[Pubblicazione di Franco Cercone, Tradizioni Abruzzesi in Modesto Della Porta, Eurografica s.r.l., Comune di Guardiagrele, 2006.]
Quella che abbiamo sotto gli occhi è la decima edizione di “TA-PU’. Lu trumbone d’accumpagnamente”, curata da Luigi De Giorgio ed apparsa a Lanciano nel 1984 per i tipi della Editrice Itinerari. Non sappiamo se in seguito vi siano state altre ristampe dell’opera e soprattutto se quella consultata dovesse veder la luce ben quattordici anni dopo e dunque nel 1998, in occasione della ricorrenza del sessantesimo anniversario della morte del Poeta di Guardiagrele, ricordato comunque da un saggio di U. Russo [Per ricordare Modesto Della Porta, in “Rivista Abruzzese”, n° 4, 1998.].
Ci sembrano tuttavia evidenti le motivazioni della decima edizione di “TA-PU”, che ripropone all’attenzione degli studiosi un importante saggio introduttivo di F.P. Giancristofaro[1] ed in appendice ben 26 poesie “inedite”, alcune delle quali – come La Velàngele di San Michele[2] – erano già note perché lette da Modesto Della Porta in varie occasioni, ma non ancora pronte nella loro stesura definitiva a causa delle numerose varianti che il Poeta soleva apportare nelle sue note improvvisazioni declamatorie. Ma non è tutto. Il De Giorgio avverte che la decima ristampa è scaturita dalla inderogabile esigenza di “ripristinare” il testo della quarta edizione di TA-PU’ [Carabba Ed., Lanciano, 1942], poiché “nelle più recenti edizioni si riscontrano molteplici refusi e gravi inesattezze grafiche, che rischiano di alterare profondamente la lezione autentica del componimento poetico”.
L’anno successivo alla decima edizione di TA-PU’ è apparso un fondamentale lavoro di Vito Moretti che costituisce – come sottolinea E. Giancristofaro – “uno dei contributi più rilevanti della critica Dellaportiana”[3]. Il Moretti ci offre infatti un quadro completo della bibliografia del poeta apparsa fino a quell’anno e dalla quale si evince che solo pochi studiosi abruzzesi sono riusciti a restare indifferenti di fronte alla complessa visione della vita di “Cicche di Sbrascente”.
Lo studioso correda inoltre il suo volume di cinque componimenti inediti e di altre quattro “poesie già edite ma mai ristampate” ed apparse su vari periodici negli anni 1914-1948, con l’augurio che insieme potessero far parte di una successiva e possibilmente completa ristampa delle poesie di Modesto Della Porta, da considerarsi ormai, come avverte E. Paratore, un “Poeta a livello nazionale” per la originalità e profondità dei temi trattati [E. Paratore, Profilo di una storia della cultura abruzzese, Roma 1965].
Da uno sguardo pur superficiale dato alla grande mole di scritti sul Guardiese, riportati nella citata opera del Moretti, si avverte subito che l’interesse degli studiosi si è cristallizzato intorno agli aspetti dialettologici e letterari dell’Opera del Poeta. È innegabile, infatti, che la profondità dei temi trattati dal “singolare sarto che amava la vocazione del poeta” è tale da conferire – come sottolinea il Moretti – “una indubbia caratterizzazione universale” ai personaggi di TA-PU’, talvolta colti psicologicamente – come è stato più volte osservato – in atteggiamenti che ci ricordano quelli pirandelliani.
La fonte primaria da cui Modesto trae ispirazione è tuttavia la Guardiagrele del primo decennio del Novecento, in cui si riflettono tra l’altro fermenti politici e sociali che agitavano il nostro Paese. La Cittadina natale del Poeta era una comunità rurale ed artigianale di circa diecimila abitanti, con vizi e virtù tipici dei piccoli centri di provincia, di cui sono portatori i personaggi che animano i suoi arguti componimenti.
Modesto è soprattutto un acuto osservatore, talvolta freddo e distaccato, e possiamo immaginarlo quando – ancora giovinetto – comincia ad apprendere il mestiere di sarto.
Come le botteghe dei calzolai e dei barbieri, anche la sartoria è stata nei nostri paesi – e fino a tempi non molto lontani – un particolare termometro sociale che segnalava ricorrenze non solo del ciclo dell’uomo ma anche dell’anno.
Ed il tempo scorreva a Guardiagrele lento, “gni chi li trene de la Sangritane”, nota argutamente Modesto in “N’avetra canzùne”.
Nella sartoria sfilano personaggi appartenenti a tutti i ceti sociali cittadini e del contado, messaggeri di notizie tristi e liete, ma soprattutto di pettegolezzi.
Così la “fuga” di due innamorati diventa nella Cittadina una notizia tanto ghiotta da suscitare sagaci commenti, specie se i due fuggitivi sono una giovane vedova ed uno scapolo abbastanza attempato, efficacemente chiamato da Modesto ciavarre, termine pastorale che nell’area della Maiella indica la pecora che non ha mai avuto agnelli.
A proposito della fuga operata dagli innamorati ed ovunque diffusa nel meridione, soprattutto in Sicilia, il Finamore fa una interessante osservazione:
È ben raro che la donna osi contrariare la volontà dei genitori sul suo collocamento. Ma se il suo cuore fosse preso già da altro affetto, e gli sforzi per rifiutare il partito proposto non riuscissero, in molti luoghi d’Abruzzo, ma specialmente a Lanciano e nei vicini Comuni, la questione viene risolta con la fuga, “nghè lu scappà”. E bisogna pur dire che, alle volte, lo sposo ricorre a lu scappà’ non per rispettare una tradizione, ma semplicemente per risparmiarsi le spese ingenti che si affrontano quando ci si sposa. Insomma, il matrimonio si celebra alla chetichella, senza apparato di scorta, con un bel risparmio di denaro.[4]
Per tacer poi di un ulteriore e significativo “risparmio”. La fuga infatti evita l’acquisto di una costosa camicia, che costituiva un tempo – dice Modesto – il regalo d’obbligo da farsi al mezzano o alla mezzana, il mediatore cioè che aveva condotto a buon fine le trattative per il matrimonio (cfr. “La camisce de lu ruffìane”).
Quando poi facezie ed aneddoti si riferiscono agli abitanti dei paesi vicini, essi tendono a trasformarsi con il trascorrere del tempo in novelle moraleggianti (si pensi ad esempio ai fischi rivolti a Berlino da un fusaro di Pretoro alla Banda del proprio paese!) oppure in blasone popolare.
Rileggiamo Lu miràquele di San Donate e precisamente i versi:
“…, ‘na campane
s’è rutelate da lu campanine
… E a une di Rusciane,
…………………………………
ne j’à lassate manche n’osse sane”.
Modesto, malato soltanto di poesia, aveva qui diverse possibilità di sostituire, rispettando sempre l’esigenza metrica, il toponimo Rusciane con Guriane, Raiane, Canzàne e via dicendo, ma queste località non sono state prese nemmeno in considerazione per esigenze per così dire “semantiche”. Esse sono poste infatti – ed il Poeta ne è cosciente – oltre l’orizzonte dei destinatari immediati dei suoi componimenti, per lo più guardiesi o abitanti delle aree limitrofe, che agiscono in un mondo geograficamente circoscritto e menano comunque una vita dignitosa, accontentandosi, per essere felici, di
“nu litre, quattr’amice e ‘na cantate
‘nche n’accumpagnamente d’urganette” (Brìndise)
Il confine di questo “kleine Welt” è ben delimitato soprattutto a livello psicologico ed è tratteggiato anche dal d’Annunzio nel Trionfo della Morte.
A Giorgio Aurispa, che chiede dove si trovasse il “Messia“, Cola di Sciampagna – la cui dimora è presso l’Eremo di San Vito – risponde indicando “le spiagge remote oltre Ortona” e volge “lo sguardo e il gesto verso la regione lontana”.
Nel contado guardiese la visione della vita è regolata secondo Modesto non tanto da proverbi, cioè da norme comportamentali trasmessesi di generazione in generazione e codificate nelle consuete forme paremiologiche, quanto da wellerismi, più consoni a tramandare l’Erfahrung dei padri e ad eliminare incertezze in tutti gli aspetti della vita quotidiana.
Così in “Vujje pijà la mojje”:
M’à ditte Zi Giuvanne di Caròte:
“La mojje s’arsumèjje a nu citròne,
che tutte sta gnà èsce …”
Zi Colasante immèce m’à spiegate:
“La giuvinette quande si marite
è gnì nu solde nove …
Ma dopo a mane a mane si scurisce” [5].
Oppure in “Lu fume”:
Tatòne, immece, m’avè cunzijate:
“Dentr’a la case, niputucce bbelle,
statte dijùne e fa’ nu patimente,
ma pe’ la vie lu sicher appìcciate”,
Ed ancora in “La cocce di San Donate”:
Dicè li vicchi antiche: a grande male
cchiù grande lu repare …..
ed infine in “Brìndise”:
Tatòne immèce .…
dicè: “Fije di hatte sorge pije”.
Nella Guardiagrele di Modesto il tempo è fatto anche di momenti ludici. Dopo il ritorno dai campi e la chiusura delle botteghe artigiane i ceti rurali si ritrovano per abitudine, se non per esigenza, nell’unico “circolo culturale” che all’epoca un paese poteva offrire: la cantina.
In genere tutti posseggono a casa “nu vascelle”, ma il vino se è bevuto in solitudine apporta malinconia, mentre in compagnia di amici mette buonumore ed allegria. Specie se le “buttije” si uniscono al gioco delle carte.
È costante infatti in Modesto un non casuale richiamo al numero “quattro”, indispensabile per una buona partita a scopa, briscola o tressette:
“nu litre, quattr’amice e ‘na cantate”. (Brìndise),
oppure:
“Scemme da la cantine. Ere notte.
Savàme quattre…”. (Lu Carusille)
Il patrimonio letterario popolare, che Modesto dimostra di ben conoscere, non si limita soltanto agli aspetti paremiologici, ma si estende anche alle credenze e superstizioni, a racconti e leggende e persino ai romanzi popolari le cui trame affascinavano in modo particolare i ceti agro-pastorali.
Nella poesia dal titolo “39 (Lu ‘mbise)”, Carmenucce de la Strazze – tipico personaggio che possedeva i proverbiali “sette spiriti” dei gatti – si vanta spavaldamente non solo di essere istruito, ma di aver letto molte novelle e romanzi popolari, specie quelli aventi per soggetto Bertoldo, Guerin il Meschino (reso popolare agli inizi del XV secolo da un romanzo di Andrea da Barberino), Genoveffa, le Sette Trombe e soprattutto I Reali di Francia con gli eroi del ciclo carolingio[6] .
Per dare un’idea dell’importante fenomeno letterario giova ricordare ciò che scrive Benedetto Croce a proposito della disavventura capitata ad un pastore di Pescasseroli. Costui, catturato dai briganti di Domenico Fuoco, fu liberato “quando giunse l’imposto riscatto ed ebbe salvi gli orecchi … sol perché egli seppe entrare nelle grazie delle concubine dei briganti, alle quali leggeva con grande loro diletto, nelle ore di sosta, il Guerin Meschino e i Reali di Francia” [7] .
A tale genere letterario vanno aggiunte alcune favole moraleggianti (si pensi per esempio a Lu ddore de lu casce), aneddoti e racconti popolari tratti forse dalla tradizione orale locale. Ascritti, secondo alcuni studiosi, al “racconto realistico popolare”[8], essi rivelano tratti comuni al patrimonio favolistico nazionale e lasciano supporre talvolta un fenomeno di discesa dal mondo colto a quello popolare, dal mondo del libro a quello della tradizione orale, custodito da sempre in quella meravigliosa biblioteca ambulante che è appunto la memoria dei nostri vecchi: un vecchio che muore, è una biblioteca incendiata e ridotta in cenere.
La prima “biblioteca” di Modesto è da identificarsi proprio con il camino, che troneggiava in cucina come un santo nella propria nicchia. Non sono poche infatti le sue poesie in cui il focolare (si pensi a ‘Na serata d’immerne, La Novena di Natale, ecc.) assurge a valore di locus sacer per l’accoglienza riservata agli amici o per ascoltare “le favulette di Za’ Catarine”, termine questo (le favulette) nel quale si coglie lo stesso atteggiamento di bonario scetticismo nutrito da Modesto nei confronti delle manifestazioni di religiosità popolare e che gli hanno valso l’appellativo – come il Poeta stesso dice – di “scriticate”.
Nella propria abitazione, semplice e decorosa, ma che diventa “bella” d’inverno “quande ci sta li lene e lu vascelle”, il Poeta è oggetto nella sua adolescenza di un naturale processo di inculturazione.
Sfilano così davanti ai suoi occhi, evocati dalla indelebile memoria giovanile, i propri familiari intenti a leggere e “spieà lu Barbanere” , a canticchiare “la canzone de la ninna nanne” (egli ci offre uno splendido testo, dal titolo appunto Ninna nonne, ninna ninne, attinto forse – come suggerisce la metrica – dalla tradizione orale locale), a parlare dei poteri di una potente maga, (la mahòne, che riscuote maggior fiducia rispetto al medico), di “brihande” , del tradizionale dono della palma d’ulivo,benedetta appunto nella Domenica delle Palme e dalle molteplici funzioni. Con lo scambio dei ramoscelli, offerti in segno di pace, si ristabilivano fra due persone, come del resto avviene tuttora in molti paesi abruzzesi, contatti e relazioni in precedenza interrotti:
“Minè lu jurne che se dà le palme
scurdate tutta sorte de rangore”
(La dumeneche de le Palme)
oppure si costituivano le premesse per un particolare rapporto di comparatico, tuttora denominato di San Giovanni, la cui intensità supera persino i vincoli della parentela. Lu cumpare e la cummare costituivano infatti una sorta di alter ego, persone di cui ci si poteva ciecamente fidare e da scegliersi necessariamente al di fuori del cerchio della parentela, con la quale si era spesso in attrito soprattutto per la suddivisione dell’asse ereditario.
La “palme benedette” è ovunque conservata. Nel mondo rurale viene bruciata al fuoco per scongiurare in particolar modo le assai temute tempeste di grandine oppure, come dice Modesto, perché “fa scappà vente e sajette”. Infine, dal modo in cui reagiscono le foglie a contatto con il fuoco, si ricavano responsi di varia natura.
Vi sono poi tante tradizioni legate al ciclo dell’anno di Guardiagrele, come la preparazione – nella festa di San Giovanni – di una mongolfiera così grande da richiamare la curiosità di tutta la gente del contado. Di conseguenza – come vuole il blasone popolare – per tale ricorrenza
“a Ursugne nen ci à da ì ‘nu cane” [9].
Seguono poi come “quadri viventi” impressi nella memoria del Poeta il suono delle zampogne e ciaramelle a Natale, i cibi rituali nello stesso periodo, la fuga degli innamorati che si conclude poi con le nozze ed il singolare patronato di san Michele Arcangelo,
“che prutegge li ladre e li brihante”,
epiteti affibbiati da Modesto ai commercianti, specie quelli che per il loro mestiere…lavorano con la bilancia e perciò sono ritenuti ladri e disonesti (“Brihante”).
Ed è proprio la poesia “La Velàngele di San Michele”, annoverata dai critici letterari “fra le più significative di Modesto della Porta”, che ci offre il destro per evidenziare la capacità del Poeta di sintetizzare e saper dipingere i momenti più significativi delle ricorrenze religiose nei nostri paesi:
“congreghe, ‘ntorce, vergenelle, bbande,
………………………………………
conche de grane, li stannarde avante”,
in una impressionante successione di scene rievocate con le medesime immagini anche ne “La cocce di san Donate”:
“Stannarde avante … bbande di Lanciane…
appresse, ‘ntorce … conche de lu grane …
Cungrèhe e virginelle a ‘st àtru late…”
Le due ricorrenze, quelle di San Michele e San Donato, sono così importanti nella cultura popolare abruzzese che meritano decisamente un pur breve commento.
Chissà quante volte Modesto, pensoso, ha rivolto gli occhi al bellissimo San Michele che troneggia a Guardiagrele sul portale trecentesco di palazzo Marini. Secondo una tradizione popolare, assai diffusa in Abruzzo e ben nota al Poeta, la protezione accordata da San Michele ai commercianti, accusati da sempre di non vendere merci a peso giusto o “a buona misura”, si spiega per via della bilancia che il “Santo longobardo” ha in mano e con cui è stato spesso raffigurato.
In alcune aree abruzzesi, come per esempio quella peligna, San Michele è particolarmente venerato ed al suo culto sono collegate antiche consuetudini di carattere agrario, tuttora assai vive. Il granturco, per esempio, si semina di norma nel Sulmonese l’8 maggio, festa appunto di San Michele Arcangelo, protettore di Roccacasale, mentre a Pescocostanzo, nei cui pressi sorge un’antica chiesetta rupestre dedicata al Santo, avviene in tale giorno la recinzione dei prati pascolativi che saranno falciati nel mese di luglio per l’approvvigionamento del fieno.
La protezione nei confronti dei commercianti costituisce tuttavia, nell’immaginario collettivo, una acquisizione per così dire recente, poiché la funzione antica di San Michele, come ci mostra l’affresco di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino, era quella di “pesare” con la sua bilancia le anime e, una volta separate quelle buone dalle cattive, di far precipitare quest’ultime in un fiume di lava che conduceva all’Inferno ed alla perdizione eterna.
Più importante appare tuttavia nella religiosità popolare abruzzese il culto per San Donato, protettore di molti paesi, fra cui anche Guardiagrele. Il Santo Vescovo di Arezzo protegge com’è noto dall’epilessia, nota appunto come il terribile “Male di San Donato”.
Sulla diffusione del culto in Abruzzo esistono esaurienti indagini condotte dal Pansa, dal Lupinetti, da E. Giancristofaro e da altri studiosi [10] . Sulla “Rivista Abruzzese” (n° 1, 1982) è apparso anche un nostro contributo sull’argomento e precisamente una “Orazione di San Donato”, registrata a Cansano (AQ.), che contiene alcune significative varianti rispetto ai testi raccolti e pubblicati dal Lupinetti. [vedi link n.38 Bibliografia]
Ricordato che l’imprecazione “te pozz’acchiappà le male de Sande Denate” è annoverata fra quelle più temute in Abruzzo ed altrove, va sottolineato come l’epilessia – al di là delle riserve espresse da molti studiosi a tal riguardo – costituisca storicamente in Abruzzo una conseguenza ereditaria legata principalmente all’eccessivo consumo di vino, unica sostanza zuccherina e perciò energetica di cui in passato i ceti rurali potessero facilmente disporre durante i faticosi lavori sui campi [11].
Fra le varie terapie empiriche e magico religiose predominava nei secoli scorsi – e Modesto ne doveva ben essere al corrente – quella nota come il tocco della medaglia di San Donato, medaglia appunto in cui il Santo era raffigurato insieme alla ranocchia ed alla falce di luna[12].
Questo estremo tentativo, definito “superstizioso e contrario ai principi della Santa religione cattolica”, veniva fortemente osteggiato dalla gerarchia ecclesiastica ma non era in uso solo nei ceti agro-pastorali e nel mondo degli umili.
Panfilo Serafini nella sua “Monografia storica di Sulmona” [op. cit., Napoli 1853] , scrive infatti che ai suoi tempi (prima metà dell’800) persisteva ancora l’eco di un memorabile processo intentato alla fine del ‘700 dall’arcidiacono della Cattedrale di San Panfilo di Sulmona, Giacinto Sardi[13], contro un medico di Anversa degli Abruzzi, il quale aveva tentato di curare un epilettico con la “medaglia di San Donato”, dopo che erano risultati ormai inutili tutti i mezzi a disposizione della medicina ufficiale dell’epoca e persino l’uso magico degli “anelli di Gige”.
Nota nel mondo rurale con il nome di “ranocchiella”, questa “medaglia di San Donato” fa bella mostra di sé anche nelle carte dotali del passato e ne abbiamo rinvenuto alcune descritte nei rogiti del notaio Tommaso Genovesi di Atessa, conservati presso l’Archivio di Stato di Lanciano. In particolare in quello del 27 novembre 1799 si parla di “una ranocchia d’argento” effigiata in una “medaglia di San Donato” ed avente maggiori poteri contro l’epilessia, a differenza di quelle coniate in ferro o in ottone!
In diversi componimenti “Cicche di Sbrascente” ci informa inoltre di aver suonato spesso con la banda nei paesi in cui si festeggiava il 19 marzo San Giuseppe.
Questa devozione ha perso oggi il suo significato originario ed ha relegato al mondo dei ricordi anche alcune significative consuetudini, come il pranzo offerto dalle famiglie benestanti del paese a tre poveri raffiguranti i personaggi della Sacra Famiglia. Specie nel periodo successivo all’Unità d’Italia, in cui si accentua il fenomeno migratorio verso le Americhe, la figura di San Giuseppe diventa sostitutiva del padre assente ed il suo culto viene a sovrapporsi in tal senso a quello più antico di San Nicola di Bari, in concomitanza con il declino dell’attività transumante.
Modesto tuttavia non mostra alcun segno di comprensione per il pantheon devozionale dei ceti rurali, colto soltanto nei suoi aspetti umoristici. Refrattario com’è a tutto ciò che è mistero, non comprende l’importanza che per il devoto riveste il contatto fisico con la divinità, degradata a livello di semplice statua. Sicché l’asta condotta “a diece lire … A quìnice … A quaranta” per aggiudicare il trasporto delle varie statue dei santi durante la processione, si risolve – come scrive L. Sciascia a proposito delle Feste Religiose in Sicilia – in un “modo assolutamente irreligioso di intendere e professare una religione”.
C’è da chiedersi allora quale influsso o condizionamento abbia esercitato la “cultura” dei ceti meno abbienti nell’opera del Poeta guardiese, ceti che per il periodo storico di riferimento possiamo definire subalterni secondo il noto pensiero di Gramsci.
Non va dimenticato infatti che circa dieci anni prima della morte di Modesto, il filosofo marxista aveva dato nei suoi Quaderni dal carcere una definizione rivoluzionaria di “folklore” come “cultura delle classi subalterne”, che eserciterà sugli studiosi contemporanei e successivi un influsso notevole.
Infatti “il dubbio che le definizioni egemonico e subalterno abbiano superato la soglia del logoramento e richiedono una verifica storica”[14] rappresenta un ripensamento solo recente da parte dell’indagine demologia ed in particolare della religiosità popolare, mentre all’epoca di Modesto i due termini indicavano una dicotomia quasi insanabile nella società italiana, composta per il 52 % da ceti rurali i cui bisogni protettivi ed angoscianti, per nulla compresi dal d’Annunzio, erano assicurati dal culto verso determinati santi, garanti contro il pericolo della loro disgregazione psichica e del non esserci nella storia.
L’aspetto singolare che è dato cogliere in molti componimenti è che Modesto, pur traendo spunti dalle vicende quotidiane di questo strato sociale, si pone infine su un piano psicologicamente distante dalle realtà rappresentate.
“Ma a me, Francì, nen m’empurtave niente”, afferma il Poeta nella “Velàngele di San Michele” a proposito delle manifestazioni di religiosità popolare, osservabili qui come altrove in occasione dei pellegrinaggi; ed indifferente ad ogni nesso tra miseria ed esigenza collettiva di protezione, egli coglie solo gli aspetti esteriori ed umoristici di comportamenti che reclamavano invece comprensione e pietà.
Siamo così in un mondo assai lontano sia da quello descritto da C. Levi, il quale coglie felicemente l’alterità della cultura contadina, che da quello dei pellegrini al Santuario di Casalbordino descritto dal d’Annunzio nel Trionfo della morte, in cui una umanità dolente viene trasformata in una bolgia di dannati.
V’è più di un motivo per ritenere che molti dei quadri che compongono La Velàngele di San Michele (fra cui lo struscio penitenziale e mortificante della lingua per terra al santuario del Gargano, che il Poeta guardiese fa proprio ma solo per esigenze metriche) siano stati “fotografati” da Modesto in un santuario abruzzese e forse proprio in quello della veneratissima Madonna di Casalbordino, per la quale egli deve aver nutrito non poco timore riverenziale.
È singolare, infatti, la circostanza che mentre i Santi siano circonfusi in TA-PU’ di incomparabile ma non irriverente humour e siano collocati in cieli così lontani da non poter ascoltare non solo le preci ma neanche le imprecazioni dei fedeli:
“… ca ti fì ‘na bbiastemate?
Si quante ie n’importe a San Giuvanne” (“Lu Pallune”),
e che inoltre la figura di Dio (Lu Criatore) si riduca per Modesto a
” quattre sagne, ‘na custate” (“Lu timore de Ddie”)
(e proprio per questa sua devianza gli è stato affibbiato l’appellativo di scriticàte, cioè miscredente), invece nessun cenno si rinviene – pur a livello di religiosità popolare – in merito al culto della Madonna, anche se la Madre di tutte le madri appare adombrata, a nostro avviso, negli ultimi tre versi della poesia Serenate a mamma, che si configurano come vera e commossa preghiera.
Al pari dei Santi, per nulla ausiliatori, anche l’aristocratico Poeta guardiese si pone distante dall’angusto mondo del Contado, in cui fra vizi e virtù agiscono molti personaggi dei suoi componimenti. Talvolta essi ci ricordano sotto certi aspetti, gli “idolatri” dannunziani delle Novelle della Pescara e vengono chiamati cafoni in diverse occasioni (cfr. La cocce di San Donate; Lu miràquele di San Donate, ecc.) ma solo per evidenziare una dicotomia “culturale” avvertita ormai da Modesto come irreversibile.
Il Poeta guardiese, in sostanza, non si identifica più – il che è paradossale – con il ceto sociale cui comunque egli appartiene e che considera refrattario ad ogni mutamento e senza afflato di riscatto.
Se la nostra analisi è esatta, essa ci indica allora anche la distanza che separa i suoi “cafoni” da quelli marsicani descritti da Ignazio Silone e colti in atteggiamenti religiosi o in sincretismi magico-religiosi che hanno nel pensiero dello scrittore di Pescina una funzione precisa, quella di alleviare, come scrive il Prandi nell’opera citata, “una situazione di dipendenza economica e di scarsità di beni che opprime le popolazioni marsicane”.
La freddezza con cui Modesto tratta alcuni temi folklorici locali, a riprova di come la sua sensibilità sia estranea a questa cultura subalterna, si avverte anche nelle poesie ispirate alla religiosità popolare ed al mondo magico rurale.
Infatti, mentre da un lato la sfiducia nella medicina ufficiale viene ribadita in più di una occasione (cfr. per esempio Lu secrete di professione), dall’altro le considerazioni del Poeta per il mahone o la mahona sono improntate a piacevole ironia, non priva di scettica bonarietà.
Sicché in questa pessimistica Weltanschauung, in cui non esiste alcuna àncora di salvezza se non la propria coscienza, naufragano i concetti di giustizia sociale (La Velàngele di San Michele) e di solidarietà umana, poiché “se nen ‘ti cinque lire nen ze magne” (Cfr. Gna va st’affare?).
Ma naufraga in questa visione della vita anche il concetto di destino, che non può essere mutato – specie per uno scriticàte come Modesto – né con preci (e dunque nemmeno con il soccorso della fede) e né con il ricorso a sincretismi magico religiosi. Il destino degli uomini resta dunque per il Poeta guardiese un “mistero“.
Va tuttavia rilevato che questa concezione di Modesto non è sempre lineare e coerente. Il tema della solidarietà umana, la cui esistenza è negata in“Gna va st’affare?”, è riaffermato invece nel componimento dal titolo “Brindise”, in cui si esalta con tono appassionato il senso d’ospitalità e di solidarietà degli
“abruzzise, genta paisàne” che ha
“… nu core, che ‘mmezz’a lu pane
le pu magnà ……… ” .
La contrapposizione concettuale fra i due componimenti è così stridente da far insorgere il sospetto che ci troviamo di fronte non solo a due stati d’animo diversi, pur avvertiti dal Poeta in differenti momenti psicologici, ma addirittura a due poeti diversi, con concezioni della vita e dell’uomo completamente opposte.
Questa sorta di dicotomia si avverte anche nel dialetto usato e mal si concilia con quanto scrive il compianto A. Di Giorgio, secondo cui “solo Modesto Della Porta fu e rimase artista guardiese, non tanto perché la sua opera è scritta in un dialetto autentico, […] ma perché è tutta pensata in dialetto, interamente ispirata dal minuscolo ma essenziale cosmo vernacolo del suo paese”[A. Di Giorgio, Ragionamenti e altre prose, Lanciano 1982].
Al destino pregno di “mistero“, si aggiunge dunque quest’altro mistero, sul quale forse indagheranno in seguito altri studiosi.
La raccolta delle poesie finora conosciute (non sono poche, infatti, quelle di cui si son perse le tracce) è dominata dalla figura di Cicche di Sbrascente e del suo notissimo trumbone d’accumpagnamente,che fa forse la sua prima apparizione in “Serenate a mamma”, composta nel 1929. Essa è annoverata a giusto titolo fra i componimenti più riusciti di Modesto Della Porta per la freschezza delle immagini e per il tono lirico, pregno di così intensa devozione da ingenerare il dubbio, come abbiamo in precedenza ipotizzato, che la parte finale della poesia celi in realtà un frammento di prece alla Vergine.
Ma non è questo il solo caso. La medesima freschezza si avverte infatti nella bella “Ninna nonne, ninna ninne”, in cui anche la cadenza del verso ottonario sembra indicare la derivazione di questo “canto di culla” dal patrimonio letterario guardiese, tramandatosi oralmente di generazione in generazione.
È l’unico aspetto della cultura del mondo rurale dalla quale Modesto si sente naturalmente attratto. Tuttavia, la raccolta completa dei suoi componimenti, contenuta come sembra nella decima edizione di TA-PU’, ci offre ulteriori esempi al riguardo. Pensiamo a “Lu prime sangue”, poesia ricca di senso patriottico e scaturita dalla visione di alpini abruzzesi in convalescenza, perché feriti sul fronte durante la Prima guerra mondiale.
Essa è strutturata in modo che uno stornello – e dunque un verso quinario contenente l’invocazione ad un particolare “fiore”, seguìto da due endecasillabi – funge per così dire da introduzione al componimento, certamente originale:
” Fiure de vite!
Ugnune ce té ‘ngore aretrattate
‘na piume, nu suldate e na ferite:
fiure de vite!”.
L’originalità poi, anche se non mancano modelli simili nei canti lirico-monostrofici, è accentuata dalla ripetizione del quinario che chiude i due endecasillabi iniziali, i quali a loro volta diventano tre nell’ultima parte del componimento:
“Fiure de mundagne!
La mamma vustre preghe ma nen piagne,
dendra lu core chiuse té nu pegne,
perciò se sta cùjete e nen ‘nze lagne.
Fiure de mundagne!”.
Ma è tempo di tornare, dopo questa necessaria digressione, a Cicche di Sbrascente, al suo trumbone ed alle vicissitudini del povero suonatore in mezzo ad una banda, la quale in fondo, nota acutamente F.P. Giancristofaro, rappresenta “lo specchio della società dove si ripetono le sperequazioni: i compensi sono diversi, secondo lo strumento che si suona”.
Sono note le complicazioni psicologiche che emergono nelle varie ricorrenze festive e che si trasformano per un bandista come Cicche in un vero e proprio inferno.
Ad episodi tragicomici (come l’accompagnamento simultaneo dell’Internazionale e della Marcia Reale) si alternano esperienze amare e mortificanti, al punto che Cicche è costretto in una occasione a recitare la parte del suonatore di clarino, strumento che non conosce e che deve imbracciare per la prima volta, in quanto gli viene imposto il compito umiliante di fungere da “comparsa” nella banda.
Il mestiere o meglio la professione del bandista si diffonde in Abruzzo in modo particolare nell’ultimo ventennio dell’800 e costituiva un capitolo poco conosciuto della nostra cultura popolare fino a quando non è apparsa, circa venti anni fa, una fondamentale monografia di E. Leone e S. Masciarelli dal titolo “Una vita per la banda. Ricordi di un musicante abruzzese” [Lanciano 1981], in cui i due Autori ripropongono all’attenzione dei lettori il secondo componimento di TA-PU’, quello che inizia appunto con il verso: “Che vite! Mo a la stalle, mo a le stelle”, che essi dedicano a Giuseppe Leone, notissimo musicante e maestro di banda.
Modesto si rivela un appassionato e profondo conoscitore delle bande abruzzesi e soprattutto delle loro fortunate tournée in Europa e persino in America, dopo che Alessandro Vessella, geniale musicista ed arrangiatore di Piedimonte d’Alife, aveva creato agli inizi del Novecento una strumentazione del tutto innovativa che permise a questi complessi (assai noti erano quelli di Spoltore e Lanciano) di includere nei loro repertori opere liriche e sinfoniche di fondamentale importanza per la storia della musica.
Il Poeta guardiese dimostra di conoscere bene l’azione riformatrice di questo musicista, dato che Cicche di Sbrascente sottolinea nel componimento in precedenza citato che quando una banda eseguiva
“… ‘na marcia sgargiante di Vesselle
la ggente si cacciave lu cappelle”.
Ma chi erano i bandisti? Risponde il Masciarelli: si trattava di “laboriosi e tenaci artigiani, i quali, animati da una grande passione per la musica e musicalmente dotati, si ritrovavano dopo il normale lavoro quotidiano a dar fiato ai nuovi strumenti … Appartenevano a generazioni di esclusi quando i teatri, in Abruzzo e nelle altre regioni emarginate sul piano culturale e sociale, erano un lusso per pochi privilegiati”.
E toccò proprio a questi “esclusi” il compito di avvicinare i ceti subalterni alla cultura musicale.
La banda, infatti, si spostava utilizzando normalmente traballanti autocarri, che venivano considerati “di lusso” solo se erano dotati di un normale telone atto a proteggere strumenti e bandisti dal vento e dalla pioggia. Pochi paesi, infatti, erano raggiungibili con il treno, malgrado che la rete ferroviaria regionale avesse raggiunto agli inizi del Novecento l’attuale sviluppo.
Sicché i viaggi su strade strette e polverose risultavano così faticosi ed irti di pericoli da causare continui incidenti e sciagure. Il 30 Agosto del 1922, per esempio, l’autocarro che trasportava la banda di Silvi fu travolto da un treno in un passaggio incustodito presso Chieti Scalo e ben 11 bandisti persero la vita.
La tragedia commosse a tal punto l’opinione pubblica da indurre Achille Beltrame a riprodurre in una tavola della “Domenica del Corriere” il luttuoso evento.
A causa del suo continuo peregrinare da un paese all’altro, il bandista si trasforma in uno straordinario calendario ambulante che memorizza non solo le ricorrenze delle feste patronali nei nostri paesi, ma anche – come si evince dai componimenti di Modesto Della Porta – particolari temi ed aspetti di religiosità popolare legati al culto di un determinato Santo.
Così nella monografia Una vita per la banda, uno dei due Autori, Errico Leone, è proprio un vecchio bandista che attraverso i suoi ricordi ricostruisce un affascinante mosaico etnografico composto da tasselli di grande importanza e talvolta ignoti ai nostri grandi folkloristi.
Apprendiamo per esempio da E. Leone che a Bugnara, nella ricorrenza della festa della Madonna della Neve, vigeva la seguente tradizione che ci ricorda in parte quella della Mastra nelle feste della Madonna della Libera a Pratola Peligna.
La banda, preceduta dai “deputati”, si recava all’abitazione di una donna del paese, chiamata la parende de lu sande, per condurla davanti al sagrato della chiesa, dove l’attendeva il sacerdote officiante. Ad un cenno del capo-deputazione otto uomini, divisi in due gruppi, deponevano sulla parende de lu sande una fascina di rami di quercia così pesante da “piegare la groppa di un asino”. Quindi con il suo enorme fardello sulle spalle, la donna faceva ingresso in chiesa a suon di banda e vi restava così per tutta la durata della funzione religiosa.
Non meno interessanti – ma tanti altri esempi potrebbero essere ancora addotti – risultano alcuni particolari della festa di San Pantaleone a Miglianico, dove com’è noto affluivano in gran numero i sofferenti di ernia, che veneravano il Santo come taumaturgo [15].
Il D’Annunzio non parla nelle Novelle della Pescara di tale patronato, sul quale tace anche il De Nino [16] .
Sicché San Pantaleone, grazie ai ricordi del vecchio bandista, si affianca al culto della Madonna del Lago di Scanno, dove si recavano da ogni luogo d’Abruzzo gli erniosi per sottoporsi al rito del “querciolo spaccato”.[17]
Con immagini nitide e scorrevoli, Modesto lascia intravedere nella figura del bandista il depositario e nello stesso tempo il diffusore degli aspetti caratteristici delle manifestazioni folkloriche regionali, specie quelle legate ai santi protettori, memorizzate nel corso di una lunga attività:
“Trent’anne e forse cchiù, che vajje ‘n gire
…………………………………………
Quanta ricurde …………………
N’àjje sunate feste …… a San Dunate,
a San Giuvanne, a Sante Casimire ……”.
Modesto traccia così un sicuro sentiero da imboccare per le ricerche demologiche, individuando nel bandista la figura attendibile dell’informatore, il quale è diventato per mestiere un “calendario ambulante” che ha registrato nella sua memoria le date più importanti per una comunità nel corso del ciclo dell’anno. Il “bandista” dunque, pur intento professionalmente, come rileva il Masciarelli, “nella gioia artigianale del suo far musica”, riesce sempre a fotografare il paese colto “nel fascino immutato del suo folklore”.
Vorremmo concludere queste nostre riflessioni ricordando che l’amore – se non la passione – di Modesto per la banda, “dispensatrice di gioia per la bella musica”, brilla in tanti componimenti di TA-PU’. Tuttavia, la circostanza che ben nove di essi (fra cui Serenate a mamma) siano stati musicati di recente ed adattati allo stile dei cantanti pop, ci lascia alquanto perplessi.
Il pensiero, infatti, che componimenti pregni di soavi stati d’animo siano offuscati dal suono di stridenti chitarre elettriche e finiscano sulle bancarelle di fiere e mercati, potrebbe indurre Modesto Della Porta a riflettere sulla inutilità della sua opera ed a declamare ancora i suoi versi:
“Tu vidi che destine ruffiane!
Dope che une à fatte nu favòre,
sa da’ vedè cagnà le carte ‘mmane
e, pe’ di cchiù, mazzate e disunure”
Franco Cercone
[1] – Cfr. F.P. Giancristofaro, Contributo alla interpretazione di TA-PU’, in “Itinerari”, n° 12, Lanciano 1963.
[2] – La “ricostruzione” mnemonica dei versi della “Velàngele di San Michele”, che mancavano nel testo originario, risale al 1953 e si deve all’appassionato impegno di Gabriele Sartorelli.
[3] – V. Moretti, Saggi di lettura e di bibliografia Dellaportiana. Con alcuni inediti, 14° Quaderno della “Rivista Abruzzese”, Lanciano 1985.
[4] – Cfr. G. Finamore, Tradizioni popolari abruzzesi, in “Curiosità popolari tradizionali”, a cura di G. Pitrè, vol. XIII, Palermo 1885-89.
[5] – Va notato a proposito del verso “La giuvinette quande si marite…” (reminiscenza forse del periodo trascorso dal Poeta a Roma?) che esso richiama quello di un noto canto popolare ciociaro che suona in modo analogo: “E quanno la Ciociara se marita …. pare un soldo novo, tutto d’oro”.
[6] – Il fenomeno letterario è stato ben descritto da G. Pansa nel saggio L’Epopea carolingia in Abruzzo, in “Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte”, n° 8, Casalbordino 1899. A proposito delle Sette Trombe, P. Serafini scrive nella sua Monografia Storica di Sulmona, pubblicata ne “Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato” (1853), che “pei contadini, uno che giungeva a saper leggere il Libro delle Sette Trombe si aveva il nome di scolaro per eccellenza”. Come è noto del Libro delle Sette Trombe parla San Giovanni nell’Apocalisse: “I sette angeli che avevano le sette trombe si accinsero a suonarle”. Ad ogni suono di tromba, secondo l’Apocalisse, si rovesceranno sui peccatori tremendi castighi divini e la “settima tromba” in particolare decreterà la fine del mondo.
[7] – Cfr. B. Croce, Storia del Regno di Napoli, p. 339, ristampa, Bari 1972.
[8] – G. Profeta, Letteratura popolare e Letteratura dialettale. Con un saggio sulla poesia di M. Della Porta e sui canti nuziali abruzzesi, p. 391, Teramo 1962.
[9] – Per avere un’idea di come fossero mordaci i motteggi fra le due cittadine, basta ricordare che i Guardiesi dicevano al cantiniere: “Pùrteme ‘na Ursignise” (=”Portami una Orsognese”) quando occorreva uno straccio per pulire il tavolo da giuoco in cantina o in trattoria. Gli abitanti di Guardiagrele venivano chiamati invece “ciociari” per via delle “ciocie”.
[10] – Cfr.: G. Lùtzenkirchen – G. Chiari – F. Troncarelli – M.P. Saci – L. Albano, Mal di Luna, con Saggio introduttivo di A. Di Nola, Roma 1981. Il volume è corredato di notevoli documenti fotografici che si riferiscono a chiese e santuari d’Abruzzo e Molise dedicati al santo Vescovo di Arezzo ed ai rituali che vi si svolgono in funzione protettiva, fra cui quello di donare al Santo, come per es. a Celenza sul Trigno, una quantità di grano pari al peso corporeo dell’offerente.
[11] – Cfr. M. Gozzano, Trattato delle malattie nervose, p. 967 sgg., Milano 1968.
[12] -Cfr. al riguardo G. Pansa, Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, vol. II, p. 100 sgg., Sulmona 1927.
[13] – Giacinto Sardi fu eletto in seguito Vescovo della Diocesi di Aquino e Pontecorvo.
[14] – C. Prandi, Religione e classi subalterne, p. 23, Roma 1977.
[15] – Cfr. Il libro magico di San Pantaleone, prefazione di A. Di Nola, Napoli 1991.
[16] – Per il Chietino il rituale magico è ricordato dal Finamore e dal Bruni. A Lanciano gli erniosi venivano condotti per essere guariti alla Chiesa del Purgatorio (cfr. D. Priori, Folklore abruzzese. Torino di Sangro, Lanciano 1964). Sul rituale dei “quercioli spaccati” è fondamentale il saggio di A. Di Nola dal titolo L’arco di rovo. Impotenza e aggressività in due rituali del Sud, Torino 1983.
[17] – Cfr. G. Tanturri, Monografia storica di Scanno: ne “Il regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato”, diretto da F. Cirelli, Napoli 1853.