MEMORIA SULLA COLORAZIONE DELLE STOFFE TRATTA DAL CARTAMO INDIGENO
[Contributo di Cercone Franco pubblicatoin “Rivista Abruzzese”, Anno LXX – N.1, Lanciano 2017.]
Nell’Archivio di Stato di Chieti [Coll. Società Economica, Busta 1, Anno 1829], si conserva un documento esposto in occasione di una manifestazione svoltasi tempo fa a Lanciano e sul quale potemmo dare solo uno sguardo fugace.
Si tratta di una “Memoria sulla colorazione delle stoffe con i colori giallo e rosso tratti dal cartamo indigeno”. Il documento è corredato in parte anche di un Carteggio intercorso nel gennaio del 1828 fra il Reale Istituto di Incoraggiamento di Napoli (all’epoca organo, per così dire, di “Ricerca Scientifica”) e l’Intendenza della Provincia di Abruzzo Citeriore. Una breve comunicazione dell’Intendente di Chieti, Ufficio Affari Generali, datata 10 gennaio 1829, chiarisce subito l’Oggetto, o se si vuole il motivo di questo rapporto epistolare, da cui stralciamo solo le notizie essenziali che in tale sede interessano. L’Intendente di Chieti conferma al Presidente del Real Istituto di Napoli: “Ho il bene assicurarLa che in questa Provincia non vi sono fabriche per tingere il cotone filato in rosso fino”, procedimento questo che non incontrava invece difficoltà nella tintura della lana con la robbia, come ben sapevano i nostri ceti rurali.
Più interessante è la missiva del 30 dicembre 1828 rivolta al Presidente della Reale Società Economica della Provincia di Chieti, investita evidentemente dello stesso problema, il quale informa tuttavia che alcuni tentativi per la tintura del cotone filato in rosso fino od in giallo, utilizzando il cartamo indigeno, erano stati effettuati con successo da Don Vinceslao De Sanctis, membro della Società Economica della Provincia, il quale informato del problema aveva trasmesso a Napoli alcuni campioni di tinte da lui eseguite con il cartamo indigeno anche sulla seta e sul lino.
Il cartamo, come è noto, è una pianta erbacea delle “composite” (carthamus officinalis), detto come ci informa autorevolmente Aurelio Manzi tinctorius o zafferanone [i], con foglie spinose, fiori gialli a corolla e frutti simili a quelli del girasole. I fiori, dai quali si ricava una sostanza colorante, sono talvolta impiegati per “sofisticare” lo zafferano.
Secondo alcuni studiosi il nome cartamo deriva dal latino medievale carthamus e questo dall’arabo
Qurtùm. Il colore rosso ottenuto dal cartamo per le tinture risultava più persistente rispetto alla robbia, con cui specie le nostre genti di campagna tingevano di rosso le maglie di lana.
Nella sua citata Memoria sulla colorazione delle stoffe con i colori giallo e rosso, tratti dal cartamo indigeno, Vinceslao De Sanctis, socio ordinario della Società Economica della Provincia di Chieti, esordisce sottolineando quanto segue:
“Ho eseguito i Saggi di colorazione col cartamo coltivato (a Chieti) nel giardino della Società, onde conoscere il merito della parte colorante gialla e rossa…comparata col cartamo di levante…. Comunemente il colore giallo del cartamo è disprezzato e non viene impiegato nell’arte tintoria, forse o perché con poca spesa si ottiene da altre piante indigene, soprattutto dai fiori della ginestra o dal buftalmo (sic), nonché dal legno giallo esotico, o perché quello che si ottiene da questi è più bello e permanente di quello”.
Insomma ottenere il color rosso o giallo dalle piante era facile, ma il problema era quello di trovarne una che non stingesse i tessuti di lino e cotone, come avveniva per esempio con la robbia, assai in uso presso il mondo rurale abruzzese per la tintura della lana.
La Memoria sulla colorazione delle stoffe del Teatino Vinceslao De Sanctis ci offre pertanto la grande occasione di sintetizzare tutte le nostre conoscenze sulle erbe e piante tintorie citate in Abruzzo per lo più da Autori del XVIII e XIX secolo, tralasciando quelle contenute nella Storia Naturale di Plinio [Cap. XIII e sgg.].
E ci piace iniziare con l’opera di Giuseppe Maria Galanti, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie,[ii] il quale sottolinea: “I monti dell’Abruzzo, specialmente la Maiella, sono pieni di erbe aromatiche e medicinali. Vi si trovano alcune erbe da tingere, delle quali fanno uso le genti povere. Coll’erba detta frondicella, che nasce sugli Appennini, tingono le stoffe a colore verde e giallo”.
Lo storico di Roccaraso, Vincenzo Giuliani, scrive[iii]nel 1788 “Nell’Aquilano si è cominciata ad introdurre la coltura del guado. Vi si coltiva anche qualche poco la robbia”.
A tal riguardo giova ricordare quanto scrive il Viaggiatore tedesco Alfred Steinitzer nel Saggio Tre Settimane negli Abruzzi (1909): “Da l’Aquila la strada conduce verso il fertile bacino di Paganica … Tutti i campi sono ben seminati di tanto in tanto di rubia tinctorum, dalle cui radici si ricava una bella robbia rossa”, con cui gli Abruzzesi fino al secolo scorso hanno colorato di rosso i loro vestiti.
Chi ci ha lasciato tuttavia in modo inaspettato un Saggio omogeneo sulle tinture negli Abruzzi e non del tutto conosciuto dagli studiosi, è stato Antonio De Nino, il quale nel vol. II degli Usi Abruzzesi[iv], ci ha lasciato un ampio e forse inaspettato capitolo sulle “Tinture domestiche” ed in particolar modo sulla robbia, l’erba tintoria che in tale sede particolarmente interessa. Egli esordisce chiedendo: “Chi è che non conosce l’uso del campeggio, sotto il nome di scotano, schiappo o legno? Con il campeggio si tingono in nero gli abiti da uomo e da donna ad Introdacqua e Scanno”.
È questa l’occasione per ricordare tuttavia che il colore nero degli indumenti in montagna ha la specifica funzione di assorbire e trattenere il calore dei raggi del sole e quindi ha poco a che fare, come scrivono invece alcuni scrittori patrii, con lo stato vedovile.
Nota comunque il De Nino:
“Nelle case civili già si conosce l’indaco, la cocciniglia e oggi l’anelina. Le vesti delle Scannesi non si recano già al tintore. Non c’è famiglia a Scanno, che non sappia tingere da sé. Si tinge prima con l’indaco la lana in fiocchi, e poi si fila e si tesse, e il tessuto si tinge con le foglie dell’ornello, per cui la stoffa piglia un colore verde-cupo, tale da non perdere mai d’intensità…A Pratola Peligna, Roccacasale e Prezza, c’è l’uso della tinta di robbia, pianta che chiamano roja, corruzione di robbia…. Le donne dei tre paesi su indicati portano sempre, in ogni stagione, il grembiule di lana rossa e nell’inverno poi, anche rossa, una camiciola di lana. La robbia nei nostri paesi cresce spontanea o vicina alle siepi o nei terreni inculti, o anche fra le vigne. Non pare che se ne faccia una coltivazione apposta. Certo è che la robbia, coltivata, sarebbe migliore, perché più polputa e fresca, e da preferire a quella di Levante che ci somministra il commercio. Ma le nostre donne si servono della robbia spontanea che abbia almeno tre anni di esistenza. Le radici non mature, o corrose dagli insetti, si sogliono rifiutare. Il colore delle buone radici deve essere giallo-rosso o ranciato, e l’odore grave e piacevole. Chi compra questa robbia, la paga più o meno cinque soldi al chilo; e nel farne uso, mette un chilo e un terzo (circa quattro libbre) in ogni terzo di chilo di lana da tingere. La prima operazione tintoria comincia con lavarsi la robbia, e lavata che è, si scotola e si fa sgocciolare ben bene; e si pesta in un mortaio di pietra o anche, un po’ per volta, sopra un tavolone. La pasta che ne risulta, si fa seccare all’aria libera; allora diventa gradatamente rossa. Le donne più diligenti bagnano con acqua questa pasta e la fanno asciugare, ripetendo la stessa operazione tre o quattro volte. Dicono che con questi ripetuti bagni, la pasta tintoria vada sempre più migliorando. La lana, in filo o in tessuto, quando è bene imbiancata, si fa bollire in un caldaio. Dentro, per ogni terzo di chilo di lana, ci si mettono due soldi di ‘allume di rocca’, con 648 grammi di tartaro polverizzato, detto qui la rascia, e lu rasciaro chi la va comprando per le fabbriche dei cremori. Fornita l’ebollizione, la lana si lava e si spande per farla asciuttare. Allora si mette di nuovo in un caldaio con la robbia ridotta in pasta, e vi si fa bollire un’ora o due, secondo che voglia un colore più o meno denso. Cavata la stoffa dal caldaio non ci vuole altro che una buona sciacquatura, e la tinta è fatta”.
Gli esperimenti sul cartamo effettuati a Chietida parte di Vinceslao De Sanctis, venivano a coincidere con gli interessi del Real Istituto di Incoraggiamento di Napoli, dove si compivano ricerche sulla tintura in rosso non della lana, ma del “cotone”, che all’epoca facilmente stingeva essendo restio ad ogni tentativo di conservazione del ‘color rosso’ e quindi, come è da ritenersi, non adatto alla commercializzazione; mentre il Real Istituto voleva lanciare questo prodotto sui mercati europei, soprattutto per creare concorrenza alle manifatture del cotone inglese.
Ora i tentativi fatti da Don Vinceslao De Sanctis sull’uso ottimale del cartamo indigeno, sono riassunti dallo studioso teatino alla fine del Saggio come segue e li riportiamo testualmente pur trattandosi di materia non facilmente comprensibile:
“I – Il color rosso del cartamo non è applicabile che al solo cotone ed alla seta cruda.
II – Gli acidi solforico e nitrico diradati nell’acqua, e l’acido del limone, agiscono nello stesso modo nel processo di colorazione, come vi agirebbe l’acido acetico, e l’acido assorbico.
III – La gradazione del rosso dall’oscuro sino al chiaro è dovuto alla maggiore o alla minore quantità di materia colorante, ossia dell’acido cartamico che precipita sulla stoffa.
IV- I bagni serviti per la colorazione in rosso non restano inutilizzati, dopo che essi possono valere a dare il colore di arancio alla seta cotta.
V- Il cartamo indigeno non è inferiore all’esotico”.
L’estroso studioso teatino illustra infine a mo’ di conclusione la possibilità di realizzare “varii belletti per uso delle donne galanti”, mediante appunto la polvere del cartamo nostrano, mettendo in luce così l’importanza delle indagini fatte da un ricercatore solitario, come appunto era Vinceslao de Sanctis. Ci appare giustificato pertanto il suo richiamo, quando a mo’ di chiusura del suo Saggio esclama: “Abitanti della Provincia di Chieti, scuotetevi e siate sensibili alle voci della Società!”.
Franco Cercone
[i] A. Manzi, Origine e storia delle piante coltivate in Abruzzo, p. 226; R. Barabba Ed., Lanciano 2006.
[ii] Tomo III, Libro X, Napoli 1794, p. 48°.
[iii] Ragguaglio istorico della Terra di Roccaraso e del Piano delle Cinque Miglia, p. 56; a cura di E. De Panfilis, Teramo Edigrafital 1991. Le donne di Roccaraso chiamavano quest’erba tintoria “frondicella”.
[iv] P. 121 sgg., Barbera Ed. Firenze 1881.