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NOTE ETNOGRAFICHE SULLE VESTITURE DELL’ABRUZZO CITERIORE ED ULTERIORE

[Pubblicato in: AA. VV. Costumi diversi di alcune popolazioni de’ Reali Domini di qua del Faro “Centro Studi Panfilo Serafini, Sulmona 1994.]

di Franco Cercone

Il tema iconografico delle Vestiture del Regno di Napoli, da trasferire sulle porcellane prodotte nella Real Fabbrica “Ferdinandea” a Napoli, rappresenta una operazione culturale ed economica di prima qualità a firma del marchese Domenico Venuti, assai influente a corte ed ascoltato particolarmente da Ferdinando IV. Il re, in tale circostanza, tutto appare, come vuole uno stantio cliché storiografico, fuorché il monarca indolente ed insensibile nei confronti dell’arte, come dimostra l’incarico affidato nel 1778 dal sovrano a Philip Hackert di ritrarre i Porti del Regno di Napoli, una serie di veri e propri capolavori, purtroppo incompiuta, la cui idea era scaturita probabilmente dalla conoscenza delle tele

di J. Vernet, che in Francia aveva ricevuto un medesimo incarico anni prima da parte di Luigi XV.

Siamo nel 1782 e su “regal determinazione” di Ferdinando IV, a tal riguardo stimolato da Domenico Venuti, Intendente della Real Fabbrica di Porcellana, viene indetto un concorso da svolgersi nella stessa Fabbrica al fine di scegliere due pittori da inviare nelle varie Province del Regno a ritrarre le fogge di vestire più caratteristiche e di rilevante effetto cromatico.

Le modalità stabilite per l’esecuzione dell’artistica “tenzone” si rivestono di colore prettamente partenopeo. Gli artisti concorrenti devono infatti ritrarre a tempera una Luciana, cioè una giovane donna del quartiere di Santa Lucia in Napoli, colta nel suo caratteristico abito festivo da riprodursi di fronte ed a tergo.

Il compito di formulare la graduatoria, diremmo oggi, fu assunto dallo stesso Ferdinando IV, che proclama vincitori artisti Saverio Della Gatta (sostituito poco dopo da Antonio Berotti), ed Alessandro D’Anna.

Dopo una prima indagine sul campo fatta nel 1783 in Terra di Lavoro, la missione dei due artisti viene interrotta per due anni e mezzo circa ed alla ripresa dei lavori troviamo al posto del D’Anna il giovane pittore Stefano Santucci, che dunque insieme ad Antonio Berotti continua l’avventuroso viaggio attraverso le Provincie del Regno di Napoli.

Il compito preciso affidato ai due artisti itineranti è quello di ritrarre le fogge di vestire più caratteristiche, da utilizzare come affascinante documento etnografico nella decorazione delle porcellane prodotte nella Real Fabbrica Ferdinandea.

Va ricordato a tal riguardo che malgrado i pesi daziari, la concorrenza delle ceramiche inglesi, pur nella loro fredda e stereotipata decorazione, era molto forte a Napoli, ed i servizi erano particolarmente ricercati dall’agiata borghesia e dalla stessa nobiltà.

Donde la necessità di un rinnovamento cromatico delle porcellane avvertito dallo stesso Pietro Fabris, il quale – ironia della sorte – aveva dato alle stampe nel 1773 la famosa Raccolta di vari vestimenti ed arti del Regno di Napoli con la supervisione di Sir William Hamilton, personaggio di spicco negli ambienti culturali partenopei e nella stessa Corte.

Il compito di Berotti e Santucci non è facile, anche se si può immaginare che i due artisti chiedessero continuamente informazioni sui paesi cui dirigersi a cavallo, non mancando anche di recarsi nelle località dove si svolgevano fiere o feste particolari, in modo da poter osservare direttamente le fogge di vestire del luogo e del contado.

Già nel «Vojage pittoresque on Description des Royaumes de Naple et de Sicile» (Parigi 1781-86), opera pregna di esotismo preromantico, l’Abate R. de Saint Non sottolinea che i costumi popolari dei dintorni di Napoli “sont aussi variés que le language”, una “varietà” che investe essenzialmente l’abito femminile, perché – aggiunge l’Autore – sono le donne che hanno “dans la manière de se vêtir quelque particularité qui les distingue”.

Questa realtà non era sfuggita ai due “regi disegnatori” allorché nella loro prima missione in Terra di Lavoro inviano a Napoli i primi disegni.

Il Venuti infatti, nel presentarli a Ferdinando IV, viene rampognato dal re il quale raccomanda che nelle raffigurazioni devono essere riprodotte, accanto a quelle femminili, anche le fogge di vestire maschili. I due artisti diventano così testimoni inconsapevoli di un fenomeno latente nel regno di Napoli, la omologazione cioè del vestito maschile, che per quanto concerne l’Abruzzo può essere confermata da L. Dorotea, che riferendosi al costume di Castel di Sangro afferma: “L’abito degli uomini non merita alcuna riflessione, essendo lo stesso nella maggior parte degli Abruzzi”.

Le cause del fenomeno vanno ricercate nella struttura economica del regno, che determina continui spostamenti dell’uomo nell’attività transumante ed in una miriade di lavori stagionali che incidono sulla identità del costume tradizionale maschile, con la perdita di ogni riferimento alle località di origine, come dimostrano anche ex-voto pittorici nei nostri Santuari.

L’ attività manifatturiera è infatti vivace ed alle Fiere di Foggia, Lanciano, Montorio, ecc. si può acquistare di tutto in fatto di “abbigliamento” maschile, comprese le note giamberche (giacche) confezionate con panno ruvido prodotto dalle gualchiere regnicole.

Al contrario l’abito femminile, in tutte le parti che lo compongono, conserva fedelmente i tratti delle fogge tradizionali. È la donna infatti che resta in paese, che coltiva i campi ed accudisce i figli, che si improvvisa – come scrive A. Macdonell – muratore e ciabattina, provvedendo alla raccolta della legna nel bosco come le “bestie da soma” del Patini e che nei momenti di pausa riesce a trovare il tempo per tessere al telaio indumenti da indossare nel giorno di festa.

Sono appunto quelli ritratti a Pietransieri, Pescocostanzo, Collelongo e Gioia dei Marsi da Berotti e Santucci, ma più tardi anche da Michela De Vito e Luiggi (sic) Del Giudice, forse al corrente dei “regali intendimenti” del sovrano. Al Del Giudice infatti si deve il dipinto a tempera dal titolo Uomo del Paese di Casoli (Ch), in cui il personaggio, quasi in ossequio al volere del monarca, è raffigurato di fronte e di spalle in abbigliamento festivo ed indossato per l’occasione.

Vestiti per un giorno di festa, dunque. Ma come va intesa la festa, in particolar modo nella realtà dei tre Abruzzi?

La festa, sottolinea A. Di Nola, nella società arcaica e tradizionale abruzzese, va osservata “come principale occasione rituale nella quale si esprime la religiosità rurale”. Festa, festività, festivo, sono termini che per noi evocano un periodo di esultanza, di liberazione, di divertimento vissuto in connessione con talune ricorrenze di carattere civile o religioso.

Nella realtà abruzzese – e non solo in essa – la festa è collegata invece a specifiche fasi del ciclo coltivatorio o allevatorio; è festa il 17 gennaio, ricorrenza di S. Antonio Abate che ha preservato dalla morìa il bestiame da cortile, è festa il pellegrinaggio, che nel mese di maggio assume il valore di un ex voto per scongiurare le incertezze che incombono sul raccolto; è festa a giugno e a settembre, mesi che segnano rispettivamente il ritorno e la partenza del lavoratore stagionale e che non a caso coincidono con la maggior parte delle festività patronali.

È festa la domenica ma anche nel giorno di mercato, momento aggregante e “culturale” per il mondo rurale. Il vestito tradizionale “festivo” viene così a coincidere, nel mentre lo si indossa, con un particolare momento del ciclo dell’anno e diventa in molte occasioni il simbolo della liberazione dalle cariche angoscianti e dalle tensioni, un segno del malessere storico che ha modo di emergere soprattutto nei pellegrinaggi, nei quali, sottolinea ancora il Di Nola, “l’esplosività festosa del gruppo quasi nasconde, sotto il paradiso cromatico delle fogge di vestire, i rischi di cancellazione della propria presenza storica”.

Il vestito tradizionale, in tutta la sua bellezza, viene così a nascondere una attesa: la soluzione dei mali economici ed esistenziali.

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