di Franco Cercone
[Pubblicazione di Franco Cercone, La chiesa e il culto di San Rocco a Roccaraso, “Accademia degli Agghiacciati”, Sulmona 1985]
Poche ed incerte sono le notizie sulla vita di San Rocco.
Nato da nobile famiglia a Montpellier, città della Francia meridionale, verso la fine del secolo XIII, donò, come San Francesco d’Assisi, tutti i suoi beni ai poveri e come un umile pellegrino si recò a Roma.
Giunto ad Acquapendente, in provincia di Viterbo, proprio mentre infuriava una grande epidemia, San Rocco dedicò tutta la sua assistenza agli appestati e circondato da fama
di taumaturgo, esercitò il suo apostolato a Roma, Rimini, Novara e Piacenza, soccorrendo ovunque la popolazione colpita dalla peste. Arrestato come spia ad Angera, sulla riva orientale del lago Maggiore, egli morì dopo cinque anni di prigionia verso la metà del ‘300.
Fin dai principi del secolo XV San Rocco era invocato, al pari di San Sebastiano, come protettore contro la peste ed il suo culto si diffuse rapidamente in Italia acquistando
una straordinaria popolarità.
San Rocco è raffigurato nell’arte statuaria ed in pittura come un giovane pellegrino che mostra una gamba scoperta e cosparsa di piaghe, quelle appunto provocate al Santo dalla peste. Gli è sempre accanto un cagnolino che ha un pane in bocca. Secondo una leggenda, infatti, si tratta del cane che il nobile Gottardo inviava ogni giorno al Santo, quando giaceva malato in una località solitaria presso Piacenza.
Come si diceva in precedenza, San Rocco e San Sebastiano sono invocati entrambi contro il pericolo della peste. L’Arte ha recepito questo aspetto della religiosità popolare ed in molti capolavori pittorici, come anche negli ex voto, i due Santi sono raffigurati nell’esercizio del loro “patronato”.
Ricordiamo in proposito soltanto la pala San Rocco e San Sebastiano, del Tiepolo, conservata nella chiesa di Noventa Vicentina, e la pala omonima di G. Francesco Caroto, che si ammira a Venezia nella chiesa di San Giorgio Maggiore.
È probabile allora che i due culti, quello di S. Sebastiano e di S. Rocco, non siano coesistiti a Roccaraso per pura casualità, ma affondino invece le loro radici in questa
tipica esigenza protettiva, da tanto tempo avvertita dalla popolazione locale.
Tra l’altro, di S. Sebastiano, come sottolinea il Sabatini, si conservava a Roccaraso «una magnifica scultura in legno policromo, datata al 1560 ed attribuibile alla scuola del celebre Silvestre di Giacomo da Sulmona, detto l’Ariscola»[1]
Al riaffacciarsi improvviso di ogni epidemia, San Rocco costituiva per le popolazioni inermi l’unica speranza di salvezza ed anche in occasione della terribile peste che colpì
l’Italia nella seconda metà del XVII secolo, il Santo di Montpellier non negò il suo aiuto alle genti devote.
I primi focolai cominciarono a manifestarsi in Sardegna, tra il dicembre del 1655 ed il gennaio del 1656. Il contagio, scrive il Del Vecchio, raggiunse presto Napoli da dove
poté, con molta facilità, entrare nella parte settentrionale del Regno, cioè negli Abruzzi:
«L’esodo di gran parte della aristocrazia napoletana verso i castelli feudali e della più
agiata borghesia, in grado di mettersi in salvo con la fuga in territori non sospetti, esodo cominciato nel maggio del 1656 e continuato nei mesi successivi, concorse a propagare più rapidamente il male nelle province napoletane»[2].
Sembra che le prime località ad essere colpite dalla peste siano state, in Abruzzo, Castel Frentano e Chieti, dove i primi casi si registrarono il 4 agosto del 1656[3]. Non mancano particolari agghiaccianti sul modo con cui si tentò di difendersi dal morbo ormai dilagante. Dai Parlamenti Teatini si apprende infatti che le persone condannate a morte e rinchiuse a Chieti presso le locali carceri in attesa dell’esecuzione della sentenza, furono impiegate per trasportare e seppellire i cadaveri delle persone morte a causa della peste, con la conseguenza che moltissimi detenuti restarono contagiati e perirono[4].
Per timore del contagio i monaci sprangarono i conventi, impedendo a tutti di rifugiarvisi. A molti non restò che cercare riparo in campagna. A Villavallelonga si provvide, come in tante altre parti d’Italia, a costruire fosse nelle chiese per la sepoltura dei cadaveri. La prima persona colpita dal morbo in questa località della Marsica, quale segno di un «delirio di autodistruzione», si gettò ancora viva nella fossa comune, seguita nell’esempio da altre[5].
Molte notizie sono contenute al riguardo nei Libri dei Morti dell’epoca e da essi, sottolinea il De Rosa, «possiamo estrarre cifre importanti per conoscere l’andamento di una popolazione e le sue flessioni in occasione di malattie e carestie»[6].
L’esistenza di questi libri, negli archivi parrocchiali, rappresenta per lo studioso un colpo di fortuna, poiché essi, come nel caso di Roccaraso, sono andati dispersi in seguito alle distruzioni operate dalla seconda guerra mondiale, facendo svanire così la possibilità di ricostruire delle pagine importanti di storia patria.
A Castel di Sangro la peste, arrivata probabilmente subito da Napoli, «fece tanta strage che, dopo di essa, si trovò la popolazione ridotta a poco più di 800 anime, mentre prima passava le 2.000»[7].
Anche Pescocostanzo registrò un gran numero di morti, sicché la peste, scrive il Sabatini, “causò il 50% della diminuzione della popolazione”[8], percentuale questa che, data la vicinanza tra i due centri, può essere estesa a nostro avviso anche a Roccaraso.
Nella Relazione ad limina Apostolorum, inviata nel 1654 dal vescovo di Valva e Sulmona, Francesco Carducci, alla Santa Sede (due anni prima della peste, dunque), si apprende che a Roccaraso vi erano in quell’anno 900 anime:
«Rocca Rasuli. Archipresbiteratus et Parochia S. Hipoliti annuatim tumulos frumenti 100; Societas S. Sacramenti tumulos 10 frumenti et habet oves 500; Hospitale et S. Leonardus ducata 4; clerus 11, animae 900»[9].
Se è valida la nostra ipotesi, se cioè si ammette che come a Pescocostanzo anche a Roccaraso il morbo decimò il 50% della popolazione, ne deriva che a Roccaraso dovettero perire 450 persone circa ed anche se questa non fu la cifra esatta dei periti, essa assunse comunque dimensioni spaventose.
Scene terribili rimasero, forse, per lungo tempo impresse nella mente dei cittadini scampati al flagello e possiamo immaginare anche, come nelle chiese di S. Ippolito[10], di S. Maria Assunta, di S. Nicola e S. Bernardino, la popolazione di Roccaraso si raccogliesse devota, supplicando S. Sebastiano e S. Rocco affinché fosse risparmiata dalla terribile epidemia.
E fu proprio per intercessione di S. Rocco, come si credette, che la peste cessò di spargere i suoi letali effetti e quali mirabili ex voto per lo scampato pericolo sorsero, quasi ovunque, subito dopo il 1656, chiese e cappelle dedicate al Santo di Montpellier.
A Roccaraso la chiesa di San Rocco fu ultimata probabilmente entro il quinquennio successivo alla fine della peste. Per la sua edificazione fu scelta un’area situata ad occidente della Terra Vecchia, fuori la cinta muraria cinquecentesca. I verbali delle «Visite Pastorali» effettuate dai vescovi nella Diocesi di Valva e Sulmona nel sec.XVIII, ci dicono che le chiese dedicate a San Rocco sorgono, e non solo a Roccaraso, quasi tutte “extra muros”, cioè fuori le mura, offrendo così precisi riferimenti sulla nuova struttura urbanistica che un po’ ovunque si registra nei paesi dell’area compresa tra il
Sangro e la conca peligna.
La chiesa di San Rocco subì notevoli danni in occasione del terribile terremoto del 3 novembre 1706. La data del restauro, 1743, è ricordata dalla seguente iscrizione, tuttora esistente, posta sopra il portale dell’edificio sacro:
D O M
RASINIDUM POPULUS RENOVANS TIBI
TEMPLA DICATA
ROCHE TIBI RENOVAT PRISTINA VOTA PATRUM
ANNO SALUTIS MDCCXLIII
Dal verbale della visita pastorale compiuta a Roccaraso il 28 agosto 1756 dal vescovo Filippo Paini si apprende infatti che la chiesa di San Rocco era stata ricostruita di recente quasi dalle fondamenta ma non ancora completata. Tra l’altro, a causa della negligenza dei progettisti, era rimasta scoperta o forse in parte crollata la volta a botte dell’edificio, per cui il vescovo ordina che fossero consultati dei periti architetti per gli opportuni lavori da svolgere, in modo che esso non andasse maggiormente in rovina:
«Pro Ecclesia S. Rochi Confess. et Patroni minus principalis Loci… Haec Ecclesia noviter pene a fundamentis excitata sed nondum opere completa est, satis ampla et manet sub coelo et coelis ex opere fornicato sui nam minantibus ob artificum imperitiam, et ne in pejus ruat consulantur periti artifices, ad finem de remedio opportuno provideri. Habet unicam campanulam bene sonantem et approbavimus. Sepoltura pro viris expurgetur et per admodum Rev. Antistitem cui necessariam subivimus facultatem.»[11].
La chiesa di San Rocco, leggiamo sempre nel documento citato, aveva tre benefici ecclesiastici (habet in se erecta tria beneficia ecclesiastica) istituiti sotto i titoli di S. Francesco di Paola, di S. Pasquale Baylon ed infine di S. Rocco, con riserva di giuspatronato (cum reservatione jurispatronatus) e con l’onere delle messe. Tale riserva consisteva nel diritto di presentazione di un ecclesiastico da parte di laici,
il quale veniva così ammesso a godere dei frutti derivanti dal beneficio.
D’altro canto la chiesa di San Rocco, come risulta dal verbale della Visita Pastorale, aveva un unico altare istituito lo stesso con riserva di giuspatronato da parte dei maggiorenti (majorum) dell’Università di Roccaraso.
Il vescovo ordina inoltre che sia ripulita la fossa adibita a sepoltura degli uomini e scavata sotto la chiesa. Un’altra fossa comune era stata approntata nei pressi dell‘Ombrellone, zona che ancora oggi viene chiamata ‘u culére.
Nel verbale della Visita Pastorale compiuta il 28 agosto 1756 dal vescovo di Valva e Sulmona, Filippo Paini, si parla ovviamente di tutte le chiese esistenti a Roccaraso. Da
esso, redatto in una grafia non sempre chiara, stralciamo tuttavia solo la parte relativa alla chiesa di San Rocco, che è quella che in tale sede interessa e di cui si dà una libera traduzione (il testo è riportato in nota): «Questa chiesa, con il suo unico altare e presbiterio, con diritto di patronato[12]dei maggiorenti dell’Università di Roccaraso, sia mantenuto con propri introiti annui non solo uniti ed incorporati alle rendite
della venerabile cappella di Sant’Ippolito, ma anche con altri introiti provenienti dai beni amministrati dal Priore, da eleggersi ogni singolo anno dalla magnifica Università di Roccaraso. La chiesa ha eretti in sé tre benefici ecclesiastici, con onere delle messe, come risulta dalle Bolle; il primo sotto l’invocazione e titolo di San Francesco di Paola, con riserva di diritto di patronato un tempo affidato al reverendo sacerdote Don Giocondo Angelone, ed è posseduto dal reverendo Don Nicola Silvestri, l’altro sotto l’invocazione e titolo di San Pasquale Baylon, eretto da Stefano De Libero, con riserva di diritto di patronato, e di ciò si trova provvisto il reverendo Don Giuseppe De Libero; il terzo beneficio infine, sotto il titolo dello stesso lodato San Rocco, eretto con riserva di diritto di patronato da Domenico D’Alò, è posseduto dal reverendo Don Giovanni D’Alò[13]. L’altare di San Rocco manca di privilegi ed indulgenze, ha tuttavia l’onere delle messe e di altri obblighi ed impegni descritti nella tabella del reverendo collegio sacerdotale. La festa viene celebrata ogni anno con solennità il 16 agosto. Abbiamo trovato questo altare decentemente ornato, abbastanza provvisto di suppellettile sacra ed abbiamo approvato. Si provveda però entro sei mesi ad una nuova pianeta, con stuoia e manipolo, fatta di stoffa color nero, sotto la pena di interdetto della pianeta precedentemente esistente»[14].
La festa si svolgeva dunque solennemente (somptuose) il 16 agosto e la devozione per San Rocco aveva modo di esprimersi a Roccaraso anche con manifestazioni di rilevante
interesse folklorico. IlDe Nino ci dice infatti che le bambine nate entro l’anno, vestite di gala, venivano dai loro genitori portate in giro per il paese, sopra dei cavalli ornati di
nastri, fiori e campanelli, nel pomeriggio della festa di San Rocco, allietata da altri giuochi popolari. Alla bambina i parenti donavano per l’occasione «confetture o rosolio, pizze o vino»[15].
Queste sono, dunque, le vicende più importanti legate alla chiesa di San Rocco.
Per una circostanza veramente fortunata, essa è sfuggita alla furia distruttrice dell’ultimo conflitto mondiale, che ha cancellato ogni traccia dell’antico abitato. Questa chiesa rappresenta dunque l’unica testimonianza di un luminoso passato che Roccaraso deve conservare e trasmettere alle generazioni future, soprattutto ora che la benemerita Sezione degli Alpini di Roccaraso, con senso di alto civismo ed attaccamento alle memorie patrie, ha provveduto tra mille difficoltà a restaurare l’antico tempio dedicato al Santo di Montpellier.
Mi sia concesso, per concludere, di dedicare queste brevi note storiche alla memoria di Emma Bucci, di Roccaraso, che fu per me una seconda mamma come Roccaraso
è la mia seconda patria.
Roccaraso, Dicembre del 1985
[1] F. Sabatini, La Regione degli Altopiani Maggiori d’Abruzzo. Roccaraso – Pescocostanzo, p. 175; Roccaraso, a cura dell’AAST, 1960.
[2] L. Del Vecchio, La peste del 1656-1657 in Abruzzo. Quadro storico-geografico-statistico, in «Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria» annate 1976-78, p. 88; L’Aquila 1978.
[3] L. Del Vecchio, ivi, p. 86 sgg.
[4] Archivio di Stato, Chieti, Sezione Diplomatica, vol. IX, e. 90.
[5] Cfr. L. Palozzi, Storia di Villavallelonga, p. 156 sgg. Roma, Ediz. dell’Urbe, 1982. Vedasi anche la recensione del volume ad opera di A. Di Nola: Del fare storia in provincia, in «Rivista Abruzzese», n. 4, 1982, p. 177.
[6] G. De Rosa, Rituali della morte e cronaca nei libri parrocchiali del Mezzogiorno tra XVIII e XIX secolo, in «Studium», n. 6, 1981, p. 648.
[7] V. Balzano, La vita di un Comune del Reame: Castel di Sangro, p. 268, Pescara 1942.
[8] F. Sabatini, ivi, p. 166. L’Antinori afferma nella Corografia (voi. XXXVI, p. 812) che i morti a Pescocostanzo furono 1.300.
[9] A. Chiaverini, La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. VII, p. 139; Sulmona 1979. Nella Relazione ad limina, inviata alla Santa Sede nel 1630 circa dal vescovo di Valva e Sulmona, Francesco Cavalieri, è specificato invece che «Rocca del Raso» ha 200 fuochi et animae 959», 59 in più dunque rispetto al 1654, anno questo in cui si registra una contrazione demografica rispetto al 1630.
[10] La Chiesa di S. Ippolito rimase incendiata «la mezza notte precedente al 21 gennaio del 1773», per cause difficili da accertare. Ecco cosa scriveva nel 1884 il canonico De Silvestri: «L’incendio consumò tutto e precipuamente le cose più pregevoli: rimasero in piedi, sebbene danneggiate, le sole mura. Si ignora in che tempo fosse edificata questa chiesa, certo assai vetusta, come si argomenta dalla forma: di fronte all’oriente, con tre navi di due archi da due colonne in mezzo: avea tre altari, il primo in fondo alla nave di mezzo e dedicata al martire titolare, adorno di marmi e di graziosi rabeschi: in cima e in mezzo la statua del santo con portamento alla eroica, alta un cinque piedi, di legno ma di buono scalpello: a’ lati due statue più piccole ma pregevoli anch’esse, del Patriarca S. Giuseppe e di S. Filippo Neri. In capo alla nave laterale da parte del vangelo e in linea retta dell’altare maggiore eravi un altare di travertino con quadro contenente le figure di S. Pietro, di S. Paolo e di S. Giorgio: l’altare dell’altra nave, sacro all’Addolorata, era tutto di marmo con rabeschi. Il cielo di tutta la Chiesa soffitto, liscio e semplice nelle navi laterali, egregiamente intagliato in quella di mezzo con cornici la più parte indorate a zecchino, con quarantaquattro piccoli ottavi, che dipinti ad olio facevano buona corona ad un ottimo quadro grande in mezzo: rappresentavano i primi la vita di Nostro Signore e di Nostra Signora e l’ultimo l’Assunta. Soffitto altresì il ciclo della sacristia con cinque quadri: in quattro erano gli Evangelisti e in quello di mezzo molti angeli con gli stromenti in mano della Passione. Nella
stessa sacristia di fronte dava all’occhio un altro buon quadro in legno, di forma semicircolare con cornice grande e indorata a zecchino, diviso in otto compartimenti: sette in giro rappresentanti la cattura e tutto il martirio del Protettore, nell’ultimo il corpo imbalsamato e assistito dal sacerdote Giustino. Eranvi altre pitture, intagli diversi, coro ed organo, armadio e arredi sacri: non mancava
nulla alla bellezza e maestà del tempio: visitato spesso da viaggiatori, che lo trovavano rispondente alla fama, anzi maggiore». Cfr. E. De Silvestri, Considerazioni storico-morali sopra S. Ippolito Milite, p. 37; Prato, 1884.
[11] Archivio Diocesano, Sulmona; Visite pastorali di Mons. Filippo Paini, (fogli n. 11 e n. 12), 28 agosto 1756.
[12] È utile ricordare che il diritto di patronato (o giuspatronato) consisteva nel diritto di presentazione di un ecclesiastico da parte di una persona fisica o morale, estranea alla gerarchia ecclesiastica, e nella somma dei privilegi, con alcuni oneri, che per concessione della Chiesa competevano ai fedeli fondatori di una cappella o di un beneficio.
[13] La famiglia D’Alò era originaria di Vasto. Devo la notizia al Prof. A. Chiaverini che in tale sede ringrazio vivamente.
[14] «Haec Ecclesia cum unico suo altari de presbiterio jurispatronatus majorum Universitatis manutenetur ex propriis annuis introitibus nedum unitis et incorporatis bonis venerabilis cappellae S. Hippoliti, verum etiam ex aliis introitibus provenientibus a benis administratis a Priore, singulis annis eligendis a magnifica Universitate. Habet in se erecta tria beneficia ecclesiastica cum onere missarum prout ex Bullis, primum sub invocatione et titulo S. Francisci de Paula cum reservatione jurispatronatus quondam Rev. Presbytero D. lucundo Angiolone et possidetur a Rev. D. Nicolae Silvestri, alterum sub invocatione et titulo S. Paschalis Baylon erectum a Stephano de Libero cum reservatione Jurispatronatus et de eo reperitur provisus Rev. D. Joseph de Libero, tertium vero sub titulo ipsius laudati S. Rochi erecti cum reservatione jurispatronatus a Dominico d’Alò et possidetur a Rev. Ioanne d’Alò. Caret privilegiis et indulgentiis, habet tamen onera missarum, aliorumque onerum, ac Legatorum piorum in Tabella Rev. Cleri descriptorum. Festum celebratur quotannis somptuose die 16. Augusti. Reperimus idem decenter ornatum et de quacumque sacra supellectili satis provisum et approbavimus. Verum provideatur de nova Casula cum stola et manìpulo ex sclorenico (?) nigri coloris, in termine sex mensium a data presentium (?) decurrent sub poena interdicti Casulae antea existentis eo ipso incurrent». Archivio Diocesano, Sulmona; Visite Pastorali di Mons. Filippo Paini, 28 agosto 1756, foglio n. 12.
[15] Cfr, A. De Nino, Usi Abruzzesi, voi.1, pp. 196-97, Firenze 1879. Il brano del De Nino, dal titolo Nozze anticipate, si trova anche in F. Cercone, Scritti vari sulla Terra di Roccaraso, p .13, Sulmona 1976. Da indagini fatte non risulta che nella ricorrenza della festa si confezionassero, come avveniva in altre località abruzzesi, il cosiddetto «pan di San Rocco». La distribuzione votiva del pane avveniva tuttavia a Roccaraso il 6 dicembre, festa di San Nicola di Bari. Circa le confetture (confetti) lo storico Vincenzo Giuliani, nato a Roccaraso nel 1737, ci dice che ai suoi tempi i Roccolani «s’appigliavano a far confetti, che soglion passarsi come confetti di Sulmona». Cfr. V. Giuliani, Ragguaglio Istorico della Terra di Roccaraso, manoscritto, presso la Biblioteca Diocesana, Sulmona.
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