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Abruzzo Popolare

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SCRITTI VARI SULLA TERRA DI ROCCARASO

“E Roccarase lu paese elette, pe’ la bellezze porte unore e vante, dòmene lu munne da distante e de lu munne è lu vere tette”[1]

di Franco Cercone

[Pubblicazione a cura di Franco Cercone, Scritti vari sulla terra di Roccaraso, La Moderna, 1976 Sulmona]

Dopo la fondamentale opera dell’Ill. Prof. Francesco Sabatini, «La Regione degli Altopiani Maggiori d’Abruzzo. Roccaraso Pescocostanzo» [Roccaraso 1960, a c. dell’Azienda Soggiorno e Turismo], più nulla resta da dire sulle vicende storiche di Roccaraso.

Scopo del presente quaderno è pertanto quello di offrire ai Cittadini di Roccaraso una rassegna degli scritti più significativi inerenti a personaggi e vicende di questa Terra, scritti che ho disposto solo per comodità in ordine cronologico.

Fra i personaggi che hanno dato maggior lustro a Roccaraso, spicca particolarmente la figura di Vincenzo Giuliani, medico e storico di fama, per lungo tempo restato, e non solo a Roccaraso, dove nacque nel 1737, un «illustre dimenticato».

Vincenzo Giuliani, afferma il Pansa in uno scritto inserito nel presente lavoro, è “un nome quasi ignorato nella repubblica delle lettere, ma non per questo inferiore a qualsivoglia altro del suo tempo. E la causa dell’oblio è da ricercarsi… nella grande modestia del nostro autore, che lasciò quasi tutte le sue opere manoscritte… “.

Come Salvatore Tommasi, anche Vincenzo Giuliani va annoverato fra gli spiriti eletti che hanno dato lustro a Roccaraso.

Sarebbe auspicabile pertanto che gli Amministratori riflettessero un po’ di più sulle glorie della loro Terra e dedicassero al Giuliani almeno una via, cosa che in verità il sindaco di Roccaraso, Prof. Oreste Petrarca ha promesso di fare. Una decisione in tal senso potrebbe costituire il primo passo verso la rinascita di tutte quelle attività culturali che attualmente a Roccaraso languono.

La distruzione del paese in seguito ai tristi eventi della seconda guerra mondiale ha rappresentato anche la distruzione di un modello culturale che individuava Roccaraso centrale non solo nei confronti dei centri limitrofi ma anche regionali.

La ricostruzione, avvenuta sotto lo stimolo del turismo, non è stata accompagnata dalla benefica azione diretta alla salvaguardia di quei valori culturali di cui la storia e il folklore roccolano erano pur ricchi ed il vuoto venutosi così a creare è stato di conseguenza riempito dall’azione acculturante del turismo romano e soprattutto napoletano.

Se è vero che il passato non torna, è anche vero che le sorti del futuro si determinano dal presente e pertanto molto può ancora essere fatto.

In tal senso è auspicabile a Roccaraso l’istituzione di un Centro Servizi Culturali e soprattutto di una biblioteca ben strutturata, in cui una sezione di Storia Patria avrebbe una benefica azione stimolante, soprattutto nei confronti dei giovani, ai quali essenzialmente è rivolto questo messaggio.

Dicembre 1976, Franco Cercone. 

VISITA DEL VESCOVO LANDOLFO (11 agosto 1316) ED ORIGINI DI ROCCARASO.

 [G. Celidonio, “La diocesi di Valva e Sulmona” Vol. III, Casalbordino 1911]

 «Ben presto il Vescovo Valvense entrò in possesso di S. Maria di Cinquemiglia e suoi beni, perché Landolfo, successore di Federigo, nel 1316, vi sta come in casa sua, e vi esercita piena giurisdizione episcopale: lo che riprova davvantaggio l’autenticità del bove surriferito.

Si rivela ciò dalla pergamena seguente, importante non solo per la storia di detto Monistero, ma anco pel limitrofo Roccaraso. L’origine di questa borgata si volle nientemeno assegnarla ad un pronipote di Noè!

Invece essa sorse pei monaci di Cinquemiglia, come già la Rocca di tal nome ed altri casali; ed a Santa Maria di Cinquemiglia fu sempre soggetta quale figlia alla madre.

Universitas et clerum Rocce de Rasino et Ecclesie seu cappelle loci ejusdem malienissimis retro temporibus et ad ipsius Rocce primerio statu (fin dall’origine sua).

Vi era però un grave inconveniente per questa sudditanza, cioè i bambini da battezzare ed i cadaveri da seppellire, che dovevano portarsi a S. Maria anco d’inverno, e per un tragitto di più di tre miglia. I Monaci, tenaci dei loro diritti, forse non vollero rimediarvi. Lo fece il Vescovo Landolfo nella santa visita del 1316 [2].

E fu il più bel frutto dell’aggregazione. Ricorda il documento la patruanza e l’offerta del pardino, la Chiesa di San Nicola, i suoi preti (… Dp. Perronus ac Dp. Nicolaus ed il Sindaco… Thomas de Gazaria [3] , qui alias dicitur Laydus Syndicus Universitatis Rocce de Rasino) ».

PRETI CHE VIVEVANO A RQCCARASO NEL 1356.

 [G. Celidonio, “Una visita pastorale nella diocesi Valvense, fatta nel 1356”; in «Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte», diretta da G. Pansa, e P. Piccirilli; an. III, 1899, n. 8, Casalbordino.]

“In Rocca de Rasino sunt infrascripti Clerici: Dopnus Amícus; Dp. Alexander, Dp. Petrus; Dp. Oddo qui habent Ecc.: m. Sanctorum Nicolai et Ypoliti, que curam habet animarum et pre: a. eccl. San: Ypoliti eget reparatione. Dp. Amícus nescivit Articulos fidei intime.

Dixit qd: ipse et Dp. Alexander emit et vendat animalia.

Dp: Petrus nescivit Articulos fidei, et  Alexander nescivit dicere de operibus caritatis.

Solverunt pro procuratione tareni quattuor”.

COGNOMI DI RQCCARASO (ROCCA RASOLI) NEL 1447.

[N. F. Faraglia, «La numerazione dei fuochi nelle terre della Valle del Sangro fatta nel 1447», in “Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte”, diretta da G. Pansa e P. Piccirilli. Casalbordino, an. II 1898, nn. 5-6; De Arcangelis Editore. Manca il numero dei fuochi e delle anime.]

Antonij – Barrelli – Baliste – Colecti – Gemme – Gentilis – Marchoni – Melucij – Roberti – Sachi – Spacucij – Vetuli.

PASSAGGIO Dl FRA’ SERAFINO RAZZI A ROCCARASO (Sec. XVI).

[Serafino Razzi, «Viaggi in Abruzzo», Inedito del sec. XVI, a cura di Benedetto Carderi. Japadre Editore, L’Aqui1a, pag. 224 segg.]

“Il Martedì a’ 28 di Maggio, ci stemmo in Castel di Sangro accarezzati da quei nostri padri.

Visitai dopo il Vespro il Signor Lionardo Pietra, Auditore generale dell’Ill.ma Marchesa di Pescara, e del Vasto, e ci mandò la sera a presentare.

Il Mercoledì a’ 29 dissi la messa per la b.m. del p. fr. Ieronimo Arrighi, detto il cappuccino, nostro Toscano, che qui morendo Vicario del Abruzzi, fu sepolto.

E dopo passato il fiume Sangro, e lasciataci la Rocca delle cinque miglia alla destra, salimmo, co’ molto sudore, sopra asprissime montagne fino attanto che arrivammo al nominato piano delle cinquemiglia, e cotanto pericoloso nello inverno, e ne i tempi cattivi.

E’ questa una vallata piana di cinque miglia, onde ha ricavato il nome, serrata e cinta fra altissimi colli, in cima di una alta montagna, di larghezza in certi luoghi di un miglio, et in alcuni di meno, onde tien forma di un catino vuoto.

E serrandovisi dentro ne i tempi cattivi le nevi, le piogge, e i venti, co’ tanta furia, impeto, e forza si vanno per quella avvolgendo, che ciascheduno anno, ci restano soffocate molte persone.

Et una volta, come scrive Monsignor Paolo Giovio, nel tempo delle guerre di Napoli, ci perirono gran numero di soldati (circiter 300 milites periere).

Ci furono già, edificati cinque Torrioni, per ogni miglio uno, acciocché in quelli, trovassero ne i cattivi tempi, i viandanti da ricoverarsi.

E perciò ancora furono edificate due Terre all’entrata di essa valle, acciò il prudente viandante, veggendo turbato il tempo possa in quelle fermare, e non si metterà a pericolo [4].

Nel tempo però dell’estate, no’ è pericolosa, anzi dilettevole assai essendo tutta piana fresca, e piena di praterie, se già non occorresse qulche horribile temporale.

Arrivati noi al principio ci fermammo al primo Torrione, a una tavernella che ci tengono la estate a bere un poco. Et ecco che vedemmo arrivare un drappello di montanine donzelle, le quali, per mio avviso, andavano per fasci di legna a una vicina selva, dalla più prossima Terra venendo. E scese che furono nel detto piano, così scalze come erano, e di panni leggieri vestite, si presono per mano, et in ballo tondo danzarono per buona pezza, sopra di quelle tenere, e fresche praterie, veggenti noi alquanto da lontano, per la strada militare, e diritta caminando, i loro destri, leggieri e spensierati salti.

Alla fine poscia del piano predetto per iscendere a Solmona trovammo la Terra di Rocca scura, e fatta la spiacevole china, e lasciatoci Pettorano, Terra maggiore alla sinistra e camminando sempre lungo freschissimi ruscelli e canali d’acque giungemmo al XVIII miglio in Sulmona, ove ci rattennero quei nostri padri Toscani riformatori, quasi co’ santa violenza quattro giorni appresso di loro”.

ANTICHISSIME ORIGNI D ROCCA DEL RASINO.

[G. Vincenzo Ciarlanti, «Memorie Historiche del Sannio», pag. 43 segg., Isernia 1644.]

“Pietro Leone Casella, De Primis Italiae Colonis, dice molto più in poche parole, che par bene addurle:

Carantios legimus, et Caracenos pro C. Ranty, et C. Razenui, vel Rasiny populi apud nos. Itaq. Caraceni, qui fecundum incolunt Atram ad Orientem et Razeny; quorum locus adhuc servat nomen Razinium, non iniucunda in campi planicie iuxta Aequos, qui sè a fratibus segregantes ad Meridiem ultra Rasinios reclusi sunt. Et media est inter Cominium vallem, et Coman urbem ad Septentrionem qua ipsa diruta est.

Dalla qual autorità appare che da C. Rantio, o C. Rasinio, il nome de’ Carantij, o Caraceni sortissero questi Popoli, i quali stavano in mezzo alla Valle di Cominio, e di Como.

Città hora distrutta: e anche al presente vi si conserva il nome di Rasino, poiché vi è un torrente chiamato con detto nome e una terra a quello vicina detta la ROCCA DEL RASINO;

È DI NON POCO ORNAMENTO ED HONORE A I DETTI LUOGHI, IL SAPER UNA SI’ ANTICA MEMORIA, ANZI UN SI’ ANTICHISSIMO PRINCIPIO DI TALE LORO NATIONE; mentre si vede in Beroso ove tratta di Nino terzo Bè di Babilonia, che Giano, cioè Noè, impose il cognome di RAZENUI alla posterità di Crano, e Crana sono i suoi nipoti, che fu nell’anno 268 dopo il diluvio, e da questa poi, o dai suoi discendenti, fu dato il nome a questa Regione”.

MICHELE TORCIA E LE SUE ANNOTAZIONI SU ROCCARASO.

In una famosa opera scritta alla fine del sec. XVIII, un acuto letterato napoletano, Michele Torcia, dava alle stampe il suo «Saggio Itinerario Nazionale Pel Paese de’ Peligni fatto nel 1792». Da esso stralciamo alcuni passi, anche se brevi, inerenti a Roccaraso. In tale Saggio il Torcia parla spesso di Vincenzo Giuliani, le cui opere costituivano anche per i più dotti, un punto costante di riferimento. Si ha l’impressione, ed il Torcia lo conferma, che molti studiosi dell’epoca abbiano attinto non poco materiale, dai manoscritti del Giuliani per stilare opere di carattere storico ed archeologico.

Pag. 3 segg. del Saggio: “D. Vincenzo Giuliani, mio amico e dotto medico di Rocca Erasino o Raso, in uno elaborato manoscritto sul Piano di Cinque Miglia annette all’Argatone non solo tutto il gruppo del moderno Chiarano, ma tutti i grossi lobi di monti coi rispettivi colli, valli, e piani, che sono compresi nei pecorosi tenimenti di Revisondoli, Rocca Valle-Oscura e Pescocostanzo.

Egli deve avere i suoi lumi istorici per appoggiar tale opinione, ma non gli ha enunciati nel suo manoscritto se pur mal non mi rammento. Se ne potrà interrogare il lodato professore”.

Pag. 21: “A Sulmona dà capo il quarto lato ancor più noto e di gran lunga più celebre nelle antiche istorie per le gesta de’nostri popoli di Corfinio e Sulmona già detta, e per le opere de’ loro Poeti Ovidio e Silio; nel Piano di Cinque Miglia per cui si deve passare, (la strada) costeggia il moderno Argatone sotto l’industre e culta popolazione di Roccaraso…”.

Pag. 116: “Il lungo viale di belli ontani che ornava l’erbosa piana tra Roccaraso e Pescocostanzo non ne conserva neppure il nome…”.

ROCCA DEL RÀSO NEL «DIZIONARIO» DEL GIUSTINIANI.

[L. Giustiniani, «Dizionario Geografico Ragionato del Regno di Napoli, sub voce Rocca del Raso»; Napoli 1797.]

“Terra in Abruzzo citeriore, in diocesi di Sulmona.

Con errore dicesi da taluno essere nella provincia dell’Aquila. In tutte le situazioni del Regno l’ho pure sempre ritrovata appellata Rocca del Raso, e non già Roccarasa.

È situata in luogo montuoso, di aria buona, e gli abitanti ascendono a circa 1300.

Essi sono addetti alla pastorizia, essendovi ottimi pascoli. Vi è una fabbrica di pannilana e una tintoria.

Nel 1532 fu tassata per fuochi 68, nel 1545 per 63, nel 1561 per 127, nel 1595 per 150, nel 1648 per 161, nel 1669 per 124.

Questa Terra fu infeudata all’uso longobardo.

Nel 1617 si trova l’assenso della libera vendita fatta da Ottavio Caraffa, marchese di Sanlucido a Donato Giovanni Marchisano della parte di Rocca del Raso, che possedeva jure Langobardorum. In oggi si possiede dalla famiglia Caracciolo de” Principi di Santobono”. 

LE NOZZE ANTICIPATE.

[A. De Nino, «Usi Abruzzesi››, Vol. I pagg. 196-97; Firenze 1879]

“Alcune bande musicali giravano per le vie dell’alpigno Roccaraso, poichè si celebrava la festa del Santo di Montpellier [San Rocco]. Ma, con tutta la festa, alcuni padri di famiglia se ne fuggivano nei paesi vicini; indovinate perché? per non fare la cavalcata.

Gli altri che si rassegnavano a subirne il sacrificio, vestivano di gala le loro bambine; mentre i parenti dalla parte loro approntavano un asino con la bardatura e con le corone di campanelli e di nastri e di fiori.

L’asino co’ suoi parenti o, per meglio dire, co’suoi padroni, si ferma innanzi a una casa. Tutti chiamano il tale di tale, il padre di famiglia che deve fare la cavalcata; e anche l’asino chiama, solfeggiando a modo suo. Il padre di famiglia esce, e reca in braccio una pomposa bambinella.

Appena monta sull’asino, la turba grida: – Salute e figli maschi! – E questo grido si ripete più volte mentre si fa il giro del paese, e si tormenta la docile bestia scotendo la briglia e tirandogli la coda. Il padre con la sua bambina scende sempre alle case dei parenti, dove si ferma un poco per ricevere confetture o rosolio o pizze e vino. E poi di nuovo: – Salute e figli maschi! –  Ed ecco dunque come in Roccaraso è trattato un povero marito, a cui la moglie, dentro quell’anno, regalò una figlia femmina.

È scherno o non è piuttosto una festa nuziale anticipata?

Io non credo che sia uno scherno.

Finito il giro di un padre, tocca all’altro. E, con tutti questi giri, la festa di San Rocco diviene più allegra e, starei a dire, più solenne. Fecero dunque bene quegli altri padri di famiglia a svignarsela. Ma che! il giorno dopo, come essi tornarono al paese, i parenti ripresero l’asino, e costrinsero i fuggitivi a fare il giro delle nozze anticipate”.

NOTIZIE SUI CAPITOLI FEUDALI E MUNICIPALI DI ROCCARASO.

[Antonio De Nino, in «Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti», Teramo, 1892, fasc. V.]

Al compianto amico Giuseppe Andrea Angeloni per indelebili benemerenze abruzzesi.

L’On. Barone Angeloni in vita aveva mostrato volere di pubblicare a sue spese i Capitoli di Roccaraso e di farli illustrare al Cav. De Nino, ma n’è stato impedito da morte. Speriamo che il figlio del compianto Barone, degno erede delle virtù paterne, voglia compiere il disegno del padre.

G. PANNELLA

Nell’Archivio Municipale di Roccaraso, si conservano parecchi esemplari di Capitoli e Concessioni, meritevoli di qualche studio sì per la storia del paese e sì per la legislazione nazionale dei secoli XVI e XVII. La maggior parte sono manoscritti in pergamena.

Il più antico di questi mss. s’intitola << Capitoli, grazie e concessioni conceduti alla Rocca del Raso dalla Marchesa di Pescara Donna Isabella Gonzaga, ai 2 di febbraio 1576 >>.

Vi ha delle disposizioni molto larghe pei vassalli. Eccone alcune, per atto di esempio:

“I capitanei et ufficiali non possono per qualsivoglia causa carcerare cittadino alcuno a ceppi o ferri ne a prigionie criminali se non nelle cause che importano pena de morte naturale o civile.  Per debiti civili… ancora che fossero obbliganze penes acta… li cittadini di detta terra non possono essere carcerati sotto chiave, se non fossero persone solite da fugire dalla corte. Occorrendo farsi querela de iniuria contra alcuno, et revocandose la querela per lo querelante fra vintiquattro hore dopo che la querela serrà intimata al querelato li Cap.ei et officiali non possano procedere ne farsi pagare decreto ne atto alc. – Occorrendo farsi querela de parole o atti iniurosi, purché  non se venga ad effusione de sangue, non essendoce remissione de parte, non se possa pigliare più de pena che un docato.  L’officiale de le castella… non possa ne debbia, per qualsivoglia causa, purché non importi pena di morte naturale o civile o mutilazione di membro, estrahere cittadino alcuno da la Rocca, etiam che fosse incorsi in qualsivoglia altra pena, ma in la detta Rocca debbia quelli astrengere et ministrare Iustitia. Piacciali ordinare che nel dì di Santo Hippolito, (patrono del paese) San Giovanni ed altre feste principali observate in detta terra, non se possa per persona alcuna giocare a rociole, picciole o grosse, ne tirare con scoppette a palii per l’abitato de detta terra per evitare l’inconvenienti et dicasi (brutti casi o disgrazie) che potessero sortire, et chi ce giocasse incorra in una onza d’oro de pena”.

Segue poi la conferma dei capitoli medesimi, fatta da Don Alfonso D’Avalos di Aquino, Marchese di Vasto, nel 2 agosto 1598; e poi altre conferme, fra cui quella di Don Francesco Antonio Sanità, in questa forma:

“Ego D.s Franciscus Sanitas adpresens Gubernator Terre Rocce Rasoli, et cum iuramento promitto observare et observarvi facere retroscritta capitula iusta eorem seriem continentiam et tenorem, etc. Iusta solitum etc. Rocce Rasoli die 24 Augusti 1663 Sanitas Gubernator”.

Dopo il 1663, viene la conferma fatta da Carlo De Letto, Capitano Governatore.

E prima ancora, cioè verso il 1640 v’è la conferma di Scipione Tabassi:

“Scipio Tabasius Civitatis Sulmonis ad presens Gubernator dicte Terre Rocce Rasoli retroscritta capitula promisit observare servari conforma dum modo sint. etc. Tabasius Gubernator [5]”.

Gli stessi Capitoli, anche in pergamena, hanno la seguente intestazione: << D. Marino Caracciolo Principe di Santo Buono, Duca di Castel di Sangro, Marchese di Bucchianico, Conte di Schiavi, Santo Vito et Capracotta e Signore della Baronia di Monte Ferrante et delle Terre D’Agnone, Ripa Teatina, Casal in Contrada, Guardia Grele e Rocca del Raso die primo mensis ottobris 1672>>.

Le variazioni e le aggiunte sono insignificanti. In ultimo c’è la firma del Principe di San Buono.

Nel terzo esemplare, in pergamena, furono aggiunti molti capitoli. Curiosa questa disposizione, che, cioè, il predicatore quaresimale doveva eleggersi dalla Università, tra Cappuccini o Riformati, da hora per sempre. Curiosa quest’altra:

“Item si supplica che quello il quale desse un pugnio in presenza di qualsivoglia persona ed apparesse livore e non sangue sia tenuto alla pena di carlini cinque e chi cavasse sangue con pugni senz’arme sia tenuto alla pena del doppio e chi con arme, alla pena dettata dalle Leggi e costituzioni del Regno”.

Dunque lo Stato si occupava soltanto delle ferite fatte con arma!

Per la tutela della proprietà, vi era la pena di ducati sei, a carico di chi rimoveva i termini dalle terre. I danni negli orti erano puniti con la multa di celle quattro per ciascheduna volta.

Si provvedeva altresì alla igiene e alla decenza: chi gettava immondizia nelli fossi della Terra, punivasi pure con la pena di celle quattro; celle quattro, contro il padrone di un maiale che non fosse tenuto chiuso ed andando per la Terra; celle quattro per pena a chi buttava immondizie innanzi la casa del vicino.  I forestieri non potevano esercitare la loro arte dentro la Terra, ma fuora di essa, al burgo. Sicché, nel 1600, Roccaraso aveva già il suo borgo che costituiva quasi tutto l’attuale paese.

L’ultima pagina, dove comincia il rescritto del feudatario, è lacera. Non si sa dunque la data precisa: ma siamo ancora alla fine del secolo XVII.

Senza data sono anche due altri esemplari di somiglianti Capitoli. Senza data, una copia di Capitoli preparati per la debita approvazione, col seguente indirizzo: << Al M. Ill.re Sig. Gio: Thomaso Marchesano Bar.ne della R: del Raso >>. –

Altri Capitoli, seguiti da bandi, sono del novembre 1623; e un’altra copia simile porta la data del 1717.

Oltre i Capitoli fondamentali tra il Comune e il Signore del feudo, ve n’erano altri esclusivamente municipali. Nello stesso Archivio si conservano pure dei «Capitoli e patti della osservanza che devano l’Obligati dell’Università della Rocca del Raso restaurati da me Gio: Battista Florino Cancelliere l’anno M:D:L: XXXVII».

Tali Capitoli, scritti altresì in pergamena, si riferiscono a diversi ceti di terrazzani. Lascio in disparte quelli dell’Esattore; giacché, come a me pare, hanno maggiore interesse gli altri relativi al Macello.

Diamone un saggio:

<<Item vole essa Università che a chi resterà detto Macello habbia da esercitare e fare la carne in detta terra, e darne a sufficienza a tutti i cittadini habitanti e comoranti, e facendo il contrario incorra nella pena di carlini dieci volta per volta.

-Che debbia fare due agnelli il giorno, uno la matina, e uno la sera, occorrendo per malati o soldati o altra occorrenza sia tenuto quanto ne bisognano: “Item vole essa Università che detto Macellaro habbia da fare la carne lo sabbato la sera a buon’hora acciò che la domenica matina non si perda la messa, e facendo il contrario incorra nella pena di carlini cinque volta per volta”.

-Vole essa Università che in suo nome li Sindaci e Governo in suo nome promettano (permettano) a detto macellaro che avanzandoli carne il giovedì per non perderla ne possa mandare uno rotolo per casa dove parerà ad esso macellaro, e quello che avendo detta carne la debba ricevere e pagarla a detto macellaro e non volendo ricevere detta carne sia tenuto a pagare il detto rotolo e non altrimenti.

-Che detto macellaro non possa tagliare carne di pecora, agnello e castrato che siano negri di nessuna maniera contravvenendo incorra nella pena di carlini trenta>>.

Quest’ultima comminazione di pena si può spiegare con la grande importanza che si dava un tempo agli ovini di manto nero, della cui lana si servivano i fabbricanti di tessuto per cocolle fratine e ancora oggi si servono i montanari dell’Abruzzo per far calze e manti e mantelli, senza bisogno

di tintura artificiale.

Nei medesimi capitoli si parla della baccina mopa, vaccina muta, vale a dire di quelle vaccine che hanno acqua nel cervello e ammutoliscono.

Anche ai nostri giorni, a donna che, senza molte parole, opera male, si dà il nome di gatta mopa.

I capitoli delli cellarii contengono ricordi di usi che fanno meditare. I cantinieri andavano soggetti a varie multe. Anche di questi un piccolo cenno:

<< Che il detto obbligato debbia tenere vasi netti puliti e vendere vino ad una candella sola; fenita che sarà una debbia mettere mano alla altra, e facendosi contrario incorra nella pena di carlini dieci ogni volta.  -Che il detto obbligato debbia tenere un vino buono cotto e crudo per li malati ed altro necessario, facendo il contrario incorra nella pena di carlini cinque. -Che debbia portare vino in buon recipiente et in caso che portasse vino guasto… o si trovasse che fosse di male odore cioè di legnia o sapore di olio per difetto di otri, sia tenuto il Sindico o Capitano subito sturarlo e buttarlo per terra senza pagare cosa alcuna.

-Che detto vino non lo possa vendere ne intricarsi homo, ma ci debbia tenere una femina e vendere detto vino, e contravvenendo incorra nella pena di ducati due ogni volta.

-Che la femina che vende detto vino debbia assistere di continuo, dalla matina che sponta il sole per insino la sera a due ore di notte e facendo il contrario incorra nella pena di carlini cinque >>.

Una disposizione, piuttosto singolare per topografia si trova nei Capitoli del seminato: “Che detto gualano habbia da rompere il gelo l’inverno allo Rasino per comodità dello abbeverare ogni volta sarà necessario”.

Il Ràsino o Ràscino è un ruscello che tocca le radici del colle, sopra di cui sorge Roccaraso, che prima fu detto perciò Rocca del Rascino e poi Rocca del Raso e attualmente Roccaraso, secondo la odierna denominazione.

I sigilli municipali ricordano la stessa origine.

In uno del 1530, vi sono tre torri e, attorno, la leggenda Rocca Rasoli. In un altro del 1683, appiè delle tre torri, fluisce un ruscello e intorno: Universitas terre Rocce Rasini.

UN ILLUSTRE DIMENTICATO – VINCENZO GIULIANI – DI ROCCARASO E LE SUE OPERE MANOSCRITTE

[Giovanni Pansa, in «Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti», Teramo 1893, fasc. VI.]

Far rivivere dalla tomba e togliere all’oblio quei nobili ingegni che per ingiuria di tempo o per incuria degli uomini sono rimasti fino ad oggi ignorati, mi sembra non soltanto carità di patria, ma dovere imprescindibile di gratitudine.

Per dottrina ed erudizione chiarissimo fra gli eruditi del secolo passato, non deve passare in perfetto silenzio lo abruzzese Vincenzo Giuliani, medico ed archeologo di cui mi piace rinnovare la memoria in queste pagine, tanto più che di lui a mala pena il nome solo ci è pervenuto, nome quasi ignorato nella repubblica delle lettere, ma non per questo inferiore a qualsivoglia altro del suo tempo.

E la causa dell’oblìo è da ricercarsi, secondo me, nella grande modestia del nostro autore, che lasciò quasi tutte le sue opere manoscritte, ritenendole indegne della stampa.

Esempio rarissimo al mondo d’oggi, specialmente per una certa genia d’impostori e sfruttatori ridicoli della fama, che usano buttare in aria i propri cenci e passare per grandi uomini col facile sussidio dell’altrui imbecillità!

Del nostro Giuliani si può dire, con Orazio, come degli eroi greci:

Vixere fortes . . .

. .  .  ignotique longa

Nocte, carent quia vate sacro [6].

Dal brevissimo ricordo che ne fece il Soria[7] , il quale dovette essergli amico, si apprende che il nostro autore nacque a Roccaraso, paese della diocesi di Sulmona, nel 1737.

Esercito, più per genio che per bisogno, la professione di medico nella provincia di Capitanata, ove dimorò lungo tempo, e principale suo studio furono fisica sperimentale e l’osservazione dei morbi ai quali più specialmente andavano soggette quelle popolazioni.

Siffatta applicazione non gli tolse, peraltro, l’agio di dedicarsi agli studi archeologici per dare alle stampe una storia di Vieste, città litorale, poco distante dal monte Gargano, col titolo di “Memorie storiche, politiche, ecclesiastiche della città di Vieste” [Napoli, 1768; in 4°].

Quantunque l’autore dichiari di averla scritta in provincia e senza occasione, per conseguenza, di poter consultare libri, l’opera è dottissima e di sommo interesse.

Essa è preceduta da un saggio di storia naturale di quelle contrade, con la descrizione del clima, delle piante medicinali che crescono nei dintorni del Gargano, degl’insetti che spesso infestano quei luoghi, e con la notizia, in fine, di altri prodotti naturali ed artificiali.

L’autore sostiene che Vieste sia di origine greca, sorta dalle rovine di Apeneste, ricordata da Tolomeo, e che poscia divenisse colonia romana, fra quelle che Frontino accenna in generale di essere state dedotte circa montem Garganum.

Ne’ suoi giudizi si mostra scrupoloso indagatore; studia ed analizza con particolare minuzia tutti i frammenti di anticaglie trovate in quei luoghi, ricerca ed osserva documenti di vario genere, statuti civili, memorie ecclesiastiche, dei vescovi delle chiese ecc.… e procede nel racconto delle vicende di Vieste fino all’anno 1554 quando, dopo la ristaurazione dalle rovine cagionatele dal corsaro Dragut, fu dall’Imperatore Carlo V incorporata al regio demanio.

Si può affermare che questa sia l’unica opera messa a stampa dal Giuliani.

Una lunghissima epistola da lui diretta allo storico Grimaldi, trovasi inserita nel To. III. Ep. 2, p. 166 e seg. degli «Annali civili del Regno» di questo scrittore, e tratta con assai acume e profondità di dottrina della storia dell’antica Corfinio, metropoli dei Sanniti.

Questa lettera fu certamente scritta ad istanza del Grimaldi, che forse non seppe trovare altri più atto del Giuliani alla ricerca di quelle notizie.

Qualche giudizio errato o non esatto, come osserva il De Stephanis, fu dal Giuliani stesso modificato nelle opere che in appresso compose e lasciò manoscritte.

Queste, a dir vero, sono parecchie e tutte di somma importanza, perché il De Stephanis, ricercatore fino e giudizioso, che le ebbe per le mani, poté ricavarne non lieve profitto[8] .

Innanzi tutto il Torcia[9]  ricorda un lavoro inedito del nostro autore, col titolo di «Memoria storica del Piano di Cinque Miglia».

Del manoscritto di questo lavoro, oggidì perduto, ch’io mi sappia, nessun altro ha parlato, compreso lo stesso Giuseppe Liberatore che scrisse e stampò un’operetta sull’identico soggetto[10]

I manoscritti consultati dal De Stephanis sono i seguenti:

  1. “Storia dei Peligni”. Quest’opera constar dovea di due o più libri e volumi, come appare nelle citazioni del De Stephanis.
  2. “Vita di Antonio Caldora”. Coll’autorità di varii documenti e di forti ragioni storiche dimostra il Giuliani che il figlio del celebre condottiero, Giacomo, nacque a Pacentro, paese poco distante da Sulmona.
  3. “Annali della città di Sulmona”. Da quanto ne cita il De Stephanis si apprende che il nostro autore aveva sagacemente percontate le carte dei nostri archivi pubblici e privati, a scopo di ricavarne notizie preziosissime.

Ho fatto somme diligenze per rintracciare i tre ricordati manoscritti, recandomi anche sui luoghi abitati dall’autore, ma senza risultato. Il De Stephanis, oggi nonagenario, per quanta lucidezza di mente tuttora conservi, non seppe dirmene nulla.

Dobbiamo, dunque, ritenere che abbiano subita la identica sorte di molti altri oggidì inutilmente ricercati: quella del tabaccaio o del pizzicagnolo!

È fatalità, non c’è dubbio, e fa stringere il cuore il pensare che le fatiche di un sì bell’ingegno, come il Giuliani, abbiano concorso a favorire le altrui abbiette speculazioni, ma è più doloroso il dover constatare che nei nostri paesi continui ancora il basso ed obrobbrioso mercato dei libri e di degeneri nipoti[11] .

Oltre ad una «Storia naturale della Capitanata» promessa e non più data alle stampe, il Soria ricorda un’opera parimenti inedita del nostro autore, col titolo di «Storia dell’antica Petilia» o “Petelia”, città che al pari di Eliopoli, Eraclea ed altre della Magna Grecia, ebbe situazione in diversi luoghi.

La Petilia dei Bruzi ricordata da Livio, Virgilio e Plutarco e Frontino, viene situata dal Barrio, dal Ferrari, dal Baudrand e da altri in Policastro di Calabria, sebbene l’Ostenio e l’Orlandi la vogliono posta dov’è oggi Strongoli, in base ad un’antica iscrizione riferita dal Grutero, dal Gualtieri e da altri. Della Petilia ricordata come città capitale dei Lucani da Diodoro Siculo e Strabone vien designata l’ubicazione dal Barone Antonini sulla montagna della Stella del Cilento, e dal Troili tra i fiumi Bradano e Basento, nella parte opposta della Lucania.

Il Giuliani trovò un’altra Petilia negli Abruzzi, nelle vicinanze della terra di Pacentro, presso Sulmona, e raccolse in quei luoghi moltissime iscrizioni Petiliane.

Ma anche di questo manoscritto disgraziatamente non esiste traccia. Accennerò, in ultimo, ad un’erudita lettera del nostro autore inserita in un volume manoscritto di memorie sull’antichità di Pacentro, custodito presso di me e di cui diedi notizia nella “Bibliografia storica degli Abruzzi”

(n. LVIII).

Questa lettera scritta in Roccaraso, ai 14 aprile del 1781, ad istanza del giureconsulto Pasquale Larocca, contiene varie notizie di Pacentro, delle chiese e monasteri ivi esistenti e particolarmente del monistero della SS. Trinità e di S. Quirico in Fignano, soggetto al dominio dei monaci di Casauria.

Tali notizie ho potuto raccogliere intorno al Giuliani.

Sono poche, ma bastano a dare un’idea esatta della dottrina e profonda erudizione di lui. Vegga altri di completarle e di restituire alla repubblica delle lettere più integra che sia possibile la bella figura d’un personaggio per quanto benemerito della coltura patria, altrettanto sconosciuto e ingratamente dimenticato!

Sulmona, Maggio 1893.  –   G. PANSA

GITA IN AUTOMOILE A ROCCARASO. È L’ANNO 1909!

[A. Tortoreto, «Attraverso gli Abruzzi in automobile», pag. 58 segg; Roma 1909.]

Diamo un ultimo sguardo alla valle del Sangro; le cime dei monti appaiono leggere, aeree nel sole che tramonta: si profilano le une dietro le altre, sino alle ultime, quelle del Molise.

Un’ultima volata e siamo a Roccaraso: fa freddo!

È Roccaraso la prima stazione climatica abruzzese: su questa giogaia dell’Appennino, dove nel cuore di luglio vediamo gli uomini girare avvolti in pesanti mantelli e le donne vestite di lana greve, sono sorti come per incanto due, tre bellissimi alberghi che accolgono, nella stagione buona, i villeggianti.

A due passi dal paese, corre vittoriosa la vaporiera: le passeggiate di montagna sono suggestive: un’escursione al prossimo, famoso Piano delle Cinque-Miglia è quanto di più incantevole si possa desiderare; e l’aria fine, frizzante pone, grazie a Dio, un appetito!… Figuratevi che anche ne sentiamo gli stimoli, noi che da due giorni non facciamo che mangiare, tanto che l’amico Montani giustamente nota: << Si marcia con una velocità media di trenta chilometri all’ora, o, per essere più esatti, di venti pasti al giorno, tra grandi e piccoli! >>.

Anche qui accoglienze entusiastiche, cordiali; pranziamo nella sala maggiore dell’Albergo Maiella; poi a tarda notte, ci ritiriamo nelle linde camerette preparate per noi nei diversi alberghi e benediciamo le soffici coperte imbottite che proteggono dal freddo dei milleduecento metri sul livello del mare.

Alle sei – un’alba serena radiosa come ne ho viste poche – sotto i nostri alloggi sibila il fischio implacabile del duce della nostra carovana: pronti! Le nostre già fremono impazienti di riprendere la corsa. Una capatina in paese: c’è da vedere una interessante torre, alla cima della quale hanno, da poco, posto un orologio; la parte antica, chiusa nella rocca, e gli avanzi di un teatro che il Prof. Cena scova, rimontano al seicento.

Il che proverebbe che anche anticamente Roccaraso fu tenuta in pregio quale residenza estiva.

IL TEÀTRO DI ROCCARASO.

[C. Ricci, «Il teatro di Roccaraso», «Rassegna d’arte degli Abruzzi e del Molise», pag. 2 segg.; Roma 1912, n. 1].

Entriamo in Roccaraso dalla parte di ponente e percorriamo in salita la strada principale, fiancheggiata di case, in parte con scale esterne, alcune con balconi di ferro battuto sul fare pescolano, interrotte spesso da vicoli pittoreschi.

In fondo troviamo la spianata o piazza che costituisce il punto più importante del paese; a sinistra la chiesa principale; di fronte la Terra Vecchia o castello in cui s’entra per un arco aperto ai piedi di un’altra torre fornita di modiglioni e con lo stemma dei Caracciolo; a destra la chiesetta dei Morti e, tra minori case, il teatro: tutto, sparso su diverse linee e in vario e pittoresco ondeggiamento di terreno, con larghe aperture che lasciano vedere da un lato monte Tocco e il suo bosco; dall’altro, la Valle del Sangro con lungi il cono di Montemiglio.

Ora, chi direbbe che quel teatro è uno dei più antichi d’ltalia e che risale, nientemeno, al 1698? All’esterno, sotto il cornicione formato con file di coppi riuniti e sovrapposti, in una fascia di pietra che gira nella facciata e nel fianco volto a tramontana, si legge in belle lettere questa iscrizione:

DEO OPTIMO MAXIMO THEATRUM HOC PRAELUCET A FUNDAMENTIS ERECTUM AD ANIMORUM SOLATIUM AC IUVENTUTIS PROFECTUM AD PROPRIAE SOBOLIS COMMODIDATEM A PERILLUSTRI BARONE S. IOHANNIS DE MONTEMILIO DONATO BERARDINO ANGELONE NEC NON ET AB AGATHA ROSARIA FLORINI EIUS UXORE DIGNISSIMA QUORUM MAGNANIMITATEM SIC MUNDO POSTERIS SUISQUE FAMILIARIBUS MONSTRARE CURAVERUNT.

A.D; MENSIS OCTOBRIS 1698.

Dunque Donato Berardino Angeloni barone di Montemiglio e sua moglie Agata Rosaria Florini lo edificarono dalle fondamenta, in quell’anno, a sollazzo delle anime, a profitto della gioventù, a comodità della propria famiglia e invocato il nome di Dio confessarono che di tanta magnanimità s’aspettavano eterna gratitudine dai posteri.

Ahimè, mette male a frutto le sue azioni e i suoi sentimenti colui che li affida alla riconoscenza dei posteri! I posteri lasciarono andare tutto in malora; e solo la solidità delle mura corrispose alla volontà di Donato Berardino e Agata Rosaria.

Pareti sgretolate, selciati rimossi, gradini sgangherati, imposte rotte e cadenti, cortile invaso da animali e da cumuli di legna tagliata, stanze del primo piano ridotte a dimora privata, chiusa e abbrunata dal fumo, volte screpolate, vetri rotti… mio Dio, ottimo e massimo, che ruina, che sfacelo, che abbandono! Guai se i coniugi Angeloni vedessero dal mondo di là uno spettacolo simile, essi che il loro amore dell’arte e al paese, con quel teatro “mundo posteris suisque familiaribus manstrare curaverunt”. Solo il piano più alto dell’edificio ha conservato la prima destinazione, e serve ancora da teatro, senza però i vecchi banchi e i vecchi scenari e i vecchi palchi, compreso il palcoscenico che da ponente è passato a levante! Io però veggo ancora, rianimo ancora l’abbandonata fabbrica, con le antiche persone, o, meglio, coi loro fantasmi. Veggo salire da Sulmona e dalle parti di Napoli le compagnie comiche col loro carro d’attrezzi e di costumi. È il carro di Tespi del Capitan Fracassa o il carro che descrive Filippo Pananti nel Poeta di teatro!

Tutto il paese accorre. Il carro entra fragoroso nella vasta androna in fondo al cortile. Poi la compagnia si sbanda per gli alloggi, si rifocilla e riposa in fretta. Alla sera il teatro è invaso dalla folla.

Pulcinella trionfa. Ma non è forse questo il sollazzo degli animi, il profitto dei giovani, la commodità della sobole, voluta o desiderata da Donato Berardino e da Agata Rosaria.

Nell’idea di costoro l’edificio sorse su tutto come un’accademia, come un luogo di ritrovo dei cittadini migliori. L’inverno lassù è interminabile; la neve altissima rende impraticabile la campagna. Dunque, conviene trovare modo di rendere meno noiosa la prigionia radunandosi in molti a piacevoli conversazioni e a divertimenti ragionevoli. Così pensano i due Angeloni; e poiché il luogo adatto manca, lo costruiscono.

Nelle stanze del primo piano, al lume dei ceri e più del ceppo che arde nei grandi camini, si recitano sonetti, s’ascoltano elogi, s’improvvisano rime o discussioni, e.… magari, mentre si balla dai giovani, si giuoca al tarocco dai vecchi.

Poi nelle occasioni solenni o meglio quando il freddo si rannicchia alle calde ventate d’aprile, si passa di sopra nel teatro vero e proprio, e giovani e vecchi si uniscono a recitar commedie, tragedie, melodrammi. Roba da filodrammatici, capisco, ma, in quei piccoli paesi segregati dal mondo e spesso sepolti sotto enormi coltroni di neve, più utile, più tollerabile, più ragionevole (allora come oggi) che nelle città grandi dove i filodrammatici rappresentano una delle forme più gravi della “deficienza mentale”. Quindi, io penso che i due Angeloni, nel loro tempo, facessero cosa assai rigguardevole; e mi rallegro che la facessero con tanta serietà e solidità da consentire, ora, al Municipio di Roccaraso e al Ministero della Istruzione di mettersi d’accordo nel salvare l’interessante edificio, ciò che presto avverrà essendosi compiuti gli studi e raccolti i denari. E vorrei pure che qualche studioso abruzzese raccogliesse quanta più storia è possibile intorno ai munificenti coniugi costruttori. I loro nomi appaiono lassù in altri monumenti e in molte carte. Si leggono, ad esempio, in un altare dell’Assunta di Roccaraso, e si sa che Agata Rosaria confermò un lascito, nel 1688, alla stessa chiesa.

A Quarto San Giovanni, a mezza costa dal monte, sorgeva un villaggio in mezzo al quale stava una cappella dedicata al Battista. Un terribile terremoto, uno di quei terremoti che paiono voler mostrare la lo ro forza scuotendo immense catene di monti, nel dicembre del 1456 rovinò tutto.

Il paese fu schiacciato e nessuno pensò a ricostruirlo. Solo nel 1694 il barone Donato Berardino rialzò la cappella consacrata nel giugno dell’anno seguente. Prima che degli Angeloni, Quarto San Giovanni era stato dei Florini; poi era passato ad Agata dopo una fiera morìa che aveva decimato

tutto il napoletano e la famiglia di lei. Così, quando Donato Berardino la sposò, il luogo divenne suo. Egli però ne raccolse dolori mortali per certe liti che dovette sostenere volendo salvare quel feudo mercè il quale aveva titolo di barone. Un Giambattista Florini competitore, nel 1709 s’abboccò con lui e col figlio Lorenzo. <<Ambedue costoro – dice una cronaca inedita – rammentandosi la stretta parentela, lo pregarono voler cedere il feudo promettendogli in compenso mille pecore. Giambattista non volle affatto accondiscendere a tante premure, dicendo che se aveva ragione sul feudo, voleva vedersela, e che in caso contrario non pretendeva niente. Allora Donato Berardino andò a consulta a Sulmona, da dove ritornato, ordinò in sua casa che smorzassero i lumi e chiudessero le porte, perché egli non era più barone, essendogli stato detto dagli avvocati di Sulmona che aveva torto. Fu tale il di lui cordoglio per detta consulta avuta in Sulmona, che subito infermatosi fra cinque giorni se ne morì. Nel breve tempo della sua malattia non voleva munirsi di sacramento, ma dopo molte preghiere dei suoi domestici finalmente s’indusse a prenderli; e il di lui figlio Lorenzo, in ringraziamento a Dio, per detta grazia al di lui padre concessa, andò per il pavimento della casa colla lingua per terra>>.

Agata Rosaria sopravvisse al marito circa dieci anni e morì il 22 maggio 1718 lasciando parecchi figli e parecchie figlie tra le quali almeno due monache. Come è facile comprendere, fra tante angosce, sin d’allora le sorti del teatro dovettero languire.

L’AMPHIDROMIA.

[Giovanni Pansa “In Abruzzo. Saggi di etnografia comparata” – Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti, Teramo, 1915, fasc. XI.]

 

In molti paesi (può dirsi in quasi tutto l’Abruzzo) usano altri curiosi comparatici battesimali. Vi è il cosidetto comparatico a passare e consiste in questo:

«Si reca il neonato alla chiesa e dalla madre viene posato sull’altare, generalmente dal lato dell’Epistola. Una delle aspiranti comari, dopo alcune giaculatorie, abbraccia il bambino e lo passa ad una compagna che per lo stesso scopo aspetta al lato opposto dell’altare. Costei depone il bambino nella parte del Vangelo e, dopo altre giaculatorie, lo riabbraccia e lo ripassa alla comare

di prima. Ciò si esegue tre volte: e dopo tale esercizio le donne acquistano il diritto di chiamarsi fra loro comari. Se si tratta di un maschio, l’operazione è affidata agli uomini.

Molto più singolare è l’usanza di Roccaraso in occasione della nascita di una figlia femmina.

Nella ricorrenza di S. Rocco, ai 15 di agosto, il padre della piccina deve compiere insieme alla neonata (e non può esimersene per qualsivoglia motivo) entrambi vestiti di gala e coperti di bende e di nastri, un giro attorno al paese, a cavallo d’un asino bardato ed infettucciato, dando alla popolazione uno spettacolo di anticipato carnevale. Il giro rituale attorno all’ara domestica o all’altare è qui rappresentato da quello attorno al piccolo centro abitato: ma la connessità del rito con l’amphidromia ateniese non è meno evidente».

I NOMI DI BATTESIMO NELL’ABRUZZO

[Antonio De Nino. In “Tradizioni popolari abruzzesi. Scritti inediti e rari” a cura di Bruno Mosca. L. U. Japadre Ed., L’Aqui1a 1970, vol. 1, pag. 201.]

<< Vero e arcivero. Roccaraso, uno dei più montani paesi dell’Abruzzo, è singolarissimo nell’uso dei nomi propri di persona.

La storia antica e la medioevale, per questo, è messa a sacco: anzi si va al disopra della storia; si spigola anche nei campi scarmigliati della più romantica immaginazione.

Non c’è quasi famiglia, dove non si riscontra qualche bizzarria di nomi. Qua Carlina, Desiderata, Edvige, Egiziana, Ester, Pulcheria; là Clodoveo, Arsenio, Comincio, Epimenio, Peligrano, Solino.

E poi questi altri più strani di tutti: Acrina, Amata, Aristea, Aristilla, Beata e Beatina, Carina, Cherubina, Donnina, Erina, Ergomina, Ezilda, Ledoina, Lescalda, Macrina, ecc.

Dunque, o madri o padri o spose o sposi, fate un viaggetto nell’Abruzzo, onorate di una vostra visita Roccaraso, se volete farvi una buona provvista di nomi bizzarri e di…salute.

E come no, se l’aria di Roccaraso fa ravvivare i morti?

Badate però che, anche quando arde in cielo la canicola, bisogna tenere sul letto una massiccia coltre!>>.

TERRA BRUCIATA: ROCCARASO.

[Da «Abruzzo anno zero», di M. Masci; II Ed., pag. 278 segg., Pescara 1960]

«Ora bisognerà inventare Roccaraso, dissero i roccolani al loro rientro nella dolce selletta ai piedi del rudero del castello, contemplando il luogo cosparso di calcinacci e di macerie dove sorgeva il loro paese. Roccaraso era scomparsa.

Ebbe cognizione per primo Kesserling dell’importanza strategica della zona quando in un sopralluogo personale ordinò di fortificare a difesa Roccaraso come posizione chiave dominante sulla vallata del Sangro. Da quel momento anche Roccaraso fu considerata “terra da bruciare”.

Per prima cosa fu tolta di mezzo la pineta; trentamila pini furono usati per cospargere di puntelli tutto il Piano delle Cinque Miglia allo scopo d’impedire l’atterraggio degli aerei nemici; poi furono fatti saltare il ponte e la ferrovia, e quindi tutto l’abitato. I roccolani si sbandarono: in Puglia, nel Fucino, in Italia Settentrionale.

Ma la prima vittima la fece uno spezzonamento inglese: un bambino di Napoli, Claudio Mori, ch’era villeggiante con la sua bambinaia. Poi fu la volta degli altri villeggianti o sfollati, e Roccaraso n’era piena, come per tradizione: in casa Ferretti erano ospiti il Marchese di Santa Lilia e la duchessa Anna Diaz, moglie del figlio del Maresciallo; questi ospiti illustri avevano portato da Napoli, sperando di salvarli, insieme al principe D’Avalos, ai Baroni Angeloni, rilevanti quantitativi d’argenteria familiare; furono costretti a seppellire ogni ricchezza, per non trovarla mai più. Il Duca di Santa Lilia fu catturato dai tedeschi nella prima retata insieme al giovane Giuseppe e portato a Rivisondoli per lavori di fortificazioni; altri che riuscirono a sfuggire alla cattura s’arrampicarono sul piano dell’Aremogna con le loro robe donde, alcuni, si arrischiarono a passare il fronte.

I tedeschi sistemarono sul costone a lato est che domina la vallata un reparto di fucilieri e due batterie semoventi che disseminavano ininterrottamente di bombe la vallata, provocando un fastidio enorme ai reparti dell’ottava armata.

Il 24 novembre le truppe canadesi conquistarono la collina di Castel di Sangro e da quel momento si esasperarono e dissanguarono i vani attacchi e irruzioni contro lo sperone difeso dai tedeschi rimasti soli in Roccaraso, dopo l’esodo della popolazione.

In dicembre la neve si ammonticchiò sulle macerie di quella ch’era stata la più fiorente stazione climatica montana dell’Abruzzo aquilano e la selletta di Roccaraso sembrò assumere l’aspetto uniforme del paesaggio circostante: un dolce declivio della zona delle Cinque Miglia; qualche rudere che spuntava dal mantello bianco sembrava lanciare in alto un grido di nostalgia e di dolore. Nel gennaio un’accanita battaglia ed un’ostinata resistenza della retroguardia tedesca sull’Arazecca e sullo sperone di Roccacinquemiglia stabilizzarono il fronte per cinque mesi in quella zona; ma il passo di Roccaraso non fu potuto conquistare se non dopo il 4 giugno, quando tutto il fronte con la caduta di Roma cedette e i tedeschi abbandonarono la linea Gustav. Quando i primi roccolani tornarono, trovarono l’assurdo e scoprirono il vuoto: il paese non c’era più: bisognava ricostruirlo da capo, cioè inventarlo».


[1] A. Ambrosini, Impressioni di viaggio sull’autoservizio g.t. Circuito della Maiella, Chieti 1930.

[2] Fino al 1316, dunque, gli abitanti di Roccaraso erano costretti a recarsi a Roccacinquemiglia per battezzare i bambini e per seppellire i morti.

[3] Per quanto mi risulta, questo Thomas de Gazaria è il primo Sindaco di Roccaraso che si conosca. Non sarebbe vanità dedicargli una sala nel Comune di Roccaraso, appena esso avrà, ovviamente, la sua stabile dimora.

[4] Cioè Roccaraso e la borgata distrutta nei pressi della «MADONNA DEL CASALE».

[5] Dall’egregio amico, Barone Domenico Tabassi, decano dei cultori di storia patria in Sulmona, ho la seguente nota illustrativa di questo Governatore di Roccaraso: «Scipione Tabassi fu uomo d’armi. La sua ricca armatura di metallo, intarsiata di puro oro, si conservava fino ad alcuni anni indietro dal Signor Franco Tabassi, suo discendente. Fu vincitore in una delle Giostre, che a’ suoi tempi, si tenevano in Sulmona”. È anche ricordato in una lapide che sta tuttora innanzi l’altare maggiore della Chiesa della Maddalena (San Francesco della Scarpa) in Sulmona, nell’anno 1649.

[6]  “Carm.“, Lib. IV, Od. IX.

[7] “Memor. Stor. crit.” degli Storic. Napolet., I, 306.

[8] V. Monografia di Pacentro e Pettorano nel “Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato”, Vol. XVI, p. 70-88 e 95-102.

[9] Analisi ragionata dei libri nuovi”, marzo 1793. Napoli, 1793, p. 89. Id. “Saggio itinerante nel Paese dei Peligni”, Napoli 1793, p. 4.

[10] “Ragionamento topografico istorico fisic. ietro sul Piano di Cinquemiglia” ecc., Napoli, 1789.

[11] Potrei citare esempi a josa dello sperpero che anche oggi seguita a farsi dei libri e manoscritti, che vediamo ogni tanto gettati per le botteghe dei tabaccai e dei pizzicagnoli. Per restringermi a quanto m’è accaduto recentemente, ricorderò il seguente fatto: Fui avvertito da un amico che da mesi e mesi giacevano in una delle nostre tabaccherie due volumi manoscritti di memorie Sulmonesi del dotto giureconsulto Pasquale Larocca di Pacentro, e per quanto l’avviso mi parve ritardato, mi precipitai (è il termine adatto) in quella bottega colla speranza di salvare, se non tutto, almeno i resti del prezioso manoscritto. L’opera distruttrice, era già al suo termine; e da un pezzo. È doloroso, indegno, abominevole e reca stupore il pensare che esistano persone ignoranti le quali per coprire la propria vergogna, non esitano a manomettere libri e cimeli preziosi, vendendoli a nulla, mentre v’ha chi li comprerebbe a prezzo della più sviscerata affezione! Non comprendo come il rossore non s’imprima sulla fronte di questi vandali avvezzi a distruggere così ferocemente il patrimonio delle proprie tradizioni domestiche.

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