[Pubblicazione dell’intervento di Franco Cercone, Le fogge di vestire tradizionali nelle realtà museali abruzzesi, in AA. VV., Atti del Convegno “Il Museo tra Passato e Futuro”, Ed. Amuset, Bomba (Chieti) 2000.]
[Dobbiamo recuperare del tempo e non approfittare della pazienza dei gentili ascoltatori. Vedrò pertanto di sintetizzare gli aspetti salienti di un affascinante capitolo etnografico come appunto le “fogge di vestire”, per consentire di capitalizzare i concetti essenziali dell’argomento.]
Il tema centrale di questo convegno che l’amico Peppino Caniglia ha scelto in occasione del decennale del Museo Etnografico di Bomba, è “Il Museo tra passato e futuro”.
È necessario parlare a mio avviso anche delle funzioni che questi musei etnografici dovranno avere e svolgere in futuro sotto diversi aspetti storici e antropologico-culturali.
Dal mare magnum dei grandi temi folklorici ho estrapolato quello relativo alle fogge di vestire tradizionali, perché proprio a Sulmona – e questa forse è una notizia che interesserà i colleghi e gli amici studiosi – è stato istituito quello che va ritenuto come il più importante museo del costume popolare del Regno di Napoli, di cui l’Abruzzo faceva parte.
Si tratta di una realtà museale di eccezionale importanza e bellezza che ancora pochi studiosi conoscono.
Voglio dare innanzi tutto a tal riguardo qualche cenno statistico: nel museo sono esposte 375 tra litografie, acqueforti e guazzi tratti da opere che andremo a citare e che ci offrono un panorama completo del settore, arricchito dalla ricostruzione di costumi popolari sistemati su manichini. Prima di individuare le funzioni da attribuire a questi musei di cultura popolare occorre sottolineare come essi si vadano un po’ disperdendo in diverse località dell’Abruzzo, mentre per quanto concerne quest’area geografica sarebbe stato opportuno crearne uno solo con il titolo di “Museo Tradizionale della Valle del Sangro”.
Abbiamo infatti musei a Villetta Barrea, ad Ateleta, qui a Bomba ed in altre località, con una dispersione di reperti e fonti storiche non sempre facilmente fruibili, se non altro perché essi sono per lo più chiusi per molti giorni della settimana e visitabili normalmente in estate, grazie al volontariato di pochi appassionati studiosi.
Per completare il discorso della collega [Anna Rita Severini] su Collelongo, voglio aggiungere e rendere noto che nel Museo di questa cittadina della Marsica i reperti etnografici sono conservati in grosse bacheche di vetro che ornano il centro storico di Collelongo. Questo è un modo intelligente di conservare i reperti che sono messi a disposizione dei visitatori al di fuori del concetto di Museo come
luogo chiuso.
Si tratta dunque di un museo esposto per la strada e sotto gli occhi di tutti i cittadini. È un esempio certamente imitabile e che può essere esportato anche in altre località, come Bomba, per richiamare l’attenzione sull’importanza della cultura materiale relativa ad un passato non molto distante da noi.
È arrivato tuttavia il momento di introdurre il discorso sulle fogge di vestire, anche perché ho promesso che il mio intervento sarebbe durato solo quindici minuti e già ne sono trascorsi otto.
Tutta l’operazione relativa alle fogge tradizionali di vestire parte da una brillante idea di Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli che a torto una leggera e superficiale storiografia ha dipinto come uomo poco intelligente e poco sensibile nei confronti dei problemi culturali del suo tempo. In realtà in tale occasione il sovrano ci offre un’idea di grande saggezza e lungimiranza. Egli si trova infatti ad affrontare un grande problema economico, quello cioè di contrastare l’invasione delle ceramiche inglesi che stavano determinando la chiusura di tutte le piccole fabbriche esistenti nel Regno di Napoli. Questa sua idea viene condivisa da un altro illustre personaggio, il Cavaliere Venuti, che era il direttore della Real Fabbrica di porcellana di Capodimonte. Si decide pertanto di inviare dei pittori nelle varie province del Regno al fine di ritrarre le fogge di vestire più significative, soprattutto sotto il profilo cromatico. Tali disegni e guazzi erano destinati a rinnovare le decorazioni delle porcellane e dei vari servizi da caffe, da the, che venivano prodotti appunto nella Fabbrica di Capodimonte. Per la scelta degli artisti cui affidare tale incarico, Ferdinando IV bandisce un vero e proprio concorso. Nel 1772 infatti viene convocata alla Reggia una “luciana”, cioè una giovane donna del quartiere di
Santa Lucia a Napoli, vestita con il proprio abito tradizionale festivo, che costituiva la modella da ritrarre.
Si fa il concorso; alla fine una commissione di cui fa parte anche il sovrano attribuisce la vittoria a due giovani pittori della scuola partenopea, cioè Saverio della Gatta e Alessandro D’Anna. Questi due artisti, per motivi che in tale sede possono essere omessi, vengono sostituiti alla fine dai pittori Antonio Berotti e Stefano Santucci i quali si mettono in viaggio con le regali “determinazioni” in tasca, per le diverse province del regno. I due si recano prima in Terra di Lavoro, ma nel 1789, proprio l’anno della Rivoluzione Francese, la loro presenza è attestata in Abruzzo e precisamente nel Teramano. V’è al riguardo un dispaccio del Preside di Teramo (il Preside era una specie di Prefetto e
rappresentante dell’autorità centrale) in cui si legge: “Stiamo mettendo a disposizione dei pittori Santucci e Berotti l’alloggiamento e i vetturali”, cioè le persone che dovevano accompagnare i pittori nelle varie località aprutine per ritrarre le fogge di vestire.
Sennonché quattro anni fa (dopo che io e Vincenzo Accardo abbiamo pubblicato il volume Costumi popolari d’Abruzzo), è venuto alla luce un documento di un certo interesse dal quale si apprende che i due pittori regi avevano convocato a Castel di Sangro diverse coppie con la preghiera di presentarsi in abito tradizionale festivo. Questo ci fa capire che Santucci e Berotti non hanno visitato tutti i centri abruzzesi di cui ci hanno lasciato numerosi guazzi e disegni colorati. Purtroppo tutta la produzione dei due artisti non è pervenuta fino a noi e ciò è da addebitare ad un evento successivo e decisamente drammatico. Abbiamo rinvenuto infatti di recente un documento del Cavalier Venuti, direttore come si è detto della Real Fabbrica di porcellana di Capodimonte, dal quale si apprende con toni drammatici che il giorno prima dell’invasione francese di Napoli ed alla vigilia della proclamazione della Repubblica Partenopea del 1799, egli si recò al Museo di Capodimonte per ritirare guazzi e disegni con tutte le indicazioni cromatiche rese note dai due artisti che avevano girovagato per l’Abruzzo, al fine di sottrarre tutto questo prezioso materiale ai francesi. Il Cavaliere Venuti si era mostrato veramente profetico a tal riguardo, poiché di fatto i francesi sottrassero al Museo di Capodimonte tutti i lavori dei due artisti insieme a tanti altri capolavori. Comunque che fine abbiano fatto tutti ì disegni sottratti ai francesi dal Cavaliere Venuti, resta ancora oggi un mistero. Per fortuna alcuni guazzi e disegni, che ci hanno poi permesso di ricostruire gli aspetti essenziali di queste eccezionali fogge di vestire, si sono conservati in quanto Ferdinando IV amava di tanto in tanto spedirli a Firenze, alla corte di suo cognato Leopoldo di Lorena, granduca di Toscana. A tal proposito va ricordato che dieci anni fa è stata allestita a Firenze una mostra dal titolo “Napoli-Firenze e Ritorno”, che ha permesso di far conoscere molti di quei capolavori dipinti dai pittori Santucci e Berotti, scampati alle vicende seguite all’invasione francese del Regno di Napoli nel 1799.
Un’altra fonte importante per lo studio delle fogge di vestire tradizionali è costituita dagli ex-voto pittorici che adornano i più noti santuari italiani. Per quanto riguarda l’Abruzzo è certamente importante il Santuario della madonna di Casalbordino, descritto com’e noto dal d’Annunzio ne Il Trionfo della Morte. Questi ex-voto si devono ad ignoti artigiani che hanno ritratto le donne e gli uomini, beneficiari di grazia ricevuta, nei loro abiti tradizionali e dunque come si presentavano ai loro occhi, effettuando così delle vere e proprie fotografie a colori “ante litteram”. Anche gli ex-voto costituiscono documenti di eccezionale interesse per lo studio delle fogge di vestire e si può notare come i costumi tradizionali femminili siano rimasti più costanti nel tempo per forme e colori, a differenza del costume maschile che si presenta più soggetto ad omologazione.
È questo un aspetto decisamente interessante e che è da ricollegarsi per lo più all’attività transumante degli uomini. Era specialmente alla Fiera di Foggia che venivano venduti, nel mese di maggio e prima del ritorno delle greggia in Abruzzo, abiti maschili confezionati che annullavano praticamente i segni distintivi dei luoghi di origine. Lo stesso si verificava per gli artigiani che scendevano in Puglia per svolgere una miriade di mestieri. Si pensi per esempio agli abitanti di Villalago che compivano lo stesso percorso dei pastori ed erano richiesti per bonificare dalle talpe i campi coltivati.
Dopo aver rivolto questo breve sguardo al passato, occorre chiedersi quali suggerimenti ed idee possano offrirci oggi questi importanti documenti etnografici che sono appunto le fogge di vestire. Certamente esse potrebbero fornire dei proficui modelli all’industria dei tessuti per proporre accostamenti cromatici innovativi, vantaggiosi per il settore della moda. Va rilevato tuttavia che il costume popolare, opportunamente adattato ai nostri tempi, può costituire – come avviene altrove – un segno di appartenenza ad una determinata regione e di identità culturale. Voglio segnalare a tal riguardo che quando lavoravo in Germania, rimasi sorpreso nel vedere in una circostanza festiva due signori in abito tradizionale bavarese, che risultarono essere poi un giudice ed un medico, i quali non tradivano alcun imbarazzo (come invece avverrebbe nelle nostre zone) per aver indossato il caratteristico abito locale.
Ovviamente merita un cenno, in questa breve trattazione, il valore da attribuire oggi agli oggetti d’uso tradizionale che si possono ammirare nei nostri musei etnografici. Certamente nessuna donna stirerebbe oggi il proprio abbigliamento con un ferro a carbone; tuttavia queste sopravvivenze vengono considerate nel quadro di una “transfunzionalità” che colloca tali oggetti della cultura materiale nell’ambito di una funzione diversa, specialmente decorativa. Così, nell’esempio fatto, gli antichi ferri da stiro vengono utilizzati come portafiori, e si potrebbero fare tanti altri esempi al riguardo.
Per tornare ora in media re ho scelto le riproduzioni di alcune fogge tradizionali di vestire che mi sembrano opportune da far conoscere al gentile pubblico che mi ascolta. La prima diapositiva che proiettiamo mostra il costume di Pietraferrazzana[1] , un centro non lungi da Bomba. Segue poi quella dal titolo “Uomo del Paese del Vasto”, nella quale l’abito maschile sembra appartenere piuttosto ad un ceto egemone e non a quello popolare. D’altro canto non va dimenticato che nel corso della vita quotidiana le donne vestivano abiti ordinari, come quelli che appaiono nelle note tele del Patini.
Mostriamo ora il costume di Fraine, paese in provincia di Chieti. Di tale località possediamo due documenti che mostrano differenze talvolta sostanziali sia sotto il profilo della forma dell’abito che dal punto di vista cromatico. Ci sembra questa l’occasione per sottolineare che talvolta in una stessa località sussistono abiti femminili diversi e ciò è dovuto alla circostanza che la donna, una volta andata in sposa e trasferitasi nel paese del marito, continuava ad indossare il vestito tradizionale del proprio paese d’origine, diverso rispetto a quello della comunità in cui era andata a vivere.
L’altra diapositiva che mostriamo si riferisce al costume femminile di Villa Badessa[2] , presso Rosciano (Pe), dove nella meta del ‘700 si stabilì una colonia di Albanesi e Schiavoni a seguito di un provvedimento di Carlo III di Borbone. Villa Badessa non costituisce l’unico esempio al riguardo, in quanto emigrazioni dall’altra sponda dell’Adriatico sono state frequenti nel corso degli ultimi secoli e specialmente il costume femminile conserva elementi appartenenti ad una cultura che possiamo definire balcanica. Per concludere questo breve intervento voglio sottolineare anche il differente cromatismo che appare negli abiti femminili dei paesi di pianura rispetto a quelli di montagna. Un capo del vestiario, cioè la tovaglia, appare di colore bianco in pianura per riflettere i raggi del sole, mentre è di colore nero nei centri montani, per catturare i raggi del sole.
In alcuni casi – come per esempio a Scanno – l’intero vestito, e non solo la tovaglia, risulta per tale motivo completamente di colore nero.
Certamente mi sono soffermato in modo discorsivo a descrivere solo gli aspetti essenziali delle fogge di vestire tradizionali, le quali comunque vanno considerate e studiate come una pagina importante di storia delle nostre piccole comunità agro-pastorali.
Franco Cercone
[1] Riproduzione da F. Cercone , Il Costume popolare abruzzese tra ‘700 e 800, Solfanelli Chieti 1985
[2] Riproduzione da F. Cercone , Il Costume popolare abruzzese tra ‘700 e 800, Solfanelli Chieti 1985
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