeva organizzare su scala nazionale, come era avvenuto appunto nel 1867, quando la “Regia Commissione Italiana”, presieduta dall’abruzzese Giuseppe Devincenzi, si accingeva ad organizzare a Firenze la nota Esposizione Universale.

Sulmona, 30 marzo 1876

                                                              All’Ill.mo Sindaco del Comune di Solmona (sic)

“Le viti che comunemente si coltivano nel tenimento di Solmona e dalle quali si ricava la maggior quantità di mosto, sono di uva appellata Montepulciano nero : e questo è di due specie, cioè il primaticcio, che chiamasi pure gaglioppo ; ed il serotino (cordisco o tardivo ) che si coltiva a preferenza dell’altro. Coltivasi pure e molto attesamene la vite che dà l’uva detta camplese , ossia  il trebbiano , ed avesene bianca e nera. Per formare vino sonovi altresì le seguenti specie di uve, cioè la malvagia bianca e nera, il verdetto, appellato dal volgo verdelicchio , moscatello bianco e nero, l’aleatico, il canaiolo bianco e nero, uva detta di Santa Messa bianca e nera, il Tivolese, il grappalone, in vernacolo racciappalone, uva detta di San Francesco ed il Torcicane. Le uve mangerecce poi sono quelle dette del Vasto o Zibibbo, la corniola bianca e nera, uva Rojo nera, comunemente detta uva rascia, ed è a granelli rotondi ed ovali oblunghi ; maturain autunno avanzato e dura fino alla primavera ; uva sancinella  bianca, il  moscadellone, ed il cosiddetto pergoligno nero a granelli oblunghi. Havvi un’uva non coltivata, che cresce nelle siepi, detta cianfruscola, da cui si ha vino squisito. Questo è quanto ha potuto e saputo raccogliere lo scrivente intorno alle viti del territorio sulmonese, ma egli manca di cognizioni di botanica, e di ampelografia      intorno alla materia, di che trattasi, che però merita indulgenza se non ha saputo far meglio….”                                                                                                          

Giuseppe Sebastiani

Segue in un foglio a parte un “Elenco dei vitigni coltivati nel territorio del Comune di                Sulmona”, con una sintetica descrizione delle loro caratteristiche ampelografiche:

Uve da vino

Montepulciano: Nero, a grappoli di media grandezza, acini ovali. È il più coltivato perché il più atto a far vini neri.

Galoppo Primaticcio nero: a grappoli di media grandezza, ma più piccoli del precedente ; acini sferici ; è anche coltivato comunemente  ma non quanto il Montepulciano

Verdero Color glauco, grappoli di media grandezza, acini ovali, (volgarmente verdelicchio) maturazione piuttosto tardiva. È anche coltivato comunemente ma non quanto il Montepulciano.

Trebbiano bianco: Grappoli grandi ma radi, acini tondi; coltivato comunemente ma un poco meno del Verdero.

Trebbiano rosso: Ha gli stessi caratteri del precedente, ma coltivato in piccola quantità.

Moscato bianco: Coltivato soltanto da qualche proprietario

Moscato nero: Coltivato in piccola quantità

Malvagia bianca: Coltivata in piccola quantità

Malvagia rossa Coltivata in piccola quantità

Canaiolo bianco e rosso Coltivati in piccola quantità 

Tivolese Coltivato in piccola quantità

Aleatico bianco e rosso –

Uva Santa Maria Somiglia molto al moscato bianco, ma gli acini  sono un poco allungati e matura in agosto.

Uva San Francesco Rossa, grappoli grandi, acini grossi e tondi e duri

Cianfruscola Non coltivata, cresce quasi spontanea lungo le siepi

Zibetto bianco Volgarmente Zibibbo

Corniola bianca e rossa –

Uva grassa –

Rojo Comunemente detta Uva Roja ; è a granelli ovali,color rosso e duri ; matura in autunno avanzato e  può tenersi sino alla primavera; atto per conserve

Pergoligno Ha gli stessi caratteri del precedentema ha gli acini più oblunghi

Sancinella bianca. Grandi grappoli, acini sferici, grossi primi (sic) e duri

Moscatellone –

“Tutte queste varietà sono coltivate – conclude il Sebastiani – in piccole proporzioni soltanto dagli amatori”.

Considerazioni finali.

La Relazione dell’agronomo Sebastiani si presta a numerose considerazioni, ma noi ci soffermiamo solo su quelle che appaiono di rilevante interesse ampelografico.

Dopo aver ricordato che il vero e proprio Montepulciano è quello cordisco (o tardivo), da cui si otteneva – per usare le stesse parole del Kaden – il miglior “vino color rosa”, il Sebastiani scrive che l’altra qualità di Montepulciano, detto primaticcio e qualitativamente inferiore al cordisco, era chiamata anche gaglioppo, galoppo o gaglioppa. Allo stato attuale delle nostre conoscenze risulta difficile accertare i rapporti fra tale gaglioppo e quello citato negli “Statuta Civitatis Aquile del 1315”, Cap. 355, pubblicati da A. Clementi, ed  in precedenza citati.

V’era poi il trebbiano, chiamato anche camplese (il Relleva sostiene che in realtà il nome esatto era campolese )[22] e veniva coltivato “molto attesamente” nella Valle del Tirino “a sostegni morti” e con il nome di buon vino[23]  ..

Come si è detto in precedenza, il termine camplese non sembra derivare dal topos “Campli” e va ricordato inoltre che nel rogito del notaio Vincenzo Stecchini di Sulmona, del 1819, il camplese non viene annoverato – a differenza di quanto sostenuto da altre fonti – fra i vini di buona qualità[24] .

Ma non finiscono qui le novità, perché R. Sersante nel suo Trattato teorico pratico sull’arte della vinificazione [Chieti 1856] scrive che “il trebbiano era chiamato anche uva passa”.

Richiama subito la nostra attenzione, nell’elenco stilato dal Sebastiani, anche il vitigno verdetto o verdelicchio, “coltivato comunemente in agro peligno ma non quanto il Montepulciano cordisco”. Con ogni probabilità il nome di tale vitigno si ricollega al verdicchio, coltivato sotto il profilo ampelografico in quella “terra di nesuno” che va dai confini del Tronto fino all’agro di Jesi, dove oggi – forse non a caso – si coltiva la lagrima

Menzione a parte merita la misteriosa vite cianfruscola, non coltivata, che cresceva sottolinea il Sebastiani spontaneamente nelle siepi (probabilmente quelle che fungevano da confine fra i vari appezzamenti vignati) e dalla quale si ricavava un “vino squisito”.  Ne abbiamo discusso qualche anno fa a Vittorito, invitando alcuni Amministratori locali ad effettuare ricerche su questo misterioso vitigno, che sembra svanito, malgrado le nostre continue ricerche, dall’orizzonte ampelografico della Conca peligna.

Ma tornando al nostro argomento, va ricordato quanto sottolinea nel 1876 il Sebastiani e cioè che “per formare vino nero” vi sono oltre al Montepulciano primaticcio e cordisco “altre specie di uve, soprattutto il trebbiano rosso, la malvagia nera, il moscatello nero, il canaiolo nero ecc.” che potevano essere vinificate in modo da ottenere “vino color rosa”, cioè l’antenato del nostro cerasuolo, che non risultamai presente tuttavia nel corso dell’800 nelle manifestazioni ufficiali.

Se ne ha conferma dal menu (in lingua francese) servito a Sulmona dalla Casa Spillman il 28 agosto 1888, in occasione della Inaugurazione della Linea Ferroviaria Roma-Sulmona, ed in cui fra quelli serviti compaiono solo i seguenti vini:

Vins :

Chianti e vino di Sulmona, Chablis, Bordeaux, Champagne, Café.

Liqueurs :

Cognac, Mandarino, Centerbe, Corfinio, Elisir Maiella”.

Come si vede, mancano a distanza di 12 anni dalla Relazione del Sebastiani precisazioni circa il “vino di Sulmona”, malgrado che nel suddetto Menù siano menzionati alcuni liquori locali, come centerbe (forse di Tocco a Casauria)[25] , l’Elisir Maiella, certamente prodotto in una località della Conca peligna, ed il notissimo Corfinio, citato dal D’Annunzio, ma nulla si chiarisce in merito al ‘vino di Sulmona’, il quale permane ancora avvolto da una insignificante genericità. 

Alla data del 1888 non si parla dunque né di Montepulciano e né di vin rosa o cerasuolo, nomi che risultano assenti non solo nel saggio Le antiche industrie della Provincia di Aquila, di R. Bonanni, pubblicato nello stesso anno 1888, ma soprattutto nell’opera di F. De Blasiis Istruzione teorico-pratica sul modo di fare il vino e conservarlo, Firenze, Barbera, I. Ed. (1857) e II Ed. 1860, dove nell’ultimo Cap., dal titolo “Coltivazione della vigna bassa in Abruzzo”, si fa cenno solo al moscato, aleatico, malvasia e uva fragola.     

Pertanto l’assenza del nome cerasuolo – almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze – perdura anche nell’ultimo decennio dell’800 e malgrado le nostre ricerche non sono emerse notizie che possano dimostrare il contrario. Le indagini devono essere effettuate dunque a partire dai primi lustri del ‘900, quando appunto – come sostiene il Franchetti – l’incremento del mercato viticolo e lo sviluppo della commercializzazione vinicola in Italia assumeranno aspetti decisamente rilevanti[26].

Ci piace concludere questa nostra indagine storico-ampelografica ricordando che Sulmona non è solo la Patria di Ovidio, dei confetti e del montepulciano, ma – dulcis in fundo – anche del cerasuolo, il vino che attendeva una pagina di storia che finora non era stata ancora scritta.

Il cerasuolo dà lustro tuttavia non solo a Sulmona, ma anche a tutta la Conca, la quale come una grande culla ha tenuto in serbo questo prezioso gioiello da cui si attende la rinascita della viticoltura peligna. 

Franco Cercone.


[1] I. Silone, L’Abruzzo. la terra e la gente, in AA.VV. “L’Abruzzo”, Casa Editrice Electa, Milano 1963. 

[2] La bonifica si concluse nel 1878. Cfr. C. Felice- A. Pepe –L. Ponziani, Storia dell’Abruzzo, vol. IV, Bari 1999.

[3] È un Capitolo dell’opera Illustrated Excursions in Italiy, London 1846. La traduzione italiana è a cura di B. Di Benedetto Avallone, pubblicata a Sulmona nel 1974.

[4] Archivio di Stato Sulmona, Atti di Notar V. Giannitti, vol. IV.

[5] Cfr. G. Morelli (a c. di), “Gli Acquaviva d’Aragona duchi di Atri”, Atti del Convegno Teramo 1985.

[6] Delle uve labrusche, che potevano essere sia bianche che nere, parla già Pier de’ Crescenzi agli inizi del ‘300 nell’opera Liber ruralium commodorum. La labrusca, precisa al riguardo Pier de’ Crescenzi, è “vite selvatica” usata per i “tagli”.

[7] La “Ripa” era lo scalo marittimo di Roma sul Tevere. In seguito ometteremo, come si è detto, di ripetere il titolo completo dell’Operetta’ Della natura dei vini e dei viaggi e riporteremo solo il n° di pagina dell’opera citata.          

[8] Cfr. F. Cercone La Meravigliosa Storia del Montepulciano d’Abruzzo, Amalthea, Corfinio 2000; Id. La Lacrima di Tollo, e la viticoltura del Settecento nella Provincia di Chieti, Qualevita, Torre dei Nolfi 2004.

[9] Dobbiamo la traduzione dei brani in latino al Prof. Ilio Di Iorio, che in tale sede ringraziamo vivamente.

[10] F. Cercone, La meravigliosa storia del Montepulciano… ecc., op. cit.; Id. La lagrima di Tollo e la viticoltura del Settecento … ecc. op. cit.

[11] G. Del Re, Descrizione topografica, fisica, economica, politica de’ Reali Domini al di qua del Faro nel Regno delle Due Sicilie, Tomo II, p. 439, Napoli 1835.

[12] Cfr. Fabio V. Maiorano, Strademecum. Toponomastica storica e contemporanea della Città di Sulmona, p. 112,

    L’Aquila 2012.

[13] S. Relleva, Conferenze enologiche nel Comizio Agrario Aquilano, L’Aquila, B. Secchioni Tipografo, 1878.

[14] L. Laporta, Indagine sulle caratteristiche chimiche e chimico-fisiche del Montepulciano d’Abruzzo nelle due varietà rosso e rosato “, Bologna 1962.

[15] P. Gho, G. Ruffa, Il piacere del vino…, Arcigola Slow Food, Bra (Cn.), 1993.

[16] C. Ulisse de Salis von Marschlins, Nel Regno di Napoli. Viaggi attraverso diverse Province, p. 259 sgg.; trad. a cura         di I. Capriati, Trani 1906.

[17] G. Vom Rath, Attraverso l’Italia e la Grecia..ecc., op. cit., Heidelberg 1888 ; cfr. F. Cercone, Sulmona negli scritti dei Viaggiatori tedeschi ecc., op. cit. p. 57.

[18] G. Nardi, Saggi su l’agricoltura, arti, e commercio della Prov. di Teramo, 20 febbraio 1789, in A. Marino (a c. di) “La Montagna teramana. Risorse e ritardi”, vol. I, Colledara (Te).

[19] L. Fianchetti, Condizioni economiche ed amministrative delle Province napoletane, p. 12, Firenze1875.

[20] Vedasi al riguardo anche D. Venanzio Fucinese, Un anno, una vita. Storia del popolo raianese, vol. I, Sinapsi Ed., Sulmona 2003.

[21] Archivio di Stato, Sulmona, Atti del Notaio Francesco Aquili, di Popoli (Pe), vol. III, Busta 79.

[22] L’origine del nome rimanderebbe pertanto, almeno nella prima parte, a campus.

[23] S. Relleva, Conferenze enologiche nel Comizio Agrario Aquilano, B. Vecchioni Tipografo, Aquila 1878.

[24] Archivio di Stato, Sulmona, Atti di Notar Vincenzo Stecchini, 15 novembre 1819.

[25] Non va dimenticato quanto scrive in proposito il Bonanni, il quale parlando nel 1888 delle Industrie di Sulmona scrive: “Ora si è aggiunta pure la fabbrica della Centerbe, che non è punto inferiore a quella celebrata di Tocco”.

[26] L. Franchetti, Condizioni economiche ed amministrative delle Province napoletane, Firenze 1875.

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