[Pubblicato in MISERERE, Menabò Edizioni, Ortona (Ch),1997]
I – Confraternite, conflitti sociali e schemi processionali.
La Madonna che scappa in piazza a Sulmona non rappresenta un tema isolato, ma l’epilogo solenne e spettacolare, da un punto di vista demologico, di una sacra rappresentazione che inizia il Giovedì Santo a sera, prosegue il Venerdì con la Processione del Cristo Morto, gestita dalla Confraternita della Trinità, ed è conclusa la mattina di Pasqua dalla corsa della Madonna, organizzata dalla Confraternita di Santa Maria di Loreto.
La prima confraternita ha sede nella chiesa omonima sita in Corso Ovidio, mentre la seconda in quella medievale di Santa Maria della Tomba. Sembra che la Confraternita della Trinità abbia ereditato il patrimonio spirituale di due fra i più antichi pii sodalizi cittadini fondati da laici, cioè L’Ordine de’Continenti e quello dei Compenitenti.
I rappresentanti di quest’ultimo, gestores confraternitatis Compenitentiae, intervengono in data 10 marzo 1320 all’atto di fondazione della chiesa dell’Annunziata. Compito dei confrati trinitari era quello di promuovere beneficenza ed assistenza ospedaliera a favore di viandanti e pellegrini che trovavano ricovero nell’Ospedale della SS. Annunziata, sorto nel XV sec. accanto all’omonima chiesa, e soprattutto dei forestieri che per motivi di commercio sostavano a Sulmona.
Però esse non furono le più antiche. Altre associazioni le precedettero. Prima che si realizzasse la grandiosa costruzione dell’ospedale dell’Annunziata esistevano infatti a Sulmona altri senodochi, il più antico dei quali sembra essere quello aggregato alla chiesa di S. Giacomo della Forma, sorta nel 1177. I frati che stipulano l’atto di fondazione di tale chiesa con il vescovo Odorisio sono ospedalieri, frates crucem portantes, appartenenti appunto all’Ordine degli Ospedalieri di S. Giovanni Gerosolimitano. Le cause della proliferazione di tali ospedali sono lucidamente posti dal Cognasso in relazione con gli eventi della prima crociata e con la fondazione dell’ordine dell’ospedale di San Giovanni a Gerusalemme: “La crociata – scrive il Cognasso – determinò un’attività ospedaliera quale prima non si era avuta. I pellegrini affluiscono, sono poveri, sono ricchi. L’ospedale di S. Giovanni assicura a tutti un rifugio contro le intemperie…L’ospedale era logicamente il ritrovo non solo di ammalati, ma di pellegrini ben capaci di portare le armi e di combattere”. In occidente incominciano le donazioni da parte di pellegrini reduci da Gerusalemme e che ringraziano per la ospitalità goduta. Non a caso questi ospedali retti dai Gerosolimitani sorgono anche lungo la direttrice appenninica: i pauperes milites Christi (milites non solo in senso religioso) sono da considerarsi infatti come avanguardia di quel movimento di traffici fra il centro-nord ed il sud della Penisola, che fiorirà nel XIV secolo.
Non sono poche le fonti da cui si evince un frequente passaggio di crociati lungo quell’arteria che sarà chiamata in seguito “la via degli Abruzzi” e di cui un punto fermo di riferimento era proprio Sulmona. A parte alcune leggende araldiche, come per es. quella che si riferisce allo stemma di Navelli, è di una certa importanza la notizia del Romanelli, secondo cui nel 1194 numerose schiere di crociati, accampati alla foce del Sangro in attesa di imbarcarsi, lasciarono tracce di saccheggi e disordini.
Ora, si deve proprio ai crociati la diffusione di omelie drammatiche bizantine, incentrate sugli ultimi episodi della vita di Cristo (Christòs pàschon), che essi non poco dovevano ravvivare con la descrizione del Santo sepolcro e con episodi fantastici, come il preteso rinvenimento della Santa Lancia e di altre reliquie legate alla Passione di Cristo. (Le prime notizie sulle sacre reliquie sono contenute nell’opera manoscritta dello storico sulmonese Emilio De Matteis, sec. XVII, dal titolo Memorie Storiche dei Peligni).
Anche Sulmona vanta il possesso di alcune di queste reliquie ed è assai probabile che la loro leggenda sia sorta, come altrove, proprio nel corso del XIII secolo, (periodo a cui risale il culto per la Corona reliquario delle Sacre Spine, conservata nella Cattedrale di Namur e la Sacra Corona di Boemia, che custodisce altre spine appartenute alla corona di Cristo; soprattutto in Abruzzo tale culto appare assai intenso: L’Aquila, Lanciano e Vasto vantano il possesso di simili reliquie e di altre reliquie conservate a Sulmona, nell’Altare Maggiore di S. Panfilo, fra cui un chiodo della croce di Cristo, si parla in un documento del 1238).
Si tratta della Cinta della Madonna, della spugna con cui fu offerto a Cristo in croce l’aceto, e soprattutto di una Sacra Spina che sarebbe stata staccata dalla corona del Salvatore. Quest’ultima si venerava a Sulmona nella chiesa di S. Agostino (XIII sec.) e dopo la sua distruzione in seguito al terremoto del 1706, fu trasferita nella cattedrale di S. Panfilo.
Va rilevato come il culto della Sacra Spina si sia protratto fino agli inizi del nostro secolo. Si legge infatti in una notificazione del vescovo di Valva e Sulmona, Patroni, datata 30 aprile 1904, ed indirizzata al clero cittadino: “Domani 1° maggio, festa della Santa Spina, molta gente affluisce alla Cattedrale per confessarsi…”. Il Lupinetti poi ricorda che tutte le comitive dei pellegrini dirette a Pratola Peligna la prima domenica di maggio per la festa della Madonna della Libera e transitanti per Sulmona, si fermavano alla Cattedrale di S. Panfilo per adorare la Sacra Spina.Anche la folklorista inglese Estella Canziani, soggiornando a L’Aquila nel 1914, ne descrive l’esposizione da parte del vescovo alla Basilica di S. Maria di Collemaggio, nella ricorrenza dell’incoronazione di papa Celestino V.
Il vescovo Tiberi, che resse la Diocesi di Valva e Sulmona dal 1515 al 1829, giurò e sottoscrisse insieme al Capitolo di “aver osservato con meraviglioso stupore e veduto ocularmente nel giorno di venerdì santo, sull’ora di sesta, l’ammirabile fioritura della Sacra Spina di Nostro Signore Gesù Cristo, che fra le insigni reliquie si venera in questa Sacrosanta Basilica”.
Portate in processione nella Settimana santa ed esposte all’adorazione dei fedeli, tali reliquie dovevano tenere non poco in fermento soprattutto i ceti popolari, incrementando così quella “febbre mistica” che è da considerarsi come cornice ideale per il sorgere di pii sodalizi laicali, la cui attività se espletata preminentemente nel campo assistenziale, non escludeva anche quello culturale, con l’allestimento di spettacoli di soggetto sacro.
D’altro canto è proprio questo clima spirituale che sarà ereditato e potenziato da fra’ Pietro del Morrone, diventato nell’agosto del 1294 Celestino V, cui si deve l’istituzione di quei “rampolli nobilissimi delle fratellanze per laici”.
Si diceva in precedenza, che la sacra rappresentazione scaturisce dal dramma liturgico medievale, di
soggetto sacro: “Il mutamento, per il quale il Dramma liturgico, nato già dal canto alterno e dal cerimoniale ecclesiastico, fece capo a quella nuova forma, che designeremo di preferenza col nome italiano di Sacra Rappresentazione, fu anch’esso fenomeno naturale e quasi necessario”.
Un momento importante nella storia del dramma liturgico è costituito dalla sostituzione del latino con
il volgare, il cui uso, nella rappresentazione sacra, “comunque incominciato e affermatosi, ebbe una
portata immensa. La poesia drammatica usciva dal chiuso del presbiterio e dall’aula scolastica, per irrompere nella piazza.”
Ora, uno dei più importanti frammenti di dramma liturgico, risalente alla metà del XIV sec, è noto come Officium quarti militis ed è conservato presso l’archivio della Cattedrale di Sulmona. La conoscenza dell’Officium si deve a due insigni storici sulmonesi: N. F. Faraglia, che lo scoprì nell’archivio suddetto e G. Pansa, che lo pubblicò appena avutane notizia dal Faraglia.
Monumento mirabile della vita religiosa e culturale sulmonese agli albori dell’Umanesimo, l’Officium ci mostra la parte recitata da quattro soldati. Ma poiché nel gruppo emerge il ruolo svolto da uno di essi e precisamente il quarto, il frammento del dramma viene designato appunto Officium quarti militis. In esso appare anche un personaggio di nome Tristainus. A costui vengono attribuite molte qualità appartenenti all’eroe omonimo descritto nel poema di Gottfried von Strassburg ed il De Bartholomaeis, mentre resta “stupito di ritrovare qui un nome celeberrimo”, ritiene che “la trovata non poteva venire in mente se non ad alcuno che vivesse in un ambiente saturo di letteratura cavalleresca, particolarmente bretone”.
Se, dunque, la parte del quarto soldato risulta nel frammento sulmonese di ben 136 versi, si può immaginare quanto esteso dovesse essere il dramma intero ed il numero degli attori che davano vita ai personaggi del ciclo della Passione. Il fenomeno del resto è europeo. Otto Mann ci dice per es. che “un’antica rappresentazione redatta a Francoforte intorno al 1350, si svolgeva in due giorni ed in un’altra eseguita verso il 1500 nella città di Alsfeld, comparivano 172 personaggi e risultava composta da più di 8000 versi.”
Precisato allora sull’insegnamento del Toschi, che per dramma liturgico debba intendersi ogni “rappresentazione medioevale di soggetto sacro composta in latino”, si pone la domanda se le odierne sacre rappresentazioni, e soprattutto quelle che si svolgono nella settimana di Pasqua, siano da considerarsi come viventi reliquie del primo e quindi se vi siano nel nostro caso dei rapporti fra l’Officium quarti militis e la rappresentazione della Madonna che scappa in piazza.
Al riguardo notiamo subito con il D’Ancona che “non sempre è agevole il riconoscere se queste fogge locali abbiano la loro origine in usi liturgici od in veri e propri spettacoli drammatici. Anzi le rappresentazioni mute appartengono a età più tarda e per più di un indizio, rammentano i tempi della dominazione spagnuola e dell’Inquisizione”.
Ed è proprio a questa considerazione del D’Ancona che si ispira la nostra ricerca, tanto più che, come è stato autorevolmente affermato, “di vere e proprie rappresentazioni sacre non si raccoglie a Napoli alcuna traccia fino alla metà del Quattrocento”.
Con la visita ai Sepolcri, compiuta nella tarda serata del Giovedì santo, si entra nel vivo delle manifestazioni religiose della Settimana Santa. Una sottile atmosfera di raccoglimento pervade tutta la Città, mentre fedeli d’ogni ceto e tendenza politica rivivono un rituale antichissimo arricchitosi negli ultimi tempi di significativi valori umani. Per i Sulmonesi che vivono lontano, il Giovedì Santo rappresenta infatti un importante appuntamento, fissato tacitamente l’anno precedente, per il recupero dell’identità culturale assicurato dal reinserimento, pur temporaneo, nel tessuto della storia e delle tradizioni della propria terra.
La visita alle varie chiese è designata con l’espressione “fare i Sepolcri”, assai comune del resto in tutto il Meridione ed altrove. Lo spazio sacro destinato a rappresentare simbolicamente il S. Sepolcro è delimitato da ceri accesi, lampade e vasi in cui vengono fatti germogliare nei giorni precedenti semi di cereali. [A Pacentro si attribuiscono a tali germogli poteri apotropaici, essi vengono posti anche sulle viti e sugli olivi, importanti per l’economia locale; a Raiano tale funzione protettiva è affidata ai rami d’ulivo benedetti nella Domenica delle Palme.]
Ancora agli inizi del nostro secolo, l’espressione fare i sepolcri designava anche l’allestimento di una serie di scene o quadri interpretati da attori scelti fra i parrocchiani ed ispirati ad episodi della Passione di Cristo. Apprendiamo al riguardo dal De Nino che “nella Settimana santa, a Pescocostanzo si fanno i sepolcri. In una di quelle sacre rappresentazioni i giudei intorno a Cristo sono uomini vestiti alla medioevale, con corazze, elmi, gladii e picche. Il Venerdì santo poi, nel mentre che si porta via dal Sepolcro il Sacramento, gli occhi del pubblico sono tutti profani: tutti guardano ai Farisei che a un dato segno cadono e muoiono”. Ancora il De Nino ci informa che i sepolcri venivano ripetuti in tale forma a Scanno durante la Processione del Corpus Domini per rappresentare scene del Vecchio e Nuovo Testamento; mentre il Tollis (Pacentro.1979) riferisce che a Pacentro si svolgeva “fino a qualche tempo fa” la scena sacra della resurrezione di Lazzaro, che avveniva però nel giorno di Pasqua dopo il rientro della processione. “Ad Introdacqua – scrive il Susi – nel quadro delle usanze ricorrenti nella Settimana Santa, occupano il primo posto le figure montate su cartone o su legno, rappresentanti scene o personaggi della Passione di Cristo”. Il Finamore precisa anche “Il Sepolcro è rappresentazione scenica di atto della Passione che si fa nelle principali chiese del luogo”
A tali rappresentazioni accenna il vescovo Bonaventura Martinelli nel Sinodo da lui celebrato a Sulmona nel 1715 e le cui risoluzioni furono pubblicate a Roma due anni dopo: “Repraesentationes virorum ante Sepulchrum adstantium ubi Sanctissima Eucharistia feria quinta in Coena Domini in memoriam Passionis ejus reponitur, omnino prohibemus Sub poena suspensionis a Parocho, ab Actoribus vero excommunicationis illico incurrendae.”.
Mentre dunque da un lato l’importante documento attesta nella stessa Sulmona del XVIII secolo la tradizione dei S. Sepolcri, nell’accezione in precedenza riferita di scene ispirate a Passione di Cristo, dall’altro si apprende da esso la proibizione imposta sulla scia forse delle disposizioni scaturite dal Concilio di Trento che vietavano ad attori di impersonare le figure di Cristo, della Madonna e di altri santi, sostituiti in seguito da statue. E questo particolare risulterà rilevante anche per la Madonna che scappa in piazza. Le statue – secondo direttive stabilite da Urbano VIII nelle sue Constitutiones – dovevano comunque corrispondere a determinati requisiti e suscitare senso di commozione grazie alla loro eccellente fattura artistica. Al riguardo è interessante ciò che prescrive il vescovo di Valva e Sulmona, Tobia Patroni, nella visita pastorale da lui compiuta il 20 luglio 1872 a Villalago: “Resti interdetta la statua di S. Pietro, che deforme com’è, non ispira affatto devozione”
Le scene disegnate su cartone ed ancora in uso ad Introdacqua rappresentano le lontane eredi di quelle pergamene in cui venivano miniate, specie a Montecassino, episodi della Passione e della Resurrezione di Cristo, ispirate, anche sotto il profilo artistico, all’iconografia bizantina.
Questi quadri devozionali sono attestati un po’ ovunque nel Meridione e per Napoli il Mayer segnala nel secolo scorso l’usanza di erigere nelle chiese “grandi pitture con scenari, che rappresentano la tomba del Salvatore”.
Individuare le cause che determinano l’affievolimento di questa particolare forma di devozione popolare non è agevole. Lentamente caddero in disuso, lasciando però traccia di sé nell’allestimento scenografico delle sacre rappresentazioni. Probabilmente le pitture su cartone non dovevano suscitare quei sentimenti di immedesimazione e forte emotività che sono assicurati invece dalle manifestazioni con statue o con attori. Illuminante al riguardo è un episodio riferito dal D’Ancona, secondo il quale durante la rappresentazione della Passione a Montechiaro d’Asti, “i manigoldi – che dovevano accompagnare Cristo al Calvario – pigliavano sul serio la loro parte e s’infervoravano in essa…menarono con tanto ardore le mani… che il povero Cristo, deposto il cilicio, si mise in letto e si trovò pesto in così bel modo da ispirare qualche timore che non si potesse più rialzare”.
II – La processione del Venerdì Santo a Sulmona
L’animazione che si avverte durante il giorno di Venerdì Santo a Sulmona, invasa ormai da turisti provenienti dalle località limitrofe, scompare quasi d’incanto all’imbrunire, allorché dalla chiesa della
Trinità comincia a snodarsi la Processione del Cristo Morto, gestita dall’omonima Confraternita.
La Città, priva nel suo centro storico di ogni segno che rammenti la civiltà delle macchine, riacquista in parte il fascino del tempo passato e si trasforma in un teatro degno di rappresentare il dramma più grande della storia dell’umanità.
Dallo sguardo commosso delle persone anziane si avverte una intensa partecipazione ad un evento rivissuto psicologicamente anche in chiave terrena.
I confratelli della Trinità indossano una tunica rossa, simile a quella della Confraternita dei Pellegrini e Convalescenti fondata a Roma nel 1548 da S. Filippo Neri, e sfilano disposti secondo uno schema codificato che può essere riassunto nel modo seguente: banda, due Mazzieri, fila orizzontale di sette portatori di lampioni (o fanali), quadrato formato da quattro portatori di lampioni, tre Dignitari (simbolo della Trinità) con al centro il caratteristico Tronco (croce processionale, cilindrica, coperta di velluto rosso e ornata da tralci d’argento, vuota all’interno, risalente alla metà del XVIII secolo), altro quadrato formato da quattro portatori di lampioni, fila orizzontale di sette portatori di lampioni, fila di portatori di lampioni lungo i due margini della strada, coro, parroco officiante, altra fila di portatori di lampioni lungo i due margini della strada, statua del Cristo Morto condotta da quattro trinitari, affiancati da altri quattro per il cambio, fila orizzontale di quattro fanali, statua della Madonna Addolorata condotta da quattro trinitari, affiancati da altri quattro per il cambio, seguono altri Dignitari e Confratelli trinitari.
Un cenno a parte merita il cosiddetto Capo dei Sagrestani d’Onore, vero regista dell’imponente processione, da cui dipende tutta la manifestazione. Egli è coadiuvato in tale circostanza da due Capi
Processionieri. È tradizione inoltre che i quattro trinitari che escono dalla chiesa della Trinità con la statua del Cristo Morto, rientrino a processione ultimata con la Statua della Madonna e di conseguenza i portatori iniziali di quest’ultima, con la statua del Cristo Morto. I portatori delle statue del Cristo Morto e della Madonna sono dunque 16, divisi in due gruppi di 8 ciascuno. Essi vengono estratti a sorte nei giorni precedenti insieme ai tre confratelli che portano il Tronco, ai Mazzieri, ai due Capi Processionieri ed al Capo dei Sagrestani d’Onore. [Dei mazzieri, 5 in tutto, 4 sono estratti a sorte, uno è assegnato liberamente dall’Amministrazione della Confraternita.
Fino ad un tempo recente il trasporto dei fanali veniva assegnato mediante asta ai migliori offerenti, mentre oggi la Confraternita della Trinità offre una ricompensa ai fedeli che svolgono volontariamente tale compito.
Interessante è la figura formata dai trinitari nel tratto compreso fra le due file orizzontali dei sette portatori di lampioni, al centro delle quali procede appunto il Tronco, figura corrispondente a due T (Trinità) disposte in senso contrario. Si tratta probabilmente di norme codificate da un vecchio cerimoniale di cui si è perso, col trascorrere del tempo, il vero significato. Allorché perviene all’altezza della chiesa di S. Maria della Tomba, la processione riceve l’omaggio delle Autorità cittadine che ne seguono l’itinerario fino al suo rientro alla chiesa della Trinità, secondo un Cerimoniale che l’Amministrazione Comunale ha iniziato ad osservare dal 1962.
Allorché comincia a snodarsi dalla chiesa della Trinità, la processione imbocca via Ercole Ciofano (direzione Ovest), poi si dirige verso la Cattedrale di S. Panfilo (direzione Nord) e quindi punta in direzione di Porta Napoli (direzione Sud) dopo essere passata per Piazza Garibaldi (direzione Est).
La specificazione del percorso mediante i quattro punti cardinali contribuisce a chiarire una tipica struttura di tali manifestazioni religiose nonché “il significato propiziatorio del segno di croce, che in questo caso viene tracciato sul terreno dalla stessa comunità in processione”.
Questo rituale, che costituisce una proiezione delle processioni delle rogazioni, “si svolge solitamente
lungo i due assi ortogonali nord-sud ed est-ovest, segnati da quattro croci: la processione segna così una croce orientata sul terreno e la benedizione si svolge alle quattro direzioni dello spazio riprendendo un antichissimo rituale di orientamento sacro, cardodecumenico”. [Circa il periodo dello svolgimento delle rogazioni, sono interessanti i seguenti documenti dell’Archivio Vescovile Sulmona, Miscellanea 1900-1910, Primo documento: “Curia vescovile Sulmona, 23 maggio 1908 oggetto: Rogazioni (ore 9 a.m.). Molto rev. Di Signori. Nei giorni 25, 26, 27 c. m. ricorrendo le Rogazioni dette Minori, a differenza di quella di S. Marco chiamata Maggiore, si adempiranno le prescritte processioni. I due cleri interverranno con le loro insegne corali ecc. Nicolaus Jezzoni Episcopus”; Secondo documento: “Curia vescovile Sulmona, 1 maggio 1910. Molto Rev. di Signori. Nei giorni 2, 3 4 c.n1. ricorrendo le Rogazioni dette Minori, si adempiranno le prescritte i processioni muovendo dalla I Nostra Cattedrale Basilica di S. Panfilo, alle ore 9 a. rn. ecc. Nicolaus Jezzoni Episcopus”].
Il coro, che in base ai documenti fotografici esistenti si presenta oggi con un numero maggiore di cantori rispetto al periodo compreso fra le due guerre mondiali, procede come i confratelli trinitari nella tipica tunica rossa, strusciando i piedi con un passo ritmico ed ondulato, donde la denominazione di struscio data al caratteristico incedere. Ciò non costituisce tuttavia una particolarità esclusiva del coro sulmonese trattandosi di un tema una volta assai diffuso nel Meridione e nei paesi cristiani dell’area mediterranea. [A Napoli o struscio indica oggi il semplice passeggio lungo le vie centrali nel giorno di Giovedì santo in occasione della visita ai Sepolcri; in Grecia lo struscio è il passo del corteo ondeggiante che “segue la bara drappeggiata rappresentante Cristo Morto”. Cfr. G. Torselli Feste nel mondo Roma 1972]
Lo struscio è un movimento che imita, anche sonoramente, il faticoso procedere di una persona con le catene ai piedi, un atto di mortificazione e penitenziale che oggi viene solo mimato, ma che in passato dev’essere stato tutt’altro che simbolico. Avveniva, infatti che “chi si metteva in fila nelle processioni del Venerdì Santo, vi partecipava anche direttamente attraverso le sofferenze cui sottoponeva la propria persona”
Il coro canta un bellissimo Miserere composto nel 1913 dal maestro-concertatore Federico Barcone,
nato a Sulmona nel 1862, ed eseguito per la prima volta nella data suddetta dalla banda municipale cittadina diretta dal maestro Gavina. La sua esecuzione si svolge continuamente, senza pause, lungo le strade percorse dalla processione e si avvale dell’accompagnamento di alcuni elementi della banda musicale, che esegue una suggestiva marcia funebre composta dal maestro sulmonese Vella.
Allorché la processione perviene a Piazza Garibaldi, avviene un simbolico scambio di consegne tra i membri della Confraternita della Trinità e quelli della Madonna di Loreto.
Le statue del Cristo morto e della Madonna, come anche il Tronco, vengono cedute infatti per tradizione dai trinitari ai colleghi lauretani in prossimità della zona nota come i tre archi (cioè quel settore dell’Acquedotto Medievale situato di fronte a Largo Faraglia), luogo che funge da vero e proprio limite di “competenza territoriale” fra le due Confraternite, dato che quella della Madonna di Loreto ha sede appunto nella chiesa di S. Maria della Tomba, sita non lungi dai suddetti archi.
Oltrepassata quest’ultima, la processione, dopo aver ricevuto l’omaggio delle Autorità cittadine, imbocca via Panfilo Serafini ed a Porta Napoli ripiega, attraverso Corso Ovidio, in direzione della chiesa della Trinità. All’altezza di Piazza Minzoni i lauretani riconsegnano “l’Arsenale della devozione”, cioè statue e Tronco, ai colleghi trinitari che portano a termine la processione. Va notato che tale consuetudine risale a tempi relativamente recenti. Infatti, dato il prolungarsi dei piati, le due congregazioni laicali furono invitate nel 1932, in occasione del Congresso Eucaristico Missionario Abruzzese svoltosi a Sulmona, a ricercare un accordo ed a “dare un buon esempio” al folto pubblico dei congressi, prescindendo dalla questione dell’anteriorità storica delle due Confraternite, che esplodeva appunto in simili circostanze a proposito del diritto di precedenza durante le processioni. Ed allora si arrivò alla conclusione che nelle processioni le due Confraternite potessero unirsi procedendo insieme, ciascuna conservando comunque la propria identità.
Quelle della Trinità e della Madonna di Loreto sono oggi le uniche superstiti di un maggior numero di Confraternite che, ancora alla metà dell’800, ammontavano a sei. I piati fra tali confraternite esplodevano soprattutto in occasione delle processioni e concernevano il cosiddetto “diritto di precedenza”. Di essi venivano investite le autorità civili e religiose e la particolare giurisprudenza che ne risultava appare ricca soprattutto nel XVIII sec. Si tratta di controversie che animano i pii sodalizi di tutto il Regno di Napoli ed erano causa di “gravi disordini”. La natura di questi piati esplosivi nel XVII sec., nella società meridionale, è stata acutamente messa in evidenza dal Lalli che scrive “La vita cittadina si esprime attraverso organismi religiosi che non hanno più la semplice funzione spirituale del Medioevo. La presenza nelle processioni, o meglio il posto che si occupa … indica anche il peso che si ha nella vita sociale”.
La processione, fino a tale periodo (1932), entrava nella chiesa di S. Chiara per permettere alle suore di clausura l’adorazione delle statue della Madonna e del Cristo morto.
Durante la sosta, mentre un seminarista faceva il discorso sulla Passione di Gesù, i portatori delle statue rinfrancavano le forze con laute bevute, dopo di che il sacro corteo riprendeva il suo percorso.
Questo particolare del vino merita un cenno di approfondimento. Nel Sinodo indetto da Mons. Martinelli e celebrato nella Cattedrale di S. Panfilo nel 1715, il vescovo proibisce severamente l’usanza popolare, causa di “perturbationis, risus, lasciviae”, relativa all’allestimento di “fontes nempe artificiales”, dalle quali sgorgavano da alcune acqua e da altre vino. Tali fontane venivano preparate lungo le strade cittadine in cui sfilavano le processioni al fine di rinfrancare le forze dei “processionem comitantes”
Si arguisce pertanto dalle rampogne del vescovo che le soste avvenivano di preferenza alle fonti artificiali da cui sgorgava il vino, con tutte le conseguenze facili da immaginare, tanto più che forti libagioni avvenivano anche prima che uscissero le processioni. “Commessationes ac compotationes tam in actu, quam ante Processionem arceantur omnino sub poenis arbitrio nostro infligendis, maxime vero Sodales Confratriarum sacco induti caveant, ne divagentur per loca, cauponas ingrediantur…” (Synodus Diocesana…, Roma 1717.).
A quale rango appartenessero moltissimi esponenti della Confraternita della Trinità, che appare strettamente collegata alla Congrega dei Nobili, istituita dai Gesuiti allorché questi si insediano verso la fine del ‘600 in Città, si apprende da un capitolo dell’opera dello storico sulmonese F. Sardi de Letto, La Città di Sulmona (1979 Sulmona).
Si tratta di nomi prestigiosi di casati cittadini come i Mazara, i Sanità, i Corvi ecc., alcuni dei quali appaiono già protagonisti della vita economica e politica nella Sulmona medievale.
In stretto rapporto con il vescovo ed il Capitolo, essi vantano numerosi appoggi da parte dell’Arciconfraternita della SS. Trinità di Roma, di cardinali legati all’ambiente dei Corsini, del papa Clemente XII e della famiglia Borghese. Grazie a queste conoscenze, essa ottiene nel 1749 il regio assenso di Carlo III e l’elevazione del titolo ad “Arciconfraternita”.
Questo carattere egemone del sodalizio subisce alterazioni all’indomani dell’unità d’Italia quando, in un clima prettamente gattopardiano, la nobiltà scopre le nuove vie politico-amministrative da seguire, suggerite dalle mutate condizioni storiche, lasciando così l’atavica eredità alle nuove forze sociali cittadine che emergevano per lo più nel settore artigianale ed imprenditoriale.
La Confraternita di S. Maria di Loreto sembra invece presentare origini diverse ed è al suo passato che occorre guardare per tentare di comprenderne il “costume di gruppo”. Il borgo formatosi attorno alla chiesa di S. Maria della Tomba (fine sec. XII), al di fuori della nuova cinta muraria di cui la Città si munisce agli inizi del Trecento, raccoglie non solo nuclei familiari appartenenti certamente a strati sociali non egemoni, (è significativo che anche in seguito i palazzi più rappresentativi cittadini sorgano nell’ambito della prima cerchia muraria), ma anche forenses di castelli vicini, che l’esplosione demografica, nella seconda metà del XIII secolo, spinge soprattutto in pianura, grazie alle possibilità di lavoro offerte dai nuovi mezzi tecnici per il dissodamento dei terreni e per la tessitura. Importanti notizie sono contenute al riguardo nell’opera del Sardi de Letto. Apprendiamo in tal modo che la Processione del Venerdì Santo, costituisce una acquisizione da parte della Confraternita della Trinità soltanto a partire dal 1860, in quanto prima essa era “retaggio della Congrega dei Nobili, eretta nella chiesa dei Gesuiti.”
Inoltre, dopo aver ricordato che “la statua del Cristo morto, non l’attuale, era conservata nella cappella
di Palazzo Sardi”, il Sardi de Letto ci dice che la Confraternita della Trinità eseguiva dal 1729 la processione del Cristo Risorto, ma “fino alla Fontana del Vecchio, per non entrare nella zona di pertinenza della Confraternita di S. Maria di Loreto.”
“I lauretani d’altro canto gestivano, come si apprende da un documento del 1753, la processione solenne nel giorno di Pasqua, col concorso di moltissima gente, sempre con sparo de’ mortari ed accompagnamento de’ Musici, e per lo più quasi ogni anno la processione di Cristo Morto, il Giovedì Santo”, ostacolata però, per evidenti motivi concorrenziali, dai “fratelli trinitari”.
Ogni processione aderiva a schemi ben precisi, in modo da evitare sconfinamenti nei quartieri cittadini di pertinenza dell’uno o dell’altro pio sodalizio. Era inevitabile però che nelle cerimonie religiose in cui le due confraternite sfilavano accanto agli altri pii sodalizi cittadini, riaffiorassero gli antichi rancori e ciò dava origine ad interminabili piati e disordini.
Così, nel 1752, la vita della Città fu sconvolta da violente liti esplose fra trinitari e lauretani per il noto diritto di precedenza in occasione della processione delle Rogazioni.
Tale stato di tensione fra le confraternite dovette protrarsi anche negli anni successivi, poiché ad esso si riferisce, come riteniamo, il seguente “Real Dispaccio” da Napoli, che evidentemente era stata investita della questione dal vescovo Filippo Paini: “La Maestà del Re nostro Signore, avendo comprovato coll’esperienza, che le processioni, se queste si fanno di giorno dopo pranzo, invece di riuscire di onore a Dio, e de’ Santi, ed esser motivo di pietà vera e soda religione, siano occasione piuttosto di rissa, scandali, ed altri disordini, che disonorano la religione medesima, con suo Real Dispaccio del diece del corrente decembre per Regal Segreteria di Stato e dell’Ecclesiastico, comunicatoci per mezzo dell’Ill.mo Signor Preside Provinciale, ha risoluto, che le processioni tutte si debbano far di mattina, e non mai il giorno dopo pranzo. Nel partecipare alle SS.VV. questo Sovrano Real comando, che passaranno alla notizia del clero secolare, e regolare, e delle Confraternite tutte, Loro incarichiamo nel Regal nome ad invigilare per l’esatta puntuale osservanza, perché altrimenti, locche (sic) non crediamo giammai, ne saranno responsabili alla M. S., ed a noi, che provederemo severamente contro i trasgressori. Con registrarsi la presente da ciascun Parroco nel solito Libro degl’Editti, nel mentre di tanto ricompromettendoci della di loro prontezza, ci raffirmiamo Da Sulmone (sic) li 26 febbraio 1768. Filippo Vescovo di Valva e Sulmona” (Libro Editti Vescovili. Biblioteca Diocesana Sulmona).
Questo era il clima in cui si svolgevano, non più di pomeriggio e non sappiamo fino a quale periodo, le processioni a Sulmona. Da quanto si apprende dai documenti citati in precedenza, quelle pasquali
hanno subito notevoli modifiche nel corso degli ultimi due secoli e degna d’attenzione appare la notizia, secondo cui anche la Confraternita di S. Maria di Loreto eseguiva, di Giovedì Santo, una processione del Cristo Morto, ma “quasi ogni anno”.
Il che denota forse la preferenza accordata dai Lauretani a quella di Pasqua, eseguita con grande pompa, fra spari di mortaretti ed “accompagnamento di Musici”.
Oggi i compiti delle due Confraternite sono ben distinti, in quanto la Trinità esegue la processione del Cristo morto e quella di Loreto la Madonna che scappa in piazza, nella mattina di Pasqua.
Pure, a ricordo forse delle più complesse manifestazioni religiose dei tempi passati, la Confraternita di S. Maria di Loreto esegue nel pomeriggio di Venerdì Santo una processione che si svolge entro uno spazio cittadino limitato.
Con le ultime note del Miserere, che accompagna il rientro della processione, si spegne lentamente il fervore religioso che ha animato per tutto il giorno la Città e da questo momento non si pensa ad altro che alla manifestazione della domenica di Pasqua.
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