Galbiati: rimettere al centro i diritti sociali
Ortona, 21 ottobre 2024. Dopo la presentazione del convegno organizzato da INSIEME con la partecipazione di un altissimo numero di rappresentanti di gruppi ed associazioni che vogliono collaborare alla creazione di una nuova politica, la relazione di Domenico Galbiati sulla necessità di rimettere al centro i diritti sociali
Se la nostra amica Eleonora – alla cui memoria dedichiamo questa giornata – fosse ancora qui con noi, ci ricorderebbe che c’è un tempo per seminare e un tempo per raccogliere. E, soprattutto, che non sta scritto da nessuna parte che chi ha seminato possa pretendere per sé anche il raccolto. Infatti, come ha sostenuto papa Francesco, intervenendo alla Settimana Sociale di Trieste, “i cattolici non devono pretendere di essere ascoltati, ma piuttosto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico”.
In altre parole, i credenti – ma, in effetti, dovrebbe valere per tutti – prima di coltivare un’ambizione di potere, devono o dovrebbero farsi carico di un compito di verità. Che sul piano dell’azione politica consiste almeno nello sforzo diretto a superare narrazioni ideologiche artefatte,per aderire alla realtà sociale.
Oggi siamo dentro una transizione epocale che esige scelte coraggiose, gravi ed illuminate, come fu per De Gasperi a suo tempo. E indirizzi che siano in grado di andare oltre l’ordinaria amministrazione e le mezze misure. Con una radicalità che sia in grado di rispondere a fenomeni avvilenti, francamente inaccettabili, a cominciare dalle profonde diseguaglianze sociali che letteralmente lacerano anche le società più abbienti, oltre a compromettere il quadro complessivo delle relazioni internazionali.
Giustizia e libertà camminano di pari passo. Se non ci sono giustizia, parità effettiva di diritti e di opportunità, se non ci sono solidarietà, coesione sociale, uguale titolarità di cittadinanza per tutti, anche la libertà di chi pur sta in cima alla scala sociale viene, infine, delegittimata e compromessa. Sulle nostre generazioni incombe la responsabilità di vivere un frangente della storia del tutto particolare.
Siamo nel bel mezzo di una transizione epocale di cui non vediamo, se non confusamente verso un orizzonte lontano, i possibili approdi. Globalizzazione, incalzante sviluppo della scienza e della tecnica, crescita esponenziale e rumore assordante della comunicazione, migrazioni, crisi ambientale. Tutti processi che hanno un punto in comune: mettono in gioco la dignità della persona. E, quindi, necessitano di una visione etica, che sia capace di governarli.
Fin dagli Anni ‘20, Romano Guardini ci ha avvertiti che il nostro tempo – a cavallo tra tarda modernità e “post-moderno” – ha il grave compito di “governare la potenza” e, dunque, domare la complessità. Ora anche a noi compete riannodare il filo e dare continuità e ulteriore sviluppo al pensiero politico del cattolicesimo democratico e popolare. Tommaso Moro ci ha invitati a “conservare la fiamma e buttare la cenere”. E, ovviamente, non parlava della fiamma tricolore.
Siamo nati – attorno a mons. Simoni, con il fondamentale concorso di Stefano Zamagni – nel segno della ispirazione cristiana. Ispirazione che, come ci ha insegnato Aldo Moro, “va da noi sentita come principio di non appagamento e di mutamento dell’esistente (…). E come forza di liberazione, accanto ad altre”.
Ispirazione Cristiana, nel tempo della secolarizzazione compiuta, significa capacità di trovare parole e argomenti nuovi per mostrare, anche a chi provenga da altre culture, quale sia il valore umano e civile dei principi, dei valori, dei criteri di giudizio che, gratuitamente, abbiamo ricevuto in dono in uno con la fede.
Abbiamo attraversato quella sorta di Rubicone che scorre tra impegno sociale, cultura, formazione delle coscienze e assunzione di un compito di carattere prettamente politico. Non gruppo culturale, ma partito. Forza minuscola, ma orientata a costruire, nel senso sturziano del termine, il “partito di programma”. Impresa difficile, eppure dedicata a fecondare ciò che matura sul piano della riflessione culturale, attraverso la sua declinazione sul piano dell’azione politica. Il “programma” è il punto di possibile aggregazione operativa tra forze diverse che provengano da differenti retroterra culturali. Che sul programma possono convergere senza che nessun comprometta la propria originaria peculiarità.
Intendiamo affermare la nostra autonomia – non l’equidistanza che è tutt’altra cosa – dalla destra e dalla sinistra. Vogliamo concorrere alla trasformazione del nostro sistema politico, che va liberato dalla camicia di forza del bipolarismo maggioritario, fondato sullo scontro continuo e pregiudiziale tra i due poli. In apparente reciproca delegittimazione dei suoi attori, che è in realtà una reciproca legittimazione dell’oligarchia al potere.
L’ Italia è troppo ricca di storia, di cultura, di mille articolazioni geografiche e locali perché la si possa stringere e costringere dentro una camicia di forza che le toglie il respiro. Ha bisogno di un sistema politico-istituzionale che le permetta di esprimere pienamente le energie morali e civili di cui continua ad essere ricca. Perché prendiamo le mosse dai “diritti sociali”? Perché, a nostro avviso, vanno assunti come cardine di una nuova fase politica. Se vogliamo attraversare indenni questo tempo slabbrato, dobbiamo superare la logica dell’individualismo e ricreare un “popolo”, una comunità di sentimenti, di interessi, di speranze, di traguardi, di attese condivise, che diano un senso alla vita.
Dobbiamo ricomporre le trame di una “coesione sociale” smarrita e costruire quella democrazia ad “alta intensità” di cui ci ha detto, ancora a Trieste, il presidente Mattarella. Una democrazia partecipata, viva, coinvolgente, che evoca la responsabilità personale del singolo cittadino. A fronte delle sfide epocali che incombono su di noi, ogni cultura politica dovrebbe avere il coraggio di ridefinire la propria identità in rapporto al valore della persona. Perché le mille contraddizioni del nostro tempo possono trovare il luogo di una possibile conciliazione, non tanto in apparati istituzionali ma, anzitutto, nello spessore della coscienza interiore e della maturità civile di ognuno.
La centralità della persona, per il nostro tempo, non è un’opzione tra le altre, ma una necessità strutturale. Che ha pure il merito di evocare quella dimensione della trascendenza che abbiamo, purtroppo, in larga misura smarrito.
I diritti sociali, dunque.
Il lavoro, anzitutto. In quanto baricentro che regge l’intera costellazione dei “diritti sociali” e dal lavoro che bisogna partire. Sarebbe importante che, con Roberto Pertile e Anna Maria Pitzolu, gli dedicassimo, in una prossima occasione, un’ intera giornata di studio.
E poi la casa, tutto ciò che attiene alla vita quotidiana della famiglia. La scuola e l’educazione dei figli, la loro salute, la cultura, la loro crescita umana, morale e civile. Come educare, coltivare, preservare la loro capacità di pensare in proprio, piuttosto che allinearsi dietro il pifferaio di turno. E ancora la cura degli anziani, il “diritto di avere doveri”; un sentimento di solidarietà e di accoglienza nei confronti di chi, a qualunque titolo, sia debole o emarginato, povero o “diverso”. Con determinazione, un forte contrasto a diseguaglianze sociali avvilenti ed inaccettabili, a costo di provvedimenti impopolari ed elettoralmente non accattivanti.
Il contrasto al degrado della sanità pubblica. Una lotta senza quartiere alla povertà educativa e all’abbandono scolastico. Una politica che combatta il tarlo della solitudine che minaccia i giovani, pur nel frastuono di una comunicazione esasperata. Una capacità di accoglienza e di vera integrazione, nel territorio delle nostre comunità locali, nei confronti dei migranti che sia in linea con l’ineluttabile e progressiva formazione di una nuova civiltà multietnica. Italiani si nasce ed italiani si diventa nella solidale e comune appartenenza a quella “patria” costituzionale che dobbiamo al sangue ed al sacrificio di tanti giovani.
Segno dei tempi – si sarebbe detto una volta – se solo sapessimo ancora leggerli.
Ne parleremo diffusamente nel pomeriggio, suggerendo indirizzi e soluzioni. Il lavoro, la sanità pubblica, la scuola e l’educazione, l’accoglienza e l’integrazione dei migranti. E un sistema delle Autonomie solidale e responsabile, come necessario contenitore e strumento di queste politiche. Senonché, un conto è redigere un’agenda sociale, altra cosa è, invece, affrontare il punto dirimente di ordine prettamente politico.
Con chi ci si allea, in quale quadro politico, con quali mediazioni per condurre in porto gli obiettivi che ci stanno a cuore? Ora noi pensiamo, a tale proposito, che l’Italia abbia bisogno di una chiara, forte, esplicita, coraggiosa alternativa all’attuale governo delle destre. Un’alternativa ferma e puntuale soprattutto alla pretesa di egemonia culturale – peraltro destituita da ogni credibile fondamento – che la destra accampa.
Non è più tempo di “pensiero unico” e di egemonie e questo vale, ovviamente, anche per la sinistra, che, peraltro, non ne sarebbe più, in alcun modo, capace. Pensiamo sia necessario costruire una coalizione popolare e liberal-democratica.
Noi solitamente prendiamo le mosse da don Sturzo, ma lo stesso fondatore del Partito popolare risaliva fino a Rosmini e ai cattolici liberali di metà Ottocento. Libertà di coscienza e vocazione popolare si fecondano reciprocamente. Per questo siamo interessati ad incontrare quegli indirizzi ispirati a una cifra “liberal-democratica”, sia pure sorti in altri contesti. Ad ogni modo, non servono i “caschi blu” della politica. Che si chiami “centro” o “terzo polo”, una forza di interposizione tra i due aggregati della destra e della sinistra, che, se possibile, ne sopisca lo scontro, non è risolutiva.
Anzi, rischia di addormentare il gioco e “normalizzare”, se cosi’ si può dire, un sistema politico giunto al capolinea. Il quale sopravvive a sé stesso solo in virtù della reciproca convenienza, concordemente gestita, dalla destra e dalla sinistra, a blindarlo, ad ogni costo, a dispetto dei tanti elettori che non vi si riconoscono più e disertano le urne. Due forze funzionali l’una all’altra, che si definiscono solo nella reciprocità della contrapposizione. E di tale contrapposizione alimentano il comune intento a scambiarsi i ruoli, ora di governo, ora di opposizione, pur di restare pur sempre in gioco, da protagonisti esclusivi del sistema.
Al contrario, è necessario portare a un punto più alto di sintesi politica e programmatica le culture popolari, democratiche, non massimaliste, ambientali, civiche e locali e ricomprendervi anche le forze che hanno una vocazione liberal-democratica e schiettamente europeista, che stride con le destre nazional-sovraniste. Dando vita ad una coalizione che si collochi fuori dal perimetro di un sistema decotto e lavori per una trasformazione profonda del complessivo sistema politico.
Noi guardiamo, a un tempo, alla Dottrina sociale della Chiesa e alla Costituzione repubblicana.
La prima non può essere sfogliata, cogliendone fior da fiore come, di volta in volta, faccia più comodo. Soprattutto – lo abbiamo affermato ripetutamente – in ordine al tema della vita, dal concepimento fino alla sua naturale conclusione. Va accolta nella sua dimensione integrale.
E la Costituzione va difesa. Va difesa con fermezza contro chi vorrebbe oscurare la memoria del suo fondamento antifascista, quasi a volersi rivalere e vendicare dell’inappellabile condanna della Storia, per farne un’altra – così ci vien detto – il cui impianto ideale risalirebbe alle radici di un periodo fosco che ha visto l’Italia addirittura complice della criminale furia nazista.
Per questo ci opponiamo, senza riserve, alla riforma costituzionale avanzata dal governo in carica e incentrata sul “premierato”. Ogni forma di personalizzazione del potere e di impoverimento della rappresentanza democratica e della centralità del Parlamento, al di là di ogni altra considerazione, è quanto di meno appropriata si possa immaginare per governare società avanzate come la nostra. Cioè, “sistemi aperti” che devono crescere dal basso, adatti ad apprendere, giorno per giorno, dalla vita concreta di un popolo.
Il “premierato” rappresenta una linea di demarcazione netta tra due differenti concezioni. Non a caso, Giorgia Meloni lo invoca come la “madre di tutte le riforme”. Quindi, non un provvedimento sostanzialmente tecnico, funzionale alla governabilità, bensì il grembo che partorisce una ben definita cultura politica, una visione complessiva di cosa siano il potere e gli ordinamenti destinati a sorreggerlo.
O si sta da una parte o si sta dall’altra. Non ci sono vie di mezzo o compromessi. Chi pensa a possibili mediazioni, è già entrato nella logica dell’altra parte. Dietro la suggestione del leader carismatico o dell’uomo forte ci sta tutta una concezione della Storia, addirittura un’antropologia che non è la nostra. Più di quanto non appaia, siamo di fronte a una scelta dirimente. I cattolici, se davvero hanno a cuore il primato della persona che si sostanzia nel pieno esercizio della libertà, devono sapere di essere a un bivio, esposti – ciascuno singolarmente, a fronte della propria coscienza – a un banco di prova che non può essere aggirato.
Don Sturzo quando fondò il Partito Popolare sapeva non di unire il campo cattolico, bensì di distinguere, da una parte i cattolici-democratici, dall’altra i cattolici conservatori. La questione si pone anche oggi, in un altro e diverso contesto storico, ma, per molti aspetti, negli stessi termini. O di qua o di là.
Peraltro, l’alternativa alla destra non sembra possa essere sostenuta dall’imbarazzante divenire del cosiddetto “campo largo”, un cantiere a geometria variabile, che, senza posa, fa e disfa un’impalcatura perennemente sghemba, dove basta stringere un bullone per allentarne altri. Del resto, qualunque dei due schieramenti dovesse prevalere al momento del dunque, ancora una volta vincerebbe la polarizzazione e perderebbe il Paese.
L’alternativa alla destra passa da un dato strutturale, ancor prima che dai contenuti programmatici. Anche noi non possiamo fare a meno di interrogarci sulla governabilità di una società ingarbugliata come una matassa, di cui non si riesce a cogliere il bandolo. La possibile soluzione sta esattamente agli antipodi della suggestione dell’uomo forte.
Va mantenuta ferma l’autorevolezza e la centralità del Parlamento. E rafforzata la “rappresentanza”. Quanto più una società è intricata, tanto più può essere governata solo grazie a processi di maturazione civile e di partecipazione attiva dei cittadini al “discorso pubblico” che, secondo Habermas, è il luogo della reciproca legittimazione tra le le parti.
È necessaria una nuova legge elettorale che restituisca l’Italia agli italiani, con la facoltà di eleggere liberamente chi li rappresenti in Parlamento. Un sistema elettorale proporzionale, che non sia di nominati, cioè di scelti da una classe dirigente che vuole perpetuarsi al potere, dominando sui nuovi eletti, scelti come loro esecutori. Ma un sistema elettorale proporzionale che permetta al popolo tutto di tornare con fiducia alle elezioni sicuro di potere scegliere liberamente i propri rappresentanti. Basta con i nominati con false elezioni, vogliamo eletti, cioè liberamente scelti dal popolo elettore. Per questo vogliamo un sistema proporzionale, che rafforzi il parlamento sulla base di rinati, perché liberi, e partecipati partiti politici, pilastri anch’essi costituzionali della democrazia parlamentare reale, cioè vera, viva rappresentanza della vita politica.
È l’ intera cultura della rappresentanza in quanto tale – come ci suggeriscono anche gli amici del Comitato Referendario per la Rappresentanza – che va rimessa al centro. Ma non basta. Occorre che la società civile, nelle sue mille articolazioni, pur non accedendo a forme di diretto impegno politico, sia capace di pensare politicamente – come ci ha insegnato, tra i padri costituenti, Giuseppe Lazzati – così da rappresentare i propri interessi e le proprie competenze, leggendole in filigrana all’interesse generale del Paese. Ma di questo parleremo in altra occasione.
Intanto, vorrei concludere con un invito a coloro che hanno accettato di concorrere a questa giornata di riflessione comune. Prendiamoci un anno di tempo. Lasciamo da parte ogni possibile disputa su chi sia partito, piuttosto che movimento culturale o associazione e quant’altro, chi prediliga l’impegno politico o piuttosto un compito di carattere sociale o formativo.
Costruiamo la traccia di un possibile programma. Vediamo di capire se la nostra ispirazione, non certo in una olimpica solitudine, ma con altre, possa essere feconda per il nostro Paese. Sperimentiamo un cammino, in piena libertà, nel totale rispetto dell’autonomia di ognuno, e poi, tra un anno, tiriamo le somme e valutiamo se e come vi siano o meno le condizioni per progettare una seconda tappa di questo percorso. Limitiamoci pure a un patto di reciproca consultazione, che non impegni nessuno e di nessuno comprometta l’identità. Ma facciamolo.
Domenico Galbiati
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