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GIACOMO MATTEOTTI: LO SCEMPIO DEL CADAVERE

di Filippo Paziente

Chieti, 9 giugno 2024. É noto che Giacomo Matteotti fu assassinato a Roma il 10 giugno 1924 da una squadra di cinque sicari della Čeka (organizzazione segreta, precorritrice dell’OVRA, la polizia politica del regime). La squadra era composta da Amerigo Dùmini, giornalista, affarista e pluriomicida; Albino Volpi, falegname, più volte condannato per reati comuni; Giuseppe Viola, commerciante; Amleto Poveromo, macellaio; Augusto Malacria, industriale.

Per descrivere lo scempio del cadavere di  Matteotti, compiuto dalla squadraccia fascista, il noto giornalista del Corriere della Sera, Aldo Cazzullo, nel 1° dei 9 capitoli della serie dedicata al deputato socialista, legge un brano  di questo quotidiano pubblicato il 17 agosto 1924. Il cadavere fu interrato in una fossa, scavata dagli assassini, troppo corta rispetto all’altezza di Matteotti. “Coloro che lo seppellirono dovettero indubbiamente spezzargli le gambe al ginocchio o comprimere la testa sul torace.

Questa seconda supposizione sembra la più attendibile, in quanto pare che, vicino al teschio, siano state rinvenute una clavicola e alcune costole spezzate.” La presenza di una lima, lunga 20 cm, conficcata per metà nel petto del cadavere,  “dà adito a intuitive gravissime supposizioni” (la lima sarebbe l’arma usata per uccidere Matteotti).

Lo storico Mauro Canali, nel suo celebre libro “Il delitto Matteotti” (Il Mulino, 2004), diversamente da Cazzullo, per descrivere come fu ucciso e sepolto, non usa la cronaca di un giornale, fonte poco attendibile  anche perché pubblicato il giorno dopo il ritrovamento del corpo,  ma la sentenza del processo Matteotti del 1947, che smentisce alcune affermazioni del cronista del CorSera.

Matteotti fu ucciso con un’arma da punta sulla Lancia Trikappa utilizzata per il rapimento. Il colpo mortale fu sferrato all’altezza del cuore e provocò una forte emorragia, non dovuta a uno sbocco di emottisi, come sostenuto da Dùmini. L’emorragia macchiò la giacca, rinvenuta il 12 agosto, lorda di sangue misto a terriccio, da un cantoniere che stava lavorando lungo la via Flaminia. La lima fu utilizzata solo per scavare la fossa, di forma ovoidale e di una lunghezza massima di m 1,20. Il povero Matteotti fu sepolto completamente nudo, per accelerare la decomposizione del cadavere. Il corpo era rannicchiato e compresso, ma integro.

I  cinque sicari della Ceka furono gli esecutori materiali dell’efferato delitto, il duce fu il mandante, i gerarchi fascisti suoi complici. Ma furono molti i collaboratori degli assassini. In tutto il Paese tutti quelli che commisero e condivisero le violenze fasciste. 

A Chieti, durante il processo  del marzo 1926, collaboratori furono i ceti borghesi e aristocratici, che accolsero trionfalmente gli assassini e applaudirono Roberto Farinacci quando, nell’arringa pronunciata in difesa di Dùmini, coprì di insulti il povero deputato, definendolo disfattista, perché contrario alla guerra, violento e schiavista contro i contadini, perché “li obbligava a un lavoro bestiale”.  Collaboratori  furono anche i giudici dei due processi-farsa: di Chieti nel marzo del 1926, di Roma nell’aprile del 1947.

A Chieti e in gran parte d’Italia sono numerosi i nostalgici del fascismo, che mantengono accesa la fiamma tricolore, simbolo  del partito Fratelli d’Italia e già simbolo dell’MSI. Cari nostalgici, mi permetto di dirvi: finché la fiamma rimarrà accesa, il delitto Matteotti continuerà a pesare sulla vostra coscienza.

E ficcatevi bene in mente le sue parole rivolte  ai carnefici: UCCIDETE PURE ME, MA L’IDEA CHE È IN ME  NON L’UCCIDERETE MAI.

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