[Introduzione di Franco Cercone, Sul culto di San Biagio in Abruzzo, pubblicata nel volume-inchiesta “San Biagio in Abruzzo tra storia, arte e tradizioni”, del Ministero Beni Culturali. Soprintendenza per il Patrimonio Storico Etnoantropologico per l’Abruzzo; Carabba Editore, Lanciano 2007.]
Gli studiosi abruzzesi – e fra essi soprattutto quelli che si interessano di religiosità popolare – non saranno mai abbastanza riconoscenti alla Soprintendenza Regionale per il Patrimonio storico-artistico ed etno-antropologico, per aver promosso un’inchiesta capillare sul tema “San Biagio in Abruzzo. Storia, Arte, Tradizioni”, svolta da un team di ricercatori operanti in seno alla stessa Soprintendenza Regionale ed i cui nomi sono riportati nel “Sommario” accanto agli argomenti trattati.
Nella Presentazione dell’opera, a cura di A. Imponente e R. Di Paola, appaiono già evidenziate le finalità della ricerca, assai complessa, che assume particolare importanza per l’Abruzzo.
San Biagio si presenta infatti come depositario di patronati ambigui e talvolta contraddittori, di cui il Santo vescovo armeno si arricchisce allorché il suo culto si espande lungo la via per l’occidente, ma non senza incontrare “resistenze”. Ancora oggi, per esempio, la figura di Biagio è ignorata dalla Chiesa ortodossa greca, che festeggia il 3 febbraio “San Simeone” cui è estraneo qualsiasi rituale preposto alla protezione della gola.
I patronati esercitati da San Biagio sono innanzitutto molteplici ed appaiono talvolta stratificati e sovrapposti – come avevano già rilevato alcuni Bollandisti e soprattutto H. Delehaje ne “L’ancienne hagiographie bizantine” – a quello primigenio della “protezione della gola da generiche affezioni”, per aver Biagio sottratto a morte certa per soffocamento un bambino al quale – narra la nota leggenda – una lisca di pesce rimasta conficcata nella gola impediva di respirare.
A questa primigenia leggenda di fondazione si aggiunge verso la metà del XIV secolo e soprattutto in Italia un ulteriore e più significativo patronato esercitato non nei confronti dei pastori, ma a favore delle comunità addette alla lavorazione della lana nelle antiche balchedas o “gualchiere”, per via appunto dello scardasso – l’attrezzo usato per “pettinare” la lana – mediante il quale il Santo avrebbe subito il martirio, anche se altre fonti lo vogliono morto per decapitazione.
Per quanto concerne la diffusione del culto in Abruzzo, l’area appunto che in tale sede interessa, sono significative le Bolle Corografiche del XII e XIII secolo pubblicate da Nunzio F. Faraglia nel famoso Codice Diplomatico Sulmonese (Lanciano 1888). In quella emanata da Clemente III nel 1188 non v’è quasi nessun paese posto fra l’area del Sangro e le Valli dell’Aterno e Tritana che non annoveri una chiesa dedicata a San Nicola di Bari, mentre solo due appaiono sub titulo Sancti Blasii, e precisamente a Bussi ed a Furca (Forca Palena), da cui forse il culto si espande in seguito nella sottostante Valle dell’Aventino. In un documento del XIII secolo pubblicato dal Celidonio nel IV volume de “La Diocesi di Valva e Sulmona” vengono confermate al Monastero di Santa Maria de Letto (Palena) tutte le chiese della Valle dell’Aventino fino a Turricella. Tuttavia, nessuna di esse, eccetto quella esistente in Furca, risulta sub titulo sancti Blasii, particolarità questa che per quanto concerne Palena si protrae fino al 1356, anno della memorabile visita pastorale del vescovo Francesco de Silanis nella Diocesi di Valva. Sicché in territorio valvense la più antica chiesetta rurale dedicata a San Biagio sembra essere una grancia del monastero di San Pietro de Lacu, fondato come è noto da San Domenico di Cocullo.
Di un’altra chiesetta dedicata a San Biagio e sita presso Porta San Salvatore, si ha notizia a Sulmona da alcuni documenti risalenti ai primi decenni del XIII secolo segnalati da F. Sardi de Letto e di cui parleremo in seguito. Essa aveva forse fin dall’inizio curam animarum e perderà il titolo di “parrocchia” a seguito della sua distruzione avvenuta in occasione del terremoto del 1706.
I pastori abruzzesi avevano dunque in San Nicola di Bari il loro nume titolare ed in questo fenomeno vistoso, caratterizzato dall’erezione di numerose chiese in suo onore, si coglie – sottolinea F. Sabatini – “l’eco di quell’importantissimo fatto storico che fu il trafugamento e la traslazione a Bari delle reliquie di San Nicola di Mira, avvenuta nel 1087 ad opera di un manipolo di marinai baresi”.
Labili sono anche i riferimenti cultuali nei confronti di San Biagio nel Contado teatino, che diventa dal 1273 Abruzzo Citra dopo la storica divisione del territorio da parte di Carlo d’Angiò in due Giustizierati, Citra et Ultra flumen Piscarie.
Dal “Regesto delle pergamene della Curia Arcivescovile di Chieti” di A. Balducci(vol. I, 1006-1400), contenente l’Inventario dei beni della Mensa arcivescovile teatina, risulta che nel 1323 oltre a quella notissima di Lanciano solo altre due chiese sono registrate sub titulo Sancti Blasii.
Questo particolare, aggiunto alla medesima situazione esistente nella diocesi di Valva e nel Teramano, induce a ritenere che nella nostra regione il culto di San Biagio, almeno ai primi decenni del XIV secolo, non fosse né diffuso e né collegato al fenomeno della pastorizia transumante.
La devozione per il vescovo di Sebaste subirà invece un notevole impulso ad opera dei ceti mercantili che iniziano ad organizzarsi nelle varie Arti, soprattutto in quella della lana, ovunque in rapida ascesa nei primi decenni del Trecento. Come scrive R. Colapietra, per limitarci ad un solo ed illuminante esempio, la nuova città di Aquila viene murata all’inizio del Trecento; ma in occasione della traslazione del corpo di San Pietro Celestino, avvenuta come riferisce Buccio nella sua Cronaca nel 1327, la popolazione partecipò commossa al grandioso evento ed in particolare “tucte le Arti annarovi, ciascuna con gran gente”, a dimostrazione del ruolo che tali corporazioni artigianali svolgevano in seno alla Civitas e fra esse soprattutto quella della lana, che assume come protettore San Biagio fin dalla sua istituzione.
L’Antinori (Annali, XI, 112), sottolinea al riguardo che nel 1315 “si compilarono in Capitoli gli Statuti della Città dell’Aquila” ed in un articolo in particolare si stabilisce che nei giorni di domenica e nella ricorrenza del Natale, della Pasqua ed altre determinate festività, fra cui San Biagio, quasi nume tutelare della Città, “niuno faccia lavori, né mercimoni di qualunque genere, purché non sia giorno di mercato…”.
Grandi furono i privilegi accordati dai re Ladislao e Renato all’Arte della Lana di Aquila, città dalla cui Piazza Grande – sottolinea C. Felice nella sua fondamentale opera “Ascesa e declino di un distretto manifatturiero” – si dipartiva una via detta significativamente “degli scardassieri”.
L’Arte, come ritiene A. Clementi nei suoi “Statuta Civitatis Aquile”, era stata già costituita nel 1331 e se ne ha conferma da un documento riportato dall’Antinori (Annali, XI, 307). In data 24 settembre di tale anno un allevatore di Pacentro vende infatti ad un cittadino aquilano 2.800 “velleri”, da cui si otteneva la “lana cordesca” delle “pecore carfagnine” da lavorare nella stessa Aquila, il che lascia supporre l’assenza nello stesso periodo di ogni corporazione di settore nell’area della Maiella ed in particolare in quella peligna.
Degno di nota è quanto riferisce ancora l’Antinori nei suoi Annali (XV, 39) e cioè che i Consoli dell’Arte della lana duravano in carica quattro mesi ed agli atti e documenti da autenticare essi apponevano “il sigillo dell’Arte, nel quale era scolpito l’Agnus Dei..” e non – come era forse da aspettarsi – la figura di San Biagio, anche se l’Agnello di Dio costituiva una immagine che richiamava meglio sotto l’aspetto semantico l’origine di una Corporazione che fondava la propria ricchezza sul valore della pecus, da cui il termine latino pecunia.
I mercanti della Patria di Ovidio, sottolinea G. Pansa nel noto saggio “Le relazioni commerciali di Sulmona con altre città d’Italia durante il secolo XIV”, si regolavano invece in materia di commercio “secondo gli usi e le consuetudini dei luoghi e questo lascia supporre che in Sulmona non esistessero, come in altri luoghi, corporazioni mercantili coi propri Statuti e propri Consoli”.
Gran commercio e produzione di zafferano, di seta, di panni, specie quelli sottoposti “a tintura”: ciò attestano i numerosi documenti oggi conservati nell’ Archivio di Stato di Sulmona e non una corporazione attiva nell’ambito dell’Arte della Lana, la cui istituzione – ci dice il Faraglia nel prezioso Documento CCXCVII del suo Codice Diplomatico Sulmonese – viene raccomandata in data 24 maggio 1489, e dunque in tardo periodo, da un decreto della regina Giovanna d’Aragona: “…volimo et ordinamo che debeate introducere lo exercitio de dicta Arte”, trasmesso al Capitano ed all’Universitas di Sulmona.
Tuttavia, questa attività, legata pur sempre all’industria armentizia, non sembra aver determinato dal XVI secolo in poi un incremento del culto di San Biagio, che resta comunque uno dei santi appartenenti al pantheon devozionale sulmonese e patrono dell’Accademia degli Agghiacciati, che si riunisce ogni anno il 3 febbraio. Nella Città di Ovidio, ricorda inoltre E. Mattiocco, è esistita solo una chiesa di modeste dimensioni sub titulo Sancti Blasii; era sita nei pressi del Palazzo dell’Annunziata (non, dunque, presso Porta San Salvatore, come scrive il Sardi de Letto) ed è documentata fin dai “primi decenni del Duecento”.
Nell’estendere lo sguardo alla straordinaria figura del Santo vescovo di Sebaste, occorre soffermare la nostra attenzione su alcuni aspetti già messi in luce da H. Delehaye ne L’ancienne hagiographie bizantine. Nella sua fase di passaggio – specie lungo la via Egnatia – dall’area balcanica a quella dell’Europa occidentale, i racconti agiografici su San Biagio ed altri santi “rivelano ben poche testimonianze autentiche e credibili, dal momento che la maggior parte di essi fu scritta molto tardi, quando dei martiri rimaneva soltanto il ricordo del nome”, mentre il loro culto, adattato ad esigenze locali, rivelava una religiosità spesso “ambigua” ed attinta addirittura, come l’episodio della lisca di pesce nel racconto agiografico di San Biagio, dal corpus dei “miracoli” operati da Esculapio.
Lo ha dimostrato di recente anche una illustre medievalista, A. Acconcia Longo, in “Vite, passioni, miracoli dei Santi”, un corposo saggio contenuto nella fondamentale opera dal titolo La cultura bizantina. È il caso per esempio – non abbastanza noto – del paralitico al quale i santi Cosma e Damiano prescrivono come cura di “violentare una donna muta, che si metterà ad urlare, facendo scappare di corsa il paralitico”. In tal modo i due Anargiri, al cui culto in area balcanica e soprattutto nel loro Cosmidion a Costantinopoli sono estranei sia il “sedano” che le disfunzioni sessuali, hanno conseguito ut mos erat una doppia guarigione.
Mancano inoltre in area bizantina riferimenti al patronato galattogeno di Sant’Eufemia mentre per quanto concerne San Biagio, aspetto questo decisamente rilevante, non risulta nelle aree montuose -in cui si esercitava in particolar modo la pastorizia e l’attività di trasformazione della lana – alcun riferimento protettivo nei confronti degli addetti alla scardassatura. E non solo nei territori balcanici e caucasici ma anche in altre aree, come si evince da quelle particolari ed importanti testimonianze devozionali che sono appunto i santini.
Nell’Europa occidentale sia i santini stampati fin dalla prima metà del ‘500 dai fratelli fiamminghi Wierix che quelli tedeschi prodotti nella Germania meridionale, giungevano – come scrive V. Pranzini nella sua Storia breve del Santino – fino alla Russia, grazie “a stuoli di venditori ambulanti provenienti da villaggi di povere valli alpine”, i quali avevano anche l’importante compito di riferire al loro ritorno eventuali “varianti” su culti già conosciuti, oppure particolari e poco noti patronati esercitati in loco dai vari santi, al fine di aggiornare la produzione dei santini sotto l’aspetto protettivo e devozionale ed agevolarne la vendita.
Per quanto concerne San Biagio risultano predominanti nei Paesi dell’Europa orientale le immagini in cui il Santo vescovo è ritratto accanto a fanciulli con due candele incrociate sulla gola, mentre è assente ogni riferimento al martirio subìto secondo il racconto agiografico mediante lo scardasso.
L’assenza in area mitteleuropea di ogni riferimento iconografico allo scardasso è senz’altro illuminante e contrasta con quanto avviene di norma nel culto di molti Santi, raffigurati con lo strumento del loro martirio (per esempio S. Apollonia con le tenaglie con cui le furono strappati tutti i denti, S. Caterina con la ruota ecc.) oppure con gli organi del corpo che subirono il martirio, come per esempio Santa Lucia e Sant’ Agata, le cui immagini presentano rispettivamente, oltre alla “palma”, gli occhi e i seni evidenziati di solito nei dipinti e negli stessi santini in un piccolo vassoio sorretto dalle stesse Martiri.
Ascritto in area bizantina alla categoria dei Santi anargiri ed in quella mitteleuropea fra i 14 Santi Ausiliatori (Vierzehn Nothelfer), San Biagio si arricchisce tuttavia con il trascorrere del tempo di particolari patronati che nel mondo protestante e soprattutto nella liturgia della chiesa evangelica appaiono non di rado sorprendenti e contraddittori. Nel X secolo, scrive per es. A. Di Nola, San Biagio risulta nel Manoscritto 111 di San Gallo “protettore dei porci” (dunque di animali indispensabili alla famiglia rurale ma pur sempre “voraci”) insieme a San Giovanni Battista e San Martino, godendo presso le popolazioni rurali che vivevano ai margini dei boschi e nutrivano i suini con le ghiande di una particolare devozione sostituita più tardi da quella per S. Antonio Abate e diffusa dagli Antoniani.
Ad un ambito mitteleuropeo e non armeno, come dimostrano anche i primi santini, sembra doversi ascrivere pertanto l’episodio agiografico del lupo, che su intercessione di San Biagio riconsegna ad una povera donna un maialino catturato dal famelico animale, “re della steppa e dei boschi”. L’episodio da un lato conferma l’importanza dell’allevamento dei maiali nel mondo rurale europeo, già evidenziata in particolar modo dal Duby e soprattutto da A. Di Nola ne “Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana”, e dall’altro offre la possibilità di ascrivere San Biagio alla schiera dei Santi (soprattutto benedettini, come S. Domenico di Cocullo, S. Amico, S. Franco di Assergi, S. Guglielmo ecc.) definiti “domatori dei lupi e delle fiere”.
Quest’ultimo aspetto, presente nei racconti agiografici sorti e diffusi in particolar modo in aree cattoliche mitteleuropee, sembra confermare un antico patrocinio di San Biagio sugli animali, specie quelli “da cortile” assai importanti per la vita dei ceti rurali, esercitato come si è detto prima della diffusione in Europa dell’ordine degli Antoniani.
Queste remote connessioni cultuali fra S. Antonio Abate e San Biagio, il quale aveva un proprio altare (il più antico forse in Abruzzo) nell’Abbazia di San Clemente a Casauria, residuano in alcune inchieste ed in particolare in quelle condotte nell’area del medio corso del Pescara, dove non a caso San Biagio era ritenuto – ancora nei primi decenni del ‘900 – protettore degli animali domestici e da cortile.
Il valore apotropaico dei vari pani (sui quali ha indagato G. Di Matteo) mangiati a devozione di San Biagio e confezionati nelle varie forme e denominazioni locali, dalle panicelle di Taranta Peligna (citati da E. Stinziani), alle ortali della Marsica (descritte da G. Palma) fino alle diverse tipologie delle ciambelle o del ciambellone di Bussi sul Tirino, si proietta così – come nel caso dei pani di S. Antonio Abate e di altri Santi – anche nei confronti degli animali, soprattutto equini e bovini, che svolgevano un ruolo importante nell’ambito dell’economia contadina.
D’altro canto la destinazione dei pani di San Biagio agli animali ed in special modo alle mucche affinché producessero più latte, è assai documentata nei Sinodi Diocesani del XVII secolo ed in particolare due studiosi, C. Corrain e P. Zampini, hanno accertato in una importante ricerca dal titolo Documenti etnografici e folkloristici nei Sinodi Diocesani italiani anche l’uso di pani “in forma della placenta della Madonna”, che venivano confezionati e mangiati devotamente nella ricorrenza della Immacolata Concezione.
Secondo una Passio del VI secolo Biagio, medico e vescovo di origine armena, subisce come sembra il martirio nel 316 con un grosso pettine di ferro, lo scardasso appunto, che diventa come si è detto una vera e propria leggenda di fondazione per i cardatori che operano nei Paesi cattolici nell’industria e nella trasformazione della lana. Essi appaiono liberamente riuniti in associazioni artigiane le quali – sottolinea C. Felice – “solo nei centri più grandi assurgevano al rango di corporazioni nel senso medievale del termine”.
Dai più antichi documenti etnografici ed agiografici risulta tuttavia che la figura di San Biagio si carica di patronati e “segnali” diversi nel corso della sua diffusione nei Paesi dell’Europa occidentale e che nell’ambito di ciascuna area geografica il culto si presenta fortemente storicizzato e frantumato in un mosaico devozionale, la cui lettura non sempre risulta agevole allorché si tenta una sua decodificazione ed interpretazione.
R. Beitl, che si è interessato del culto in area tedesca, conferma che già nel VI secolo il nostro Santo veniva invocato in area mitteleuropea contro il mal di gola, ma non si dilunga sull’origine di tale leggendario patronato, scaturito forse in ambienti curiali ed ecclesiastici che si sono ispirati al noto racconto agiografico, in base al quale è la madre che prega vivamente San Biagio affinché estragga dalla gola di un bimbo una spina di pesce che minacciava di soffocarlo.
Ciò che appare interessante nel fenomeno della diversificazione e localizzazione degli aspetti agiografici è quanto sottolinea il Wörterbuch der deutschen Volkskunde in merito al culto di San Biagio in Austria e nella Germania Meridionale, dove già nel XII secolo, come rileva anche H. Delehaye, emergono “motivi leggendari” del tutto estranei alla tradizione della Chiesa bizantina.
Nei Laender cattolici tedeschi, Biagio è considerato infatti protettore degli animali domestici (Haustiere) e tale patronato, esclusivo, si sarebbe protratto fino al XII secolo allorché si comincia a registrare in tutta l’Europa occidentale la diffusione dell’ordine degli Antoniani.
Tuttavia R. Beitl riferisce che gli animali da cortile, rituale questo estraneo agli Antoniani ed ancora diffuso in alcuni villaggi della Germania centro-meridionale nella prima metà del Novecento, venivano nella ricorrenza di San Biagio simbolicamente “strozzati” e guariti con la cera benedetta il 3 febbraio, la qualcosa è apparsa a F. Boehm “un rite de passage” applicato anche agli animali da cortile. Questa ipotesi viene ribadita anche da H. Delehaje ne Les légendes hagiographiques, allorché il grande Bollandista sottolinea la forte “localizzazione” degli Acta relativi sia al Santo vescovo armeno che ad altri determinati Santi.
In Tirolo San Biagio è per esempio il patrono degli agenti atmosferici e soprattutto del vento, perché al verbo blasen (soffiare) si riconnette la derivazione del nome Blasius e perciò il Santo, specie nell’Europa settentrionale, è assurto a patrono dei mulini a vento, dei mugnai nonché dei suonatori di strumenti a fiato (Blaeser).
Non meno interessante, nell’ambito del fenomeno della “localizzazione”, appare la derivazione del nome Biagio dall’aggettivo blasius, il quale – ricorda E. Giancristofaro – significa in latino “balbuziente” e pertanto San Biagio era per evidenti motivi anche il protettore degli avvocati.
La fine dei venti impetuosi è indice un po’ ovunque in Europa della fine dell’inverno, la quale – come si crede – è da ricollegarsi proprio al dies natalis di Biagio, cioè al 3 febbraio:
“Der heilige Blasius (lett.: Il Santo Biagio)
macht den Winter lus” (caccia l’inverno).
Questa credenza, collegata alla prima settimana di febbraio, è confermata d’altro canto in diverse aree italiane da un detto assai comune ed espresso con valore paremiologico nei vari dialetti:
Alla Candelora
dall’inverno siamo fuori.
Agli aspetti devozionali, comunque noti, fanno riscontro tuttavia alcune simbologie che s’impongono alla nostra attenzione per la loro peculiarità e lasciano insorgere il dubbio che esse costituiscano residui di miti antichissimi confluiti nel culto di San Biagio e caduti in disuso con il trascorrere del tempo. È quanto suppone a giusto titolo I. Di Nardo a proposito dell’unzione della gola mediante una penna di gallina o di colomba, rituale che le inchieste definiscono ormai “desueto” e quasi in via d’estinzione, perché oggi la sacra unzione viene effettuata per lo più con le dita da parte del sacerdote officiante.
Le “penne” hanno sempre costituito – come ricorda opportunamente P. Furia nel suo “Dizionario iconografico dei Santi” – il “simbolo d’elevazione dalla terra al cielo”. Sicché l’attributo iconografico ed “individuante” di molti santi, da Santa Colomba di Sens, la quale invece della palma ha per simbolo del suo martirio una penna di pavone, fino ai santi vescovi ravennati “colombini”, eletti da S. Apollinare in poi su indicazione di una miracolosa colomba, è stato per qualche tempo una penna di colomba. Per tacer poi del fatto che in molti quadri ed affreschi relativi al mistero della Trinità è presente una “colomba, che simboleggia la luce del Padre” oppure “lo Spirito Santo”.
La ricerca promossa dalla Soprintendenza ed affidata ad un gruppo di studiosi, decisamente encomiabili per i risultati conseguiti, va considerata dunque un fondamentale lavoro di rilevamento sia degli aspetti cultuali, che residuano in un’epoca di desacralizzazione dell’uomo e dell’ambiente, che di sintesi fra le varie localizzazioni cultuali.
Attraverso un’indagine storico-documentaria ed una ricerca “sul campo” gli Autori dell’inchiesta sono riusciti a ficcar lo viso a fondo nella complessa devozione di San Biagio che si presenta ancora viva in Abruzzo non solo nei centri posti lungo le direttrici o i segmenti tratturali, ma anche nell’immediato entroterra della fascia adriatica. Il racconto su San Biagio registrato dal De Nino ad Ortona ed apparso nel IV volume degli Usi e costumi abruzzesi (1883) costituisce per esempio un episodio illuminante dello “sdoppiamento della figura del Santo”, il quale trasferisce tutti i suoi poteri taumaturgici su ogni persona umile, purché devota, dato che – ricorda il De Nino – “il divoto di San Biagio può fare da medico”.
Il “responsorio” di Ortona risulta inoltre di particolare interesse perché ascrivibile alla cosiddetta tipologia “a scalare”, in cui dal magico numero nove (tre volte tre) contenuto nel primo verso:
Sante Biasce, de nove fratelle,
si perviene all’ultimo in cui resta solo San Biagio, per intercessione del quale l’operatore produce l’eliminazione di grumi, nodi e comunque di qualsiasi sostanza che possa ostruire la gola ed impedire di respirare.
Il “responsorio”, che agisce in via preventiva ed in funzione apotropaica, è accompagnato da uno strofinamento votivo della gola mediante il pollice e l’indice, ma un tempo il rituale si svolgeva forse con una piuma di gallina o di colombo. Sono frequenti infatti i casi, come accertato per esempio a Vittorito (Aq.), in cui alla tradizionale unzione mediante la “piuma di gallina” (in mancanza di quella di colomba) si è sovrapposta su iniziativa del clero locale l’unzione della gola con le dita oppure con la candela intinta nell’olio benedetto, nel tentativo forse di ovviare ad un cerimoniale che si svolgeva nei secoli passati in un modo decisamente diverso e di cui non si riusciva a comprendere le complesse funzioni. Pregna com’è di sincretismi magico-religiosi e di riferimenti alle virtù curative dell’olio, l’unzione della gola mediante una piuma non sembra infatti scaturire da motivi igienici, preposti ad evitare durante il cerimoniale dell’unzione che tracce d’olio restino sulle dita del sacerdote celebrante. Ma v’è di più.
Il patronato di San Biagio contro il mal di gola viene ricondotto come si è detto ad un miracolo compiuto dal Santo nei confronti di un bambino che correva il pericolo di morire soffocato a causa di una lisca di pesce. Secondo H. Delehaje tale leggenda, che sarebbe stata diffusa in occidente soprattutto dai monaci basiliani, non trova riscontri se non in fonti agiografiche tarde che rivelano anche un aspetto “inedito”, cioè la ricerca affannosa di presunte reliquie del Santo, la quale ha dato luogo in seguito alla formazione di leggende diffuse a bella posta dai vari ordini religiosi e pregne anche di blasone popolare.
La più nota è certamente quella di Maratea, dove le reliquie di San Biagio – secondo uno schema agiografico tipico e ben messo in luce da G. Profeta – pervengono nel 732 a seguito del naufragio della nave che doveva trasportarle al porto di Ostia ed infine, attraverso il Tevere, a Roma. Come in casi analoghi, il naufragio viene interpretato un segno della volontà di San Biagio, il quale preferisce che le sue reliquie restino a Maratea e non siano trasportate a Roma.
Non meno interessante è la diffusione del culto di San Biagio a Penne (Pescara), città vestina di cui il Vescovo di Sebaste è Protettore insieme a San Massimo.
Qui il racconto agiografico è ben evidenziato da M. C. Semproni, ma la rappresentazione delle rivalità fra Domenicani e Minori conventuali trova in fra’ Serafino Razzi un osservatore eccezionale allorché il dotto Domenicano soggiorna a Penne nella primavera del 1586.
Il Razzi testimonia l’esistenza in loco di una confraternita, chiamata Compagnia di San Biagio, e soprattutto l’uso di confezionare da parte dei fedeli nella ricorrenza del 3 febbraio una grande “quantità di bucciatelli o vero Taralli o pane”, un pane che pur “conservato molti anni mai si corrompe, o muffa.” ; la qual cosa – conclude il Razzi – “si dee a miracolo ascrivere”.
Sul generale potere apotropaico del pane, confezionato in onore di San Biagio e di altri determinati santi in occasione delle rispettive festività, il Razzi ci offre una delle prime testimonianze in area abruzzese della confezione di pani votivi, ma con qualche particolarità degna di rilievo. Questo “pane” infatti veniva mangiato devotamente, scrive il Razzi, da coloro che avevano “male alla gola o testa” e quest’ultimo patronato contro il mal di testa, esercitato in Abruzzo anche da santi “non decollati”, come per esempio S. Urbano a Bucchianico e S. Colomba ad Isola del Gran Sasso, si deve al fatto – sottolinea B. Carderi, il quale ha curato i Viaggi in Abruzzo del Razzi – che San Biagio “subì il martirio della decapitazione all’epoca di Licinio (307- 323)” e non – come affermano numerosi racconti agiografici – mediante lo scardasso, attrezzo che costituisce come è noto un costante riferimento iconografico del Santo nella religiosità popolare abruzzese.
A Penne, sottolinea ancora il Razzi, si conserva “la sacra Testa” del santo vescovo di Sebaste, che era stata sottratta a Ragusa – “la Repubblica di San Biagio”- da due monaci di Penne appartenenti “uno all’Ordine di San Domenico e l’altro ai Minori”.
Su tale episodio leggendario fra’ Serafino Razzi stila addirittura, mentre soggiornava nel 1586 a Penne, una “Relazione sincera della venuta nella Chiesa di San Domenico di Penna della venerabile Testa di San Blasio Martire”, la quale decisamente non reclama commenti…
La “guerra” fra i vari ordini religiosi e fra diversi santuari per il possesso di presunte reliquie autentiche (e con il conseguente richiamo di folle di pellegrini sempre generosi in fatto di offerte…) è un argomento troppo noto e sul quale non conviene soffermarsi, anche perché in passato questo fenomeno ha dato luogo a vicende grottesche su cui solo in rare occasioni la Curia Romana è stata costretta ad intervenire per dissipare dubbi e restaurare certezze.
Ricorderemo in proposito solo un episodio. Scrive G. Profeta che papa Pio VI, al secolo Giannangelo Braschi, dopo la sua elezione al Soglio di Pietro avvenuta nel 1775, restò impressionato dal grande numero di denti di Sant’Apollonia, venerati nelle chiese e nei vari santuari italiani ed europei per il loro supposto patronato antiodontalgico. Pertanto, egli ordinò che tutti questi denti fossero portati a Roma e dopo aver constatato che avevano raggiunto l’incredibile peso di 3 kg., ordinò che fossero messi in un “bauletto” e gettati nel Tevere!
A parte le incertezze sulle presunte reliquie, disseminate un po’ ovunque nelle nostre chiese e mai elevatesi – a differenza di quella di Ragusa – a livello di “santuario”, vi sono forti dubbi sulla vita di San Biagio, già evidenziati del resto dai Bollandisti, malgrado notevoli contributi scaturiti – specie per l’area abruzzese – da una mostra organizzata nel febbraio di quest’anno a Castiglione a Casauria da A. Varrasso sul tema San Biagio nella storia.
Una “storia” che a ben osservare sembra fortemente influenzata dai fantasiosi racconti di Jacopo da Varagine e dalle immagini contenute in un codice miniato del XIV secolo conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, le quali tuttavia costituiscono solo alcuni tasselli del variegato mosaico cultuale che emerge dalle interessanti inchieste sul campo condotte in Abruzzo.
Fra le suddette immagini più che la tela seicentesca dell’Adorazione dei pastori, serbata nella chiesa di San Marco a Castel del Monte (Aq.), è il quadro ad olio settecentesco conservato a Scoppito (Aq.) nella chiesa di San Bartolomeo e dal titolo San Biagio e Sant’Antonio Abate, sul quale si vuol fortemente richiamare l’attenzione.
Non sono poche, infatti, le immagini che mostrano i due Santi venerati nella stessa chiesa e quasi soggetti ad identico culto soprattutto per la protezione assicurata agli animali, esposti durante le fiere che avevano luogo un po’ ovunque nei nostri paesi nella ricorrenza del 3 febbraio e nel corso delle quali – particolare questo assai significativo ed evidenziato nell’inchiesta di R. Carretta – venivano acquistati i maialini da allevare durante l’anno.
In tale giorno, tuttavia, v’era un aspetto particolare che contraddistingueva la festa di San Biagio da quella di Sant’Antonio Abate, assai temuti dai ceti rurali insieme a San Sebastiano in caso di violazione di norme rituali codificate, donde il detto assai comune in Abruzzo: Guàrdete da lu Varvùte (S. Antonio), da lu Furzùte (S. Sebastiano) e da lu Garzarùte (S. Biagio), protettore del “gargarozzo”, cioè della gola.
Dalla attenta ricerca di F. Balassone, condotta nei centri dell’Aquilano, si evince che la ricorrenza di San Biagio, in ricordo forse del miracolo della lisca di pesce sottratta alla gola di un fanciullo, era anche la festa dei bambini cui si donavano vari dolciumi, fichi secchi ed arance, quest’ultime con valore primiziale come nella festività di S. Antonio Abate a Collelongo: una festa di Epifania posticipata dunque che veniva a coincidere con la rifondazione dell’anno agrario nei primi giorni di febbraio, quando appunto secondo il calendario del mondo rurale “dall’inverno siamo fore”.
Inoltre – e questa appare la particolarità più interessante – la Balassone ha rilevato a Vittorito l’esistenza di un tradizionale e pantagruelico banchetto familiare ancora in uso, secondo una anziana contadina del luogo, negli Anni Cinquanta del ‘900 e nel corso del quale i partecipanti recitavano una breve strofa votiva dal valore liberatorio, come se si trattasse – secondo il pensiero di M. Elide – di un rito di “rifondazione del tempo” per il Nuovo Anno agricolo, con riscatto delle tensioni accumulate durante l’inverno:
Sante Biasce scé rengraziate,
ce facemme ‘na magnate
de pane bianche e macccarune
queste è la magnate de je cafiune.
Di rilevante interesse risulta nella strofa l’accenno al “pane bianco” ed ai “maccheroni”. Il primo è stato infatti e da sempre il simbolo della distinzione fra l’alimentazione dei poveri e dei ricchi, l’estremo desiderio di chi, in procinto di morire, voleva assaggiare – forse per la prima volta nella sua vita – il pane bianco dei “signori”, somministrato quale lugubre viatico prima del grande viaggio.
A tal riguardo vanno ricordate due espressioni che sopravvivono nei vari dialetti nella cultura popolare abruzzese per indicare chi è moribondo: l’hanne misse a pane bianche, oppure a pane de grane. Entrambe sono pregne di esistenziale drammaticità, documentata per le popolazioni del regno di Napoli nella famosa Statistica Murattiana del 1811. I redattori delle varie Province abruzzesi sottolineano nelle loro inchieste promosse da G. Murat anche la “preziosità” e la rarità dei maccheroni, i quali facevano la comparsa sul desco dei ceti rurali solo nei momenti più importanti del ciclo dell’uomo e dell’anno. Tant’è che ancora oggi a Cansano (Aq.) i maccheroni vengono chiamati la pasta delle nozze, a conferma della loro rarità documentata in periodo post-unitario anche dalla famosa Inchiesta Jacini.
San Biagio appare dunque nella strofa rilevata a Vittorito come un santo dell’abbondanza. Questo aspetto non costituisce una novità, ma rappresenta invece la continuità di una tradizione, poco studiata in realtà, che si è mantenuta sempre viva nel mondo rurale, afflitto dal problema della fame e perennemente a contatto con “il tesoro della povertà”. Egli, per esempio, viene invocato in un antico documento da alcuni mandriani affinché le loro gole – come ci informa Vittorio Lanternari in Medio evo e campagna – non fossero mai esenti dal “passaggio del cibo”.
Una particolare gola è costituita anche dalla bocca del forno dove si cuoce il pane e dall’interessante indagine condotta da F. Giuliani, M. Grilli e A. Valerii risulta pertanto che in molti centri del Teramano i forni vengono benedetti dal sacerdote officiante nelle prime ore del mattino del 3 febbraio e tale “benedizione” si estende non solo a tutti i prodotti “sfornati” nella giornata, soprattutto ai taralli, ma anche ai negozi di generi alimentari dove essi vengono condotti per la vendita. Ma vi sono altre importanti “gole”, come appunto le “porte” delle città, che meritano una pur breve menzione.
Se infatti le immagini di S. Antonio da Padova (non quelle di S. Antonio Abate!) proteggevano dal fuoco i centri urbani ed erano affrescate in funzione protettiva nelle lunette o nelle edicole votive, le candele di san Biagio venivano poste alle porte delle cinte murarie affinché l’afflusso delle derrate alimentari, indispensabili per il nutrimento dei devoti abitanti, non venisse mai a cessare.
Nell’ambito della struttura urbanistica medievale le chiese dedicate a San Biagio – fenomeno questo tipicamente italiano – venivano edificate dunque per tradizione nei pressi delle porte cittadine. Queste assumevano pertanto lo stesso nome del Santo vescovo e venivano considerate le gole di ogni comunità, come le piazze e le strade ne erano rispettivamente il cuore e le arterie, nell’ambito di una concezione che equiparava la funzione degli organi del corpo umano a quella delle strade e delle piazze in seno al tessuto urbano.
Questa funzione apotropaica svolta dalle “candele di San Biagio” si arricchisce così di inquietanti e contraddittorie simbologie che hanno modo di manifestarsi soprattutto nella nostra epoca.
Al rito della protezione della gola, cui nel giorno di San Biagio si sottopongono devote comunità che, pur fra tanti problemi, non avvertono il dramma della fame, si contrappone infatti una umanità dolente fatta di extra-comunitari e comunque di poveri che vivono ai margini della nostra società e che non di rado notiamo accasciati davanti al sagrato delle chiese, mentre invano tendono verso di noi le loro mani in cerca se non di un aiuto materiale almeno di pietà cristiana.
Per questi derelitti, che indossano il perenne vestito della povertà, madre della fame, la benedizione della gola deve apparire un rituale decisamente incomprensibile, se non superfluo e grottesco.
Sicché non a caso nella preghiera contenuta in un santino, recentemente stampato a Cappadocia (Aq.), si invoca il patrocinio di San Biagio non solo “per tutti i mali di gola, ma specialmente per dominare il vizio della gola” ed effettuare così una ingenua e fittizia ridistribuzione del cibo fra ricchi e poveri. Ma de hoc satis. Quelle che abbiamo riferite sono infatti solo alcune fra le numerose considerazioni che suscita il Saggio-inchiesta promosso dalla Sovrintendenza Regionale per il Patrimonio etno-antropologico dell’Abruzzo. Per gli altri aspetti, assai interessanti, che fanno di Biagio un Santo latore di un messaggio decisamente attuale ed inquietante per la nostra società, si fa rimando alla lettura del volume, il quale costituisce – giova sottolinearlo – una indagine condotta con rigore scientifico ed un saggio etnografico pregno di stimoli, che non mancherà di affascinare il lettore.
Franco Cercone