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Abruzzo Popolare

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IL COSTUME POPOLARE DI ORTONA NEL SETTECENTO

Motivi di una ricerca

[Pubblicazione di Cercone Franco, Il Costume popolare di Ortona nel Settecento, Ed. Qualevita, Torre dei Nolfi (Aq.) 2005. Con 7 riproduzioni]

Può sembrare incomprensibile in un’epoca come la nostra, dominata da “mode”massificate, una ricerca sull’antico costume popolare di Ortona. Tuttavia le perplessità svaniscono quando si riflette sulla circostanza che anche le fogge di vestire fanno parte della cultura materiale di un gruppo sociale e secondo P. Toschi esse rappresentano addirittura i reperti più preziosi e significativi dei Musei Etnografici, di recente sorti un po’ ovunque in Abruzzo.

Definiti da B. Tartaglia “strumenti di conoscenza della vita di un territorio”, i costumi popolari sono diventati simboli di una identità svaniti dal nostro orizzonte culturale circa sessant’anni fa, anche se in alcune località abruzzesi – si pensi per esempio a Scanno – essi persistono ancora sfidando l’azione logorante del tempo.

All’indomani del secondo conflitto mondiale, quando Ortona andava ricostruendo lentamente la sua immagine sconvolta dai drammatici eventi bellici, era ancora possibile nei giorni di mercato riconoscere la provenienza di qualche donna del contado in base al costume indossato o ad alcune sue componenti, come per es. il corpetto, il grembiule o il fazzoletto bianco sistemato sul capo.

Non altrettanto può dirsi del costume maschile. Infatti già nel 1853 il Dorotea sottolineava ne “Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato”, a proposito del costume maschile di Castel di Sangro, che “l’abito degli uomini non merita alcuna riflessione, essendo lo stesso nella maggior parte degli Abruzzi”[1].

In questo livellamento che investe l’abito maschile, puntualmente registrato dallo storico di Villetta Barrea, si coglie un processo di omologazione cui non è estraneo il fenomeno dell’emigrazione stagionale, il quale se è vistoso nella pastorizia transumante, si avverte in area frentana anche in alcune attività agricole, come per esempio nella mietitura, oppure artigianali. Così nel luglio del 1809 sono presenti a Cansano e Campo di Giove mietitori di Crecchio e Arielli, che seguono dal piano fino ai territori montuosi dell’interno la graduale maturazione del grano e di altri cereali, mentre “mastri bottai” di Ortona sono attivi in area peligna, dove verso la metà del XVIII secolo si verifica con l’introduzione del Montepulciano una vera e propria rivoluzione ampelografica, i cui benefici effetti si proietteranno nell’intera Regione.

Di rilevante interesse è poi l’annotazione dei “regi pittori” che nel 1791, come vedremo in seguito, ritraggono ad Ortona un uomo ed una donna in costume tradizionale. In base ad informazioni attinte in loco essi scrivono infatti che “gli abitanti di Ortona vanno a coltivare la terra dello Stato Pontificio, dove trasportano alcuni beni alimentari”.

La diffusione dei “panni carfagni”, prodotti per lo più a Taranta Peligna e Montorio al Vomano, accelerano quel fenomeno che abbiamo chiamato di “omologazione” del vestito maschile e che porta alla fine alla perdita della sua identità, ancora marcata – come vedremo in seguito – nel corso del XVIII secolo.

Al pari di tutte le altre località costiere, anche ad Ortona convivevano due fogge di vestire: quella contadina, che era preminente per essere la popolazione dedita maggiormente all’agricoltura[2], e quella “marinara”, una dicotomia storica questa di cui il trabocco costituisce una efficace sintesi semantica.

Il Politi, riferendosi ad un periodo ascrivibile all’ultimo ventennio dell’800, ci offre per Ortona il seguente quadro del vestiario marinaro: “Il copricapo era un berretto di lana (rossa o scura), con un bel fiocco che pendeva sulla spalla sinistra e un vistoso orecchino d’oro sulla spalla destra. Come pure bottoni, spesso a doppia fila (ricavati con antiche monete borboniche), e fermagli d’argento fissavano la camicia, giacca (di lana o velluto), panciotto e calzoni; lino o lana bianca per le calze; fibbie d’argento per le scarpe. Per ovviare ai rigori invernali l’indumento usuale e più economico era costituito dal mantello a tutta ruota, dalla palandrana (o zimarra) per i più abbienti” [3].

Per quanto concerne il Costume femminile ortonese occorre notare che le differenze fra i ceti rurali e marinareschi non dovevano risultare consistenti. In tale sede tuttavia vanno sottolineate le vistose diversità fra l’abito descritto dal Politi (riferibile all’ultimo ventennio dell’800) e quello riprodotto dai regi pittori Antonio Berotti e Stefano Santucci nel 1791. Con qualche precisazione, tuttavia, a proposito della mandisìme, che descritta dal Politi nel modo seguente, richiama l’immagine di tale parte del vestiario disegnata dai regi pittori: “la mandisìme, tessuto di tela o di lino che, applicato sul davanti, era tenuto fermo da un nastro le cui estremità giravano dietro la schiena per annodarsi sul ventre. Il quale nastro, raccordati i lembi posteriori del busto con quelli del dorso (incrociandosi), passava sulle spalle ricongiungendosi al busto stesso sul petto, e si otteneva così un fiocco elegante e sfarzoso (lu balème)” [4].

Indossato nei momenti festivi o più significativi del “ciclo dell’anno e della vita”, il costume femminile – a differenza di quello maschile – era realizzato al telaio che troneggiava in un angolo della casa contadina come un santo nella sua nicchia.

Anche se l’abito femminile, come “fatto culturale”, non poteva sottrarsi a processi innovativi che talvolta si presentano vistosi, come per esempio a Scanno, nell’arco di una stessa generazione, la fedeltà a forme tradizionali e ad aspetti cromatici di alcune sue componenti costituiva una tendenza costante che permetteva comunque di individuare una località e talvolta anche un gruppo etnico ad essa appartenente.

È il caso questo, delle fogge albanesi di Villa Badessa, completamente diverse da quelle di Rosciano, nel cui tenimento fu trasferita da Carlo III di Borbone nella prima metà del XVIII secolo una colonia di tale popolazione balcanica.

L’identità socio-culturale rappresentata preminentemente dalle fogge femminili, più conservative e tradizionali rispetto a quelle maschili, svanisce lentamente nel periodo compreso fra le due guerre mondiali e per quanto concerne Ortona il fenomeno si coglie nelle immagini fotografiche scattate in occasione delle celebri Maggiolate, nei carri allestiti nelle Feste dell’uva oppure in occasione di particolari ricorrenze religiose, soprattutto quella del Perdono.

Anche se in bianco e nero, tali immagini lasciano intravedere costumi del tutto diversi da quelli finora esaminati e fanno insorgere il dubbio che alcune componenti del vestiario, da non molto tempo passate in disuso, vengano etichettate come “tradizionali” oppure appartenenti ad una foggia di vestire ascrivibile alla seconda metà dell’800. A tale foggia pertanto occorre dare un pur fugace sguardo per comprenderne le trasformazioni subite nel corso del Novecento.

Infatti insieme ad altre località abruzzesi, fra cui Scanno, Castel di Sangro e Pettorano sul Gizio, Ortona possiede un modello del costume popolare risalente alla prima metà dell’Ottocento.

A differenza però delle località citate, le cui fogge apparvero sul Poliorama Pittoresco[5], il disegno del costume maschile e femminile di Ortona, in bianco e nero, apparve in un periodico edito a Chieti alcuni anni prima dell’Unità d’Italia e di esso occorre parlare in modo da porre in risalto le sue profonde differenze, sia sotto l’aspetto strutturale che cromatico, rispetto a quello disegnato dai regi pittori Berotti e Santucci nel 1791.

Il costume popolare di Ortona dalla seconda metà dell’800 alle “Maggiolate”.

Nell’Album Pittorico Letterario Abruzzese, pubblicato a Chieti nel 1859, apparve un breve saggio di Francesco Bruni dal titolo Costumi Ortonesi [6], corredato del costume maschile e femminile di Ortona disegnato da un artista, Raffaele Del Ponte, di cui non siamo riusciti a rinvenire notizie biografiche.

Il disegno [in appendice] è costituito da una sorta di “trittico” in cui il personaggio femminile è colto di prospetto e di spalle ed è completato dal personaggio maschile, cioè un “marinaio” ortonese in abito festivo.

Diciamo subito che il disegno di Raffaele Del Ponte fu riprodotto da Teodorico Marino nel saggio Gli antichi costumi ortonesi, apparso in un volume miscellaneo commemorativo pubblicato nel 1929 e dal titolo Decima Maggiolata Abruzzese. Ortona a Mare 26 maggio 1929 – A. VII, di cui fu “concertatore e direttore” Guido Albanese.

Il Marino non cita, forse volutamente, né l’autore del disegno, cioè Raffaele Del Ponte, e né Francesco Bruni e scrive in modo assai vago di aver rinvenuto l’immagine del costume ottocentesco ortonese “in una vecchia incisione di un giornale di un secolo dietro, Album Pittorico Letterario Abruzzese (Anno I, n° 3) di cui non si hanno più tracce”, affermazione questa che, come si è visto, non risponde a verità.

Noi non seguiremo pertanto il saggio di T. Marino, perché esso costituisce in più punti una pedissequa ripetizione del testo di Francesco Bruni, di cui soltanto terremo conto in seguito. Va ascritto tuttavia al Marino il merito di aver registrato puntualmente il trionfo nel 1929 della Maggiolata, manifestazione – come egli sottolinea – che aveva avuto “il merito piacevolissimo di aver fatto rivivere gli antichi costumi ortonesi che giacevano nascosti e dimenticati nelle cassapanche delle nostre case avite”.

Di conseguenza, sottolinea giustamente il Marino, “prima che gli ultimi avanzi delle vecchie gonne e dei corpetti si disperdano col volgere degli anni, le nostre Maggiaiuole, dopo la celebrazione del rito canoro, dovrebbero offrire in omaggio le loro vesti di autentica antichità al Museo Civico”.

L’appello del Marino restò purtroppo inascoltato ma resta nei nostri auspici il ripristino della Maggiolata, come chiariremo meglio in seguito.

Tuttavia i costumi indossati dalle “Maggiaiuole”, cioè dalle figuranti che partecipavano alle celebri Maggiolate, tutto erano ad onor del vero che “antichi” e lo dimostrano le immagini fotografiche in bianco e nero scattate sia in occasione delle Maggiolate che durante altre manifestazioni, come per esempio la “festa dell’uva” [in appendice]. Esse ci mostrano infatti gruppi di figuranti che indossano costumi l’uno diverso dall’altro e che comunque rappresentano una lenta evoluzione delle fogge disegnate nel 1859 da Raffaele Del Ponte.

Dalle immagini fotografiche delle maggiolate e delle feste dell’uva, alle quali partecipavano carri allestiti anche nel contado di Ortona, risulta innanzitutto che era scomparso il modo caratteristico di portare – come scriveva F. Bruni nel 1859 – “il capo all’impazzata, ciò è dire co’ capelli avviati tutti allo indietro, dove raccolti in una treccia, a più capi o in due trecce, li dispongono a spira…Nel far la treccia, girano con l’un dei capi un nastro rosso, verde, o nero, che son segnacoli dello stato maritale, nubile e vedovile”.

Questo nastro è ben visibile nel citato disegno di Raffaele Del Ponte (Ortona 1859), cioè nella figura femminile posta al centro del “trittico”, ma è del tutto assente nella donna riprodotta nel 1791 dai regi pittori Berotti e Santucci [cfr. immagine di copertina], la quale non ha capelli a treccia e porta sul capo la classica magnosa (dallo spagnolo manyossa), cioè un “panno da testa” o “fazzoletto” per lo più bianco comune a molte fogge di vestire nel Regno di Napoli e perciò detta magnosa neapolitana [7].

Dalla magnosa, in auge nel XVII secolo, deriva probabilmente lo strapizzo (o trapizzo), elemento dell’abbigliamento femminile che soprattutto dalla prima metà del ‘700 inizia ad indicare due capi del vestiario completamente differenti, anche sotto il profilo sociale. Infatti documenti notarili del XVIII secolo, pubblicati di recente da Nicola Fiorentino, parlano specialmente in riferimento ai centri della Valle dell’Aventino di : “Uno trapizzo seu cappatore per la testa”; di un “faccioletto da capo, ossia  trapizzo”; di “due trapizzi,  o siano fazzoletti da testa in uso sia per i giorni festivi (ed in tal caso risultavano merlettati o aggraziati da trine, dette anche pezzelle o pezzilli) che feriali, come si evince da un altro rogito in cui si parla di “tre trapizzi ordinarj d’ogni giorno[8].

Come sottolinea il Fiorentino il trapizzo (o strapizzo) indica pertanto – almeno nell’area del medio corso del Sangro e nei centri dell’Aventino – un “fazzoletto quadrato, ma ripiegato in diagonale”, in uso presso il mondo rurale. Tale fazzoletto non ricopriva tuttavia le spalle e la parte superiore del petto, ma era poggiato sulla testa e trattenuto sui capelli da una sorta di spillone.

In Ortona invece – e presumibilmente anche nel suo entroterra – lo strapizzo indicava una diversa componente dell’abito femminile, che alla luce dei documenti iconografici superstiti, è diffusa nella prima metà dell’800 presso i ceti sociali borghesi e non rurali e copriva a mo’ di piccolo scialle le spalle ed il petto, ma non la testa.   

Infatti se si osservano attentamente le due figure femminili riportate (recto e retro) da Raffaele Del Ponte nel 1859, nonché l’abito del personaggio maschile (marinaio) che completa il trittico, si ha la netta impressione che non si tratta di fogge tradizionali in uso presso i ceti popolari, bensì di veri e propri vestiti di moda riscontrabili ad Ortona presso le classi egemoni dell’epoca. Ne fa fede l’elemento del vestito femminile, cioè lo strapizzo, ben messo in evidenza nel disegno di Raffaele Del Ponte ed a proposito del quale il Bruni osserva: “Questo ornamento, che in buona lingua diremmo gala, le nostre chiamano strapizzo, che in generale significa fazzoletto quadro, scompartito in due con taglio diagonale”.

È quanto sottolinea nel 1929 anche il Marino, il quale scrive: “Al collo e sulle spalle (le donne) avevano un pizzo di seta o di lino bianco, liscio od operato, di ricami o di colori gai; il pizzo si estendeva anche al dorso, mentre le due estremità erano raccolte davanti al busto, al di sotto dei seni che sorgevano liberi sul loro taglio. Questo ornamento, che si diceva di gala, era chiamato strapizzo”.

Rispetto al costume settecentesco, quello del secolo successivo (nè poteva essere altrimenti) appare dunque completamente mutato nella struttura e nelle singole componenti, ma ha conservato, come scrive il Bruni, “il zinale o zinaletto, che in altri luoghi d’Abruzzo chiamano parnanza”.

La rappresentazione del personaggio maschile nel disegno del 1791 [in copertina] lascia insorgere il dubbio che i regi pittori Antonio Berotti e Stefano Santucci abbiano avuto per “modello” un contadino, come dimostra il cappello a larghe tese, e non un “marinaio”, come quello riprodotto da Raffaele Del Ponte nel 1859, il cui abbigliamento presenta molte affinità con la descrizione effettuata da A. Politi e che si riferisce all’ultimo ventennio dell’800.

Nel commentare il disegno di R. Del Ponte, Francesco Bruni notava nel 1859 che “il marinaio ortonese copre il capo di un berretto di lana rossa, turchina, bigia od anche nera, con in fondo una nappa che qui chiamano fiocco; cotal nappa pende sulla spalla sinistra”. Inoltre i marinai, prosegue il Bruni, indossano una “giacchetta di lana o di velluto, con ottonatura doppia o scempia a ciascun petto, fatta con pezzi di quattro o sei carlini d’argento. Il panciotto anch’esso ha le bottonature fatte con tari d’argento[9], dove s’abbottonano al ginocchio per poi affibbiarsi con fermaglio d’argento. Le calzette hanno di lino, di lana, e di seta bianche”. Inoltre “dall’orecchio destro ciondola un grossissimo orecchino d’oro diversamente foggiato”.                    

Il Politi sottolinea a proposito degli orecchini che fino agli ultimi decenni dell’800 “ce n’erano a forma di dondolo (campanule a festoncino con stelline annodate), di minuscoli panieri (le cestarelle) o di un ampio cerchio d’oro (le chierchje). Le collane risultavano piuttosto lunghe: a più giri intorno al collo (nastri rossi e verdi infilati a palline di corallo alternate a sferule d’oro: le còcchele), o pendenti fin oltre metà vita (lu lacce)”[10]. 

Una collana “a più giri intorno al collo” è proprio quella che spicca nella figura femminile disegnata da Berotti e Santucci nel 1791 [in copertina]. Questa indossa orecchini d’oro di forma difficile da individuare, che sembrano abbozzati anche nelle orecchie del personaggio maschile, a conferma di quanto scrive il Politi secondo cui “fino agli ultimi decenni del secolo (XIX) qualche anziano portava ancora minuscoli orecchini”[11].

Il Costume popolare di Ortona, disegnato dai “regi pittori”, fu completato nei suoi aspetti cromatici da Giacomo Milani nella Real Fabbrica di Porcellana a Napoli, secondo le indicazioni fornite da Berotti e Santucci. La foggia risale sicuramente alla metà del XVIII secolo, periodo in cui tutte le componenti dell’abito maschile e femminile si erano già cristallizzate nelle forme in cui appaiono nella gouache conservata a Palazzo Pitti a Firenze. Si tratta dunque della fonte iconografica più antica, una vera e propria foto a colori ante litteram che noi conosciamo e da considerarsi pertanto come prototipo, anche se precedenti e significative varianti potrebbero scaturire da ex voto pittorici conservati in qualche santuario situato in Abruzzo o altrove (si pensi per esempio a Casalbordino, a Monte S. Angelo, a San Nicola di Bari, a Loreto Marche ecc.), meta di frequenti pellegrinaggi da parte della devota popolazione ortonese.

Tuttavia è il costume disegnato da Berotti e Santucci, date le finalità per cui fu realizzato, che merita qualche riflessione. Infatti sulla scia di una tradizione da tempo consolidata, Ortona vanta uno dei più importanti cori abruzzesi che presenta un ricco repertorio di canti popolari. Poiché il costume indossato dalla Corale Ortonese nelle sue esibizioni non ha alcun rapporto gestaltico e cromatico con le antiche fogge locali, l’immagine dell’abbigliamento maschile e femminile realizzata ad Ortona nel 1791 costituisce un importante documento storico, un modello cui ispirarsi e che va fedelmente riprodotto pur con l’impiego di differenti tessuti offerti dall’odierna industria tessile.

A tal fine l’Amministrazione Comunale di Ortona potrebbe servirsi del locale Istituto Professionale per l’Industria e Artigianato che annovera fra i suoi corsi anche quello di Sarta per Moda, creando così un raccordo fra tale Istituzione Scolastica ed esigenze socio-culturali cittadine, che in altre occasioni è risultato assai fruttuoso.

Ferdinando IV di Borbone e la “Real Fabbrica di Porcellana” a Napoli.

Nel Novembre del 1782 si svolse a Napoli presso la Real Fabbrica di Porcellana un singolare concorso patrocinato dallo stesso re Ferdinando IV e riservato ad artisti che operavano per lo più nella Fabbrica di Porcellana. Costoro dovevano ritrarre una giovane Luciana, cioè una donna del quartiere di Santa Lucia, nei suoi abiti caratteristici, assai apprezzati e noti sotto il profilo cromatico nonché per la ricchezza e fantasia degli ornamenti.

Si ritiene che il vero ispiratore del concorso sia stato il marchese Domenico Venuti, direttore artistico della Real Fabbrica dal 1779 ed ideatore del progetto “per l’assegnazione a due pittori dell’incarico di documentare con i loro pennelli i vari modi di vestire degli abitanti del regno”[12], da riportare poi sui servizi di porcellana prodotti nella Real Villa di Portici.

Questa era stata fondata da Ferdinando IV nel 1772, con sede prima a Portici e poi trasferita nel Real Palazzo a Napoli[13].

Fu “Sua Maestà Ferdinando IV in persona” a scegliere ed a rendere noto, l’11 dicembre 1782, il nome dei due pittori fra i tanti che avevano partecipato al concorso, e cioè Alessandro D’Anna e Saverio Della Gatta, due artisti assai noti nella capitale del Regno “nel settore della riproduzione dei costumi”.

Per motivi a noi sconosciuti Saverio Della Gatta rinunciò tuttavia all’incarico e venne sostituito da Antonio Berotti, cognato di Alessandro D’Anna.

Con “regal determinazione” di Ferdinando IV fu assegnato ai due pittori una paga mensile la cui diversa entità costituiva il riflesso delle quotazioni sul mercato dei due artisti[14].

A Berotti e D’Anna fu ordinato di partire subito per la loro missione ricognitiva, cosa che avvenne il primo febbraio del 1783 e dunque due mesi dopo lo svolgimento del famoso “Concorso”.

Su precisa indicazione di re Ferdinando IV e forse del direttore della Real Fabbrica di Porcellana, Domenico Venuti, i due artisti ebbero l’incarico di visitare i paesi del regno nei quali le fogge di vestire risultassero di grande interesse stilistico e cromatico, e di riprodurre solo i “semplici contorni dei costumi, perché il compito di colorare le varie componenti del vestiario, sulla base dei dati forniti dai due regi pittori, fu affidato dal re a Giacomo Milani, direttore dei Pittori della Real Fabbrica di Porcellana.

Dal febbraio del 1783 fino al mese di giugno di tale anno D’Anna e Berotti operarono in Terra di Lavoro e già alla fine di febbraio del 1783 trasmisero al Direttore della Real Fabbrica a Napoli i primi guazzi, chiamati “figurine” e riproducenti solo il costume femminile. Appena portati in visione di Ferdinando IV, il re ordinò subito ai due pittori “che in avvenire non lascino di comprendere nello stesso quadretto il modo di vestire e degli uomini e delle donne dello stesso paese[15].

Non si conoscono i motivi per cui la missione dei due artisti si interrompesse per circa due anni e mezzo. Tuttavia, quando essa riprese nel gennaio del 1786 in provincia di Salerno, era avvenuto che il giovane pittore Stefano Santucci, stipendiato con 20 ducati al mese, aveva sostituito Alessandro D’Anna, sicché la coppia Antonio Berotti e Stefano Santucci è quella che per circa “15 anni, fra soste ed interruzioni varie”, visitò molte località per ritrarre le vestiture più caratteristiche del regno.

Non staremo a seguire le difficoltà che i due regi pittori dovettero affrontare durante le loro “peregrinazioni”. Diciamo subito – ed è ciò che in tale sede interessa – che la ricognizione di Berotti e Santucci nella nostra Regione iniziò nell’Abruzzo Ulteriore nel dicembre del 1789, anno memorabile della Rivoluzione Francese[16].

Data la rigidità del clima e l’impraticabilità delle strade che all’epoca, scriveva il De Sterlich, “non le farebbe nemmeno un diavolo col dolor di ventre”, si intuisce che i regi pittori poterono iniziare la loro attività nel Teramano solo all’inizio della primavera del 1790, per proseguirla in Abruzzo Citra ed in Molise nel periodo 1791-1793 con interruzioni dovute al loro frequente rientro a Napoli. Risale infatti al 1794 l’ordine di Ferdinando IV impartito a Berotti e Santucci di recarsi in Calabria Ultra per ritrarre le “vestiture” più significative di tale regione[17].

L’itinerario seguito dai due pittori negli Abruzzi non ci è noto. Tuttavia è possibile ipotizzare che essi lasciassero l’Abruzzo Ulteriore I, comprendente allora il Teramano con tutto il territorio posto sulla riva sinistra del Pescara, e pervenissero in Abruzzo Citeriore. L’ultimo costume disegnato fu forse quello di Schiavi d’Abruzzo, come suggerisce la “Carta delle località abruzzesi visitati dai Regi Pittori” tratta dal citato volume Napoli – Firenze e ritorno [Carta  riprodotta in appendice].

Per quanto concerne la parte della fascia costiera frentana e del suo immediato entroterra, che in tale sede interessa, i Regi Pittori ritrassero le fogge di Ortona, Casalbordino, Mozzagrogna, e Paglieta.

Le località indicate nella Carta devono intendersi tuttavia in senso restrittivo, in quanto i paesi visitati da Berotti e Santucci furono certamente di più rispetto a quelli riportati sulla Mappa. Come sottolinea A. Carola-Perrotti, “non v’è dubbio che durante la campagna di ricognizione vennero eseguiti anche numerosi schizzi dei luoghi … e dopo il 1790, Berotti e Santucci devono aver inviato numerose vedute, …a ulteriore conferma della stretta connessione fra il tema dei costumi e quello delle vedute”, da utilizzare nei vari Servizi di porcellana prodotti nella Real Fabbrica di Napoli. Se ne ha conferma, prosegue la Carola-Perrotti, dall’inventario redatto nel 1807 a Napoli in occasione della chiusura della Real Fabbrica della Porcellana, quando appunto dopo la fuga di Ferdinando IV in Sicilia (23 gennaio 1806) fu redatto a cura del francese P. Chamboissier un elenco comprendente 84 disegni, 83 dei quali “passati a penna da Antonio Berotti” e relativi a vedute delle località visitate “ufficialmente” dai regi pittori per ritrarre le Vestiture[18].

Gli esempi che qui interessano riguardano:

  1. Due vedute di Atessa
  2. Tre vedute della Città di Ortona a Mare
  3. Una veduta della Città di Lanciano.

Di queste tre località i regi pittori ritrassero solo le vestiture di Ortona, almeno alla luce delle fogge di vestire che ci sono pervenute, ma non sono da escludere altre possibilità.

La più suggestiva ipotesi è che siano stati disegnati anche i costumi di Atessa e Lanciano; ma ritenuti forse a Napoli poco rappresentativi sotto il profilo cromatico o stilistico, essi sono stati messi da parte e col tempo si sono perse le loro tracce. 

Si vuol sottolineare in sostanza che è difficile immaginare Berotti e Santucci che sostano pur se brevemente ad Atessa e disegnino solo due vedute di questa località, tralasciando le fogge di vestire locali. Di altro avviso è invece la Masdea, la quale sostiene che “i due pittori inviati in ricognizione operarono una scelta prevedibile: ritrassero dove poterono, i costumi più belli, quelli più ricchi ed appariscenti”.

Come si è già detto, i regi pittori avevano solo il compito di realizzare il disegno dei costumi, indicando la coloritura delle loro componenti da eseguirsi nella Real Fabbrica da Giacomo Milani.

Secondo le “determinazioni reali”, i costumi così realizzati dovevano essere raffigurati sui servizi di porcellana prodotti nella Real Fabbrica, dei quali si intendeva rinnovare l’aspetto cromatico per far fronte alla porcellana d’importazione, soprattutto inglese. Tuttavia “ben presto il genere acquistò una sua completa fisionomia”[19]e lo stesso Ferdinando IV aveva compreso l’affaire, sulla scia dell’enorme richiesta delle figurine da parte dei viaggiatori europei che nell’ambito del Grand Tour sostavano a Napoli, “paradiso abitato da diavoli” come scrive Goethe nel suo Italienische Reise.

Il successo delle fogge di vestire era stato anticipato a ben osservare nel 1773 da Pietro Fabris, che aveva pubblicato a Napoli in collaborazione con Sir William Hamilton, Ministro plenipotenziario inglese accreditato presso la corte di Ferdinando IV, la fondamentale Raccolta di varii Vestimenti ed Arti del Regno di Napoli, ispirata a scene di vita popolare e dedicata allo stesso Hamilton[20].

Nell’interesse per i costumi tradizionali, fenomeno prettamente settecentesco, emergono aspetti culturali illuministici e nello stesso tempo preromantici che si colgono nel pensiero del direttore della Real Fabbrica di Porcellana, Domenico Venuti, e dello stesso Ferdinando IV, il quale in tale occasione tutto appare fuorché quel personaggio villereccio dipinto dalla storiografia post-risorgimentale.

L’intento del Venuti era innanzitutto quello di “distruggere l’abuso, che facevano i negozianti di stampe, di figure ideali[21], laddove gli scopi del Direttore della Real Fabbrica erano invece squisitamente scientifici ed etnografici.

Pertanto con la ricognizione dei regi pittori, sottolinea la Masdea, si dovevano documentare “le immagini degli abiti realmente indossati dagli abitanti” nelle varie province del Regno.

D’altro canto, nella concezione romantica del paesaggio come “stato d’animo”, che inizia a diffondersi nell’ultimo trentennio del XVIII secolo, la figura umana fa parte di questa Kunstanschauung ed offre al vedutismo una ulteriore connotazione di colore quando essa è colta nei mestieri tradizionali, nei momenti festivi e di svago, nonché nelle attività stagionali sui campi [22].

La richiesta continua – e non solo da parte dei Viaggiatori Europei – di quadretti raffiguranti le fogge tradizionali, sia come souvenir che a scopi ornamentali e decorativi, indussero il Marchese Domenico Venuti a chiedere l’autorizzazione a Ferdinando IV di “incidere a proprie spese le figurine dei costumi popolari, ma il re rifiutò il suo consenso” ed affidò la loro vendita in esclusiva a Vincenzo Talani, all’epoca notissimo commerciante di stampe. “Gli ordini – sottolinea ancora la Masdea – non vennero rispettati da un mercato molto vivace, in cui la richiesta dei costumi popolari era sempre più forte”, malgrado che Ferdinando IV emanasse nel 1795 un decreto in cui “si proibiva la stampa e la vendita di immagini di costumi popolari prodotti sia dentro che fuori del regno”.

Basti pensare che Bartolomeo Pinelli pubblicò a Roma la nota “Raccolta di cinquanta costumi li più interessanti delle città, terre e paesi in provincie diverse del Regno di Napoli”, la cui fortuna è attestata dalle due edizioni del 1814 e 1817.Tuttavia essa non era equiparabile al successo ottenuto dalla raccolta di incisioni di Raffaele Aloja, colorate da Giacomo Milani, che fu pubblicata più tardi nel 1832 dalla Stamperia Reale a Napoli ed in cui stranamente sono compresi i costumi di Mozzagrogna, Chieti, Casalbordino, Vasto, Schiavi d’Abruzzo, Pietra Ferrazzana e Castiglione Messer Raimondo ma non quello di Ortona, di cui ci accingiamo a parlare nel paragrafo seguente.

 Le tempere lorenesi ed il costume popolare di Ortona nel Settecento.

Come si è detto, il 9 dicembre 1789 il Preside di Teramo, capoluogo dell’Abruzzo Ulteriore I, ricevé un dispaccio reale da Napoli nel quale si preannunciava l’arrivo dei due regi pittori, Antonio Berotti e Stefano Santucci, per ritrarre le “vestiture” di questa regione del regno.

Nulla conosciamo in merito all’itinerario seguito dai due artisti, ma è probabile che essi abbiano raggiunto Teramo nella primavera del 1790 facendo il viaggio via mare da Manfredonia a Giulianova a causa della inesistenza delle vie di comunicazione e dato che i lavori di completamento della Real Strada di Fabbrica, nel tratto Pettorano-Roccavalloscura (Rocca Pia) erano iniziati – come ci informa il viaggiatore svizzero C. Ulisse De Salis Marschlins – “nel settembre del 1789” e dunque alcuni mesi prima del loro arrivo a Teramo [23]. L’ipotesi è avvalorata dalla circostanza che fra i disegni “passati a penna” da Antonio Berotti e di cui si è parlato in precedenza, sono annoverati una Veduta della Città di Giulianova in Abruzzo Ultra e Due vedute della Città di Manfredonia [24], località dunque visitate ai fini della ricognizione dei costumi da parte dei due regi pittori.

La “Carta delle località abruzzesi visitati dai Regi Pittori”, tratta dal citato volume Napoli – Firenze e ritorno, che abbiamo riportato in appendice, non deve trarre in inganno.

In essa non sono riportate località come Montorio al Vomano, Colonnella, Pietra Camela (da cui è stata ripresa forse la “Veduta di Montecorno, o sia Gran Sasso d’Italia”, ripassata a penna da Antonio Berotti) certamente visitate dai due regi pittori. Per cui si può ragionevolmente supporre che essi abbiano impiegato tutta la primavera e l’estate del 1790 a ritrarre le fogge dei paesi del Teramano segnati sulla “cartina” e poi da Pietracamela, attraverso pur impervi sentieri, abbiano raggiunto L’Aquila, data la breve distanza   intercorrente fra i due versanti del Gran Sasso.

Se la nostra ipotesi è esatta, il viaggio compiuto dai due regi pittori a Mascioni deve essere avvenuto in tale circostanza [25].

È nella primavera del 1791 che Berotti e Santucci hanno fatto probabilmente ritorno negli Abruzzi. La località dove per prima si recano a ritrarre le Vestiture è incerta, ma si può immaginare che sia stata Penne, come suggerisce la citata “Carta”, da dove si sono recati forse a Rosciano e quindi a Chieti, trampolino delle loro ricognizioni in Abruzzo Citra e in Molise. Se è incerto l’anno in cui i due pittori soggiornano ad Ortona (1791 oppure 1792), appare certo che entro il triennio 1791- 93 i due artisti ultimarono i loro lavori in Abruzzo Citra e nel contado di Molise [26].

Provenienti da Francavilla, Berotti e Santucci entrarono forse ad Ortona attraverso l’antica Porta San Giacomo e come ovunque, il primo pensiero fu quello di presentare le loro credenziali ai Sindaci, sicuramente già informati del loro arrivo da parte del Preside di Chieti.

In Città, pur essendo i rapporti intercorrenti fra i vari ceti sociali alquanto critici, soprattutto a causa dell’elezione del primo Sindaco [27], la vita scorreva abbastanza tranquilla e non si immaginavano i funesti avvenimenti che si sarebbero verificati sette anni dopo a seguito dell’invasione del regno da parte delle armate napoleoniche [28].

Nella prima metà del ‘700 emerge certamente ad Ortona una forte disparità fra “possidenti” e non possidenti, che non deve aver registrato significativi mutamenti all’epoca dell’arrivo dei due regi pittori [29], allorché Ortona, con le sue ville,aveva “5.689 anime”, come ci informa puntualmente Giuseppe M. Galanti [30].

L’attività preminente era la viticoltura, mentre i pescatori ed i marinai erano occupati allo scalo anche nell’arrendamento del sale, gestito per lo più dai Veneziani residenti in città [31]. In questo periodo Ortona conservava forse un impianto urbanistico non molto dissimile da quello raffigurato nell’ultimo decennio del XVII sec. da Giovan Battista Pacichelli ne Il regno di Napoli in prospettiva, opera pubblicata postuma a Napoli nel 1703 [in appendice] .

La struttura socio-economica di Ortona era dunque preminentemente rurale e caratterizzata per lo più da mezzadri e fittavoli i quali – annotano i due regi pittori – “vanno a coltivare la terra dello Stato Pontificio”. Questo fenomeno di emigrazione stagionale non sfuggì all’attenzione del Galanti, il quale nel libro X della sua citata opera (1794) osserva come “Ortona, tutto che sia situata per il commercio, all’aspetto mostra di essere un paese abbandonato”.

La breve descrizione della situazione socio-economica e demografica della Città costituisce la cornice all’evento che in tale sede interessa: l’arrivo nel 1791 (o forse nel 1792) di Berotti e Santucci che disegnano la coppia “Uomo e Donna della Città di Ortona”, messa a loro disposizione dai Sindaci della Città.

I disegni dei costumi venivano portati a Napoli direttamente dai due artisti oppure inviati tramite corsori, cioè “procaccia” postali che prestavano servizio lungo il camino degli Abruzzi [32]. I costumi erano forniti di precise indicazioni circa la coloritura delle varie componenti, secondo la collaudata tecnica a gouache.

Questo compito, come si è detto, era stato affidato da Ferdinando IV al direttore dei pittori presso la Real Fabbrica, Giacomo Milani, il quale evidentemente distribuiva a sua volta il lavoro fra gli artisti che operavano alle sue dipendenze. Ciò potrebbe spiegare il motivo per cui non tutte le gouaches relative ai tre Abruzzi, sulla base dei disegni fatti da Berotti e Santucci, vengono attribuite al Milani, anche se molte di esse furono comunque scelte per decorare le porcellane facenti parte del cosiddetto Primo Servizio delle Vestiture del Regno.

Le fogge riprodotte nel “Primo Servizio”, comprendenti anche quelle del Molise, sono considerate le più belle sotto il profilo cromatico ed artistico. I relativi “rami”, incisi da Raffaele Aloja, furono salvati miracolosamente da Domenico Venuti, direttore della Real Fabbrica della Porcellana, prima dell’ingresso del Generale Championnet a Napoli il 23 gennaio del 1799 [33].

Dal 1785 fino al 1799 vi furono diverse “visite di Stato di Ferdinando IV in Toscana, presso la Corte dei Lorena” [34] ed “alla data del 1799” risultano presenti a Firenze nella Villa di Castello 208 gouaches realizzate a tempera presso la Real Fabbrica di Porcellana da Giacomo Milani ed altri pittori, secondo le indicazioni cromatiche fornite da Berotti e Santucci. Queste tempere costituivano dunque un dono di Ferdinando IV ai parenti di Casa Lorena e giunsero pertanto in Toscana, come sottolinea la Masdea, in diverse fasi.

Le figurine risultano incorniciate da un passe partout a mo’ di quadretto ed ebbero successivamente diverse collocazioni. Nel 1911 – ci informa sempre M. Cristina Masdea – la raccolta venne smembrata: “82 quadretti vennero portati alla Villa della Petraia[35]e gli altri che erano restati alla Villa di Castello “furono trasferiti nel 1954 nei depositi di Palazzo Pitti” a Firenze, fra i quali si trova appunto con numero d’inventario C202 la gouache riprodotta in copertina, dal titolo: “Uomo e Donna della Città di Ortona. Comune del Distretto di Chieti, Provincia di Abruzzo Citra[36].

Vediamo innanzitutto le caratteristiche del costume maschile e femminile secondo la scheda originaria redatta da Berotti e Santucci, il cui testo fu successivamente “rivisto e corretto”, come si evince dallo stile della descrizione qui appresso riportata:

Uomo e Donna della Città di Ortona Provincia di Chieti

Ortona (comune del distretto di Chieti, provincia di Abruzzo Citra)

Costume maschile. Cappello di feltro nero a tesa larga.
Cravatta bianca; camiciola rossa con pettini foderati di
tela grigia, doppia filza di bottoncini di stagno; fusciacca
di lino bianco a righe celesti annodata in vita. Giamberga
celeste, paramani ai polsi con asole e bottoni di ottone.
Calzoni blu. Calze bianche con legacci celesti,

scarpe nere con fibbia di metallo.

Costume femminile. Orecchini in oro a due elementi:

bottone rotondo, pendente a mezzaluna e dondolini.
Collana di grani di corallo a più fili. Sul capo fazzoletto
di lino bianco chiuso a triangolo annodato sotto il mento.
Camicia bianca con scollo profondo, ricamato
all’orlo,
maniche lunghe ricce ai polsi; corpetto rosso con maniche
sagomate. Gonna verde a pieghe, bordo a linea spezzata
di nastrino rosa, pettorale e tiranti guarniti di noche rosa.
Grembiule bianco legato con fettuccia rosa.

Calze bianche, scarpe nere con fibbia di ottone.
Ortona è circondata dai monti, dove frequentemente è
praticata la caccia. Produce grano, legumi, noci,
mandorle. Gli abitanti vanno a coltivare la terra dello
Stato Pontificio, dove trasportano beni alimentari. [C 202]

Notiamo brevemente che nell’abito maschile, sottoposto da tempo come si è detto a processi omologanti, appaiono evidenti alcune caratteristiche che si riscontrano nei costumi di altre località abruzzesi visitate dai due regi pittori, come per esempio il “cappello di feltro nero a tesa larga” e la giamberga, specie di redingote di color celeste; il termine deriva dallo spagnolo chamberga e lascia supporre che questa specie di giacca, lunga fino al ginocchio, si sia diffusa nel Viceregno durante il XVII secolo e dunque sotto la dominazione spagnola.

Grazioso ed originale, pur nella sua semplicità, appare l’abito femminile.

In particolare le due rosette, che sembrano fissare l’attacco delle bretelle sull’ampia gonna, conferiscono al costume un tono di sobria eleganza che non si rinviene nelle altre fogge dell’area frentana. Inoltre, come sottolinea la Silvestrini, la botte su cui è appoggiato il personaggio maschile costituisce un “documento particolarmente interessante di cultura materiale folklorica[37], un’efficace immagine semantica per mezzo della quale i due regi pittori ci hanno comunicato quale fosse la principale attività economica esercitata in Ortona e suo Contado.

Durante il loro soggiorno in Città, Antonio Berotti e Stefano Santucci non lavorarono soltanto sul costume popolare ortonese, indossato nei giorni festivi del ciclo dell’uomo e dell’anno. Infatti si ha notizia che “nell’inventario redatto nel 1807, al momento della chiusura della Real Fabbrica di Porcellana, venne trascritto un elenco comprendente 84 disegni, 83 dei quali passati a penna da Antonio Berotti, che si riferiscono a immagini di quegli stessi luoghi che Berotti e Santucci avevano visitato ufficialmente per le vestiture”[38].

Dall’inventario del 1807, stilato nella Real Fabbrica di Porcellana subito dopo la fuga di Ferdinando IV in Sicilia, risultano Tre vedute della Città di Ortona a Mare, in Abruzzo Citra, rifinite e passate a penna da Antonio Berotti ma che purtroppo non esistono più nell’Archivio di stato di Napoli, dove la Carola-Perrotti ha rinvenuto con inventario Casa Reale Antica, Fascio 1552, solo l’elenco delle località stilato nel 1807 da P. Chamboissier , ma non i relativi disegni , di cui si è persa ogni traccia[39].

Insieme alle fogge di vestire anche le vedute, antesignane delle moderne cartoline, costituivano immagini del meridione che il “turista europeo”, nell’ambito del Grand Tour, amava conservare quale souvenir del suo Viaggio in Italia.

Quello che abbiamo rinvenuto al Museo San Martino a Napoli è invece un interessante disegno, attribuibile ad Antonio Berotti, in cui sono riprodotti insieme alcuni costumi (maschili e femminili) della Provincia di Chieti, come risulta dalla scritta ancora visibile in basso, fra cui la foggia di vestire delle donne di Ortona [in appendice: terzo personaggio da sinistra].

È inutile sottolineare il danno derivato da questa scomparsa per la storia di Ortona. 

Come ha ben evidenziato la Carola-Perrotti, anche i paesaggi disegnati dai due regi pittori dovevano essere utilizzati  nei servizi di porcellana della Real Fabbrica, ed in particolare per i cosiddetti  Servizi dell’Oca e del Fiordaliso; ma il precipitare degli eventi legati agli inizi del 1806 all’invasione francese del regno, vanificò il programma di Domenico Venuti e di Ferdinando IV, sicché restano solo pochi pezzi del Primo Servizio delle Vestiture del Regno, che fanno parte di collezioni private italiane ed europee oppure di raccolte museali.

Segnaliamo così una caffettiera conservata a Napoli nel Museo “Duca di Martina”, sulla quale è raffigurato il costume (maschile e femminile) di Massagrogna (Mozzagrogna) elaborato da Giacomo Milani sulla base del disegno di Berotti e Santucci ed inciso da Raffaele Aloja.

La coppia di Mozzagrogna si rinviene raffigurata anche in un Servizio da caffè prodotto dalla “Manifattura Poulard-Prad” nel decennio Murattiano, a conferma del successo riscosso dal costume popolare di questa località sangrina.

Successivamente, nel 1832, venne pubblicata dalla Stamperia Reale a Napoli la famosa raccolta di Costumi diversi di alcune popolazioni de’Reali Domini di qua del Faro, disegnati da Berotti e Santucci e dipinti da Giacomo Milani.

Questi costumi, sui quali invano Ferdinando IV aveva imposto fin dal 1795 una “privativa” per impedirne un commercio illecito, si vendevano ormai “a fogli sciolti”, fungendo da prototipi imitati in seguito da disegnatori ed artisti europei.

Anche in questa raccolta sono presenti molte fogge di vestire dell’area frentana ma manca quella di Ortona, a causa probabilmente – come si è sottolineato in precedenza – della sua semplicità e della sua modesta appariscenza, sicché la differenza fra abito giornaliero ed abito festivo non doveva risultare ad Ortona, come riteniamo, molto marcata.

Comunque, al pari di tutti gli altri costumi disegnati da Antonio Berotti e Stefano Santucci, anche quello di Ortona veniva indossato nei giorni di festa.

Tuttavia la festa non coincideva nel mondo rurale solo con le ricorrenze religiose, ma si ricollegava invece soprattutto alle fasi più importanti e vitali del ciclo coltivatorio ed allevatorio, accompagnato periodicamente da grandi momenti di tensione ed attesa. Festa, dunque, per l’uccisione del maiale, affidato alla protezione di S. Antonio Abate, per la mietitura e trebbiatura del grano, per la raccolta delle olive e dulcis in fundo per la vendemmia [in appendice: Festa dell’uva], specie quando l’uva si era salvata dall’azione devastante degli agenti atmosferici, fra cui la temutissima grandine.

Oltre alle feste del ciclo dell’anno, v’erano quelle legate al ciclo dell’uomo.

In occasione di battesimi e nozze il vestito, riposto nei tipici cassoni di legno, tornava a veder la luce del sole ed a far bella mostra di sé arricchito dagli ori famigliari e soprattutto dalle collane di corallo, come quella indossata dal personaggio femminile ritratto ad Ortona da Berotti e Santucci, perché da sempre il corallo è stato ritenuto un potente amuleto contro il malocchio.

Come si è detto in precedenza, il costume popolare costituiva un simbolo di appartenenza ad un determinato gruppo sociale, ad una comunità facilmente riconoscibile per via dei colori dell’abito e delle sue componenti. Altrove – si pensi per esempio, per restare in Italia, all’Alto Adige ed alla Val d’Aosta – il costume popolare, opportunamente adattato ai nostri tempi, viene ancora indossato nei giorni di festa specie dalle donne appartenenti ad ogni ceto sociale. Esso assurge a valore di identità culturale e di appartenenza storica ad un determinato territorio, di cui rappresenta una sorta di “bandiera”. 

C’è da augurarsi pertanto che anche ad Ortona si riscopra questo anello di collegamento fra passato e presente, specie oggi in cui la moda è assurta ad elemento omologante e brancola nel buio alla ricerca di nuove fonti ispiratrici nel settore dell’abbigliamento.

Detto questo, non ci resta che esprimere un ulteriore augurio e cioè che la Civica Amministrazione di Ortona dedichi ad Antonio Berotti e Stefano Santucci una via cittadina, in modo che i due regi pittori possano essere degnamente ricordati dalle future generazioni ortonesi.           

Franco Cercone.

Appendice

Didascalie e Riproduzioni citate e inserite nella Pubblicazione:

  • Disegno “Uomo e donna della città di Ortona” di Antonio Berotti e Stefano Santucci, Ortona 1791- “Palazzo Pitti” Firenze, con numero d’inventario C202 [la gouache riprodotta in copertina]
  • “Trittico” Disegno di Raffaele Del Ponte, Ortona 1859.
  •  Ortona nell’ultimo decennio del XVII secolo. Da G. Battista Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva. Opera postuma pubblicata a Napoli nel 1703.
  • Donne di Poggiofiorito in costume tradizionale. Contado di Ortona, Anni 30 del Novecento. [da: “Associazione Culturale T. Coccione” Poggiofiorito]
  • Festa dell’uva. Contado Ortonese. Anni 30 del ‘900 [da: “Associazione Culturale T. Coccione” Poggiofiorito]
  • Fogge di vestire della Provincia di Chieti, anno 1791. Museo di san Martino, Napoli. Antonio Berotti (?).

[1] Cfr. L. Dorotea, Monografia storica di Castel di Sangro; in “Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato”, diretto da F. Cirelli, Vol. XVI, Napoli 1852-53. Giova ricordare che disegni di costumi abruzzesi apparvero anche a cura di P. Castagna e P. De Stephanis in “Poliorama Pittoresco”, periodico edito a Napoli fino al 1859.

[2] Cfr. P. Di Lullo, Ortona durante la dominazione borbonica, Ortona 1987; id., Ortona nella prima metà dell’Ottocento, Ortona 1988. Quaderni del “Centro Studi Adriatici” e dell’Assessorato alla cultura del Comune di Ortona.

[3] A. Politi, Tradizioni popolari di Ortona, pp. 37-38, Ortona 1997.

[4] A. Politi, ivi p. 38. Nel disegno del Berotti manca il “busto”, la gonna è retta da due “straccali” ed al posto del fiocco sfarzoso (lu balème), compaiono due “rosette” che fissano le bretelle alla gonna. 

[5]Il Poliorama Pittoresco, pubblicato a Napoli dal 1836 al 1848, all’incirca nello stesso periodo de L’Omnibus Pittoresco (1838-1853). I due periodici costituivano le più importanti “riviste illustrate” diffuse in tutto il regno di Napoli.

6 Anno I,1859, n° 3, pp. 18-20, Tipografia Del Vecchio, Chieti. Francesco Bruni, medico, nato a Crecchio nel 1818 e morto nel 1886, insegnò prima lettere latine ed italiane ad Ortona ed in seguito medicina e patologia prima nel Liceo Universitario di Chieti e dopo a Napoli.Fu anche Provveditore agli Studi in diverse città italiane. Al Bruni si devono alcune raccolte di poesia popolare abruzzese, fra cui ricordiamo Canti popolari in dialetto abruzzese e soprattutto Canti del mandriano abruzzese (Napoli 1855). Il Bruni è Autore anche di numerosi saggi nel campo della patologia e medicina generale.

[7] Cfr. A. Cirillo Mastrocinque, Usi e costumi popolari a Napoli nel Seicento, p. 180, Napoli 1978.

[8] Cfr. N. Fiorentino, Parole e cose dei nostri avi. Abruzzo Meridionale, secc. XVI-XIX. Dizionario, s.v. trapizzo, strapizzo e pezzelli; Edigrafital, S. Atto di Teramo 2004.

[9]  Giova ricordare che il tarì era il doppio carlino del Regno di Napoli.

[10] A. Politi, ivi p.38.

[11] A. Politi, ivi p. 37. Sulle tipologie di orecchini di moda nel corso dell’800 cfr. A. Gandolfi-E. Mattiocco, Ori e Argenti d’Abruzzo; Carsa Ed., Pescara 1996.

[12] M. Cristina Masdea, Le Vestiture del Regno di Napoli: Origini e fortune di un genere nuovo; in Napoli-Firenze e ritorno. Costumi popolari del Regno di Napoli nelle collezioni Borboniche e Lorenesi, p. 41, Guida Ed. Napoli 1991. Si tratta del Catalogo della Mostra svoltasi a Firenze (Palazzo Pitti, 14 sett. – 14 nov. 1991) ed a Napoli (7 dic. 1991- 9 feb. 1992) a cura delle Soprintendenze per i B.A.S. di Firenze e Napoli. Sull’argomento cfr. anche V. Accardo – F. Cercone, Costumi popolari d’Abruzzo, L’Aquila 1982; AA. VV., Il Costume popolare Abruzzese tra 700 e 800, Catalogo della Mostra, Chieti 1985.

[13] Cfr. C. Minieri Riccio-G.Novi, Storia delle porcellane in Napoli e sue vicende, p. 13; rist. anast. dell’ediz. di Napoli, 1878, Forni 1980. Con dispaccio del 1772, Ferdinando IV “volle che si trasportassero da Capodimonte alla nuova Fabbrica del Real Palazzo di Napoli tutte le porcellane, tutto il materiale, tutti gli utensili, tutte le macchine e quant’altro vi rimaneva della distrutta antica fabbrica” di Capodimonte, fondata dal padre Carlo III.

[14] Ad Alessandro D’Anna fu assegnato uno stipendio mensile di 50 ducati, mentre quello di Antonio Berotti ammontava a ducati 25; cfr. C. Minieri Riccio, La Fabbrica di Porcellana in Napoli e sue vicende, Napoli 1878. Il volume è conservato presso la Biblioteca Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte di Roma con alcuni preziosi fogli manoscritti dell’Autore. Cfr. a tal riguardo AA. VV., Napoli- Firenze e ritorno ecc., op. cit. p. 179.

[15] Cfr. M. Cristina Masdea, Le vestiture del Regno di Napoli ecc., in Napoli-Firenze e ritorno, op. cit. p. 65.

[16] Cfr. V. Accardo – F. Cercone, op. cit. p. 14. Risale al 9 dicembre del 1789 il dispaccio reale con cui si comunicava al Preside di Teramo l’arrivo dei due Regi Pittori.

[17] Cfr. V. Accardo, Dal Mondo dei Costumi; in AA.VV., Costumi diversi di alcune popolazioni de’Reali Domini di qua del Faro. Abiti, Ori, Tessuti e Stampe del XVIII e XIX secolo d’Abruzzo e Molise, p. 55 Sulmona 1994. 

[18] Cfr. A. Carola-Perrotti, Dalle guaches alla porcellana: il tema dei costumi regionali del Regno delle Due Sicilie tra Settecento e primo Ottocento; in Napoli – Firenze e ritorno ecc., op. cit. p. 65.

[19] K. Fiorentino, Le vestiture del regno nelle raccolte delle immagini a stampa; in Napoli-Firenze e ritorno ecc, op. cit. p. 101.

[20] Della preziosa opera esiste una ristampa anastatica a cura di F. Mancini; Napoli, Guida Ed., 1985.

[21] M. Cristina Masdea, ivi p. 46. Il passo è tratto da una comunicazione del Marchese Domenico Venuti al re Ferdinando IV.

[22] Lo stesso Ferdinando IV si lasciò ritrarre insieme alla Famiglia Reale da J. Philipp Hackert nella tenuta di Carditello (dove si attuavano “nuovi modelli aziendali per lo sviluppo dell’agricoltura”), ora in veste di vignaiolo nel periodo della vendemmia, ed ora come mietitore. I due capolavori pittorici di Ph. Hackert sono conservati a Napoli nel Museo Nazionale di San Martino. Va ricordato che a Philipp Hackert, “pittore di corte”, Ferdinando IV commissionò anche 15 tele raffiguranti i “porti del Regno di Napoli”, nelle quali l’aspetto vedutistico è animato da personaggi in costume tradizionale.

[23] Cfr. K. U. De Salis Marschlins, Viaggi nelle diverse Province del Regno di Napoli, p. 263; trad. a cura di I. Capriati, Trani 1906.

[24] Cfr. A. Carola-Perrotti, Napoli-Firenze e ritorno, ecc., op. cit. p. 82.

[25] Com’è noto a Mascioni soggiornò nel 1914 la pittrice inglese, di lontane origini italiane, Estella Canziani, che qui dipinse fogge di vestire di grande bellezza. Cfr. E. Canziani, Attraverso gli Appennini e le Terre degli Abruzzi, Roma 1979; traduzione dell’edizione di Cambridge, 1928, a cura di D. Grilli, M. Lusi e V. Bonanno.

[26] Cfr. V. Accardo, Dal Mondo dei Costumi ecc., op. cit. p.55.

[27] Cfr. G. Bonanni, Il Parlamento della Città di Ortona e i conflitti di preminenza per la nomina del primo Sindaco, in “Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte” diretta da G. Pansa e P. Piccirilli, n° 11-12, p. 192 sgg., Casalbordino 1900.

[28] G. Bonanni, Ortona resiste ai Francesi. 1798-1799, Lanciano 1900.

[29] Infatti nel 1723 Ortona registra solo 139 “fuochi possidenti”, con 3904 capi di bestiame così suddivisi: 393 bovini, 3299 ovini, 211 equini ed 1 suino! Cfr. Archivio di Stato Napoli, Frammenti di Catasti, n° 87, anno 1723.

[30] G. Maria Galanti, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, Tomo III, Libro X, p. 511; Napoli 1794.

[31] Cfr. A. Di Vittorio, Gli Austriaci ed il Regno di Napoli, 1707-1734. Ideologia e politica di sviluppo, pp. 234 e 327; Napoli, Giannini Ed., 1973. Come sottolinea P. Di Lullo, nel 1820 e dunque circa trent’anni dopo l’arrivo dei regi pittori, Ortona aveva una popolazione di 6481 abitanti, di cui solo 87 appartenevano a ceti possidenti, a conferma di una situazione che non aveva registrato considerevoli mutamenti.

[32] Cfr. A. Di Vittorio, Gli Austriaci e il Regno di Napoli, ecc, op. cit.  p. 386 sgg.

[33] Cfr. Maria C. Masdea, ivi p. 57.

[34] Ferdinando IV aveva sposato Maria Carolina, sorella del Granduca di Toscana Pietro Leopoldo di Lorena.

[35] Si trovano anche nei depositi di Villa della Petraia i seguenti costumi che in tale sede interessano: “Uomo e Donna del paese di Paglieta”, “Uomo e Donna del paese di Casalbordino”, “Uomo e Donna del paese di Massagrogna” (Mozzagrogna), “Uomo e Donna del paese di Vasto”. Mozzagrogna e Paglieta risultano ascritte tuttavia all’Abruzzo Ulteriore II.

[36] Sono anche conservati nei depositi di Palazzo Pitti: Uomo e Donna del paese di Civitella (Messer Raimondo), di Chieti, di Casoli , di Fraine, di Monteodorisio, di Lama (dei Peligni) e di Roccaspinalveta, tutti posti in Abruzzo Citra. 

[37] E. Silvestrini, Documenti etnografici nelle tempere lorenesi; in Napoli-Firenze e ritorno, ecc., op. cit. p. 115.

[38] A. Carola-Perrotti, Dalle gouaches alla porcellana ecc.; in Napoli-Firenze e ritorno ecc., op. cit. p. 65.

[39]  Cfr. A. Carola-Perrotti, ivi p. 82.

Carta delle località abruzzesi visitate dai Regi Pittori [da: “Napoli-Firenze e Ritorno. Costumi popolari del Regno di Napoli nelle collezioni Borboniche e Lorenesi” di M.C. Masdea, Napoli 1991]

“Trittico” Disegno di Raffaele Del Ponte, Ortona 1859

Ortona nell’ultimo decennio del XVII secolo. Da G. Battista Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva. Opera postuma pubblicata a Napoli nel 1703.

Donne di Poggiofiorito in costume tradizionale. Contado di Ortona, Anni 30 del Novecento. [da: “Associazione Culturale T. Coccione” Poggiofiorito]

Festa dell’uva. Contado Ortonese. Anni 30 del ‘900 [da: “Associazione Culturale T. Coccione” Poggiofiorito]

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