Un pensiero sbocciato un Natale di tanti anni fa
di Giuseppe Ignesti e Giancarlo Infante
26 dicembre 2022
Sono oramai anni che si pone il problema della presenza politica dei cattolici. Il paradosso è che soprattutto una parte molto avvertita del mondo laico, in particolare dalle colonne de “Il Corriere della Sera”, ha rafforzato il convincimento di quei pochi che, come noi, hanno posto apertamente da anni la questione di una presenza autonoma organizzata politicamente. Del resto, è da tempo che siamo costretti a registrare i ripetuti fallimenti cui sono andate incontro le ipotesi che stanno alla base della cosiddetta diaspora dei cattolici in politica e del privilegiare l’idea di sparpagliarsi un po’ in tutti i partiti, o quella di dedicarsi alla formazione, oppure ancora, di darsi solamente all’impegno sociale. Salvo poi ritrovarsi senza la capacità d’incidere in sede legislativa e di gestione della cosa pubblica e limitarsi a pretendere la concessione di una qualche posizione solamente perché si rappresenta uno dei tanti pensieri politici storicamente radicati nel Paese.
La reazione a tutto ciò, la consapevolezza che, come richiede la politica, si debba avere il coraggio almeno di provare a prendere il proprio destino nelle proprie mani, ha portato alla nascita, prima, di Politica Insieme e, poi, di INSIEME. Eppure, ci erano note molto bene tutte le difficoltà proprie di un Paese che ha ridotto la politica a mera accumulazione di voti e di una propensione dei cattolici a dividersi in mille rivoli, in molti casi senza una giustificazione logica apparente.
Ma una logica invece c’è nella diaspora. Molto semplificando, in effetti, esistono tre attitudini preminenti: chi crede ancora nella possibilità di una politica cattolica conservatrice, magari nell’illusione che la destra sia davvero in grado di tutelare la famiglia, il senso della Vita, e intanto su molto si sorvola perché è scomodo parlare a Salvini, alla Meloni e a Berlusconi di giustizia sociale e d’inclusione; chi, inoltre, ha pensato, altrettanto illusoriamente, che il centrosinistra potesse almeno rispondere al problema delle sempre più larghe povertà, disuguaglianze e marginalizzazioni, ampliatesi, invece, dopo la fine dei grandi partiti popolari della cosiddetta Prima repubblica; e chi, infine, come noi, a un certo punto ha detto: “basta” ed ha cominciato apertamente a dire che era giunto il momento di riscoprire il senso della nostra “autonomia”. Un’autonomia che non è solitudine, bensì da intendere e vivere quale pieno riconoscimento di una specificità di pensiero e di metodo politico del tutto scomparsi nel corso dei trent’anni che chiamiamo Seconda repubblica: quella specificità che Sturzo, sulla scia di Rosmini, definiva come la “ragione sussistente” che è dentro ogni realtà della vita e, quindi, anche di ogni partito politico. E che per noi, cattolici democratici nella vita politica, costituisce la nostra ragion d’essere, culturale e programmatica, cioè la “laicità” del nostro impegno partitico.
Tale situazione di vuoto politico, provocato dalla diaspora in mille rivoli del mondo cattolico italiano, è stata a nostro avviso prevalentemente causato dalle scelte in questi anni compiute da tanti cattolici impegnati nella vita pubblica che hanno sacrificato alla logica del posizionamento per schieramento un bagaglio di tradizioni che, poi, si ricordano solo in occasione degli anniversari di Sturzo, di De Gasperi e di Aldo Moro. Celebrazioni cui manca la consequenzialità e rivelano quindi la sola strumentalità “estetica”.
Dopo trent’anni di bipartitismo, che ha finito per consegnare l’Italia a una destra fondamentalmente conservatrice, con un governo fortemente minoritario in termini di consensi effettivi se si tiene conto dell’intero corpo elettorale, il quadro è desolante. Persino i più alti vertici della Chiesa hanno parlato “d’irrilevanza e d’indifferenza” quali risultati tangibili di quel che resta della tradizione dell’impegno pubblico organizzato da parte dei cattolici, a livello istituzionale e politico. Rimane però in sospeso la risposta alla domanda “che fare?”. Quando va bene si parla di prepolitica continuando a perpetuare lo stato comatoso in cui è finita la presenza pubblica dei cattolici che si riferiscono alla Costituzione e al Pensiero sociale della Chiesa. Quelli che hanno scelto la destra estrema escono chiaramente da una tale considerazione.
Alla Vigilia di Natale del 24 dicembre, giorno cui è oramai tradizionalmente legato il celeberrimo Discorso di Caltagirone del 1905, Sturzo seppe dare corpo anche nella pratica politica italiana al Popolarismo sostanziando il senso di una presenza pubblica che, fino al suo arrivo, era stato solamente prepolitica d’attesa, fresca com’era la “ferita” inferta al popolo cattolico dalla presa di Porta Pia. Una prepolitica che però aveva anche visto nascere lungo tutto l’Ottocento un movimento spontaneo dal basso, mosso dalla vocazione cristiana ispirata dalla carità, tra cui spiccavano le società di mutuo soccorso certamente animate più da una tendenza sociale piuttosto che politica. E insieme ad esse, anche sulla scia di quanto accadeva da tempo soprattutto in Germania, si dava vita alle casse rurali e alle cooperative “bianche”. Cosa che, di fatto, faceva evolvere il sentimento caritatevole in un qualcosa di “politico”, nel senso di essere fortemente radicato e connaturato al territorio e alle persone intese nella loro concretezza , utile a prospettare una posizione “altra”, diversa, alternativa e antagonista sia a quella dei liberali, sia a quella dei socialisti. E ciò nel pieno del “non expedit” che interdiceva ai cattolici ogni esplicita partecipazione all’impegno politico in grado di significare l’accettazione e il pieno riconoscimento dello Stato italiano.
Il Discorso di Caltagirone rappresentò quindi, per l’epoca in cui fu pronunciato, un vero e proprio atto di coraggio da parte di don Luigi che, fino ad allora, nei suoi scritti e discorsi aveva sempre cercato di evitare la parola stessa di “partito”, preferendo piuttosto riferirsi a “forme concrete di programma”. Ancora nel maggio del 1903, alla vigilia dell’elezione di Pio X al Pontificato romano ai primi di agosto, in una importante conferenza da lui replicata in giro per la Penisola, a Napoli, a Milano e a Torino, sul tema: “Lotta sociale legge di progresso”, egli si spinse a prefigurare il futuro politico dell’Italia con tale visione: “La società si avvia a nuovo ordinamento sociale: gli elementi positivi e negativi, democrazia cristiana, liberalismo e socialismo, forme concrete di programma, si contenderanno il terreno: ma la vittoria immediata sarà di quella forma che avrà saputo portar nella lotta maggiori forze di pensiero e di azione”. E proseguiva precisando: “noi non confondiamo il trionfo della Chiesa… con il trionfo delle forme pubbliche di vita”. Ed aggiungeva: se vi sarà “il trionfo di forme negative” avverrà “per colpa nostra”. E concludeva: “Se invece il programma della democrazia cristiana arriverà ad imporsi, gli acquisti positivi di bene ci assegneranno un nuovo campo più evoluto di lotte nel futuro progresso dell’umanità, nei suoi acquisti reali e positivi; come quando, dopo la redenzione dello schiavo, dopo l’emancipazione del servo della gleba, si arrivò al libero cittadino dei Comuni”.
Fu un atto di coraggio attraverso cui Sturzo cercò di salvaguardare i vincoli che il nuovo Pontificato di Pio X poneva, dopo Leone XIII, riguardo al problema dell’intervento dei cattolici italiani nell’agone politico. In primo luogo, evitando lo spinoso problema dell’approvazione ecclesiastica alla pubblicazione del suo discorso. Quindi, facendosi di fatto scudo con le prime concessioni dello stesso Pio X, fin da subito dirette alla scesa in campo dei cattolici in aiuto delle candidature liberali moderate in quelle elezioni locali ove vi fosse il pericolo concreto della vittoria di candidati socialisti. Furono le primissime eccezioni al “non expedit”, cioè al divieto di partecipazione politica, che lo stesso Pontefici personalmente sollecitò, di fronte al cosiddetto “pericolo rosso” dell’estrema sinistra. Fu quindi un’occasione che abilmente Sturzo, sia pure con prudenza, utilizzò al fine di preservare per il futuro la diversa e autonoma linea politica della Democrazia cristiana da Leone XIII indicata quale strada dell’avvenire politico del laicato cattolico, ma che la chiara preferenza del nuovo Papa per il clerico-moderatismo conservatore metteva in grave pericolo.
Ci vorranno molti anni, e ben dopo quel discorso natalizio di Caltagirone, perché si giungesse, almeno, a quella forma compromissoria espressa con il “Patto Gentiloni” che, in qualche modo, fece da apripista, con il fatto stesso della partecipazione generale di massa ad una campagna elettorale, alla vita politica da parte dei cattolici italiani nel 1919. Tale Patto fu però anch’esso caratterizzato da una linea politica clerico-moderata in evidente contrasto con la scelta sturziana per una politica autonoma dei cattolici italiani su un programma democratico cristiano. Bisognerà attendere il 1919 con il lancio del Manifesto ai “Liberi e forti” e con l’annesso Programma del Partito Popolare Italiano, per vedere finalmente realizzate le lucide previsioni indicate chiaramente da Luigi Sturzo nel Discorso di Caltagirone di quattrodici anni prima.
Sturzo fu da subito, dunque, uomo “politico” e non della prepolitica. Come dimostra il personale e diretto impegno da amministratore locale e tutto il lavorio intrapreso per la creazione di quella rete, protesa ben oltre la Sicilia, che gli consentì, non appena le condizioni lo resero possibile, di dare vita al Partito popolare destinato ad apparire quasi nascere dal nulla, ma così non era.
L’intelligenza sturziana fu quella di capire la necessità di definire, e non di annacquare, tutte la specificità di un pensiero, di una visione della vita, dei problemi pratici e concreti di un Paese rurale, ma in cui si formava progressivamente una borghesia con cui era necessario procedere ad una saldatura, e non ad una competizione, le cui attese non erano completamente soddisfatte né dall’elitario liberalismo né da quelle prime forme di socialismo settario ed estremista.
In poche parole, la forza del pensiero politico di Luigi Sturzo, come di tutto il movimento popolare e democratico cristiano europeo, dev’essere rinvenuta nella decisione di dare corpo ad una presenza autonoma, ma non ideologica perché fondata su un’elaborazione programmatica e in stretto collegamento con le realtà di vita espresse dalle tante comunità locali in grado di costituire il ricco patrimonio dell’intera società nazionale.
Chi oggi si definisce popolare e ricorda gli anniversari di Sturzo dovrebbe cercare di essere conseguente con un tale richiamo e con tutta la logica politica seguita dal Prete di Caltagirone. Egli, non a caso, decise di mobilitare una parte scelta del mondo cattolico: quella mossa da aperta e libera ispirazione democratica, respingendo fin dall’inizio la tendenza dell’altra parte del laicato cattolico di farsi componente del conservatorismo. Non poteva, dunque, che essere offerta la prospettiva di un impegno pubblico reso concreto ed efficace utilizzando la “forma partito”. Sue furono tre parole d’ordine che sono anche le nostre di oggi, perché necessarie al Paese, quella cioè dell’autonomia di pensiero e di postura politica, quella della capacità programmatica e progettuale e quella, infine, mai ancora attuale come oggi, di presentare facce “nuove” il meno compromesse possibile con tutto il sistema consolidato di gestione della cosa pubblica, invece, da rigenerare.
Giuseppe Ignesti e Giancarlo Infante
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