[Articolo apparso su Il Gambero Rosso (n. 39, 1990 Roma). Pubblicato anche in Franco Cercone: Articoli. Contributi. Spunti. Edizioni Nuova Gutemberg, Lanciano 2021]
Un piccolo fiore violaceo, con al centro tre lunghi fili di color rosso fuoco: il suo nome è croco o zafferano [dall’arabo za’fa-ranj]. La leggenda, tramandata da Ovidio nelle metamorfosi [IV, 283], narra come il giovane Croco, innamorato della ninfa Smilace, venne trasformato in fiore di zafferano. In realtà questa pianta, originaria dell’Asia centrale, attecchì in molti paesi dell’area Mediterranea, e trovò il suo habitat ideale in Italia, in particolare lungo gli altipiani dell’Abruzzo, a Navelli e nella Conca di Sulmona.
E, a detta degli esperti, lo zafferano abruzzese è il migliore del mondo, di gran lunga superiore a quelli prodotti nella penisola iberica o in Turchia, che attualmente monopolizzano il mercato mondiale per via del prezzo più competitivo. Oggi l’offerta di zafferano sui mercati mondiali è assorbita pressoché totalmente dal settore gastronomico, ma fino alle soglie dell’età contemporanea gli impieghi di questa spezia erano ben più vari. Oltre che nell’arte culinaria, infatti veniva utilizzata nella preparazione dei profumi, nella farmacopea, e soprattutto nella preparazione dei colori e nella tintura di stoffe pregiate. E qui conviene introdurre qualche cenno storico sullo zafferano d’Abruzzo, e sul ruolo cardine che ebbe in passato nell’economia della zona.
Epicentri storici della coltivazione dello zafferano abruzzese sono la Piana di Navelli e la Conca di Sulmona, distanti tra loro 35 chilometri e geograficamente situate lungo una direttrice nota nel Medioevo come “la via degli Abruzzi”, annoverata tra i grandi itinerari commerciali, culturali e militari dell’Italia trecentesca. La via degli Abruzzi, che congiungeva Firenze con Napoli attraverso l’Umbria, Rieti, L’Aquila, Sulmona, l’Altopiano delle Cinque Miglia, Castel di Sangro, Venafro e Caserta, era nota in epoca medievale anche come la via della lana, delle stoffe, della seta e soprattutto dello zafferano, assai richiesto sulle piazze europee.
Di tali scambi commerciali si coglie ampia eco negli Statuti Civitatis Aquilae [sec. XIV], negli Statuti della Bargliva di Sulmona e in numerosi istrumenti della prima metà del XIV secolo conservati negli Archivi di Stato de L’Aquila e di Sulmona. Il documento più antico relativo al commercio dello zafferano è un diploma di re Roberto (D’Angiò), datato marzo 1317, che attesta la condizione di privilegio fiscale della quale godevano i mercanti aquilani.
Nel 1343 un diploma emanato dalla regina Giovanna I D’Angiò decretò il raddoppio del prezzo all’ingrosso di seta cruda e zafferano, con tutta probabilità in relazione all’aumento della domanda sui mercati europei. Si può dare un’idea dell’importanza e del volume degli scambi commerciali che ruotavano attorno alla preziosa spezia citando un documento del 17 settembre 1395, conservato presso l’Archivio di Stato di Sulmona. È la prova testimoniale che tal Onofrio di Carnizio, mercante sulmonese, aveva consegnato a ser Jacobello di Giorgio, mercante veneziano, “due fardelli di croco del peso di 200 libbre”, cioè l’equivalente di circa 70 chilogrammi di prodotto: una quantità enorme, se si considera che il raccolto totale per il 1989 nella Piana di Navelli è stato di 80 chilogrammi.
Lo zafferano veniva acquistato per lo più da mercanti veneziani, inviato verso i porti abruzzesi dell’Adriatico e spedito via mare nella città di San Marco, principale piazza europea di smistamento del prodotto. Da Venezia, la spezia prendeva in gran parte la via delle Fiandre, dove era particolarmente richiesta per i suoi impieghi nella tintura della seta e nella pittura a tempera, tecnica questa che esigeva colori minerali e vegetali, a differenza di quella “a fresco”, per la quale occorrevano colori a base di calce.
Parte dello zafferano finiva ovviamente nelle cucine della ricca borghesia europea e delle case regnanti: gli antichi trattati ci tramandano molte ricette che ne prevedono l’impiego. Al contrario, non è ipotizzarle il suo uso nell’alimentazione di sussistenza dei contadini produttori, i quali lo adoperavano per colorare la pasta solo in occasione di determinate ricorrenze. La spezia costituiva una delle poche risorse per entrare in possesso di denaro liquido, indispensabile all’acquisto di sementi e attrezzi agricoli o di altri beni di consumo.
Non a caso nella cucina popolare, soprattutto meridionale, è stato tramandato un solo piatto con largo uso di zafferano, cioè la scapéce [pezzi di pesce razza macerati in botte di legno con aceto e odori vari]. Una curiosità: ancora nel XIX secolo, come leggiamo nel IV volume degli Usi e Costumi Abruzzesi di A. De Nino, “l’applicazione in loco di zafferano in fili” era considerata un efficace analgesico per i dolori mestruali. Nel corso dei secoli la destinazione e gli usi del croco non hanno subito mutamenti sostanziali.
È intorno alla seconda metà dell’Ottocento, con l’avvento dei colori sintetici, che la situazione cambia radicalmente: dei tradizionali impieghi di questa preziosa spezia permane prevalentemente quello gastronomico. La domanda sul mercato viene cosi in gran parte a cadere, mentre aumenta la concorrenza di prodotti analoghi, dal basso costo ma dalla qualità decisamente inferiore. Inevitabile conseguenza è stata la decadenza – se non addirittura l’abbandono, come è avvenuto nella Conca di Sulmona – di coltivazioni un tempo fiorentissime. Fortunatamente, in questi ultimi anni si sta assistendo ad una “rinascita” dello zafferano d’Abruzzo: a Sulmona, in particolare, la coltivazione della spezia è ripresa su iniziativa di alcuni giovani agronomi, decisi a recuperare quella che era stata una delle principali risorse del territorio.
Vale la pena a questopunto accennare, sia pure in sintesi, al ciclo di produzione di questa straordinaria pianta dai fioriviolacei. Il Crocus satìvus richiede innanzi tutto un particolare terreno, di originealluvionale, drenato e dunque filtrante, perché i bulbi, estremamente sensibili al ristagno idrico, tenderebbero altrimenti a marcire. I limiti altimetrici per l’impianto delle coltivazioni oscillano tra i 350 e gli 800 metri, sicché il rispetto di queste condizioni assicura quella che oggi viene definita una produzione DOC, riconoscimento per il quale i produttori abruzzesi si stanno battendo da tempo. I bulbi vengono annualmente spiantati, selezionati e messi a dimora nella prima decade di settembre, in filari semplici oppure a file binate o ternate. Dopo appena un mese comincia la fioritura. Da ogni bulbo sbocciano più fiori di colore violaceo, i quali in condizioni climatiche ottimali possono raggiungere il numero di undici. La raccolta comincia all’incirca alla metà di ottobre per terminare entro la prima decade di novembre. La tecnica atavica consiste nel separare delicatamente dal resto del fiore gli stigmi, carichi della preziosa polvere gialla, e farli essiccare con vari metodi vicino a una fonte di calore. Quest’anno, nella piana di Navelli sono stati raccolti circa 80 chilogrammi di prodotto finito, mentre le risorte piantagioni sulmonesi ne hanno resi appena due chilogrammi, destinati ad aumentare nel corso dei prossimi anni. Un mondo di molteplici interessi sta quindi nuovamente ruotando intorno all’ oro giallo d’Abruzzo.
Franco Cercone
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