LE RADICI STORICHE DELLA PANARDA ABRUZZESE

[Pubblicazione di Franco Cercone Radici Storiche della Panarda Abruzzese, Ed. Qualevita, Torre dei Nolfi (AQ) 2006.]

di Franco Cercone

Una necessaria premessa

Nel 1976 apparve un volume di Alfonso Di Nola dedicato ad alcuni importanti aspetti di una “cultura subalterna italiana”, nella fattispecie quella abruzzese, destinato a influenzare in seguito   notevolmente gli studiosi che si interessano soprattutto di religiosità popolare[1].

Nella primavera del 1974 avemmo la fortuna di conoscere “in anteprima” il Di Nola presso la Biblioteca Comunale di Sulmona e di scambiare con lui alcune opinioni sui “rituali di S. Antonio Abate” in Abruzzo, uno degli argomenti trattati poi dal compianto studioso nel citato volume e sul quale egli richiese la nostra collaborazione da concretizzarsi con un’indagine sulle sopravvivenze del culto antoniano nei vari paesi dell’area della Maiella e dell’Alto Sangro. [ndr: “Testi inediti sul culto di S. Antonio Abate” pubblicati al n. 9 archivio digitale bibliografico]

Durante gli anni 1974 – 75 vi fu con il Di Nola un intenso carteggio che conserviamo gelosamente, perché oltre allo scambio di notizie ed opinioni sulle inchieste che andavamo effettuando sul campo, le lettere contengono giudizi – talvolta non lusinghieri – su alcuni personaggi della cultura regionale e pertanto riteniamo opportuno che trascorra del tempo prima che esse siano portate a conoscenza degli studiosi abruzzesi.

Tornando ora al volume del Di Nola, va ricordato opportunamente che la prima parte è dedicata al culto di San Domenico di Cocullo e la seconda alle Mitologie e rituali di Sant’Antonio Abate, con una Appendice contenente i Testi Inediti sul culto di Sant’Antonio in Abruzzo da noi raccolti in diverse località durante le ricerche[2].

Dopo la pubblicazione del volume, che raccolse subito – come dimostra la seconda edizione – vasti consensi in Italia ed in Europa, si assistette tuttavia ad uno sterile quanto sorprendente fenomeno imitativo e si può affermare che non vi fu periodico abruzzese in cui non comparissero aspetti del culto di S. Antonio, come canti di questua, fuochi, rituali di benedizioni di animali ecc., che non avevano tuttavia nulla di nuovo da proporre e né erano in grado di modificare – fatta eccezione per i contributi di A. Melchiorre ed E. Giancristofaro[3] – il quadro storico-antropologico delineato dal Di Nola anche per quanto riguarda la Panarda, cioè il banchetto votivo offerto a Villavallelonga la sera del 16 gennaio, vigilia della festa di Sant’Antonio Abate.

Ora proprio sulla Panarda, tema che avemmo la possibilità di dibattere insieme ad E. Giancristofaro nel corso di un convegno tenutosi nell’ormai lontano 1994 presso l’Istituto Alberghiero di Villa S. Maria, sono apparsi di recente due saggi che reclamano alcune precisazioni soprattutto sotto il profilo storico[4]. Ed è ciò che evidenzieremo in seguito nel corso della trattazione dell’argomento, sottolineando fin da ora che malgrado ogni ricerca il termine panarda appare sotto il profilo linguistico di origine incerta, anche se su di esso l’Istituto di Glottologia dell’Università di Chieti sta effettuando opportune ricerche e raffronti.

La “panarda” in Abruzzo

Va subito detto che con l’opera Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Alfonso Di Nola ha reinserito nella langue abruzzese una parole, “panarda” appunto, che era svanita dal patrimonio della tradizione orale abruzzese e sopravviveva soltanto in alcuni ambienti marsi, soprattutto a Villavallelonga e Luco dei Marsi.

La prima edizione del volume risale come è noto al 1976 e pertanto devono essere accettate con beneficio d’inventario tutte le successive testimonianze apparse nei più svariati periodici o in Guide regionali di carattere turistico. In una di queste pubblicazioni, dal titolo Abruzzo, edita nel 1993 per i tipi della De Agostini[5], si legge a proposito della gastronomia aquilana quanto segue:

<<Un ristorante, Le Tre Marie, è vincolato dai Beni Ambientali, unico in Abruzzo a essere stato dichiarato monumento nazionale. Il rito: la cucina aquilana ovviamente. Parlavamo della “panarda”, pantagruelica abbuffata nella quale i partecipanti non godono del diritto di rifiuto; raccontarla non è facile ma Paolo Scipioni, finissimo gastronomo, proprietario delle Tre Marie, ci è riuscito brillantemente in un quaderno sulla gastronomia locale che, non tenendo conto in particolar modo delle ricette affronta il tema dal punto di vista sociale : la panarda come momento di aggregazione, come motivo folcloristico da tramandare, come passerella dei cento (o 99 ?) piatti aquilani, quelli storici nati da una cucina povera ma non rozza, rustica ma non grossolana; la panarda,infine, come signorile  scusa per accomunare alla festa anche chi direttamente non partecipa: Quando in paese si organizzavano le Panarde – scrive Scipioni – anche i poveri avevano il loro tornaconto. Approfitteremo di questa particolare panarda raccontata da Paolo Scipioni per fare una panoramica sulla cucina aquilana.

Il banchetto prende le mosse dalla preparazione del paniccio di Sant’ Antonio Abate, detto in loco Sant’Antonio deju porcu, festeggiato il 17 gennaio. In questa data in molti paesi dell’Aquilano viene offerta a tutti gli abitanti ed ai viandanti una scodella di paniccio, che è una sorta di polenta fatta con la farina del miglio insaporita facendovi liquefare intere forme di pecorino e di ricotta. Per l’occasione il padrone di casa che organizza il paniccio invita gli amici alla panarda:

Antipasto di magro con sardine, acciughe, anguille marinate, lattarini, cipolline e capperi.

Poi l’aringa affumicata addolcita con il latte secondo un’antica ricetta aquilana.

Baccalà in umido, rotelle, gamberi di fiume in terracotta.

Fritto di magro: cavolfiori, baccalà, alici e mele.

Fagioli bianchi di Paganica col tonno.

Frittata con aglio, prezzemolo, peperoncino e patate.

Sottaceti e funghetti per assestare lo stomaco.

Bolliti: muscoletto e neretti di manzo, gallina e zampitti di maiale, cavolfiori in insalata.

Altra carne: manzo al ragù, larghe fette coperte di salsa rossa e saporita.

Broccoletti soffocati, raccolti sotto la neve come insegna l’esperienza contadina e cucinati in un tegame di rame soffocandoli con un coperchio reso ermetico dai più disparati pesi.

Frittura di animelle e di cervello; coratella insaporita con sottaceti.

Arrosto di vitello con cipolle sane. Costolette di maiale, salsicce e panonta (fette di pane unte con il grasso di cottura del maiale e insaporite con il peperoncino).

Lenticchie di Santo Stefano di Sessanio, brune, minute e tenerissime.

Capretto incaporchiato con patate arrosto.

Formaggi: scamorze di Rivisondoli, ricottine di Bazzano, caciocavallo e, per finire in bellezza, il rustico marcetto.

Dolci: ferratelle, mostaccioli, ravioli di ricotta, sfogliatelle, tocchetti di cioccolato e alla crema.

Tre liquorini: il nocino, la ratafià e la genziana. La panarda è finita>>.

Abbiamo riportato l’intero brano per dare innanzitutto un’idea del numero delle vivande che possono comporre una normale “panarda”, la quale nell’esempio addotto è costituita da circa 50 prodotti cucinati o già pronti come contorno, mentre in altri casi essa supera anche il numero di cento portate.

Ma ciò che va sottolineato è che la panarda, lungi dall’essere un “motivo folcloristico” – come afferma l’incauto e anonimo giornalista – rappresenta un rituale socio-culturale e devozionale ancora pregno di arcaici significati e legato alla figura mitica di S. Antonio Abate, protettore degli animali da cortile e soprattutto del maiale, definito ancora oggi la grascia della casa contadina.

La morte del maiale, un tempo dovuta soprattutto alla peste suina, rappresentava anche “la morte” della famiglia rurale, che veniva ad essere privata non solo della carne, ancora difficile da acquistare nel periodo compreso fra le due guerre mondiali, ma anche dello strutto in sostituzione del costoso olio d’oliva e spesso inesistente nei paesi di montagna. Una inchiesta condotta dall’Università di Arezzo ha accertato circa venti anni fa che in molti paesi dell’area della Maiella la carne di vitello era pressoché sconosciuta nei primi decenni del ‘900, mentre a Pescocostanzo  per indicare che una famiglia fosse  benestante si diceva che essa “aveva la pila”, ma ci si riferiva alla “pila dell’olio”, che troneggiava in un angolo del fondaco come un Santo nella propria nicchia, mentre in seguito l’espressione è passata ad indicare una persona benestante o che ha molti soldi.

Le fonti storico-letterarie ed i primi documenti.

E’ significativa la circostanza che il termine panarda, indicante come si è visto un banchetto composto da numerose portate, non si rinvenga nei noti vocabolari dialettali del Finamore e del Pansa[6], pubblicati nella seconda metà dell’800, e come esso sia altrettanto sconosciuto al De Nino, di cui si cita spesso il primo volume degli Usi Abruzzesi (1879) che contiene argomenti come: Una cucina innanzi la chiesa, oppure Altra pappata innanzi la chiesa, a proposito dei quali lo studioso sulmonese non usa mai il termine  panarda.

Nel tentativo di ristabilire un poco d’ordine, soprattutto sotto il profilo cronologico, va rilevato che la prima citazione del termine panarda, tuttora di origine incerta, si deve allo storico di Scanno Giuseppe Tanturri, autore come è noto delle monografie di Villalago e di Scanno apparse nel 1853 sul periodico Il Regno delle due Sicilie descritto ed illustrato, diretto da F. Cirelli.

Nel trattare le parole ormai in disuso e che egli chiama Vocaboli corrotti, il Tanturri dice che con il termine panarda si indicava anticamente a Villalago “il pranzo matrimoniale[7].

All’epoca in cui il Tanturri scriveva (1853) solo le persone anziane avevano forse la possibilità di comprendere a Villalago il significato del termine panarda, di cui comunque il Tanturri nessun cenno fa nella Monografia di Scanno, cittadina in cui era nato e viveva, e ciò è decisamente significativo, poiché evidentemente il termine panarda era sconosciuto al dialetto scannese.[8]

Pertanto attribuire, come ha fatto qualche studioso locale, anche a Scanno la tradizione della panarda, significa compiere una mistificazione storica, tanto più che il termine non si rinviene nemmeno nel poemetto di Romualdo Parente, “Zu matremonie a z’uso”, scritto in dialetto scannese epubblicato come è noto per la prima volta a Napoli nel 1765.       

A far conoscere la tradizione della panarda anche fuori l’area marsicana è stato dunque A. Di Nola. L’illustre studioso ne ha parlato per primo nella “Festa di Sant’Antonio Abate nella Marsica”[9],  allorché descrive con dovizie di particolari il banchetto pantagruelico del 16 gennaio, vigilia della festa di S. Antonio, che si svolge a Villavallelonga (Aq.), a proposito del quale sottolinea quanto segue:

“Si tratta, come in altre occasioni festive (il corsivo è nostro), di una celebrazione alimentare della cultura contadina povera che rompe la regola della dura frugalità annuale con il consumo di beni considerati rari e preziosi o che tali erano considerati fino ad epoca recente”. [op. cit. p. 205].

 Questa “distruzione orgiastica” di cibo, una sorta di crapula votiva da parte di ceti che ancora un secolo fa venivano spesso minacciati ed annientati dalla fame e dalle malattie, era legata di più a ricorrenze del ciclo dell’anno che non a quello dell’uomo, soprattutto alle fondamentali “feste” rurali e cioè  a quella per l’uccisione del maiale (definito  come si è detto “la grascia” della casa contadina), della trebbiatura e della vendemmia, nonché ad alcune ricorrenze festive religiose fra le quali vanno annoverati in special modo i pellegrinaggi.

A proposito della crapula votiva che avveniva in occasione di pellegrinaggi, il d’Annunzio ci ha lasciato una straordinaria pagina nel Trionfo della morte, allorché il poeta descrive la folla di pellegrini che da ogni parte d’Abruzzo accorreva al Santuario della Madonna di Casalbordino nel giorno di festa della Vergine (10 e 11 giugno). Nello spazio antistante alla chiesa, scrive il d’Annunzio, “si esercitava la voracità di coloro che avevano penosamente ammassato i piccoli risparmi fino a quel giorno per sciogliere il voto sacro e per appagare un desiderio di crapula, enorme, covato a lungo tra gli scarsi pasti e le dure fatiche[10].

Angelo Melchiorre ci ha fatto conoscere la panarda in uso a Luco dei Marsi fin dal 1479, un rituale tuttavia che risulta diverso rispetto a quello che si svolge oggi in occasione della festa di Pentecoste per l’ingresso di un nuovo adepto in una sorta di confraternita denominata Signori dello Spirito Santo. Infatti la panarda era in questo caso una cena composta da numerose portate ed offerta come scrive il Melchiorre ai sacerdoti forestieri che venivano a Luco dei Marsi nella ricorrenza della Pentecoste per celebrare le Messe solenni e predicare ai devoti.

Ad E. Giancristofaro dobbiamo la conoscenza di altre “panarde”,che si svolgevano un tempo in quasi tutte le località della Marsica, mentre oggi esse hanno luogo oltre che a Villavallelonga e Luco dei Marsi anche in altre località non marsicane, come Orsogna, Paganica e Navelli.

Di grande rilievo è la cosiddetta panarda a fuoco che – riferisce il Giancristofaro – consiste nella “distribuzione delle fave lesse (la favata) nel paese di Villavallelonga, la mattina del 17 gennaio”[11].

Per un’analisi approfondita di questi temi si fa rimando alle opere e scritti citati.

Tuttavia ci sembra opportuno sottolineare che il rito della lessatura in enormi caldai  di legumi (soprattutto fave) insieme alle sagne, che si svolge in determinati giorni dell’anno – come nel 6 e 13 dicembre, ricorrenze di San Nicola e Santa Lucia, nel 17 e 20 gennaio, ricorrenza di sant’Antonio Abate e San Sebastiano, ecc. – si configura di più come una consumazione rituale di cibi votivi e di prodotti della terra di cui il mondo rurale viveva, che non come panarda, la quale è caratterizzata da un lungo elenco di pietanze, distribuite dall’antipasto fino al dolce, in un interminabile menù villereccio.

È appunto quello che avviene nella panarda del 16 gennaio a Villavallelonga e di più nel pranzo di nozze di cui parla il Tanturri, in cui fino agli anni ’60 del secolo scorso (lo sa bene chi è vissuto come noi in un piccolo paese) il numero delle portate costituiva il vanto delle famiglie dei due sposi, una vera occasione in cui i convitati assaggiavano forse per la prima volta nella loro vita la carne di vitello, di norma sconosciuta al mondo rurale.

Conveniamo con la Nicolai quando scrive che “la panarda, attualmente, per quanto riguarda la qualità del cibo, non differisce da un pranzo nuziale” [op. cit. p. 52], ma proprio per tal motivo appare del tutto improprio attribuire il termine “panarda” alla distribuzione votiva di legumi, lessati in occasione di alcune significative ricorrenze del ciclo dell’anno.

Un “falso” letterario: la presunta partecipazione del d’Annunzio ad una panarda

Vanno relegate al mondo delle amene curiosità alcune affermazioni circa la presunta partecipazione del d’Annunzio e dello Scarfoglio ad una panarda che si sarebbe svolta la prima a Paganica e l’altra a Luco dei Marsi, partecipazione suffragata non da documenti storici ma da vaghe espressioni, non vagliate attentamente nemmeno dalla Nicolai, quali “si ha notizia” oppure “si racconta” e simili.

Dal saggio autobiografico di Edoardo Scarfoglio, Il libro di Don Chisciotte[12], risulta infatti che il d’Annunzio non si è recato mai a Paganica e tale circostanza ci viene confermata da G. Papponetti, profondo studioso della vita e delle opere del Vate.

Lo stesso dicasi della partecipazione del d’Annunzio ad un’altra panarda che si sarebbe svolta a Luco dei Marsi presso il palazzo del marchese Francesco Ercole e descritta da F. Vittore Nardelli nell’opera “L’Arcangelo. Vita e miracoli di G. D’Annunzio”, Roma 1931.

A ragione pertanto sia il Di Nola che il Palozzi[13] non citano affatto nelle rispettive bibliografie l’opera del Nardelli, la quale presenta tuttavia un ulteriore “mistero”, cioè una presunta lettera di ringraziamento del d’Annunzio a “Don Ercole”, che noi riproduciamo “per dovere di cronaca”, lettera ritenuta non solo apocrifa da G. Papponetti, I. Di Iorio ed altri studiosi dannunziani al vaglio dei quali l’abbiamo sottoposta [cfr. Fig.1], ma addirittura un pessimo tentativo di imitare la grafia del Vate[14].

Tra l’altro è stato sottolineato dai citati studiosi che il d’Annunzio era del tutto astemio e per nulla disposto a partecipare a qualsiasi crapula, da cui si teneva notoriamente lontano. La storiella della partecipazione del Vate alle suddette “panarde” si è ampliata purtroppo come cerchi nell’acqua e senza essere sottoposta ad un opportuno vaglio critico. Tuttavia nel caso in cui fossero addotti in futuro documenti inoppugnabili al riguardo, saremmo certamente i primi a rallegrarci.

Lo stesso dicasi anche a proposito della mitica figura del Guardiano della panarda, o Panardere, una sorta di antico simposiarca armato di fucile ed addetto alla sorveglianza – come narrano – dei partecipanti al banchetto. A questi infelici (risum tenere!) non era permesso di abbandonare la tavola e fuggire; essi erano obbligati invece, come si apprende da tali storielle, a mangiare tutte le portate servite, ognuna delle quali, al suo ingresso nella sala dei convitati, “veniva salutata con una salva di cannone!” [A. Stanziani, op. cit. p. 10]

Non è facile immaginare un cannone che spara colpi assordanti fra una portata e l’altra durante un pranzo di nozze o durante lo svolgimento di una panarda allestita alla vigilia di S. Antonio Abate.

La scena viene tuttora riproposta in forma ludica in molte “panarde” organizzate in occasione di determinate ricorrenze o manifestazioni cittadine da parte di Borghi e Sestieri – come quello di Porta Manaresca a Sulmona in occasione dell’antica Giostra cittadina – e persino da istituzioni scolastiche. L’8 novembre del 1988 è stata allestita per esempio a Torino in occasione del “Salone del gusto” La grande panarda abruzzese, che presentava come si legge in una brochure pubblicata per l’occasione “oltre 120 proposte culinarie preparate dai grandi cuochi della Regione Abruzzo”. In tale opuscolo celebrativo non manca il solito e colorito richiamo al “fucile” oppure al “cannone”, secondo un cliché ormai ripetitivo in ogni scritto sulla panarda, come sottolinea appunto A. Stanziani: “Un tempo era lo schioppo a tracolla del Guardiano della panarda a impedire defezioni degli ospiti durante il banchetto, mentre un colpo di cannone annunciava agli esclusi l’arrivo in tavola di ciascuna pietanza”.

Panarda e “Pranzi di San Giuseppe”

Questi aspetti ludici e simpatici del banchetto pantagruelico si presentano decisamente grotteschi e se appaiono anche pregni di non senso ciò è dovuto al fatto che essi sono in realtà tasselli appartenenti ad un mosaico di diversa origine e dalla più complessa funzione, costituito nella fattispecie dai Conviti (o “pranzi devozionali”) di San Giuseppe, non del tutto scomparsi dall’orizzonte culturale abruzzese[15] ma ancora presenti in altre realtà, geograficamente non lontane da noi. Il Convito è tuttora assai vivo in Molise ed a tale importante “istituzione” Enzo Nocera ha dedicato un saggio dal quale si apprende che questa sorta di Agape, nota anche con altre designazioni quali La Tavola di San Giuseppe oppure Devozione o Mensa Fraterna, si svolge il 19 marzo nella ricorrenza di San Giuseppe ed in tale occasione, come scrive G. Mascia nella prefazione, “molte famiglie, in generale di contadini, per atto di carità o per voto preparano un desinare per i poveri”[16].

In breve, vengono scelti in ogni paese tre personaggi che “interpretano” San Giuseppe, la Madonna ed il Bambino, i quali vengono invitati ad un abbondante pranzo “di magro” formato da 13 o 19 portate, un numero che è in relazione rispettivamente a “Gesù ed i 12 Apostoli” oppure alla festa di San Giuseppe, che cade appunto il 19 marzo.

Una volta, scrive il Nocera, il 19 marzo “era il giorno dell’abbondanza per molti poveri del paese”, mentre oggi il banchetto – composto rigorosamente da cibi di magro senza formaggio e carne – rappresenta “un’occasione di ritrovata comunione: chi vive altrove, ritorna” e pertanto la ricorrenza costituisce l’occasione per rinsaldare i comuni vincoli, funge cioè da “funzione socializzante ed aggregante”.

Si tratta dunque di qualcosa di più di un fenomeno “nativistico”, indagato com’è noto dal Lanternari[17],  ma di una particolare occasione in cui mentre mancava il pater familias, per lo più pastore transumante, veniva riaffermato il valore della famiglia e delle proprie radici.

In molti paesi molisani si prepara per la festa di San Giuseppe la cosiddetta pezzenta, composta da vari legumi prima lessati a parte e poi riuniti, la quale ci ricorda le virtù teramane oppure le totemaje del primo maggio in Abruzzo. Il termine pezzenta indica probabilmente a quali ceti sociali fossero un tempo riservati tali legumi, offerti tra l’altro in un particolare periodo, l’inizio di primavera, quando in Molise come ovunque le scorte alimentari erano sul punto di esaurirsi, creando angoscia nella casa contadina[18]. Ben diversi appaiono i banchetti o Cene di San Giuseppe in Calabria e Sicilia. A Salemi, scrive il Nocera, le portate che si preparano devotamente per la Sacra Famiglia assommano addirittura a 101 ed a differenza dell’Agape molisana, in Sicilia tali orge alimentari comprendono anche piatti a base di carne e diversi tipi di formaggio.

Di questi banchetti pantagruelici si era interessato anche il Pitrè, il quale scrive che mentre la padrona di casa sovrintende alle numerose portate da servirsi ai tre membri della  Sacra Famiglia (detti I Santi), il marito “sta innanzi la porta con lo schioppo in mano, sparando un colpo ad ogni piattello che ai Santi  viene servito […] E poiché questo voto del banchetto è molto comune e si ripete in un gran numero di famiglie, così tanti padroni ripetono questa storia della schioppettata quanti banchetti si fanno, e tante sono le schioppettate quanti i piatti recati in tavola. I colpi si contano e chi più ne tira, più è tenuto in considerazione di uomo splendido, ricco, generoso”[19].

Siamo arrivati così alla conclusione di queste brevi note sulla panarda che sembrano aver individuato il sentiero da percorrere per giungere all’individuazione delle origini e delle funzioni di una istituzione, come appunto la panarda, che reclama la presenza di ricchi e poveri, protagonisti di modelli comportamentali ancora evidenti nella società abruzzese nella prima metà dell’800.

Certo è che nel 1853 il termine panarda indicava a Villalago il “pranzo matrimoniale”, ma come sottolinea il Tanturri, era ormai “un vocabolo corrotto” e dunque in disuso come tante altre parole di cui lo storico di Scanno compila un accurato elenco.

Con ogni probabilità la voce panarda non era connessa solo al pranzo di nozze ma ad ogni banchetto che per numero di portate era considerato eccezionale o al di fuori della norma, e che veniva allestito in determinate ricorrenze del ciclo dell’anno e della vita con una vera e propria distruzione di cibo a scopo votivo e forse propiziatorio, come nelle panarde organizzate nella ricorrenza di Sant’Antonio Abate.

Nel banchetto di san Giuseppe emerge tuttavia un aspetto già evidenziato dal Di Nola in merito al complesso mosaico delle “culture di colpa”, perché dalle fonti più antiche, specie molisane, risulta che i “Conviti” erano allestiti dalle famiglie benestanti di ogni località ed offerti ai poveri che impersonavano in questa sorta di “sacra rappresentazione” i membri della Santa Famiglia.

Sicché, scrive il Cavalcanti, “i cibi e le bevande accomunano ed affratellano nell’ambito di uno spreco reale che è comunque limitato e contingente”[20], perché il giorno dopo l’abbuffata la pancia ricominciava nel mondo dei poveri a reclamare i suoi diritti. Il fondamentale principio evangelico del “quod superest date pauperibus” non è sentito infatti dai ceti benestanti come costante comportamento etico-religioso, ma come “rituale” posto in essere solo in determinate occasioni del ciclo dell’anno, che  nasconde in verità “il dovere istituzionalizzato dell’elemosina” ed il rimorso della “colpa classista”.

Allo stato attuale delle fonti documentarie in nostro possesso si può affermare pertanto che pur nell’incertezza dell’etimo, il termine panarda indicasse ancora nel corso del XVIII secolo, come precisa appunto il Tanturri nella citata monografia storica di Villalago, un interminabile pranzo di nozze, in cui veniva consumato un eccezionale ed inusuale numero di vivande, alcune delle quali – come per esempio la carne di vitello – assaggiate forse per la prima volta dai commensali nel corso della propria esistenza.

In seguito il termine è passato a designare qualsiasi “conviviale” offerta  dai possidenti alla fine di lavori stagionali (soprattutto dopo la trebbiatura del grano e la raccolta delle olive, come ci informa nel 1853 Pietro Destephanis nella monografia storica di Pettorano sul Gizio), oppure alla fine del ciclo allevatorio, che nel mondo rurale – data la vitale importanza che i suini rivestivano nell’economia della casa contadina – coincideva con l’uccisione del maiale, la grascia della famiglia rurale affidata pertanto alla protezione di Sant’Antonio, in onore del quale, quasi per grazia ricevuta, si allestisce in vari centri della Marsica la panarda. 

Il termine infine è stato usato per indicare qualsiasi offerta votiva di cereali in occasione di determinate ricorrenze religiose nel corso del ciclo dell’anno.

Resta da accertare se anche i banchetti funebri, noti in Abruzzo con vari termini dialettali quali cùnsele, recùnsele, cuònsele ecc., che sono preparati per lo più per antica tradizione dalla famiglia con cui si è in rapporto di comparatico (lu San Giuànne), possano essere considerati come una particolare panarda, chiamata in alcuni centri del medio corso del Sangro bivacco.

A Pizzoferrato, scrive per esempio il Toccafondi, “sopravvive il consuòlo, cioè il pranzo che a turno i parenti offrono alla famiglia dell’estinto dopo la tumulazione del cadavere. Peraltro questi pranzi di consolazione, che si protraggono per circa una settimana, a mezzogiorno e alla sera, constano di un menù…non molto diverso da quello di un pranzo nuziale! Dopo le nenie e le cantilene rievocanti le virtù della persona scomparsa, cominciava il bivacco: mangiare e bere. Quindi vino, vino, vino…fino a perdere ogni ricordo della luttuosa circostanza”.[21]

Anche in tali tristi circostanze la morte costituiva, come scrive il d’Annunzio, un evento in cui si esaudiva un desiderio di crapula, enorme, covato a lungo tra gli scarsi pasti e le dure fatiche!  

È significativa la circostanza che in alcuni paesi dell’area della Maiella, come per esempio a Cansano, i maccheroni vengano ancora oggi chiamati “la pasta delle nozze”, perché si mangiavano solo negli sposalizi oppure   in occasione dell’uccisione del maiale e della trebbiatura del grano.

 Era una società, quella rurale meridionale, afflitta perennemente dal morso della fame ed in particolar modo durante la cosiddetta costa di maggio, periodo in cui nella casa contadina si erano esaurite le scorte alimentari dell’annata precedente e sui campi, all’incirca nella prima decade di maggio, non ancora apparivano i primi prodotti del nuovo ciclo coltivatorio (soprattutto fave e piselli), specie se il mese di aprile era stato particolarmente freddo. Quando poi questa crisi ciclica annuale veniva a coincidere con frequenti e terribili carestie, l’elenco dei “morti per fame” risultava terrificante, come scrive appunto Gabriele De Rosa che ha avuto modo di consultare il Liber Mortuorum conservato nella chiesa parrocchiale di Melfi, in cui sono riportate alcune annotazioni del vicario curato Giuseppe Ruggieri a proposito della carestia del mese di maggio del 1816, fra cui la seguente:

“Per molti mesi mancò il pane e perciò i poveri si rinvenivano morti per le strade, nelle case e nelle piazze, sicché si contarono 167 morti, di cui 71 bambini”.[22]

Non va dimenticato a tal riguardo che nel periodo 1863-66 la mortalità infantile in Italia è causata, come risulta da un’indagine di C. Felice, da malattie e denutrizione e raggiunge con il 75% l’indice più alto proprio in Abruzzo e Molise.[23]

Se si tiene conto delle misere condizioni in cui versavano i ceti rurali, descritte nella famosa Statistica Murattiana del 1811 e dunque in tempi non molto lontani dal nostro, si comprende come in alcune ricorrenze del ciclo  dell’uomo e dell’anno esplodesse il “desiderio d’orgia alimentare” oppure – se si preferisce – un “desiderio di panarda” dettato dall’esigenza di vivere  per alcuni giorni non come sudditi del Paese della fame, ma come cittadini della mitica contrada di Bengodi descritta dal Boccaccio, in cui le montagne di parmigiano,  ravioli e maccheroni, nonché le vigne che  si legano con le salsicce, riescono a dare corpo ai sogni di coloro che sono perennemente afflitti dal morso della fame.

È tutto qui racchiuso il senso recondito della “panarda”, come sembrano indicare i documenti storici in precedenza riportati. Il termine, collegato inizialmente al pranzo di nozze, occasione festiva in cui avveniva un consumo inusuale di beni alimentari  rispetto alla forzata frugalità di tutti i giorni, è passato ad indicare in seguito  momenti importanti  del ciclo allevatorio e coltivatorio, caratterizzati da  un consumo orgiastico di derrate alimentari che avevano una funzione liberatoria rispetto agli stati angosciosi che precedono le fasi produttive ed il giorno riservato alla rituale uccisione del maiale, definito ancora alcuni decenni fa la grascia della casa contadina.

Appendice

Come si è detto, non esistono documenti che attestino nella cultura tradizionale abruzzese l’indicazione di “piatti specifici” che compongono la panarda. Anche il loro numero varia a seconda delle circostanze, legate soprattutto alla data calendariale ed alla ricorrenza di determinate ricorrenze festive. Il numero assume dunque un valore devozionale e talvolta una funzione apotropaica nei confronti dei commensali.

A fini meramente indicativi riportiamo come esempio la  panarda svoltasi in occasioni diverse.

PANARDA DI SAN GIUSEPPE o DI PRIMAVERA

Numero delle portate: 19 (Festa di San Giuseppe), 21 (Inizio della primavera)
Affettato di salumi e prosciutto, con sottaceti

Baccalà e cavolfiori impastati, fritti in olio d’oliva

Coste di sedano al marcetto

Zuppa di ceci al rosmarino e peperoncino

Fagioli e “cascigni” in umido

Chitarrina al ragù di castrato

Maccheroni” alla puttanesca”

Lasagne al forno

Penne” all’arrabbiata”

Coniglio alla “cacciatora”

Asparagi di campo al prosciutto

Agnello alla brace

Patate al forno

Spezzatino di maiale al coccio

Peperoni arrostiti

Melanzane ripiene al forno

Salsicce alla brace                                       

Pizza di granturco al coppo                                       

Cavoli “strascinati” in padella al peperoncino                                      

Pizzelle al forno                                       

Cellucci alla marmellata d’uva                                    

(Frutta di stagione: aranci e meloni invernali)

Per l’allestimento di panarde composte da più di 19 o 21 piatti (a tal riguardo notevole è la panarda preparata dal Sestiere di Porta Manaresca a Sulmona nel giorno 24 giugno, festa di San Giovanni Battista e solstizio d’estate, e perciò composta da 24 portate) si rimanda alle seguenti opere:

  1. Enzo Nocera, Il Convito e la devozione di San Giuseppe nella tradizione molisana; Edizioni ENNE, Campobasso 1998.
  2. Antonio Stanziani, L’Abruzzo a Tavola. I menù e le ricette epocali della cucina abruzzese; Polla Ed., Cerchio (Aq.) 1999.
  3. Antonio Stanziani, La Panarda. Rivisitazione di un antico modo di banchettare; Qualevita Ed., Torre dei Nolfi (Aq.) 2001.

Non resta che concludere con l’auspicio rivolto nel 1705 dal cuoco gesuita Francesco Gaudentio ad alcuni commensali: “vivete felici!”

Franco Cercone

                                                                                 


[1] A. Di Nola, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino, Boringhieri, 1976; seconda edizione aggiornata Torino 2001, Introduzione a cura di F. Pompeo.

[2] Gli altri temi trattati nel volume riguardano La gara del solco diritto ed i rituali sul Bue aratore nell’Italia centrale.

[3] Cfr. A. Melchiorre, Tradizioni popolari della Marsica, Edizioni dell’Urbe, Roma 1985; E. Giancristofaro, La Panarda; in “Rivista Abruzzese” n. 2, Lanciano 1993; id., I Compari dello Spirito Santo, in Tradizioni popolari d’Abruzzo, p. 84 sgg., Roma, Newton Compton, 1995.

[4] Cfr. M. Concetta Nicolai, La Panarda, Ed. Menabò, Ortona 1996; A. Stanziani, La Panarda. Rivisitazione di un antico modo di banchettare, Ediz. Qualevita, Torre dei Nolfi (Aq.) 2001.

[5] Cfr. Abruzzo, a cura dell’Assessorato al Turismo, p. 143; De Agostani, Novara 1993.

[6] Cfr. G. Finamore, Vocabolario dell’uso abruzzese, Città di Castello 1893; G. Pansa, Saggio di uno studio sul dialetto abruzzese; Lanciano 1885.

[7] Cfr. G. Tanturri, Il Regno delle due Sicilie descritto ed illustrato, vol. XVI, Fasc. I, p. 135, Napoli 1853.

[8] Vedasi A. Colarossi- Mancini, Storia di Scanno e Guida della Valle del Sagittario, L’Aquila 1921. Anche questo Autore ignora del tutto il termine “panarda”.

[9] Cfr. A. Di Nola, op. cit., p.187 sgg.

[10] G. d’Annunzio, Trionfo della morte, p. 269; Milano, Mondatori, 1977; a cura di G. Ferrata.

[11] Cfr. E. Giancristofaro, Storie del silenzio. Cronache di vita popolare abruzzese. La panarda, in “Rivista Abruzzese”, n.2, 1993, p.123 sgg. Sull’importanza delle fave nell’alimentazione dei ceti rurali vedasi il nostro saggio: La sacralità delle fave nell’agiografia popolare abruzzese, in “Rivista Abruzzese”, n.3, Lanciano 1996.

[12] Firenze, A. Quattrini Ed., 1911.

[13] Cfr. L. Palozzi, Storia di Villavallelonga, Ed. Dell’Urbe, Roma 1982.

[14] Devo copia della lettera al prof. Alvaro Salvi di Avezzano, che ringraziamo vivamente.

[15] Il “pranzo di San Giuseppe” è ancora in uso ad Atessa, Monteferrante ed altri centri del Vastese.

[16] Cfr. E. Nocera, Il Convito e la Devozione di San Giuseppe nella tradizione molisana, p. 35, Edizioni Enne, Campobasso 1998.

[17] Cfr. V. Lanternari, Folklore e dinamica culturale, p. 101 sgg., Liguori Ed., Napoli 1966.

[18] Per le tradizioni molisane della festa di San Giuseppe cfr. soprattutto: E. Nocera, Memorie del gusto, vol. I, p. 75 sgg., Campobasso 2001; E. D’Ascenzo, Mangiare molisano, p. 47 sgg., Campobasso 2003; M. Natilli, La cucina dei giorni di festa, p.40 sgg., Campobasso 2005; A. Maria Lombardi- R. Mastropaolo, Cucina molisana, Campobasso 1995.

[19] G. Pitrè, Feste patronali in Sicilia, p. 443; a cura di A. Rigoli, Palermo 1978.

[20] O. Cavalcanti, Cibo dei vivi, cibo dei morti, cibo di Dio, p.84 sgg., Rubbettino Ed., Soveria Mannelli (Catanzaro) 1995.

[21] Cfr. F. Toccafondi, Pizzoferrato, p. 18 sgg., Sulmona, Tip. Labor,1956.

[22] Cfr. G. De Rosa, Rituali della morte e cronaca nei libri parrocchiali del Mezzogiorno tra XVIII e XIX secolo; in Studium, Nov.-Dic. 1981, p. 662.

[23] C. Felice, Rivista Abruzzese, n° 4, Lanciano 1987.




SCRITTI VARI SULLA TERRA DI ROCCARASO

“E Roccarase lu paese elette, pe’ la bellezze porte unore e vante, dòmene lu munne da distante e de lu munne è lu vere tette”[1]

di Franco Cercone

[Pubblicazione a cura di Franco Cercone, Scritti vari sulla terra di Roccaraso, La Moderna, 1976 Sulmona]

Dopo la fondamentale opera dell’Ill. Prof. Francesco Sabatini, «La Regione degli Altopiani Maggiori d’Abruzzo. Roccaraso Pescocostanzo» [Roccaraso 1960, a c. dell’Azienda Soggiorno e Turismo], più nulla resta da dire sulle vicende storiche di Roccaraso.

Scopo del presente quaderno è pertanto quello di offrire ai Cittadini di Roccaraso una rassegna degli scritti più significativi inerenti a personaggi e vicende di questa Terra, scritti che ho disposto solo per comodità in ordine cronologico.

Fra i personaggi che hanno dato maggior lustro a Roccaraso, spicca particolarmente la figura di Vincenzo Giuliani, medico e storico di fama, per lungo tempo restato, e non solo a Roccaraso, dove nacque nel 1737, un «illustre dimenticato».

Vincenzo Giuliani, afferma il Pansa in uno scritto inserito nel presente lavoro, è “un nome quasi ignorato nella repubblica delle lettere, ma non per questo inferiore a qualsivoglia altro del suo tempo. E la causa dell’oblio è da ricercarsi… nella grande modestia del nostro autore, che lasciò quasi tutte le sue opere manoscritte… “.

Come Salvatore Tommasi, anche Vincenzo Giuliani va annoverato fra gli spiriti eletti che hanno dato lustro a Roccaraso.

Sarebbe auspicabile pertanto che gli Amministratori riflettessero un po’ di più sulle glorie della loro Terra e dedicassero al Giuliani almeno una via, cosa che in verità il sindaco di Roccaraso, Prof. Oreste Petrarca ha promesso di fare. Una decisione in tal senso potrebbe costituire il primo passo verso la rinascita di tutte quelle attività culturali che attualmente a Roccaraso languono.

La distruzione del paese in seguito ai tristi eventi della seconda guerra mondiale ha rappresentato anche la distruzione di un modello culturale che individuava Roccaraso centrale non solo nei confronti dei centri limitrofi ma anche regionali.

La ricostruzione, avvenuta sotto lo stimolo del turismo, non è stata accompagnata dalla benefica azione diretta alla salvaguardia di quei valori culturali di cui la storia e il folklore roccolano erano pur ricchi ed il vuoto venutosi così a creare è stato di conseguenza riempito dall’azione acculturante del turismo romano e soprattutto napoletano.

Se è vero che il passato non torna, è anche vero che le sorti del futuro si determinano dal presente e pertanto molto può ancora essere fatto.

In tal senso è auspicabile a Roccaraso l’istituzione di un Centro Servizi Culturali e soprattutto di una biblioteca ben strutturata, in cui una sezione di Storia Patria avrebbe una benefica azione stimolante, soprattutto nei confronti dei giovani, ai quali essenzialmente è rivolto questo messaggio.

Dicembre 1976, Franco Cercone. 

VISITA DEL VESCOVO LANDOLFO (11 agosto 1316) ED ORIGINI DI ROCCARASO.

 [G. Celidonio, “La diocesi di Valva e Sulmona” Vol. III, Casalbordino 1911]

 «Ben presto il Vescovo Valvense entrò in possesso di S. Maria di Cinquemiglia e suoi beni, perché Landolfo, successore di Federigo, nel 1316, vi sta come in casa sua, e vi esercita piena giurisdizione episcopale: lo che riprova davvantaggio l’autenticità del bove surriferito.

Si rivela ciò dalla pergamena seguente, importante non solo per la storia di detto Monistero, ma anco pel limitrofo Roccaraso. L’origine di questa borgata si volle nientemeno assegnarla ad un pronipote di Noè!

Invece essa sorse pei monaci di Cinquemiglia, come già la Rocca di tal nome ed altri casali; ed a Santa Maria di Cinquemiglia fu sempre soggetta quale figlia alla madre.

Universitas et clerum Rocce de Rasino et Ecclesie seu cappelle loci ejusdem malienissimis retro temporibus et ad ipsius Rocce primerio statu (fin dall’origine sua).

Vi era però un grave inconveniente per questa sudditanza, cioè i bambini da battezzare ed i cadaveri da seppellire, che dovevano portarsi a S. Maria anco d’inverno, e per un tragitto di più di tre miglia. I Monaci, tenaci dei loro diritti, forse non vollero rimediarvi. Lo fece il Vescovo Landolfo nella santa visita del 1316 [2].

E fu il più bel frutto dell’aggregazione. Ricorda il documento la patruanza e l’offerta del pardino, la Chiesa di San Nicola, i suoi preti (… Dp. Perronus ac Dp. Nicolaus ed il Sindaco… Thomas de Gazaria [3] , qui alias dicitur Laydus Syndicus Universitatis Rocce de Rasino) ».

PRETI CHE VIVEVANO A RQCCARASO NEL 1356.

 [G. Celidonio, “Una visita pastorale nella diocesi Valvense, fatta nel 1356”; in «Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte», diretta da G. Pansa, e P. Piccirilli; an. III, 1899, n. 8, Casalbordino.]

“In Rocca de Rasino sunt infrascripti Clerici: Dopnus Amícus; Dp. Alexander, Dp. Petrus; Dp. Oddo qui habent Ecc.: m. Sanctorum Nicolai et Ypoliti, que curam habet animarum et pre: a. eccl. San: Ypoliti eget reparatione. Dp. Amícus nescivit Articulos fidei intime.

Dixit qd: ipse et Dp. Alexander emit et vendat animalia.

Dp: Petrus nescivit Articulos fidei, et  Alexander nescivit dicere de operibus caritatis.

Solverunt pro procuratione tareni quattuor”.

COGNOMI DI RQCCARASO (ROCCA RASOLI) NEL 1447.

[N. F. Faraglia, «La numerazione dei fuochi nelle terre della Valle del Sangro fatta nel 1447», in “Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte”, diretta da G. Pansa e P. Piccirilli. Casalbordino, an. II 1898, nn. 5-6; De Arcangelis Editore. Manca il numero dei fuochi e delle anime.]

Antonij – Barrelli – Baliste – Colecti – Gemme – Gentilis – Marchoni – Melucij – Roberti – Sachi – Spacucij – Vetuli.

PASSAGGIO Dl FRA’ SERAFINO RAZZI A ROCCARASO (Sec. XVI).

[Serafino Razzi, «Viaggi in Abruzzo», Inedito del sec. XVI, a cura di Benedetto Carderi. Japadre Editore, L’Aqui1a, pag. 224 segg.]

“Il Martedì a’ 28 di Maggio, ci stemmo in Castel di Sangro accarezzati da quei nostri padri.

Visitai dopo il Vespro il Signor Lionardo Pietra, Auditore generale dell’Ill.ma Marchesa di Pescara, e del Vasto, e ci mandò la sera a presentare.

Il Mercoledì a’ 29 dissi la messa per la b.m. del p. fr. Ieronimo Arrighi, detto il cappuccino, nostro Toscano, che qui morendo Vicario del Abruzzi, fu sepolto.

E dopo passato il fiume Sangro, e lasciataci la Rocca delle cinque miglia alla destra, salimmo, co’ molto sudore, sopra asprissime montagne fino attanto che arrivammo al nominato piano delle cinquemiglia, e cotanto pericoloso nello inverno, e ne i tempi cattivi.

E’ questa una vallata piana di cinque miglia, onde ha ricavato il nome, serrata e cinta fra altissimi colli, in cima di una alta montagna, di larghezza in certi luoghi di un miglio, et in alcuni di meno, onde tien forma di un catino vuoto.

E serrandovisi dentro ne i tempi cattivi le nevi, le piogge, e i venti, co’ tanta furia, impeto, e forza si vanno per quella avvolgendo, che ciascheduno anno, ci restano soffocate molte persone.

Et una volta, come scrive Monsignor Paolo Giovio, nel tempo delle guerre di Napoli, ci perirono gran numero di soldati (circiter 300 milites periere).

Ci furono già, edificati cinque Torrioni, per ogni miglio uno, acciocché in quelli, trovassero ne i cattivi tempi, i viandanti da ricoverarsi.

E perciò ancora furono edificate due Terre all’entrata di essa valle, acciò il prudente viandante, veggendo turbato il tempo possa in quelle fermare, e non si metterà a pericolo [4].

Nel tempo però dell’estate, no’ è pericolosa, anzi dilettevole assai essendo tutta piana fresca, e piena di praterie, se già non occorresse qulche horribile temporale.

Arrivati noi al principio ci fermammo al primo Torrione, a una tavernella che ci tengono la estate a bere un poco. Et ecco che vedemmo arrivare un drappello di montanine donzelle, le quali, per mio avviso, andavano per fasci di legna a una vicina selva, dalla più prossima Terra venendo. E scese che furono nel detto piano, così scalze come erano, e di panni leggieri vestite, si presono per mano, et in ballo tondo danzarono per buona pezza, sopra di quelle tenere, e fresche praterie, veggenti noi alquanto da lontano, per la strada militare, e diritta caminando, i loro destri, leggieri e spensierati salti.

Alla fine poscia del piano predetto per iscendere a Solmona trovammo la Terra di Rocca scura, e fatta la spiacevole china, e lasciatoci Pettorano, Terra maggiore alla sinistra e camminando sempre lungo freschissimi ruscelli e canali d’acque giungemmo al XVIII miglio in Sulmona, ove ci rattennero quei nostri padri Toscani riformatori, quasi co’ santa violenza quattro giorni appresso di loro”.

ANTICHISSIME ORIGNI D ROCCA DEL RASINO.

[G. Vincenzo Ciarlanti, «Memorie Historiche del Sannio», pag. 43 segg., Isernia 1644.]

“Pietro Leone Casella, De Primis Italiae Colonis, dice molto più in poche parole, che par bene addurle:

Carantios legimus, et Caracenos pro C. Ranty, et C. Razenui, vel Rasiny populi apud nos. Itaq. Caraceni, qui fecundum incolunt Atram ad Orientem et Razeny; quorum locus adhuc servat nomen Razinium, non iniucunda in campi planicie iuxta Aequos, qui sè a fratibus segregantes ad Meridiem ultra Rasinios reclusi sunt. Et media est inter Cominium vallem, et Coman urbem ad Septentrionem qua ipsa diruta est.

Dalla qual autorità appare che da C. Rantio, o C. Rasinio, il nome de’ Carantij, o Caraceni sortissero questi Popoli, i quali stavano in mezzo alla Valle di Cominio, e di Como.

Città hora distrutta: e anche al presente vi si conserva il nome di Rasino, poiché vi è un torrente chiamato con detto nome e una terra a quello vicina detta la ROCCA DEL RASINO;

È DI NON POCO ORNAMENTO ED HONORE A I DETTI LUOGHI, IL SAPER UNA SI’ ANTICA MEMORIA, ANZI UN SI’ ANTICHISSIMO PRINCIPIO DI TALE LORO NATIONE; mentre si vede in Beroso ove tratta di Nino terzo Bè di Babilonia, che Giano, cioè Noè, impose il cognome di RAZENUI alla posterità di Crano, e Crana sono i suoi nipoti, che fu nell’anno 268 dopo il diluvio, e da questa poi, o dai suoi discendenti, fu dato il nome a questa Regione”.

MICHELE TORCIA E LE SUE ANNOTAZIONI SU ROCCARASO.

In una famosa opera scritta alla fine del sec. XVIII, un acuto letterato napoletano, Michele Torcia, dava alle stampe il suo «Saggio Itinerario Nazionale Pel Paese de’ Peligni fatto nel 1792». Da esso stralciamo alcuni passi, anche se brevi, inerenti a Roccaraso. In tale Saggio il Torcia parla spesso di Vincenzo Giuliani, le cui opere costituivano anche per i più dotti, un punto costante di riferimento. Si ha l’impressione, ed il Torcia lo conferma, che molti studiosi dell’epoca abbiano attinto non poco materiale, dai manoscritti del Giuliani per stilare opere di carattere storico ed archeologico.

Pag. 3 segg. del Saggio: “D. Vincenzo Giuliani, mio amico e dotto medico di Rocca Erasino o Raso, in uno elaborato manoscritto sul Piano di Cinque Miglia annette all’Argatone non solo tutto il gruppo del moderno Chiarano, ma tutti i grossi lobi di monti coi rispettivi colli, valli, e piani, che sono compresi nei pecorosi tenimenti di Revisondoli, Rocca Valle-Oscura e Pescocostanzo.

Egli deve avere i suoi lumi istorici per appoggiar tale opinione, ma non gli ha enunciati nel suo manoscritto se pur mal non mi rammento. Se ne potrà interrogare il lodato professore”.

Pag. 21: “A Sulmona dà capo il quarto lato ancor più noto e di gran lunga più celebre nelle antiche istorie per le gesta de’nostri popoli di Corfinio e Sulmona già detta, e per le opere de’ loro Poeti Ovidio e Silio; nel Piano di Cinque Miglia per cui si deve passare, (la strada) costeggia il moderno Argatone sotto l’industre e culta popolazione di Roccaraso…”.

Pag. 116: “Il lungo viale di belli ontani che ornava l’erbosa piana tra Roccaraso e Pescocostanzo non ne conserva neppure il nome…”.

ROCCA DEL RÀSO NEL «DIZIONARIO» DEL GIUSTINIANI.

[L. Giustiniani, «Dizionario Geografico Ragionato del Regno di Napoli, sub voce Rocca del Raso»; Napoli 1797.]

“Terra in Abruzzo citeriore, in diocesi di Sulmona.

Con errore dicesi da taluno essere nella provincia dell’Aquila. In tutte le situazioni del Regno l’ho pure sempre ritrovata appellata Rocca del Raso, e non già Roccarasa.

È situata in luogo montuoso, di aria buona, e gli abitanti ascendono a circa 1300.

Essi sono addetti alla pastorizia, essendovi ottimi pascoli. Vi è una fabbrica di pannilana e una tintoria.

Nel 1532 fu tassata per fuochi 68, nel 1545 per 63, nel 1561 per 127, nel 1595 per 150, nel 1648 per 161, nel 1669 per 124.

Questa Terra fu infeudata all’uso longobardo.

Nel 1617 si trova l’assenso della libera vendita fatta da Ottavio Caraffa, marchese di Sanlucido a Donato Giovanni Marchisano della parte di Rocca del Raso, che possedeva jure Langobardorum. In oggi si possiede dalla famiglia Caracciolo de” Principi di Santobono”. 

LE NOZZE ANTICIPATE.

[A. De Nino, «Usi Abruzzesi››, Vol. I pagg. 196-97; Firenze 1879]

“Alcune bande musicali giravano per le vie dell’alpigno Roccaraso, poichè si celebrava la festa del Santo di Montpellier [San Rocco]. Ma, con tutta la festa, alcuni padri di famiglia se ne fuggivano nei paesi vicini; indovinate perché? per non fare la cavalcata.

Gli altri che si rassegnavano a subirne il sacrificio, vestivano di gala le loro bambine; mentre i parenti dalla parte loro approntavano un asino con la bardatura e con le corone di campanelli e di nastri e di fiori.

L’asino co’ suoi parenti o, per meglio dire, co’suoi padroni, si ferma innanzi a una casa. Tutti chiamano il tale di tale, il padre di famiglia che deve fare la cavalcata; e anche l’asino chiama, solfeggiando a modo suo. Il padre di famiglia esce, e reca in braccio una pomposa bambinella.

Appena monta sull’asino, la turba grida: – Salute e figli maschi! – E questo grido si ripete più volte mentre si fa il giro del paese, e si tormenta la docile bestia scotendo la briglia e tirandogli la coda. Il padre con la sua bambina scende sempre alle case dei parenti, dove si ferma un poco per ricevere confetture o rosolio o pizze e vino. E poi di nuovo: – Salute e figli maschi! –  Ed ecco dunque come in Roccaraso è trattato un povero marito, a cui la moglie, dentro quell’anno, regalò una figlia femmina.

È scherno o non è piuttosto una festa nuziale anticipata?

Io non credo che sia uno scherno.

Finito il giro di un padre, tocca all’altro. E, con tutti questi giri, la festa di San Rocco diviene più allegra e, starei a dire, più solenne. Fecero dunque bene quegli altri padri di famiglia a svignarsela. Ma che! il giorno dopo, come essi tornarono al paese, i parenti ripresero l’asino, e costrinsero i fuggitivi a fare il giro delle nozze anticipate”.

NOTIZIE SUI CAPITOLI FEUDALI E MUNICIPALI DI ROCCARASO.

[Antonio De Nino, in «Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti», Teramo, 1892, fasc. V.]

Al compianto amico Giuseppe Andrea Angeloni per indelebili benemerenze abruzzesi.

L’On. Barone Angeloni in vita aveva mostrato volere di pubblicare a sue spese i Capitoli di Roccaraso e di farli illustrare al Cav. De Nino, ma n’è stato impedito da morte. Speriamo che il figlio del compianto Barone, degno erede delle virtù paterne, voglia compiere il disegno del padre.

G. PANNELLA

Nell’Archivio Municipale di Roccaraso, si conservano parecchi esemplari di Capitoli e Concessioni, meritevoli di qualche studio sì per la storia del paese e sì per la legislazione nazionale dei secoli XVI e XVII. La maggior parte sono manoscritti in pergamena.

Il più antico di questi mss. s’intitola << Capitoli, grazie e concessioni conceduti alla Rocca del Raso dalla Marchesa di Pescara Donna Isabella Gonzaga, ai 2 di febbraio 1576 >>.

Vi ha delle disposizioni molto larghe pei vassalli. Eccone alcune, per atto di esempio:

“I capitanei et ufficiali non possono per qualsivoglia causa carcerare cittadino alcuno a ceppi o ferri ne a prigionie criminali se non nelle cause che importano pena de morte naturale o civile.  Per debiti civili… ancora che fossero obbliganze penes acta… li cittadini di detta terra non possono essere carcerati sotto chiave, se non fossero persone solite da fugire dalla corte. Occorrendo farsi querela de iniuria contra alcuno, et revocandose la querela per lo querelante fra vintiquattro hore dopo che la querela serrà intimata al querelato li Cap.ei et officiali non possano procedere ne farsi pagare decreto ne atto alc. – Occorrendo farsi querela de parole o atti iniurosi, purché  non se venga ad effusione de sangue, non essendoce remissione de parte, non se possa pigliare più de pena che un docato.  L’officiale de le castella… non possa ne debbia, per qualsivoglia causa, purché non importi pena di morte naturale o civile o mutilazione di membro, estrahere cittadino alcuno da la Rocca, etiam che fosse incorsi in qualsivoglia altra pena, ma in la detta Rocca debbia quelli astrengere et ministrare Iustitia. Piacciali ordinare che nel dì di Santo Hippolito, (patrono del paese) San Giovanni ed altre feste principali observate in detta terra, non se possa per persona alcuna giocare a rociole, picciole o grosse, ne tirare con scoppette a palii per l’abitato de detta terra per evitare l’inconvenienti et dicasi (brutti casi o disgrazie) che potessero sortire, et chi ce giocasse incorra in una onza d’oro de pena”.

Segue poi la conferma dei capitoli medesimi, fatta da Don Alfonso D’Avalos di Aquino, Marchese di Vasto, nel 2 agosto 1598; e poi altre conferme, fra cui quella di Don Francesco Antonio Sanità, in questa forma:

“Ego D.s Franciscus Sanitas adpresens Gubernator Terre Rocce Rasoli, et cum iuramento promitto observare et observarvi facere retroscritta capitula iusta eorem seriem continentiam et tenorem, etc. Iusta solitum etc. Rocce Rasoli die 24 Augusti 1663 Sanitas Gubernator”.

Dopo il 1663, viene la conferma fatta da Carlo De Letto, Capitano Governatore.

E prima ancora, cioè verso il 1640 v’è la conferma di Scipione Tabassi:

“Scipio Tabasius Civitatis Sulmonis ad presens Gubernator dicte Terre Rocce Rasoli retroscritta capitula promisit observare servari conforma dum modo sint. etc. Tabasius Gubernator [5]”.

Gli stessi Capitoli, anche in pergamena, hanno la seguente intestazione: << D. Marino Caracciolo Principe di Santo Buono, Duca di Castel di Sangro, Marchese di Bucchianico, Conte di Schiavi, Santo Vito et Capracotta e Signore della Baronia di Monte Ferrante et delle Terre D’Agnone, Ripa Teatina, Casal in Contrada, Guardia Grele e Rocca del Raso die primo mensis ottobris 1672>>.

Le variazioni e le aggiunte sono insignificanti. In ultimo c’è la firma del Principe di San Buono.

Nel terzo esemplare, in pergamena, furono aggiunti molti capitoli. Curiosa questa disposizione, che, cioè, il predicatore quaresimale doveva eleggersi dalla Università, tra Cappuccini o Riformati, da hora per sempre. Curiosa quest’altra:

“Item si supplica che quello il quale desse un pugnio in presenza di qualsivoglia persona ed apparesse livore e non sangue sia tenuto alla pena di carlini cinque e chi cavasse sangue con pugni senz’arme sia tenuto alla pena del doppio e chi con arme, alla pena dettata dalle Leggi e costituzioni del Regno”.

Dunque lo Stato si occupava soltanto delle ferite fatte con arma!

Per la tutela della proprietà, vi era la pena di ducati sei, a carico di chi rimoveva i termini dalle terre. I danni negli orti erano puniti con la multa di celle quattro per ciascheduna volta.

Si provvedeva altresì alla igiene e alla decenza: chi gettava immondizia nelli fossi della Terra, punivasi pure con la pena di celle quattro; celle quattro, contro il padrone di un maiale che non fosse tenuto chiuso ed andando per la Terra; celle quattro per pena a chi buttava immondizie innanzi la casa del vicino.  I forestieri non potevano esercitare la loro arte dentro la Terra, ma fuora di essa, al burgo. Sicché, nel 1600, Roccaraso aveva già il suo borgo che costituiva quasi tutto l’attuale paese.

L’ultima pagina, dove comincia il rescritto del feudatario, è lacera. Non si sa dunque la data precisa: ma siamo ancora alla fine del secolo XVII.

Senza data sono anche due altri esemplari di somiglianti Capitoli. Senza data, una copia di Capitoli preparati per la debita approvazione, col seguente indirizzo: << Al M. Ill.re Sig. Gio: Thomaso Marchesano Bar.ne della R: del Raso >>. –

Altri Capitoli, seguiti da bandi, sono del novembre 1623; e un’altra copia simile porta la data del 1717.

Oltre i Capitoli fondamentali tra il Comune e il Signore del feudo, ve n’erano altri esclusivamente municipali. Nello stesso Archivio si conservano pure dei «Capitoli e patti della osservanza che devano l’Obligati dell’Università della Rocca del Raso restaurati da me Gio: Battista Florino Cancelliere l’anno M:D:L: XXXVII».

Tali Capitoli, scritti altresì in pergamena, si riferiscono a diversi ceti di terrazzani. Lascio in disparte quelli dell’Esattore; giacché, come a me pare, hanno maggiore interesse gli altri relativi al Macello.

Diamone un saggio:

<<Item vole essa Università che a chi resterà detto Macello habbia da esercitare e fare la carne in detta terra, e darne a sufficienza a tutti i cittadini habitanti e comoranti, e facendo il contrario incorra nella pena di carlini dieci volta per volta.

-Che debbia fare due agnelli il giorno, uno la matina, e uno la sera, occorrendo per malati o soldati o altra occorrenza sia tenuto quanto ne bisognano: “Item vole essa Università che detto Macellaro habbia da fare la carne lo sabbato la sera a buon’hora acciò che la domenica matina non si perda la messa, e facendo il contrario incorra nella pena di carlini cinque volta per volta”.

-Vole essa Università che in suo nome li Sindaci e Governo in suo nome promettano (permettano) a detto macellaro che avanzandoli carne il giovedì per non perderla ne possa mandare uno rotolo per casa dove parerà ad esso macellaro, e quello che avendo detta carne la debba ricevere e pagarla a detto macellaro e non volendo ricevere detta carne sia tenuto a pagare il detto rotolo e non altrimenti.

-Che detto macellaro non possa tagliare carne di pecora, agnello e castrato che siano negri di nessuna maniera contravvenendo incorra nella pena di carlini trenta>>.

Quest’ultima comminazione di pena si può spiegare con la grande importanza che si dava un tempo agli ovini di manto nero, della cui lana si servivano i fabbricanti di tessuto per cocolle fratine e ancora oggi si servono i montanari dell’Abruzzo per far calze e manti e mantelli, senza bisogno

di tintura artificiale.

Nei medesimi capitoli si parla della baccina mopa, vaccina muta, vale a dire di quelle vaccine che hanno acqua nel cervello e ammutoliscono.

Anche ai nostri giorni, a donna che, senza molte parole, opera male, si dà il nome di gatta mopa.

I capitoli delli cellarii contengono ricordi di usi che fanno meditare. I cantinieri andavano soggetti a varie multe. Anche di questi un piccolo cenno:

<< Che il detto obbligato debbia tenere vasi netti puliti e vendere vino ad una candella sola; fenita che sarà una debbia mettere mano alla altra, e facendosi contrario incorra nella pena di carlini dieci ogni volta.  -Che il detto obbligato debbia tenere un vino buono cotto e crudo per li malati ed altro necessario, facendo il contrario incorra nella pena di carlini cinque. -Che debbia portare vino in buon recipiente et in caso che portasse vino guasto… o si trovasse che fosse di male odore cioè di legnia o sapore di olio per difetto di otri, sia tenuto il Sindico o Capitano subito sturarlo e buttarlo per terra senza pagare cosa alcuna.

-Che detto vino non lo possa vendere ne intricarsi homo, ma ci debbia tenere una femina e vendere detto vino, e contravvenendo incorra nella pena di ducati due ogni volta.

-Che la femina che vende detto vino debbia assistere di continuo, dalla matina che sponta il sole per insino la sera a due ore di notte e facendo il contrario incorra nella pena di carlini cinque >>.

Una disposizione, piuttosto singolare per topografia si trova nei Capitoli del seminato: “Che detto gualano habbia da rompere il gelo l’inverno allo Rasino per comodità dello abbeverare ogni volta sarà necessario”.

Il Ràsino o Ràscino è un ruscello che tocca le radici del colle, sopra di cui sorge Roccaraso, che prima fu detto perciò Rocca del Rascino e poi Rocca del Raso e attualmente Roccaraso, secondo la odierna denominazione.

I sigilli municipali ricordano la stessa origine.

In uno del 1530, vi sono tre torri e, attorno, la leggenda Rocca Rasoli. In un altro del 1683, appiè delle tre torri, fluisce un ruscello e intorno: Universitas terre Rocce Rasini.

UN ILLUSTRE DIMENTICATO – VINCENZO GIULIANI – DI ROCCARASO E LE SUE OPERE MANOSCRITTE

[Giovanni Pansa, in «Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti», Teramo 1893, fasc. VI.]

Far rivivere dalla tomba e togliere all’oblio quei nobili ingegni che per ingiuria di tempo o per incuria degli uomini sono rimasti fino ad oggi ignorati, mi sembra non soltanto carità di patria, ma dovere imprescindibile di gratitudine.

Per dottrina ed erudizione chiarissimo fra gli eruditi del secolo passato, non deve passare in perfetto silenzio lo abruzzese Vincenzo Giuliani, medico ed archeologo di cui mi piace rinnovare la memoria in queste pagine, tanto più che di lui a mala pena il nome solo ci è pervenuto, nome quasi ignorato nella repubblica delle lettere, ma non per questo inferiore a qualsivoglia altro del suo tempo.

E la causa dell’oblìo è da ricercarsi, secondo me, nella grande modestia del nostro autore, che lasciò quasi tutte le sue opere manoscritte, ritenendole indegne della stampa.

Esempio rarissimo al mondo d’oggi, specialmente per una certa genia d’impostori e sfruttatori ridicoli della fama, che usano buttare in aria i propri cenci e passare per grandi uomini col facile sussidio dell’altrui imbecillità!

Del nostro Giuliani si può dire, con Orazio, come degli eroi greci:

Vixere fortes . . .

. .  .  ignotique longa

Nocte, carent quia vate sacro [6].

Dal brevissimo ricordo che ne fece il Soria[7] , il quale dovette essergli amico, si apprende che il nostro autore nacque a Roccaraso, paese della diocesi di Sulmona, nel 1737.

Esercito, più per genio che per bisogno, la professione di medico nella provincia di Capitanata, ove dimorò lungo tempo, e principale suo studio furono fisica sperimentale e l’osservazione dei morbi ai quali più specialmente andavano soggette quelle popolazioni.

Siffatta applicazione non gli tolse, peraltro, l’agio di dedicarsi agli studi archeologici per dare alle stampe una storia di Vieste, città litorale, poco distante dal monte Gargano, col titolo di “Memorie storiche, politiche, ecclesiastiche della città di Vieste” [Napoli, 1768; in 4°].

Quantunque l’autore dichiari di averla scritta in provincia e senza occasione, per conseguenza, di poter consultare libri, l’opera è dottissima e di sommo interesse.

Essa è preceduta da un saggio di storia naturale di quelle contrade, con la descrizione del clima, delle piante medicinali che crescono nei dintorni del Gargano, degl’insetti che spesso infestano quei luoghi, e con la notizia, in fine, di altri prodotti naturali ed artificiali.

L’autore sostiene che Vieste sia di origine greca, sorta dalle rovine di Apeneste, ricordata da Tolomeo, e che poscia divenisse colonia romana, fra quelle che Frontino accenna in generale di essere state dedotte circa montem Garganum.

Ne’ suoi giudizi si mostra scrupoloso indagatore; studia ed analizza con particolare minuzia tutti i frammenti di anticaglie trovate in quei luoghi, ricerca ed osserva documenti di vario genere, statuti civili, memorie ecclesiastiche, dei vescovi delle chiese ecc.… e procede nel racconto delle vicende di Vieste fino all’anno 1554 quando, dopo la ristaurazione dalle rovine cagionatele dal corsaro Dragut, fu dall’Imperatore Carlo V incorporata al regio demanio.

Si può affermare che questa sia l’unica opera messa a stampa dal Giuliani.

Una lunghissima epistola da lui diretta allo storico Grimaldi, trovasi inserita nel To. III. Ep. 2, p. 166 e seg. degli «Annali civili del Regno» di questo scrittore, e tratta con assai acume e profondità di dottrina della storia dell’antica Corfinio, metropoli dei Sanniti.

Questa lettera fu certamente scritta ad istanza del Grimaldi, che forse non seppe trovare altri più atto del Giuliani alla ricerca di quelle notizie.

Qualche giudizio errato o non esatto, come osserva il De Stephanis, fu dal Giuliani stesso modificato nelle opere che in appresso compose e lasciò manoscritte.

Queste, a dir vero, sono parecchie e tutte di somma importanza, perché il De Stephanis, ricercatore fino e giudizioso, che le ebbe per le mani, poté ricavarne non lieve profitto[8] .

Innanzi tutto il Torcia[9]  ricorda un lavoro inedito del nostro autore, col titolo di «Memoria storica del Piano di Cinque Miglia».

Del manoscritto di questo lavoro, oggidì perduto, ch’io mi sappia, nessun altro ha parlato, compreso lo stesso Giuseppe Liberatore che scrisse e stampò un’operetta sull’identico soggetto[10]

I manoscritti consultati dal De Stephanis sono i seguenti:

  1. “Storia dei Peligni”. Quest’opera constar dovea di due o più libri e volumi, come appare nelle citazioni del De Stephanis.
  2. “Vita di Antonio Caldora”. Coll’autorità di varii documenti e di forti ragioni storiche dimostra il Giuliani che il figlio del celebre condottiero, Giacomo, nacque a Pacentro, paese poco distante da Sulmona.
  3. “Annali della città di Sulmona”. Da quanto ne cita il De Stephanis si apprende che il nostro autore aveva sagacemente percontate le carte dei nostri archivi pubblici e privati, a scopo di ricavarne notizie preziosissime.

Ho fatto somme diligenze per rintracciare i tre ricordati manoscritti, recandomi anche sui luoghi abitati dall’autore, ma senza risultato. Il De Stephanis, oggi nonagenario, per quanta lucidezza di mente tuttora conservi, non seppe dirmene nulla.

Dobbiamo, dunque, ritenere che abbiano subita la identica sorte di molti altri oggidì inutilmente ricercati: quella del tabaccaio o del pizzicagnolo!

È fatalità, non c’è dubbio, e fa stringere il cuore il pensare che le fatiche di un sì bell’ingegno, come il Giuliani, abbiano concorso a favorire le altrui abbiette speculazioni, ma è più doloroso il dover constatare che nei nostri paesi continui ancora il basso ed obrobbrioso mercato dei libri e di degeneri nipoti[11] .

Oltre ad una «Storia naturale della Capitanata» promessa e non più data alle stampe, il Soria ricorda un’opera parimenti inedita del nostro autore, col titolo di «Storia dell’antica Petilia» o “Petelia”, città che al pari di Eliopoli, Eraclea ed altre della Magna Grecia, ebbe situazione in diversi luoghi.

La Petilia dei Bruzi ricordata da Livio, Virgilio e Plutarco e Frontino, viene situata dal Barrio, dal Ferrari, dal Baudrand e da altri in Policastro di Calabria, sebbene l’Ostenio e l’Orlandi la vogliono posta dov’è oggi Strongoli, in base ad un’antica iscrizione riferita dal Grutero, dal Gualtieri e da altri. Della Petilia ricordata come città capitale dei Lucani da Diodoro Siculo e Strabone vien designata l’ubicazione dal Barone Antonini sulla montagna della Stella del Cilento, e dal Troili tra i fiumi Bradano e Basento, nella parte opposta della Lucania.

Il Giuliani trovò un’altra Petilia negli Abruzzi, nelle vicinanze della terra di Pacentro, presso Sulmona, e raccolse in quei luoghi moltissime iscrizioni Petiliane.

Ma anche di questo manoscritto disgraziatamente non esiste traccia. Accennerò, in ultimo, ad un’erudita lettera del nostro autore inserita in un volume manoscritto di memorie sull’antichità di Pacentro, custodito presso di me e di cui diedi notizia nella “Bibliografia storica degli Abruzzi”

(n. LVIII).

Questa lettera scritta in Roccaraso, ai 14 aprile del 1781, ad istanza del giureconsulto Pasquale Larocca, contiene varie notizie di Pacentro, delle chiese e monasteri ivi esistenti e particolarmente del monistero della SS. Trinità e di S. Quirico in Fignano, soggetto al dominio dei monaci di Casauria.

Tali notizie ho potuto raccogliere intorno al Giuliani.

Sono poche, ma bastano a dare un’idea esatta della dottrina e profonda erudizione di lui. Vegga altri di completarle e di restituire alla repubblica delle lettere più integra che sia possibile la bella figura d’un personaggio per quanto benemerito della coltura patria, altrettanto sconosciuto e ingratamente dimenticato!

Sulmona, Maggio 1893.  –   G. PANSA

GITA IN AUTOMOILE A ROCCARASO. È L’ANNO 1909!

[A. Tortoreto, «Attraverso gli Abruzzi in automobile», pag. 58 segg; Roma 1909.]

Diamo un ultimo sguardo alla valle del Sangro; le cime dei monti appaiono leggere, aeree nel sole che tramonta: si profilano le une dietro le altre, sino alle ultime, quelle del Molise.

Un’ultima volata e siamo a Roccaraso: fa freddo!

È Roccaraso la prima stazione climatica abruzzese: su questa giogaia dell’Appennino, dove nel cuore di luglio vediamo gli uomini girare avvolti in pesanti mantelli e le donne vestite di lana greve, sono sorti come per incanto due, tre bellissimi alberghi che accolgono, nella stagione buona, i villeggianti.

A due passi dal paese, corre vittoriosa la vaporiera: le passeggiate di montagna sono suggestive: un’escursione al prossimo, famoso Piano delle Cinque-Miglia è quanto di più incantevole si possa desiderare; e l’aria fine, frizzante pone, grazie a Dio, un appetito!… Figuratevi che anche ne sentiamo gli stimoli, noi che da due giorni non facciamo che mangiare, tanto che l’amico Montani giustamente nota: << Si marcia con una velocità media di trenta chilometri all’ora, o, per essere più esatti, di venti pasti al giorno, tra grandi e piccoli! >>.

Anche qui accoglienze entusiastiche, cordiali; pranziamo nella sala maggiore dell’Albergo Maiella; poi a tarda notte, ci ritiriamo nelle linde camerette preparate per noi nei diversi alberghi e benediciamo le soffici coperte imbottite che proteggono dal freddo dei milleduecento metri sul livello del mare.

Alle sei – un’alba serena radiosa come ne ho viste poche – sotto i nostri alloggi sibila il fischio implacabile del duce della nostra carovana: pronti! Le nostre già fremono impazienti di riprendere la corsa. Una capatina in paese: c’è da vedere una interessante torre, alla cima della quale hanno, da poco, posto un orologio; la parte antica, chiusa nella rocca, e gli avanzi di un teatro che il Prof. Cena scova, rimontano al seicento.

Il che proverebbe che anche anticamente Roccaraso fu tenuta in pregio quale residenza estiva.

IL TEÀTRO DI ROCCARASO.

[C. Ricci, «Il teatro di Roccaraso», «Rassegna d’arte degli Abruzzi e del Molise», pag. 2 segg.; Roma 1912, n. 1].

Entriamo in Roccaraso dalla parte di ponente e percorriamo in salita la strada principale, fiancheggiata di case, in parte con scale esterne, alcune con balconi di ferro battuto sul fare pescolano, interrotte spesso da vicoli pittoreschi.

In fondo troviamo la spianata o piazza che costituisce il punto più importante del paese; a sinistra la chiesa principale; di fronte la Terra Vecchia o castello in cui s’entra per un arco aperto ai piedi di un’altra torre fornita di modiglioni e con lo stemma dei Caracciolo; a destra la chiesetta dei Morti e, tra minori case, il teatro: tutto, sparso su diverse linee e in vario e pittoresco ondeggiamento di terreno, con larghe aperture che lasciano vedere da un lato monte Tocco e il suo bosco; dall’altro, la Valle del Sangro con lungi il cono di Montemiglio.

Ora, chi direbbe che quel teatro è uno dei più antichi d’ltalia e che risale, nientemeno, al 1698? All’esterno, sotto il cornicione formato con file di coppi riuniti e sovrapposti, in una fascia di pietra che gira nella facciata e nel fianco volto a tramontana, si legge in belle lettere questa iscrizione:

DEO OPTIMO MAXIMO THEATRUM HOC PRAELUCET A FUNDAMENTIS ERECTUM AD ANIMORUM SOLATIUM AC IUVENTUTIS PROFECTUM AD PROPRIAE SOBOLIS COMMODIDATEM A PERILLUSTRI BARONE S. IOHANNIS DE MONTEMILIO DONATO BERARDINO ANGELONE NEC NON ET AB AGATHA ROSARIA FLORINI EIUS UXORE DIGNISSIMA QUORUM MAGNANIMITATEM SIC MUNDO POSTERIS SUISQUE FAMILIARIBUS MONSTRARE CURAVERUNT.

A.D; MENSIS OCTOBRIS 1698.

Dunque Donato Berardino Angeloni barone di Montemiglio e sua moglie Agata Rosaria Florini lo edificarono dalle fondamenta, in quell’anno, a sollazzo delle anime, a profitto della gioventù, a comodità della propria famiglia e invocato il nome di Dio confessarono che di tanta magnanimità s’aspettavano eterna gratitudine dai posteri.

Ahimè, mette male a frutto le sue azioni e i suoi sentimenti colui che li affida alla riconoscenza dei posteri! I posteri lasciarono andare tutto in malora; e solo la solidità delle mura corrispose alla volontà di Donato Berardino e Agata Rosaria.

Pareti sgretolate, selciati rimossi, gradini sgangherati, imposte rotte e cadenti, cortile invaso da animali e da cumuli di legna tagliata, stanze del primo piano ridotte a dimora privata, chiusa e abbrunata dal fumo, volte screpolate, vetri rotti… mio Dio, ottimo e massimo, che ruina, che sfacelo, che abbandono! Guai se i coniugi Angeloni vedessero dal mondo di là uno spettacolo simile, essi che il loro amore dell’arte e al paese, con quel teatro “mundo posteris suisque familiaribus manstrare curaverunt”. Solo il piano più alto dell’edificio ha conservato la prima destinazione, e serve ancora da teatro, senza però i vecchi banchi e i vecchi scenari e i vecchi palchi, compreso il palcoscenico che da ponente è passato a levante! Io però veggo ancora, rianimo ancora l’abbandonata fabbrica, con le antiche persone, o, meglio, coi loro fantasmi. Veggo salire da Sulmona e dalle parti di Napoli le compagnie comiche col loro carro d’attrezzi e di costumi. È il carro di Tespi del Capitan Fracassa o il carro che descrive Filippo Pananti nel Poeta di teatro!

Tutto il paese accorre. Il carro entra fragoroso nella vasta androna in fondo al cortile. Poi la compagnia si sbanda per gli alloggi, si rifocilla e riposa in fretta. Alla sera il teatro è invaso dalla folla.

Pulcinella trionfa. Ma non è forse questo il sollazzo degli animi, il profitto dei giovani, la commodità della sobole, voluta o desiderata da Donato Berardino e da Agata Rosaria.

Nell’idea di costoro l’edificio sorse su tutto come un’accademia, come un luogo di ritrovo dei cittadini migliori. L’inverno lassù è interminabile; la neve altissima rende impraticabile la campagna. Dunque, conviene trovare modo di rendere meno noiosa la prigionia radunandosi in molti a piacevoli conversazioni e a divertimenti ragionevoli. Così pensano i due Angeloni; e poiché il luogo adatto manca, lo costruiscono.

Nelle stanze del primo piano, al lume dei ceri e più del ceppo che arde nei grandi camini, si recitano sonetti, s’ascoltano elogi, s’improvvisano rime o discussioni, e.… magari, mentre si balla dai giovani, si giuoca al tarocco dai vecchi.

Poi nelle occasioni solenni o meglio quando il freddo si rannicchia alle calde ventate d’aprile, si passa di sopra nel teatro vero e proprio, e giovani e vecchi si uniscono a recitar commedie, tragedie, melodrammi. Roba da filodrammatici, capisco, ma, in quei piccoli paesi segregati dal mondo e spesso sepolti sotto enormi coltroni di neve, più utile, più tollerabile, più ragionevole (allora come oggi) che nelle città grandi dove i filodrammatici rappresentano una delle forme più gravi della “deficienza mentale”. Quindi, io penso che i due Angeloni, nel loro tempo, facessero cosa assai rigguardevole; e mi rallegro che la facessero con tanta serietà e solidità da consentire, ora, al Municipio di Roccaraso e al Ministero della Istruzione di mettersi d’accordo nel salvare l’interessante edificio, ciò che presto avverrà essendosi compiuti gli studi e raccolti i denari. E vorrei pure che qualche studioso abruzzese raccogliesse quanta più storia è possibile intorno ai munificenti coniugi costruttori. I loro nomi appaiono lassù in altri monumenti e in molte carte. Si leggono, ad esempio, in un altare dell’Assunta di Roccaraso, e si sa che Agata Rosaria confermò un lascito, nel 1688, alla stessa chiesa.

A Quarto San Giovanni, a mezza costa dal monte, sorgeva un villaggio in mezzo al quale stava una cappella dedicata al Battista. Un terribile terremoto, uno di quei terremoti che paiono voler mostrare la lo ro forza scuotendo immense catene di monti, nel dicembre del 1456 rovinò tutto.

Il paese fu schiacciato e nessuno pensò a ricostruirlo. Solo nel 1694 il barone Donato Berardino rialzò la cappella consacrata nel giugno dell’anno seguente. Prima che degli Angeloni, Quarto San Giovanni era stato dei Florini; poi era passato ad Agata dopo una fiera morìa che aveva decimato

tutto il napoletano e la famiglia di lei. Così, quando Donato Berardino la sposò, il luogo divenne suo. Egli però ne raccolse dolori mortali per certe liti che dovette sostenere volendo salvare quel feudo mercè il quale aveva titolo di barone. Un Giambattista Florini competitore, nel 1709 s’abboccò con lui e col figlio Lorenzo. <<Ambedue costoro – dice una cronaca inedita – rammentandosi la stretta parentela, lo pregarono voler cedere il feudo promettendogli in compenso mille pecore. Giambattista non volle affatto accondiscendere a tante premure, dicendo che se aveva ragione sul feudo, voleva vedersela, e che in caso contrario non pretendeva niente. Allora Donato Berardino andò a consulta a Sulmona, da dove ritornato, ordinò in sua casa che smorzassero i lumi e chiudessero le porte, perché egli non era più barone, essendogli stato detto dagli avvocati di Sulmona che aveva torto. Fu tale il di lui cordoglio per detta consulta avuta in Sulmona, che subito infermatosi fra cinque giorni se ne morì. Nel breve tempo della sua malattia non voleva munirsi di sacramento, ma dopo molte preghiere dei suoi domestici finalmente s’indusse a prenderli; e il di lui figlio Lorenzo, in ringraziamento a Dio, per detta grazia al di lui padre concessa, andò per il pavimento della casa colla lingua per terra>>.

Agata Rosaria sopravvisse al marito circa dieci anni e morì il 22 maggio 1718 lasciando parecchi figli e parecchie figlie tra le quali almeno due monache. Come è facile comprendere, fra tante angosce, sin d’allora le sorti del teatro dovettero languire.

L’AMPHIDROMIA.

[Giovanni Pansa “In Abruzzo. Saggi di etnografia comparata” – Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti, Teramo, 1915, fasc. XI.]

 

In molti paesi (può dirsi in quasi tutto l’Abruzzo) usano altri curiosi comparatici battesimali. Vi è il cosidetto comparatico a passare e consiste in questo:

«Si reca il neonato alla chiesa e dalla madre viene posato sull’altare, generalmente dal lato dell’Epistola. Una delle aspiranti comari, dopo alcune giaculatorie, abbraccia il bambino e lo passa ad una compagna che per lo stesso scopo aspetta al lato opposto dell’altare. Costei depone il bambino nella parte del Vangelo e, dopo altre giaculatorie, lo riabbraccia e lo ripassa alla comare

di prima. Ciò si esegue tre volte: e dopo tale esercizio le donne acquistano il diritto di chiamarsi fra loro comari. Se si tratta di un maschio, l’operazione è affidata agli uomini.

Molto più singolare è l’usanza di Roccaraso in occasione della nascita di una figlia femmina.

Nella ricorrenza di S. Rocco, ai 15 di agosto, il padre della piccina deve compiere insieme alla neonata (e non può esimersene per qualsivoglia motivo) entrambi vestiti di gala e coperti di bende e di nastri, un giro attorno al paese, a cavallo d’un asino bardato ed infettucciato, dando alla popolazione uno spettacolo di anticipato carnevale. Il giro rituale attorno all’ara domestica o all’altare è qui rappresentato da quello attorno al piccolo centro abitato: ma la connessità del rito con l’amphidromia ateniese non è meno evidente».

I NOMI DI BATTESIMO NELL’ABRUZZO

[Antonio De Nino. In “Tradizioni popolari abruzzesi. Scritti inediti e rari” a cura di Bruno Mosca. L. U. Japadre Ed., L’Aqui1a 1970, vol. 1, pag. 201.]

<< Vero e arcivero. Roccaraso, uno dei più montani paesi dell’Abruzzo, è singolarissimo nell’uso dei nomi propri di persona.

La storia antica e la medioevale, per questo, è messa a sacco: anzi si va al disopra della storia; si spigola anche nei campi scarmigliati della più romantica immaginazione.

Non c’è quasi famiglia, dove non si riscontra qualche bizzarria di nomi. Qua Carlina, Desiderata, Edvige, Egiziana, Ester, Pulcheria; là Clodoveo, Arsenio, Comincio, Epimenio, Peligrano, Solino.

E poi questi altri più strani di tutti: Acrina, Amata, Aristea, Aristilla, Beata e Beatina, Carina, Cherubina, Donnina, Erina, Ergomina, Ezilda, Ledoina, Lescalda, Macrina, ecc.

Dunque, o madri o padri o spose o sposi, fate un viaggetto nell’Abruzzo, onorate di una vostra visita Roccaraso, se volete farvi una buona provvista di nomi bizzarri e di…salute.

E come no, se l’aria di Roccaraso fa ravvivare i morti?

Badate però che, anche quando arde in cielo la canicola, bisogna tenere sul letto una massiccia coltre!>>.

TERRA BRUCIATA: ROCCARASO.

[Da «Abruzzo anno zero», di M. Masci; II Ed., pag. 278 segg., Pescara 1960]

«Ora bisognerà inventare Roccaraso, dissero i roccolani al loro rientro nella dolce selletta ai piedi del rudero del castello, contemplando il luogo cosparso di calcinacci e di macerie dove sorgeva il loro paese. Roccaraso era scomparsa.

Ebbe cognizione per primo Kesserling dell’importanza strategica della zona quando in un sopralluogo personale ordinò di fortificare a difesa Roccaraso come posizione chiave dominante sulla vallata del Sangro. Da quel momento anche Roccaraso fu considerata “terra da bruciare”.

Per prima cosa fu tolta di mezzo la pineta; trentamila pini furono usati per cospargere di puntelli tutto il Piano delle Cinque Miglia allo scopo d’impedire l’atterraggio degli aerei nemici; poi furono fatti saltare il ponte e la ferrovia, e quindi tutto l’abitato. I roccolani si sbandarono: in Puglia, nel Fucino, in Italia Settentrionale.

Ma la prima vittima la fece uno spezzonamento inglese: un bambino di Napoli, Claudio Mori, ch’era villeggiante con la sua bambinaia. Poi fu la volta degli altri villeggianti o sfollati, e Roccaraso n’era piena, come per tradizione: in casa Ferretti erano ospiti il Marchese di Santa Lilia e la duchessa Anna Diaz, moglie del figlio del Maresciallo; questi ospiti illustri avevano portato da Napoli, sperando di salvarli, insieme al principe D’Avalos, ai Baroni Angeloni, rilevanti quantitativi d’argenteria familiare; furono costretti a seppellire ogni ricchezza, per non trovarla mai più. Il Duca di Santa Lilia fu catturato dai tedeschi nella prima retata insieme al giovane Giuseppe e portato a Rivisondoli per lavori di fortificazioni; altri che riuscirono a sfuggire alla cattura s’arrampicarono sul piano dell’Aremogna con le loro robe donde, alcuni, si arrischiarono a passare il fronte.

I tedeschi sistemarono sul costone a lato est che domina la vallata un reparto di fucilieri e due batterie semoventi che disseminavano ininterrottamente di bombe la vallata, provocando un fastidio enorme ai reparti dell’ottava armata.

Il 24 novembre le truppe canadesi conquistarono la collina di Castel di Sangro e da quel momento si esasperarono e dissanguarono i vani attacchi e irruzioni contro lo sperone difeso dai tedeschi rimasti soli in Roccaraso, dopo l’esodo della popolazione.

In dicembre la neve si ammonticchiò sulle macerie di quella ch’era stata la più fiorente stazione climatica montana dell’Abruzzo aquilano e la selletta di Roccaraso sembrò assumere l’aspetto uniforme del paesaggio circostante: un dolce declivio della zona delle Cinque Miglia; qualche rudere che spuntava dal mantello bianco sembrava lanciare in alto un grido di nostalgia e di dolore. Nel gennaio un’accanita battaglia ed un’ostinata resistenza della retroguardia tedesca sull’Arazecca e sullo sperone di Roccacinquemiglia stabilizzarono il fronte per cinque mesi in quella zona; ma il passo di Roccaraso non fu potuto conquistare se non dopo il 4 giugno, quando tutto il fronte con la caduta di Roma cedette e i tedeschi abbandonarono la linea Gustav. Quando i primi roccolani tornarono, trovarono l’assurdo e scoprirono il vuoto: il paese non c’era più: bisognava ricostruirlo da capo, cioè inventarlo».


[1] A. Ambrosini, Impressioni di viaggio sull’autoservizio g.t. Circuito della Maiella, Chieti 1930.

[2] Fino al 1316, dunque, gli abitanti di Roccaraso erano costretti a recarsi a Roccacinquemiglia per battezzare i bambini e per seppellire i morti.

[3] Per quanto mi risulta, questo Thomas de Gazaria è il primo Sindaco di Roccaraso che si conosca. Non sarebbe vanità dedicargli una sala nel Comune di Roccaraso, appena esso avrà, ovviamente, la sua stabile dimora.

[4] Cioè Roccaraso e la borgata distrutta nei pressi della «MADONNA DEL CASALE».

[5] Dall’egregio amico, Barone Domenico Tabassi, decano dei cultori di storia patria in Sulmona, ho la seguente nota illustrativa di questo Governatore di Roccaraso: «Scipione Tabassi fu uomo d’armi. La sua ricca armatura di metallo, intarsiata di puro oro, si conservava fino ad alcuni anni indietro dal Signor Franco Tabassi, suo discendente. Fu vincitore in una delle Giostre, che a’ suoi tempi, si tenevano in Sulmona”. È anche ricordato in una lapide che sta tuttora innanzi l’altare maggiore della Chiesa della Maddalena (San Francesco della Scarpa) in Sulmona, nell’anno 1649.

[6]  “Carm.“, Lib. IV, Od. IX.

[7] “Memor. Stor. crit.” degli Storic. Napolet., I, 306.

[8] V. Monografia di Pacentro e Pettorano nel “Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato”, Vol. XVI, p. 70-88 e 95-102.

[9] Analisi ragionata dei libri nuovi”, marzo 1793. Napoli, 1793, p. 89. Id. “Saggio itinerante nel Paese dei Peligni”, Napoli 1793, p. 4.

[10] “Ragionamento topografico istorico fisic. ietro sul Piano di Cinquemiglia” ecc., Napoli, 1789.

[11] Potrei citare esempi a josa dello sperpero che anche oggi seguita a farsi dei libri e manoscritti, che vediamo ogni tanto gettati per le botteghe dei tabaccai e dei pizzicagnoli. Per restringermi a quanto m’è accaduto recentemente, ricorderò il seguente fatto: Fui avvertito da un amico che da mesi e mesi giacevano in una delle nostre tabaccherie due volumi manoscritti di memorie Sulmonesi del dotto giureconsulto Pasquale Larocca di Pacentro, e per quanto l’avviso mi parve ritardato, mi precipitai (è il termine adatto) in quella bottega colla speranza di salvare, se non tutto, almeno i resti del prezioso manoscritto. L’opera distruttrice, era già al suo termine; e da un pezzo. È doloroso, indegno, abominevole e reca stupore il pensare che esistano persone ignoranti le quali per coprire la propria vergogna, non esitano a manomettere libri e cimeli preziosi, vendendoli a nulla, mentre v’ha chi li comprerebbe a prezzo della più sviscerata affezione! Non comprendo come il rossore non s’imprima sulla fronte di questi vandali avvezzi a distruggere così ferocemente il patrimonio delle proprie tradizioni domestiche.




CORRERE PER ESSERE

La corsa degli zingari a Pacentro

di Franco Cercone

[Articolo di Franco Cercone, pubblicato in Rivista “D’Abruzzo”, Anno VII, N 26 Ed. Menabò Ortona – CH 1994]

Pacentro è un pittoresco paese della provincia dell’Aquila, arroccato alle pendici settentrionali del Morrone. Il castello medioevale che sovrasta il centro abitato ci parla del suo illustre passato e delle lotte insorte tra i Cantelmo e i Caldora per assicurarsene il possesso. La poca gente rimasta vive per lo più di agricoltura. I giovani sono occupati nel terziario oppure nelle fabbriche del nucleo industriale di Sulmona. Rilevante è tuttora il numero dei diplomati senza impiego.

L’8 settembre, in occasione dei festeggiamenti in onore della Madonna di Loreto, si svolge una singolare manifestazione che di anno in anno richiama un numero di spettatori sempre più numeroso

sia dall’Abruzzo che dalle regioni vicine.

Va subito chiarito che l’espressione zingari non deve trarre in inganno. Nel dialetto di Pacentro essa indica infatti chi cammina scalzo ed è stata coniata evidentemente in base all’osservazione costante che gli zingari andavano in giro con pochi indumenti addosso e soprattutto a piedi nudi, date le scarse possibilità che essi avevano in passato di poter acquistare delle scarpe.

Coloro che partecipano alla terribile gara sono contadini e operai del paese.

I figli delle persone benestanti e dei professionisti solitamente non si cimentano, anche se una delle ultime edizioni è stata vinta dal figlio del medico del paese che ha interrotto un secolare primato delle classi meno abbienti.

Il numero dei concorrenti non è mai rivelato dalla Confraternita della Madonna di Loreto che gestisce i festeggiamenti e diventa noto solo quando i giovani, verso le cinque del pomeriggio si radunano in località Pietra spaccata, un contrafforte roccioso di Colle Ardinghi, situato di fronte al paese e separato da quest’ultimo da una profonda gola in cui scorre il Vella, un torrente che scende precipitoso dalle falde della Maiella e che è ricordato da Ovidio nel terzo libro degli Amores.

Al primo rintocco di campana della chiesa della Madonna di Loreto gli zingari, a piedi nudi, e in pantaloncini e maglietta (indumenti forniti dalla stessa Confraternita), si gettano a capofitto lungo il ripido pendio del colle, cosparso ovunque di pietre, oltrepassando a valle il torrente Vella e puntando di nuovo a monte, in direzione di Pacentro, attraverso un sentiero che conduce direttamente alla chiesa.

Una folla enorme segue la corsa che si snoda lungo il tratto finale del percorso, lungo tre chilometri

circa. La maggior parte degli spettatori si accalca tuttavia attorno al sagrato di Santa Maria di Loreto, poiché l’altare della chiesa, il cui portale è lasciato aperto, costituisce il traguardo della emozionante gara.

Quando i concorrenti sono in prossimità della meta, gli spettatori (genitori e parenti, ma soprattutto le mamme), seguono passo passo, fino alla meta, gli zingarelli incitandoli a sopportare il dolore, spesso lancinante, dei piedi feriti, e cominciano ad oscillare, invasi da un crescente fermento, mentre

urla di entusiasmo si levano dalla folla allorché da una curva non lontana dalla chiesa si vede sbucare il primo concorrente. Con gli occhi dilatati dal dolore, provocato da un percorso quasi ordalico, il vincitore infila il portale e si inginocchia prima davanti all’altare, dopo di che si accascia stremato, seguito man mano dagli altri concorrenti che ripetono lo stesso cerimoniale.

A corsa ultimata viene chiuso il portale. Solo negli ultimi anni è stato permesso a studiosi e fotografi di restare nell’interno della chiesa e di assistere così ai momenti conclusivi della manifestazione.

La scena che si svolge assume a tratti toni drammatici e non facili da descrivere. Con i piedi cosparsi

di piaghe e sanguinanti, gli zingari giacciono sdraiati sul pavimento e si aiutano a vicenda, mentre il

dolore atroce dai piedi sembra propagarsi tutto sui loro volti. Un medico presta le prime cure alle ferite vistose, ma la sua azione è vanificata spesso dalle richieste di soccorso che si accavallano fra le grida concitate degli organizzatori impegnati ad accertarsi velocemente delle condizioni più o meno

gravi in cui versano gli zingari che hanno concluso la gara.

Sull’angusto piazzale antistante la chiesa la folla attende ansiosa che si riapra il portale e fa commenti sullo svolgimento della gara e sul vincitore.

Questi attimi di pausa ci permettono di aggiungere particolari importanti alla descrizione della manifestazione. La chiesa è dedicata, come si è detto, alla Madonna di Loreto ed un affresco eseguito nel tondo centrale raffigura, con una tecnica di esecuzione che ci ricorda quella degli ex-voto pittorici, la traslazione della Casa santa di Nazareth da Tersatto (Iugoslavia) a Loreto Marche. L’edificio sacro presenta caratteristiche tali da essere ascritto, come conferma un organo portativo coevo, al XVIII secolo e sorge in base a una tipica leggenda di fondazione dei santuari: una misteriosa donna, nella quale i fedeli riconosceranno in seguito la Madonna, si riposa proprio sul posto dove sarà eretta più tardi la chiesa.

La modesta facciata è movimentata da tre tondi a stucco e in quelli laterali sventolano fin dalla mattina della festa due tagli di stoffa avvolti a mo’, di bandiera su un’asta di legno. Tali stoffe sono di diverso colore e sufficienti a confezionare due vestiti da uomo.

Su ognuna di esse gli organizzatori appuntano un santino riproducente l’immagine della Madonna di Loreto. Questi tagli di stoffa costituiscono il cosiddetto palio, il premio cioè assegnato insieme a coppe, targhe ricordo e modeste somme di denaro, ai primi due classificati.

Durante la corsa i deputati alla festa sorvegliano affinché nessuno aiuti con spinte i partecipanti, a meno che per difficoltà sopravvenute durante il terribile percorso qualcuno di essi non dichiari espressamente di rinunciare alla gara. D’altro canto, una sorveglianza per così dire indiretta e reciproca viene effettuata dagli stessi tifosi appartenenti ai rioni in cui abitano i concorrenti, la cui contesa, alimentata da quei sentimenti intrattenibili che affiorano spesso nel blasone popolare, si esaurisce solo nell’ambito di una esperienza vissuta anche a livello ludico. Degna di nota al riguardo è la circostanza che a Pacentro non v’è un santo protettore ufficiale. Metà popolazione festeggia infatti la Madonna del Rosario e l’altra metà San Carlo Borromeo.

I “rosaristi” non fanno di conseguenza offerte per la festa di San Carlo e allo stesso modo si comportano i “carlisti” nella ricorrenza della Madonna del Rosario.

Fra le due fazioni si scatena così una gara per organizzare la festa più bella del paese e ad essa prendono parte, con cospicue rimesse, anche gli emigrati.

In passato, infatti, le rivalità esplodevano in modo violento durante la manifestazione e in una edizione della corsa svoltasi subito dopo la prima guerra mondiale, una persona venne accoltellata per aver aiutato, “con una spinta” nella parte finale della gara, un concorrente del proprio rione.

Ma torniamo, dopo questa necessaria parentesi, alla descrizione della corsa. Dai due tondi della facciata della chiesa vengono ammainati i palii, segno questo che sta per aver inizio la sfilata degli zingari. Si apre il portale. Il clamore crescente degli spettatori sommerge le note della marcia intonata dalla banda, mentre applausi ed espressioni di compiacimento fioccano sui primi due classificati che, seguiti come alfieri dal terzo e dal quarto, ricevono l’onore del trionfo. Portati a spalla da amici e parenti i quattro sfilano in ordine di arrivo lungo le strade principali del paese, preceduti dalla banda. Gli sguardi della folla sono puntati ovviamente sul vincitore della corsa. Sorreggendo l’asta su cui è avvolto il palio, egli viene portato a spalla dai suoi tifosi, seguito allo stesso modo dal secondo classificato. La sfilata termina nella casa del vincitore, dove si offre a tutti il vino attinto dalle caratteristiche conche di rame.

Non poche sono le considerazioni che suscita la corsa degli zingari, che secondo il giudizio dei vecchi del luogo si svolgerebbe da tempo immemorabile.

Come in altri episodi folcloristici, la ricerca delle origini non spiega però le funzioni del rito e l’elemento diacronico risulta il più delle volte sterile.

Per quanto concerne specificatamente l’area abruzzese, manifestazioni simili a quella di Pacentro dovevano svolgersi anche altrove, poiché si apprende da De Nino che: “a Rivisondoli, nelle feste principali, e a Pratola Peligna in San Rocco, è singolare la corsa dei ragazzi, dai sette ai dodici anni,

che nudi vanno a precipizio da un punto all’altro del paese per guadagnare un palio. E il piccolo vincitore poi, nudo, entra nella chiesa a ringraziare il santo”.

Analoga testimonianza è offerta da Tommolini per la festa della Madonna del fuoco nelle campagne di Pescara.

Benché le notizie siano insufficienti a stabilire utili raffronti, tuttavia occorre dire che anche in altre

località, in occasione di determinate ricorrenze religiose, si svolgono corse simili a quella degli zingari. Una notizia piuttosto vaga riguarda la corsa che i giovani eseguono ad Ottaviano di Napoli per la festa di San Sebastiano, o quella non competitiva che si svolge il 4 settembre a Cabras, in provincia di Oristano, nella vigilia della festa di San Salvatore in Sinis, dove i giovani del luogo, in tunica bianca, accompagnano “correndo scalzi” la statua del santo in una chiesetta campestre situata vicina al paese.

In passato partecipare alla corsa per conquistare il palio, cioè un vestito, doveva costituire certamente una motivazione non indifferente per gli zingari di Pacentro, appartenenti ai ceti sociali subalterni. Oggi le cose sono cambiate; questi giovani non camminano scalzi nei loro poderi coltivati con mezzi meccanici che essi stessi, con estrema perizia, guidano nei momenti della seminagione e dell’aratura.

Fra coloro che prendono parte alla competizione vi sono però anche operai che lavorano nel vicino nucleo industriale di Sulmona e che appena si staccano dalla catena di montaggio si riversano di nuovo sui campi per quell’insopprimibile esigenza di contatto con la terra che purifica e rigenera, poiché una tuta e un capannone non sono sufficienti di per sé a trasformare un contadino in operaio.

Altri concorrenti sono invece artigiani o persone che svolgono i più disparati mestieri, anche come emigranti all’estero. È il caso di Mario Raso vincitore negli anni passati di parecchie edizioni della corsa che ogni anno tornava da Berlino e rivelava con grande semplicità di non correre per una particolare forma di devozione verso la Madonna di Loreto, ma per una ragazza del paese di cui era innamorato. Le sue parole richiamano alla memoria il noto passo del Ramo d’oro, in cui Frazer descrive le gare di corsa per la sposa che, in altri tempi, si svolgevano un po’ ovunque in Europa. Si sa però con quanta circospezione vanno fatti tali accostamenti, poiché sotto il profilo antropologico si corre il rischio di assemblare episodi dalle funzioni diverse, sia sul piano sincronico che su quello diacronico.

Comunque, e ciò è veramente straordinario, c’è qualcuno in un angolo sperduto dell’Abruzzo che alle soglie del duemila “corre per amore” ed almeno in un giorno dell’anno offre una dimostrazione di forza e di vitalità nei confronti di altri giovani che non sono in grado, per costituzione fisica o per educazione, di cimentarsi in una incredibile corsa in cui gli zingari di Pacentro riscattano un anno di

anonimato, trascorso nel duro lavoro quotidiano. E ciò che è straordinario è che essi corrono non per avere, ma per essere.

Franco Cercone.




LA CHIESA E IL CULTO DI S. ROCCO A ROCCARASO

di Franco Cercone

[Pubblicazione di Franco Cercone, La chiesa e il culto di San Rocco a Roccaraso, “Accademia degli Agghiacciati”, Sulmona 1985]

Poche ed incerte sono le notizie sulla vita di San Rocco.

Nato da nobile famiglia a Montpellier, città della Francia meridionale, verso la fine del secolo XIII, donò, come San Francesco d’Assisi, tutti i suoi beni ai poveri e come un umile pellegrino si recò a Roma.

Giunto ad Acquapendente, in provincia di Viterbo, proprio mentre infuriava una grande epidemia, San Rocco dedicò tutta la sua assistenza agli appestati e circondato da fama
di taumaturgo, esercitò il suo apostolato a Roma, Rimini, Novara e Piacenza, soccorrendo ovunque la popolazione colpita dalla peste. Arrestato come spia ad Angera, sulla riva orientale del lago Maggiore, egli morì dopo cinque anni di prigionia verso la metà del ‘300.

Fin dai principi del secolo XV San Rocco era invocato, al pari di San Sebastiano, come protettore contro la peste ed il suo culto si diffuse rapidamente in Italia acquistando
una straordinaria popolarità.

San Rocco è raffigurato nell’arte statuaria ed in pittura come un giovane pellegrino che mostra una gamba scoperta e cosparsa di piaghe, quelle appunto provocate al Santo dalla peste. Gli è sempre accanto un cagnolino che ha un pane in bocca. Secondo una leggenda, infatti, si tratta del cane che il nobile Gottardo inviava ogni giorno al Santo, quando giaceva malato in una località solitaria presso Piacenza.

Come si diceva in precedenza, San Rocco e San Sebastiano sono invocati entrambi contro il pericolo della peste. L’Arte ha recepito questo aspetto della religiosità popolare ed in molti capolavori pittorici, come anche negli ex voto, i due Santi sono raffigurati nell’esercizio del loro “patronato”.

Ricordiamo in proposito soltanto la pala San Rocco e San Sebastiano, del Tiepolo, conservata nella chiesa di Noventa Vicentina, e la pala omonima di G. Francesco Caroto, che si ammira a Venezia nella chiesa di San Giorgio Maggiore.

È probabile allora che i due culti, quello di S. Sebastiano e di S. Rocco, non siano coesistiti a Roccaraso per pura casualità, ma affondino invece le loro radici in questa
tipica esigenza protettiva, da tanto tempo avvertita dalla popolazione locale.

Tra l’altro, di S. Sebastiano, come sottolinea il Sabatini, si conservava a Roccaraso «una magnifica scultura in legno policromo, datata al 1560 ed attribuibile alla scuola del celebre Silvestre di Giacomo da Sulmona, detto l’Ariscola»[1]

Al riaffacciarsi improvviso di ogni epidemia, San Rocco costituiva per le popolazioni inermi l’unica speranza di salvezza ed anche in occasione della terribile peste che colpì
l’Italia nella seconda metà del XVII secolo, il Santo di Montpellier non negò il suo aiuto alle genti devote.

I primi focolai cominciarono a manifestarsi in Sardegna, tra il dicembre del 1655 ed il gennaio del 1656. Il contagio, scrive il Del Vecchio, raggiunse presto Napoli da dove
poté, con molta facilità, entrare nella parte settentrionale del Regno, cioè negli Abruzzi:

«L’esodo di gran parte della aristocrazia napoletana verso i castelli feudali e della più
agiata borghesia, in grado di mettersi in salvo con la fuga in territori non sospetti, esodo cominciato nel maggio del 1656 e continuato nei mesi successivi, concorse a propagare più rapidamente il male nelle province napoletane»[2].

Sembra che le prime località ad essere colpite dalla peste siano state, in Abruzzo, Castel Frentano e Chieti, dove i primi casi si registrarono il 4 agosto del 1656[3]. Non mancano particolari agghiaccianti sul modo con cui si tentò di difendersi dal morbo ormai dilagante. Dai Parlamenti Teatini si apprende infatti che le persone condannate a morte e rinchiuse a Chieti presso le locali carceri in attesa dell’esecuzione della sentenza, furono impiegate per trasportare e seppellire i cadaveri delle persone morte a causa della peste, con la conseguenza che moltissimi detenuti restarono contagiati e perirono[4].

Per timore del contagio i monaci sprangarono i conventi, impedendo a tutti di rifugiarvisi. A molti non restò che cercare riparo in campagna. A Villavallelonga si provvide, come in tante altre parti d’Italia, a costruire fosse nelle chiese per la sepoltura dei cadaveri. La prima persona colpita dal morbo in questa località della Marsica, quale segno di un «delirio di autodistruzione», si gettò ancora viva nella fossa comune, seguita nell’esempio da altre[5].

Molte notizie sono contenute al riguardo nei Libri dei Morti dell’epoca e da essi, sottolinea il De Rosa, «possiamo estrarre cifre importanti per conoscere l’andamento di una popolazione e le sue flessioni in occasione di malattie e carestie»[6].

L’esistenza di questi libri, negli archivi parrocchiali, rappresenta per lo studioso un colpo di fortuna, poiché essi, come nel caso di Roccaraso, sono andati dispersi in seguito alle distruzioni operate dalla seconda guerra mondiale, facendo svanire così la possibilità di ricostruire delle pagine importanti di storia patria.

A Castel di Sangro la peste, arrivata probabilmente subito da Napoli, «fece tanta strage che, dopo di essa, si trovò la popolazione ridotta a poco più di 800 anime, mentre prima passava le 2.000»[7].

Anche Pescocostanzo registrò un gran numero di morti, sicché la peste, scrive il Sabatini, “causò il 50% della diminuzione della popolazione”[8], percentuale questa che, data la vicinanza tra i due centri, può essere estesa a nostro avviso anche a Roccaraso.

Nella Relazione ad limina Apostolorum, inviata nel 1654 dal vescovo di Valva e Sulmona, Francesco Carducci, alla Santa Sede (due anni prima della peste, dunque), si apprende che a Roccaraso vi erano in quell’anno 900 anime:

«Rocca Rasuli. Archipresbiteratus et Parochia S. Hipoliti annuatim tumulos frumenti 100; Societas S. Sacramenti tumulos 10 frumenti et habet oves 500; Hospitale et S. Leonardus ducata 4; clerus 11, animae 900»[9].

Se è valida la nostra ipotesi, se cioè si ammette che come a Pescocostanzo anche a Roccaraso il morbo decimò il 50% della popolazione, ne deriva che a Roccaraso dovettero perire 450 persone circa ed anche se questa non fu la cifra esatta dei periti, essa assunse comunque dimensioni spaventose.

Scene terribili rimasero, forse, per lungo tempo impresse nella mente dei cittadini scampati al flagello e possiamo immaginare anche, come nelle chiese di S. Ippolito[10], di S. Maria Assunta, di S. Nicola e S. Bernardino, la popolazione di Roccaraso si raccogliesse devota, supplicando S. Sebastiano e S. Rocco affinché fosse risparmiata dalla terribile epidemia.

E fu proprio per intercessione di S. Rocco, come si credette, che la peste cessò di spargere i suoi letali effetti e quali mirabili ex voto per lo scampato pericolo sorsero, quasi ovunque, subito dopo il 1656, chiese e cappelle dedicate al Santo di Montpellier.

A Roccaraso la chiesa di San Rocco fu ultimata probabilmente entro il quinquennio successivo alla fine della peste. Per la sua edificazione fu scelta un’area situata ad occidente della Terra Vecchia, fuori la cinta muraria cinquecentesca. I verbali delle «Visite Pastorali» effettuate dai vescovi nella Diocesi di Valva e Sulmona nel sec.XVIII, ci dicono che le chiese dedicate a San Rocco sorgono, e non solo a Roccaraso, quasi tutte “extra muros, cioè fuori le mura, offrendo così precisi riferimenti sulla nuova struttura urbanistica che un po’ ovunque si registra nei paesi dell’area compresa tra il
Sangro e la conca peligna.

La chiesa di San Rocco subì notevoli danni in occasione del terribile terremoto del 3 novembre 1706. La data del restauro, 1743, è ricordata dalla seguente iscrizione, tuttora esistente, posta sopra il portale dell’edificio sacro:

D O M

RASINIDUM POPULUS RENOVANS TIBI
TEMPLA DICATA

ROCHE TIBI RENOVAT PRISTINA VOTA PATRUM
ANNO SALUTIS MDCCXLIII

Dal verbale della visita pastorale compiuta a Roccaraso il 28 agosto 1756 dal vescovo Filippo Paini si apprende infatti che la chiesa di San Rocco era stata ricostruita di recente quasi dalle fondamenta ma non ancora completata. Tra l’altro, a causa della negligenza dei progettisti, era rimasta scoperta o forse in parte crollata la volta a botte dell’edificio, per cui il vescovo ordina che fossero consultati dei periti architetti per gli opportuni lavori da svolgere, in modo che esso non andasse maggiormente in rovina:

«Pro Ecclesia S. Rochi Confess. et Patroni minus principalis Loci… Haec Ecclesia noviter pene a fundamentis excitata sed nondum opere completa est, satis ampla et manet sub coelo et coelis ex opere fornicato sui nam minantibus ob artificum imperitiam, et ne in pejus ruat consulantur periti artifices, ad finem de remedio opportuno provideri. Habet unicam campanulam bene sonantem et approbavimus. Sepoltura pro viris expurgetur et per admodum Rev. Antistitem cui necessariam subivimus facultatem.»[11].

La chiesa di San Rocco, leggiamo sempre nel documento citato, aveva tre benefici ecclesiastici (habet in se erecta tria beneficia ecclesiastica) istituiti sotto i titoli di S. Francesco di Paola, di S. Pasquale Baylon ed infine di S. Rocco, con riserva di giuspatronato (cum reservatione jurispatronatus) e con l’onere delle messe. Tale riserva consisteva nel diritto di presentazione di un ecclesiastico da parte di laici,
il quale veniva così ammesso a godere dei frutti derivanti dal beneficio.

D’altro canto la chiesa di San Rocco, come risulta dal verbale della Visita Pastorale, aveva un unico altare istituito lo stesso con riserva di giuspatronato da parte dei maggiorenti (majorum) dell’Università di Roccaraso.

Il vescovo ordina inoltre che sia ripulita la fossa adibita a sepoltura degli uomini e scavata sotto la chiesa. Un’altra fossa comune era stata approntata nei pressi dell‘Ombrellone, zona che ancora oggi viene chiamata ‘u culére.

Nel verbale della Visita Pastorale compiuta il 28 agosto 1756 dal vescovo di Valva e Sulmona, Filippo Paini, si parla ovviamente di tutte le chiese esistenti a Roccaraso. Da
esso, redatto in una grafia non sempre chiara, stralciamo tuttavia solo la parte relativa alla chiesa di San Rocco, che è quella che in tale sede interessa e di cui si dà una libera traduzione (il testo è riportato in nota): «Questa chiesa, con il suo unico altare e presbiterio, con diritto di patronato[12]dei maggiorenti dell’Università di Roccaraso, sia mantenuto con propri introiti annui non solo uniti ed incorporati alle rendite
della venerabile cappella di Sant’Ippolito, ma anche con altri introiti provenienti dai beni amministrati dal Priore, da eleggersi ogni singolo anno dalla magnifica Università di Roccaraso. La chiesa ha eretti in sé tre benefici ecclesiastici, con onere delle messe, come risulta dalle Bolle; il primo sotto l’invocazione e titolo di San Francesco di Paola, con riserva di diritto di patronato un tempo affidato al reverendo sacerdote Don Giocondo Angelone, ed è posseduto dal reverendo Don Nicola Silvestri, l’altro sotto l’invocazione e titolo di San Pasquale Baylon, eretto da Stefano De Libero, con riserva di diritto di patronato, e di ciò si trova provvisto il reverendo Don Giuseppe De Libero; il terzo beneficio infine, sotto il titolo dello stesso lodato San Rocco, eretto con riserva di diritto di patronato da Domenico D’Alò, è posseduto dal reverendo Don Giovanni D’Alò[13]. L’altare di San Rocco manca di privilegi ed indulgenze, ha tuttavia l’onere delle messe e di altri obblighi ed impegni descritti nella tabella del reverendo collegio sacerdotale. La festa viene celebrata ogni anno con solennità il 16 agosto. Abbiamo trovato questo altare decentemente ornato, abbastanza provvisto di suppellettile sacra ed abbiamo approvato. Si provveda però entro sei mesi ad una nuova pianeta, con stuoia e manipolo, fatta di stoffa color nero, sotto la pena di interdetto della pianeta precedentemente esistente»[14].

La festa si svolgeva dunque solennemente (somptuose) il 16 agosto e la devozione per San Rocco aveva modo di esprimersi a Roccaraso anche con manifestazioni di rilevante
interesse folklorico. IlDe Nino ci dice infatti che le bambine nate entro l’anno, vestite di gala, venivano dai loro genitori portate in giro per il paese, sopra dei cavalli ornati di
nastri, fiori e campanelli, nel pomeriggio della festa di San Rocco, allietata da altri giuochi popolari. Alla bambina i parenti donavano per l’occasione «confetture o rosolio, pizze o vino»[15].

Queste sono, dunque, le vicende più importanti legate alla chiesa di San Rocco.

Per una circostanza veramente fortunata, essa è sfuggita alla furia distruttrice dell’ultimo conflitto mondiale, che ha cancellato ogni traccia dell’antico abitato. Questa chiesa rappresenta dunque l’unica testimonianza di un luminoso passato che Roccaraso deve conservare e trasmettere alle generazioni future, soprattutto ora che la benemerita Sezione degli Alpini di Roccaraso, con senso di alto civismo ed attaccamento alle memorie patrie, ha provveduto tra mille difficoltà a restaurare l’antico tempio dedicato al Santo di Montpellier.

Mi sia concesso, per concludere, di dedicare queste brevi note storiche alla memoria di Emma Bucci, di Roccaraso, che fu per me una seconda mamma come Roccaraso
è la mia seconda patria.

Roccaraso, Dicembre del 1985


[1] F. Sabatini, La Regione degli Altopiani Maggiori d’Abruzzo. Roccaraso – Pescocostanzo, p. 175; Roccaraso, a cura dell’AAST, 1960.

[2] L. Del Vecchio, La peste del 1656-1657 in Abruzzo. Quadro storico-geografico-statistico, in «Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria» annate 1976-78, p. 88; L’Aquila 1978.

[3] L. Del Vecchio, ivi, p. 86 sgg.

[4] Archivio di Stato, Chieti, Sezione Diplomatica, vol. IX, e. 90.

[5] Cfr. L. Palozzi, Storia di Villavallelonga, p. 156 sgg. Roma, Ediz. dell’Urbe, 1982. Vedasi anche la recensione del volume ad opera di A. Di Nola: Del fare storia in provincia, in «Rivista Abruzzese», n. 4, 1982, p. 177.

[6] G. De Rosa, Rituali della morte e cronaca nei libri parrocchiali del Mezzogiorno tra XVIII e XIX secolo, in «Studium», n. 6, 1981, p. 648.

[7] V. Balzano, La vita di un Comune del Reame: Castel di Sangro, p. 268, Pescara 1942.

[8] F. Sabatini, ivi, p. 166. L’Antinori afferma nella Corografia (voi. XXXVI, p. 812) che i morti a Pescocostanzo furono 1.300.

[9] A. Chiaverini, La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. VII, p. 139; Sulmona 1979. Nella Relazione ad limina, inviata alla Santa Sede nel 1630 circa dal vescovo di Valva e Sulmona, Francesco Cavalieri, è specificato invece che «Rocca del Raso» ha 200 fuochi et animae 959», 59 in più dunque rispetto al 1654, anno questo in cui si registra una contrazione demografica rispetto al 1630.

[10] La Chiesa di S. Ippolito rimase incendiata «la mezza notte precedente al 21 gennaio del 1773», per cause difficili da accertare. Ecco cosa scriveva nel 1884 il canonico De Silvestri: «L’incendio consumò tutto e precipuamente le cose più pregevoli: rimasero in piedi, sebbene danneggiate, le sole mura. Si ignora in che tempo fosse edificata questa chiesa, certo assai vetusta, come si argomenta dalla forma: di fronte all’oriente, con tre navi di due archi da due colonne in mezzo: avea tre altari, il primo in fondo alla nave di mezzo e dedicata al martire titolare, adorno di marmi e di graziosi rabeschi: in cima e in mezzo la statua del santo con portamento alla eroica, alta un cinque piedi, di legno ma di buono scalpello: a’ lati due statue più piccole ma pregevoli anch’esse, del Patriarca S. Giuseppe e di S. Filippo Neri. In capo alla nave laterale da parte del vangelo e in linea retta dell’altare maggiore eravi un altare di travertino con quadro contenente le figure di S. Pietro, di S. Paolo e di S. Giorgio: l’altare dell’altra nave, sacro all’Addolorata, era tutto di marmo con rabeschi. Il cielo di tutta la Chiesa soffitto, liscio e semplice nelle navi laterali, egregiamente intagliato in quella di mezzo con cornici la più parte indorate a zecchino, con quarantaquattro piccoli ottavi, che dipinti ad olio facevano buona corona ad un ottimo quadro grande in mezzo: rappresentavano i primi la vita di Nostro Signore e di Nostra Signora e l’ultimo l’Assunta. Soffitto altresì il ciclo della sacristia con cinque quadri: in quattro erano gli Evangelisti e in quello di mezzo molti angeli con gli stromenti in mano della Passione. Nella
stessa sacristia di fronte dava all’occhio un altro buon quadro in legno, di forma semicircolare con cornice grande e indorata a zecchino, diviso in otto compartimenti: sette in giro rappresentanti la cattura e tutto il martirio del Protettore, nell’ultimo il corpo imbalsamato e assistito dal sacerdote Giustino. Eranvi altre pitture, intagli diversi, coro ed organo, armadio e arredi sacri: non mancava
nulla alla bellezza e maestà del tempio: visitato spesso da viaggiatori, che lo trovavano rispondente alla fama, anzi maggiore». Cfr. E. De Silvestri, Considerazioni storico-morali sopra S. Ippolito Milite, p. 37; Prato, 1884.

[11] Archivio Diocesano, Sulmona; Visite pastorali di Mons. Filippo Paini, (fogli n. 11 e n. 12), 28 agosto 1756.

[12] È utile ricordare che il diritto di patronato (o giuspatronato) consisteva nel diritto di presentazione di un ecclesiastico da parte di una persona fisica o morale, estranea alla gerarchia ecclesiastica, e nella somma dei privilegi, con alcuni oneri, che per concessione della Chiesa competevano ai fedeli fondatori di una cappella o di un beneficio.

[13] La famiglia D’Alò era originaria di Vasto. Devo la notizia al Prof. A. Chiaverini che in tale sede ringrazio vivamente.

[14] «Haec Ecclesia cum unico suo altari de presbiterio jurispatronatus majorum Universitatis manutenetur ex propriis annuis introitibus nedum unitis et incorporatis bonis venerabilis cappellae S. Hippoliti, verum etiam ex aliis introitibus provenientibus a benis administratis a Priore, singulis annis eligendis a magnifica Universitate. Habet in se erecta tria beneficia ecclesiastica cum onere missarum prout ex Bullis, primum sub invocatione et titulo S. Francisci de Paula cum reservatione jurispatronatus quondam Rev. Presbytero D. lucundo Angiolone et possidetur a Rev. D. Nicolae Silvestri, alterum sub invocatione et titulo S. Paschalis Baylon erectum a Stephano de Libero cum reservatione Jurispatronatus et de eo reperitur provisus Rev. D. Joseph de Libero, tertium vero sub titulo ipsius laudati S. Rochi erecti cum reservatione jurispatronatus a Dominico d’Alò et possidetur a Rev. Ioanne d’Alò. Caret privilegiis et indulgentiis, habet tamen onera missarum, aliorumque onerum, ac Legatorum piorum in Tabella Rev. Cleri descriptorum. Festum celebratur quotannis somptuose die 16. Augusti. Reperimus idem decenter ornatum et de quacumque sacra supellectili satis provisum et approbavimus. Verum provideatur de nova Casula cum stola et manìpulo ex sclorenico (?) nigri coloris, in termine sex mensium a data presentium (?) decurrent sub poena interdicti  Casulae antea existentis eo ipso incurrent». Archivio Diocesano, Sulmona; Visite Pastorali di Mons. Filippo Paini, 28 agosto 1756, foglio n. 12.

[15] Cfr, A. De Nino, Usi Abruzzesi, voi.1, pp. 196-97, Firenze 1879. Il brano del De Nino, dal titolo Nozze anticipate, si trova anche in F. Cercone, Scritti vari sulla Terra di Roccaraso, p .13, Sulmona 1976. Da indagini fatte non risulta che nella ricorrenza della festa si confezionassero, come avveniva in altre località abruzzesi, il cosiddetto «pan di San Rocco». La distribuzione votiva del pane avveniva tuttavia a Roccaraso il 6 dicembre, festa di San Nicola di Bari. Circa le confetture (confetti) lo storico Vincenzo Giuliani, nato a Roccaraso nel 1737, ci dice che ai suoi tempi i Roccolani «s’appigliavano a far confetti, che soglion passarsi come confetti di Sulmona». Cfr. V. Giuliani, Ragguaglio Istorico della Terra di Roccaraso, manoscritto, presso la Biblioteca Diocesana, Sulmona.




I CONFETTI DI SULMONA FRA STORIA E FOLKLORE

Le ragioni di una monografia storica sui Confetti di Sulmona

[Pubblicazione di Cercone Franco, I confetti di Sulmona: fra storia e folklore, Edizioni Qualevita Torre dei Nolfi (Aquila) 1999 (II e III ristampa). Prima pubblicazione del 1985 Accademia Agghiacciati Sulmona (n. 45 Bibliografia) ndr: Qui proponiamo la Terza ristampa ampliata e corretta.]

di Franco Cercone

Nel 1856 il noto drammaturgo napoletano Raffaele Colucci (1825 – 1891) rivolse nel suo Saggio dal titolo Viaggio negli Abruzzi un caloroso invito agli studiosi abruzzesi dell’epoca che ha tutto il sapore di un proclama

“Noi domandiamo agli studiosi delle Patrie Memorie, agli amanti del decoro

del proprio paese, una monografia sui confetti. Senza uscir dai nostri Abruzzi,

essa occuperebbe un posto immediato a quella delle ‘maioliche di Castelli’,

tema delle dotte memorie di Gabriello Cherubini e di Concezio Rosa”.

Questo accorato appello restò tuttavia inascoltato e ad eccezione di G. Pansa ed A. De Nino, ai quali dobbiamo saltuarie notizie sui confetti di Sulmona, nessun altro studioso “ha ficcato – come direbbe il nostro Dante – lo viso a fondo” su questo affascinante argomento.

Abbiamo avuto così la possibilità di riempire questo spazio lasciato vuoto dagli studiosi abruzzesi e nel 1985 è apparsa la nostra monografia dal titolo I confetti di Sulmona fra storia e folklore, edita dall’Accademia degli Agghiacciati di Sulmona.

Ad essa ha fatto seguito nel 1999 una seconda edizione di questa fortunata indagine, apparsa con il medesimo titolo per i tipi della Tipografia Qualevita, Torre de’ Nolfi (Aquila).

Vede la luce ora la terza edizione di questa monografia storica sui confetti, ulteriormente ampliata grazie a notizie tratte non solo dalle più svariate opere pubblicate dal 2000 in poi, ma anche dalla cronaca locale dei più diffusi quotidiani, a riprova dell’interesse che suscita questo tipico prodotto artigianale, assurto negli ultimi tempi a simbolo degli eventi più significativi della nostra vita.

Entriamo così nel vivo dell’argomento, ricordando che Sulmona è ovunque famosa non solo per aver dato i natali al poeta Ovidio ma soprattutto per la produzione dei confetti; e come Patria dei confetti essa ha acquistato da tempo una notevole rinomanza in Italia ed all’este­ro [1].

In molti Paesi, soprattutto negli Stati Uniti, Canada e Australia, sono stati per lo più i nostri concittadini, emigrati in queste Terre lontane fin dal periodo successivo all’Unità d’Italia, a far conoscere la bontà di tale tipico prodotto artigianale, destinato a rallegrare i momenti più si­gnificativi del ciclo dell’uomo e dell’anno.

Premesso che dalle presenti note di carattere storico-folklorico esula ogni descrizione della   fabbricazione dei confetti (tecnica, del resto, che viene gelosamente custodita dalle aziende cittadine del settore), aggiungiamo sem­plicemente che essi si ottengono avvolgendo il nucleo di cui risultano com­posti (cioè mandorle, cioccolato, cannella, ecc.) con un rivestimento di zucchero particolarmente lavorato, la cui superficie può risultare colorata in modo diverso se i confetti, come vedremo in seguito, sono destinati a celebrare particolari ricorrenze, come per esempio la nascita di un bimbo  (confetti di color azzurro), di una bambina (confetti di color rosa) oppure a  realizzare grazio­se composizioni floreali, decisamente affascinanti sotto il profilo cromatico  ed  assai indicati per l’abbellimento di un angolo di casa.

Le prime testimonianze sui confetti in Italia ed a Sulmona

La parola “confetto” deriva dal participio passato del ver­bo latino conficere, dunque confectum, nel significato di preparato, confeziona­to e via dicendo.

Nei primi documenti medievali sulmonesi appare tuttavia non il termine confetto ma confettura, che indicava probabilmente frutta sciroppata o anche mandorle e noci sgusciate e ricoperte di miele, data la rarità e dunque l’alto costo dello zucchero.

Quando, dove e come sia nato il confetto o, meglio, qualcosa che somigliasse ai confetti attuali, è una domanda alla quale, data la documentazione frammentaria in nostro possesso, è difficile dare una precisa risposta. Infatti, ogni indagi­ne al riguardo incontra le stesse difficoltà comuni ad altri problemi di carattere etnografico: monogenesi e diffusione o poligenesi ed evolu­zione, dando luogo comunque in entrambi i casi ad importanti “varianti”. 

Relegata al mondo delle amene curiosità la notizia secondo cui i primi confetti, costituiti da “mandorle ricoperte di miele”, siano stati fabbricati per la prima volta da un arabo, al Razi, vissuto all’incirca un secolo prima del Mille[2], o addirittura dai Longobardi, lo vedremo meglio in seguito, occorre sottolineare come le testimonianze in nostro possesso sembrano indicare un’ori­gine «poligenetica», in quanto mentre per Sulmona le prime notizie relati­ve a confetture risalgono al XIV secolo, per altre località della Penisola esse sono non solo anteriori ma si parla addirittura di “confetti”, come testimoniano alcune fonti letterarie italiane di estrema importanza al riguardo.

Ecco, per esempio, come si esprime Giovanni Villani (1274-1348) a proposito dei confetti nella sua Chronica (VI, 45): «Quegli con ricchi presenti gli feciono doni et reverenzia, intra i quali doni furono dei confetti di Puglia». Il Boccaccio nel Decamerone, composto come è noto fra il 1349 ed il 1353, dice (II Giornata, Nov. 5) che: «Essendo stati i ragionamenti lunghi e il caldo grande, ella fece venir greco e confetti». [“ella”, cioè Fiammetta, protagonista della Novella 5]

Franco Sacchetti (1332 – 1400) nella sua famosa raccolta dal titolo “Il Trecentonovelle” scrive che Bernardo, protagonista della Novella XXX, “fu mandato per la cerca de lo miglior vino de la terra e per li confetti”. Ancora, Matteo Bandello (1485 – 1561) riferisce alcune notizie che sono di grande importanza anche sotto l’aspetto linguistico, poiché conia il verbo “confettare” nel senso -decisamente innovativo – di mangiare confetture. Così nella Novella XLV (rigo 18) egli ci parla delle effusioni sentimentali di un vescovo, che amoreggia con una badessa “dopo che si fu confettato e bevuto vernaccia e malvasia”, vini che accompagnavano evidentemente nella Toscana dell’epoca la degustazione dei confetti. 

InfineVespasiano da Bisticci (1421-1498) ci offre nelle sue “Vite di uomini illustri del sec. XV” una vivace descrizione dell’usanza di gettare confetti in occasione di uno “sposalizio”, indice questo di una tradizione generalmente consolidata nel corso del ‘400 in diverse regioni d’Italia: “Confetti non solo n’ ave­va chi ne voleva, ma egli si gittavano via, d’ogni ispecie che si possono pensare».

Per Sulmona, al contrario di quanto scrive il Susi[3] (che utilizza, senza citarla, una fonte imprecisa del Pansa[4]), i primi documenti relativi ai con­fetti non risalgono al ‘400 ma al secolo precedente. Ciò costituisce una puntualizzazione non irrilevante, in quanto “l’industria dei confetti” trova probabilmente le condizioni necessarie al suo sviluppo grazie al fatto che nel Trecento Sulmona si munisce di una nuova cinta muraria, che se da un lato incorpora i nuovi borghi formatisi man mano a ridosso delle mura antiche, dall’altro presenta nel suo interno spazi vuoti ed idonei ad essere uti­lizzati non solo per scopi abitativi ma anche per una pur modesta attivi­tà artigianale[5].

Una spia in tal senso è costituita dal fatto che i baiuli di Sulmona, su espressa richiesta di Carlo d’Angiò, provvedono nel 1326 a fornire al mo­nastero di S. Maria della Vittoria, da lui fatto erigere presso Scurcola nella Marsica a ricordo della vittoria ottenuta su Corradino, ben 500 libbre di mandorle sgusciate (libras quingentas de amigdalis mundatis)[6].

È da supporsi pertanto che la rilevante produzione di mandorle, specie nel territorio di Sulmona e nell’Aquilano, fosse preposta a soddisfare le richieste della nascen­te industria delle «confetture», termine che indicava tuttavia qualcosa di diverso rispetto agli odierni “confetti”.

I primi documenti parlano infatti di “scatole intarsiate”, cofanetti, confecteria smaltati, che sembrano non lasciar dubbi sul loro contenuto, anche se con la parola confetture, che appare di frequente in documenti d’archivio, deve intender­si quasi certamente frutta sciroppata o nuclei di mandorle e noci ricoperte di miele, come avveniva specialmente nella Francia settentrionale, un’ area geografica questa, come sottolinea il Montanari, “quasi priva di zucchero” e dove “le confetture erano preparate prevalentemente con miele”. [7]

 Se ne ha una conferma, per quanto concerne l’Italia, da un’opera dal titolo  Libro per cuoco,  di un anonimo autore veneto, che contiene istruzioni per “chonfectare mandole fresche et  noci”,  anche se in un “banchetto tenutosi a Milano il 15 giugno 1368 presso la Corte di Galeazzo II Visconti, in occasione del matrimonio di sua figlia Violante, facevano bella mostra di sé sulla tavola nuziale “ 4 vassoi medi per confetti e 2 grandi”, senza specificare se questi confetti erano composti con zucchero o con miele.[8]

D’altro canto, occorre riflettere sulla circostanza, come sottolinea il Benporat, che canditi e confettioni erano “specialità degli speziali, medici ed alchimisti, in quanto fin dai tempi più remoti lo zucchero, alimento raro e prezioso, e dalle supposte virtù terapeutiche, veniva venduto nelle spezierie e farmacie”[ivi, p.107]. 

Invece (e torniamo così ai “fatti di casa nostra”) lo storico sulmonese Giovanni Pansa (1865-1929) sotto­linea che «l’industria dei confetti sorse a Sulmona nel sec. XV e i docu­menti non la mostrano anteriore alla fine di quel secolo»[9].

Sennonché proprio da un’altra opera del Pansa, il quale ai confetti – è egli stesso a dircelo – ha dedicato «semplici e casuali indagini», apprendiamo come di confecteria smaltati si parli già in alcune pergamene e carte bambagine del XIV secolo, giacenti presso l’Archivio della SS. Annunziata di Sulmona[10], particolare questo che conferma l’esistenza di una pur picco­la produzione di “confetture” nella Sulmona del ‘300.

Vero è tuttavia che nel ‘400 e ‘500 i documenti al riguardo sono più numerosi e lo stesso Pansa ci dice che «in un Quinterno d’introito ed esito dell’Uni­versità di Sulmona nelli anni 1492 e 1493 sono notate le scatole di con­fetti alla ragione di duc.4, tareni 2, grana 9» e che dal Catasto delle chiese e forastieri del sec. XVI, giacente presso l’Archivio Municipale di Sulmona, si apprende che il prezzo dei confetti ammontava in tale periodo «a carlini 3 la libbra»[11].

Ulteriori ed importanti notizie sui confetti sono contenute in un “Rendiconto” del Monastero di Santa Maria di Cinquemiglia, inviato nel 1482 al vescovo di Valva e Sulmona Bartolomeo de Scalis ed in cui si parla di zuccaro e di confecti de anisi [12], nonché in un “Inventario” dei beni posseduti dai conti Cantelmo, stilato verso la fine del XV secolo. In questo troviamo citate «una confettera senza pede…, una confettera ad coliandri…, una confettera picola senza pede…, unaltra (sic) confettera picola usata, lavo­rata a certj tronconi et fronde...»[13], che ci rivelano non solo il lussuoso arredamento del palazzo Cantelmo ma anche la preziosità degli artistici cofanetti destinati a contenere confetture, alcune delle quali ottenute forse con l’impiego di zucchero.

In alcuni banchetti descritti dal famoso scalco Cristoforo di Messisbugo, che opera nella prima metà del ‘500 a Ferrara presso la corte del duca Alfonso I, troviamo inseriti “pistacchi e pignoli confetti (cioè confettati) bianchi”, segno questo che la tecnica di “confettare” semi di frutta secca aveva fatto enormi progressi in Italia al pari dell’uso dello zucchero, come è dimostrato dal passo riportato[14] .

In area emiliana e soprattutto a Bologna, l’uso dei confetti è attestato da G. Straparola ne “Le piacevoli notti” Novella VI [Bompiani, Milano 1943], dove in occasione di un banchetto si parla di “una tavola apparecchiata con preziosi confetti e ottimi vini”.

I confetti di Sulmona nel XVII secolo.

Dopo questa rassegna necessariamente rapida, arriviamo così al Seicento, il secolo d’oro della produzione dei confetti, soprattutto a Sulmona.

Nel XVII secolo, sottolinea il Pansa[15], l’industria dei confetti comincia a raggiungere a Sulmona il massimo sviluppo, poiché si stabilisce nei confronti di mer­canti milanesi e veneziani, dimoranti nella Città di Ovidio, il cosiddetto diritto proibitivo per le confetture, probabilmente il divieto di fabbricare in loco o di esportare altrove i confetti.

La ratio di tale disposizione risiedeva forse nella necessità di di­fendere una specie di marchio di fabbrica, a testimonianza dell’ottima qua­lità raggiunta dai confetti di Sulmona. E che la loro fama avesse raggiunto ormai ogni angolo della Penisola si evince da molti documenti della fine del XVI e del XVII secolo.

Così in data 1° gennaio 1571 il vesco­vo di Valva[16] , Pompeo Zambeccari, ringrazia il Capitolo diocesano per le sette scatole di confetture inviategli in dono[17] ; il 29 novembre del 1605 il vescovo Cesare Del Pezzo esprime la propria gratitudine al Capitolo diocesano per i “confettoni” speditigli a Celano[18]; lo stesso apprezza­mento è espresso in tale periodo dal principe Antonio Borghese e dal car­dinale D’Aquino, che avevano ricevuto in dono dal medesimo Capitolo alcune scatole di confetti.

Infine – ma tanti esempi potrebbero ancora essere addotti – abbia­mo una «dichiarazione di consegna» relativa all’anno 1574, concernente alcune specie di confetti donati alla principessa di Sulmona, Antonia d’Avalos, al vescovo ed al Governatore della stessa città[19].

I confetti che si fanno a Sulmona, scriveva il De Nino nel 1874[20], sono stati sempre proverbiali ed hanno ispirato anche i poeti apparte­nenti ad una Accademia Letteraria. Uno di essi, restato anonimo, così ne decantava i pregi in «lingua napoletana»:

O protonobelissima Cetate,

Ch ‘al ‘abbondanza, hai puoste li cancielle

Dove li cannellini e li rosielle

So’ morzille squesite e sceruppate…

Comm ‘a pane lo zuccaro se magna:

Lo panunto de ccà so ‘li confiette[21].

Il De Nino fa risalire la fondazione della citata Accademia Lettera­ria, che è poi quella degli Agghiacciati, al 1689[22] ; il Di Pietro invece afferma che essa fiorisce agli inizi del ‘600[23], mentre il Sardi de Letto propone la data del 1663[24]. L’individuazione del periodo di fondazione dell’Accademia degli Agghiacciati e della probabile data della composi­zione del sonetto, di cui si sono riportati i versi che in tale sede interessano, non è dettata da futili motivi. Nel componimento, infatti, relativamente alle fonti storiche in nostro possesso, si parla per la prima volta dello zucchero come sostanza base per la preparazione dei confetti e tale circostanza merita a nostro avviso qualche riflessione.

Il Colonialismo e la diffusione dello zucchero nel Seicento in Europa. La Fiera di Salerno.

Va considerata innanzitutto una mera licenza poetica il verso “comm ‘a pane lo zuccaro se magna”, contenuto nel sonetto in precedenza riportato,in quanto lo zucchero, sottolinea lo Spini, «fon­damentale novità nella economia del Seicento», trova diffusione in Europa alla fine del ‘500 e soprattutto nel corso del XVII secolo, grazie alla coltivazione della canna da zucchero nell’America Centrale e nel Brasile, mentre nell’area del Medi­terraneo era praticata per lo più nelle Isole Canarie ed in altri piccoli arcipelaghi della costa occidentale africana, ma in modesta quantità [25], da parte delle Potenze europee dell’epoca. Fra esse va annoverata soprattutto la Francia, già produttrice alla fine del XVI secolo di zucchero e “confetti” che dovevano ricordare in parte quelli attuali.

Nel suo famoso Viaggio in Italia (1580-81) Michel de Montaigne scrive per esempio che la strada da Tivoli a Roma era attraversata da un “ruscello d’ac­qua solforosa”, a proposito del quale sottolinea che: «In questo ruscello si trovano alcuni corpuscoli formati dalla schiuma di quest’acqua, che gelando assomigliano tanto ai nostri confetti. Son pochi quegli che non si sbagliano e gli abitanti di Tivoli fanno con questa sostanza pasticche di ogni specie».

Più tardi, nel suo famoso Italienische Reise, il Goethe ci offre un altro esempio di confetti fatti però non “con schiuma d’acqua sulfurea”, ma con gesso. Leggiamo questo interessante brano del grande scrittore tedesco, che si riferisce al periodo di Carnevale del 1788, mentre egli si trovava a Roma. Il Goethe descrive in tale occasione la costumanza della nobiltà, che circolava nel centro di Roma su carrozze condotte da “cocchieri e lacchè”. Costoro a fatica si facevano largo tra la folla in maschera, che aveva a disposizione in ogni angolo di strada enormi cesti di “pastiglie di gesso che sembravano confetti e che venivano gettati contro le persone come si usa con i coriandoli “.

Commenta ancora a tal riguardo il Goethe, nel tentativo di scoprire l’origine di tale costumanza: “Forse una volta una fanciulla volle gettare dei confetti all’amante che passava, per farsi notare tra la folla, in maschera, perché il colpito volgendosi scoprisse l’amica[26].

È più probabile invece che per ovviare al costo dei confetti, si ricorresse a Roma in determinate circostanze e festività a “pastiglie di gesso”, oppure a corpuscoli di schiuma d’acqua solforosa congelata, che Michel de Montaigne osservò come si è visto in precedenza nei pressi di Tivoli e giudicò simili alla forma dei nostri confetti.[27]

Va ricordato tuttavia che lo zucchero costituiva, ancora agli ini­zi del ‘700, una delle voci fortemente passive dell’economia del Regno di Napoli, insieme al caffè ed al cacao. Tali prodotti venivano importati per lo più dalla Francia e dall’ In­ghilterra, anche se «il Regno di Napoli si riforniva generalmente da Livorno o Genova», città che fungevano da scalo marittimo e da deposito per tali pre­ziose derrate, destinate essenzialmente alla fiera di Salerno[28]. Ferdinand Braudel scrive per esempio in “Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” [29]  che “nel 1590 era pervenuta a Livorno dal Brasile una nave con 600 casse di zucchero”, destinate in parte con ogni probabilità alla Fiera di Salerno, diretta concorrente della Fiera di Lanciano.

Le testimonianze di Emilio De Matteis. I “cannellini” di Giacomo Leopardi.

Allo stato attuale della nostra documentazione, certamente lacunosa, sembra comunque che la produzione dei confetti – a differenza di quanto sostenuto nel sonetto auto-celebrativo in precedenza riportato – avvenisse nella Sulmona seicentesca su scala ridotta, proprio a causa dell’alto costo dello zucchero e delle difficoltà connesse al suo reperimento.

Che i confetti fossero considerati un prodot­to di lusso è dimostrato dal fatto che essi costituivano, come si è visto, un dono graditissimo a principi e vescovi, per cui l’unica classe sociale che poteva mangiare zucchero a volontà (“comm ‘a pane”, si legge nel sonetto)era ovviamente quella egemone e non certamente il ceto indigente. Inoltre, la presen­za del termine sceruppàte nel citato componimento non è, a no­stro avviso, casuale, ma indica invece come nel corso della prima metà del ‘600 accanto ad una limitata produzione di confetti, forse abbastanza simili per forma e sostanze impie­gate a quelli attuali, persistesse l’antica arte delle confetture sciroppate.

Ciò si evince da notizie dello storico sulmonese Emilio De Matteis (1631-1681), il quale nel Libro III (cap. 5°) delle sue Memorie storiche de’ Peligni, scrive che a Sulmona «nella festa dell’Assunzione della Beatissima Vergine è solito farsi un carro, dentro del quale il Magistrato della Città et altri nobili dispensano quantità dì confetture per le pubbliche strade»[30].

L’uso del termine “confetture” sembra indicare pertantoche queste si riferissero ancora nella seconda metà del ‘600 non ai confetti, prodotti con zucchero grezzamente elaborato, ma a confetture a base di miele. Se ne ha anche conferma dal famoso cuoco Antonio Latini, il quale nell’opera Lo scalco alla moderna. Overo (sic) l’Arte di ben disporre li Conviti, scrive nel 1692 che “Sulmona si rende ammirabile per la soave fabbrica di confetture” [31] .

L’ignoto poeta dell’Accademia degli Agghiacciati menziona tuttavia come si è visto anche il “cannellino”, un piccolo confetto, a base di zucchero, reso squisito dalla cannella che ne costituisce il nucleo e prodotto a Sulmona sicuramente nel corso del ‘600.

 Il Sardi de Letto ci dice che esso era partico­larmente gradito a Giacomo Leopardi, il quale nel 1837, a Napoli, «qualche ora prima di morire, volle appressarsi al labbro arido un cannellino dì Sulmona… che da allora prese come predicato nobiliare “di Leopardi”»[32].

 La barbabietola da zucchero e la produzione dei confetti a Sulmona nel ‘700.

Di notevole importanza appare la notizia che fin dai primi decenni del ‘700 i vetturini di Loreto Aprutino (Pescara) fungevano da intermediari con molte famiglie signorili di Napoli, per la consegna a domicilio del famoso olio d’oliva delle campagne di Loreto ed al ritorno, come scrive il Cianfarani, “sostavano a Sulmona per approvvigionarsi di confetti da portare ai rivenditori loretani[33].

È assai probabile, pertanto, che si debba agli stessi vetturini di Loreto Aprutino la diffusione a Napoli dei tanto rinomati “cannellini di Sulmona”, che riscuotono tuttora un grande successo.

Si intuisce dunque che dal nucleo dei confetti, non sempre costituito da man­dorle, dipende a seconda dei casi anche il loro sapore e nell’artico­lo in precedenza citato, il De Nino afferma a tal proposito che «in antico i frutti dei faggi delle nostre montagne si raccoglievano, se ne tra­evano fuori quelle graziose mandorline e si confettavano».

Se ne ha una conferma dal Torcia, il quale visitando nel 1792 Sulmona, osserva che nella conca peligna “i colli producon cumini, coriandri, anisi ed altri semi, che in questi paesi san superiormente confettare, anche le trigone mandorline del faggio[34].

Si tratta ad onor del vero di una consuetudine già segnalata nell’ Encyclopédie del Diderot e D’Alembert (1780-81) che si diffonde nel corso del XVIII secolo in modo capillare in Italia. Così nell’opera Il confettiere piemontese, stampata a Torino nel 1790, vengono fornite istruzioni sul modo di confettare frutta fresca e secca oppure di realizzare “pietanze” fatte di zucchero, come avveniva a Sulmona ancora negli ultimi decenni del Novecento, periodo in cui presso i negozi di confetti si potevano anche ammirare “tegamini con uova o salsicce” ed altre pietanze, come pure carote e patate, interamente confezionate a base di zucchero.

Questa moda si è potuta diffondere grazie alla notevole disponibilità di zucchero sul mercato, che si registra nella seconda metà del ‘700 a seguito della rivoluzionaria sco­perta dell’estrazione dello zucchero contenuto in una varietà di barbabietole. Essa avvenne come è noto nel 1747 da parte dello scienziato tedesco Marggraf e perfezionata dal suo discepolo Achard, cui si deve l’invenzione del metodo per effettuare, su basi industriali, la produzione dello zuc­chero ricavato dal tubero della preziosa pianta erbacea.

La coltivazione delle barbabietole da zucchero si diffonde così in tutta l’Europa ed a beneficiarne è soprattutto il settore dolciario.

L’incremento suddetto si evince da diversi documenti che testimonia­no, tra l’altro, l’espansione della produzione dei confetti anche in centri minori dell’area peligna. Il Torcia scrive per esempio nel 1792 che in occasione di matrimoni «si usa distri­buire a Scanno dolci e confetti lavorati» in questa nota località peligna[35].

 Inoltre, nel suo Ragguaglio Istorico della Terra di Roccaraso il medico Vincenzo Giuliani, qui nato nel 1733, ci infor­ma che i suoi concittadini, “trattenendo l’antico gusto longobardico, s’appigliano anche a far confetti, che soglion passarsi come confetti di Sulmona»[36].

L’espressione “soglion passarsi” allude come riteniamo a due situazio­ni differenti ed entrambe possibili: i confetti venivano forse smerciati a Roccaraso, con un pizzico di furberia e concorrenza sleale, come se fossero confetti prodotti a Sulmona; oppure (eventualità questa da non eliminare) essi venivano venduti in loco su licen­za dei fabbricanti della Città d’Ovidio, che non riuscivano a far fronte alla grande mole delle ordinazioni.

Mancano comunque elementi per vagliare l’affer­mazione del Giuliani relativa alla industria del­le confetture a Roccaraso, attività che andrebbe ricollegata come scrive lo storico roccolano – ad un “antico gusto longobardico”. Tuttavia, l’Autore non chiarisce da quale fonte abbia attinto tale sorprenden­te notizia.

 I confetti di Sulmona dall’800 fino ai nostri giorni

Più ricche sono le fonti dell’Ottocento e ad occuparsi dei confetti di Sulmona tro­viamo studiosi locali ed anche Viaggiatori Europei. Vediamo innanzitutto ciò che scrive lo storico sulmonese Panfilo Serafini nella sua nota Monografia di Sulmona, pubblicata nel 1853 ne “Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato”, il quale ci offre preziose notizie al riguardo.  

«Ne abbiamo – scrive il Patriota Sulmonese – dodici fabbriche, dove lavorano un quaranta confettari, che danno circa mille libbre di confetti al giorno, dì specie diverse: cannellini, pistacchio, cacao, cioccolato, cedro, limone, portogallo, mandorle, fragole, menta, pallette, anisi, così detti dal loro nucleo o senso. Per bontà va innanzitutto ad ogni altra specie il cannellino, ma in generale tutte le confetture sulmonesi hanno a tenersi per le migliori del Regno; e non sa­prei dire se tuttora se ne facciano nell’alta Italia che possano stare a con­fronto delle nostre».

II Lear (1846) conferma questi dati del Serafini sottolineando che «i confetti sono la grande ricchezza di Sulmona, che possiede dodici grandi fabbriche di queste delizie fatte di zucchero, tanto apprezzate da essere spedite in tutta Italia»[37].

 Di diverso avviso è un altro colto viaggiatore inglese, Keppel Craven, che nel 1837 scrive:

«Ai Sulmonesi non manca­no le industrie; hanno infatti alcune cartiere, alcune concerie e molte tin­torie, ma il loro prodotto più rinomato, benché indubbiamente il meno utile, è rappresentato dai fondenti e dai confetti che, anche se molto decaduti nella stima del pubblico, sono sempre i più buoni del Regno»[38].

Ed al Craven fa eco K. Hassert, che sottolinea come in Europa le confetture di Sulmona godessero di ottima fama[39].

Nella seconda metà dell’800, come ci informa il De Nino, la produzione annuale dei confetti era di “centomila Kg. all’anno”, particolare questo con­fermato non solo dal Serafini, che nella citata Monografia storica su Sulmona parla di «mille libbre di confetti al giorno» (equivalenti all’incirca a 300 Kg. al giorno), ma anche dal Colucci, che visita Sulmona nel 1856.

Anche quest’ultimo Autore conferma in particolare che:

 «le fabbriche di con­fetti in Sulmona sono dodici, e danno un mille libbre di confetti per dì; le specie ne sono: cannellini, cìoccolatte, cedro, limone, mandorle, fragole, arancio, menta, anisi, pistacchio, cacao ecc., così dette dal loro nucleo o senso, e la più stimata fra esse è il cannellino. In quanto alle cosi dette “palle”, o confettoni grandi tondi, altra volta erano di una reputazione europea; reputazione che per altro rifletteva su tutte le specie anzidette, prima che la Francia non fosse venuta con le sue delicatezze a far loro un’omicida concorrenza e strappa­re in pari tempo il modesto contadinesco alloro, tanti secoli sudato. Il che importa che queste fabbriche dovevano essere altra volta più numerose o più cospicue: particolare storico di cui ci dichiariamo affatto ignoranti. Noi domandiamo agli studiosi delle patrie memorie, agli amanti del deco­ro del proprio paese, una tale monografia; senza uscir dai nostri Abruzzi, essa occuperebbe un posto immediato accanto a quella delle maioliche di Castelli, tema delle dotte memorie di Gabriello Cherubini e Concezio Rosa. Gli è certo per altro, per concluderla con i confetti…, che se per caso ac­cennate che passate per Sulmona, non v’ha Signora che non vi chiegga, non pretendi imperiosamente il tributo dei confetti; e che quelle scattole (sic) a forma di poligono e dipinte a cifre di vari colori, si veggono in tutti i procacci per Napoli più di quanto non sarebbe mestieri»[40].

 Dal che si evince che le Messaggerie postali per Napoli, specie le Diligenze Fiocca che effettuavano il Servizio da Pescara a Napoli, trasportavano costantemente da Sulmona non solo passeggeri ma anche scatole di confetti, che i “procaccia” provvedevano poi a recapitare a Napoli ai vari destinatari. Un viaggio con tali “mercanzie” è compiuto da Theodor Mommsen, il quale provenendo da Chieti passa per Sulmona a “mezzanotte del 1° agosto” 1845 diretto a Napoli [41]

Presso la Sezione dell’Archivio di Stato di Sulmona abbiamo rinvenuto un importante documento qualificato Urgentissimo e datato: Firenze, 16 dicembre 1866. Con esso il De Vincenti, Presidente della Regia Commissione Italiana e responsabile della Esposizione Universale da tenersi nel 1867 a Firenze, scrive al Sindaco di Sulmona pro tempore per sapere quali industrie fossero presenti in Città e nel suo immediato territorio e quali prodotti potevano ben figurare nell’Esposizione di Firenze:

Signor Sindaco,

È urgentissimo che la S. V. risponda immediatamente alle dimande (sic) indicate in questa scheda, essendo ancora sospeso questo lavoro di tanta importanza per le industrie italiane per mancanza di alcune risposte.

Poiché questo lavoro sia compiuto non è meno necessario delle altre risposte, anche di quelle negative, ove non sia alcuna industria relativa a quello che si richieggono.

                                                                                                                               Il Presidente: De Vincenzi”  

Il Sindaco di Sulmona risponde al riguardo, comunicando il Genere dell’Industria che esisteva a Sulmona, dove in aziende di tipo familiare venivano realizzati i seguenti prodotti:

Corde Armoniche, graduate a minugie di animali lanuti. Tra gli altri mezzi di lavorazione si usano i telai volanti; Pergamene, a cuoi di animali lanuti; Confetture di ogni specie, sopraffine a tutto zuccaro, bianche e a tinte vegetali, racchiudenti cartellini a stampa con motti arguti (detti confetti parlanti) o liquori eccitanti, innestate in seta variopinta; rappresentano giardinetti, fruttiere, animaliecc.; Vini, per lo più cotti ed ora di ogni specie”.

La specificazione “a tutto zuccaro” relativa ai confetti assume grande rilevanza. Nel più volte citato articolo dal titolo Le confetture di Sulmona, apparso nella “Gazzetta di Sulmona” (n° 22, 1874), il De Nino già evidenziava il pericolo rappresentato dai confetti prodotti con amido che, a differenza di quelli ottenuti con solo zucchero, “si fanno di seguito e presto”.

L’impiego dell’amido assicurava dunque una maggior produzione, a discapito della qualità. Infatti, sottolinea lo storico peligno: “Chi vuol provare se le confetture che si dicono sulmonesi, sono veramente tali, metta un po’ d’acqua nel bicchiere e v’immerga un confetto. Dopo qualche tempo, se il confetto è di puro zucchero, in fondo al bicchiere non vi sarà deposito; se no, la posa sarà indizio che c’era l’amido”.

Di grande interesse sono le confezioni di confetti, chiamati “confetti parlanti”, di cui si parla nel documento trasmesso a Firenze e contenenti cartellini con motti arguti e forse anche proverbi, di cui non siamo riusciti tuttavia a reperire qualche esempio presso le aziende sulmonesi del settore. Ad essi allude probabilmente il Lear quando, durante il suo soggiorno a Sulmona, annota:

“Ammirammo le sue strade ben pavimentate e i numerosi negozi, metà dei quali erano confettieri, perché i confetti di Sulmona sono famosi in tutt’ Italia […] Tutte le vetrine dei negozi per il Corso principale sono piene di enormi bouquets, fitte ghirlande e croci, tutte composte con confetti colorati in modo vistoso. E questi prodotti non sono per la delizia dei bambini; infatti, essi costituiscono gli omaggi presenti ad ogni compleanno, cresima, matrimonio e qualsiasi anniversario. Un bouquet formato da fiori di zucchero gialli e scarlatti, adornati con foglie verdi ed aguzze, costituisce un regalo elegante per una signora, specialmente se è accompagnato da un sonetto”.[42]

Una conferma di tale usanza, vigente agli inizi del Novecento, si ha dalla viaggiatrice inglese Anne Macdonell, la quale soggiornando a Sulmona sottolinea nel suo libro dal titolo Negli Abruzzi quanto segue:

“Durante la maggior parte dei ricevimenti serali è usanza offrire a tutti rosolio e confetti […] i quali sono la grande ricchezza di Sulmona, che possiede 12 grandi fabbriche di queste delizie fatte di zucchero e spedite in tutta l’Italia”.[43]

A partire all’incirca dal 1870, la produzione dei confetti subisce a Sulmona, secondo alcune fonti, un forte calo, dovuto come sottolinea il De Nino nell’articolo citato «alle molte fabbri­che dì confetture aperte anche altrove» oppure, come sostiene il Colucci[44], alla concorrenza dell’industria dolciaria francese. Ed oggi?

Vi sono a Sulmona circa dieci aziende di diverse dimensioni, di cui alcune a carattere familiare, con una produzione di confetti difficile da determinare ma che ammonta all‘incirca a 15 quintali al giorno, come sostengono alcuni imprenditori del settore intervistati.

Da alcuni anni è stato realizza­to presso la fabbrica Pelino un importante Museo dell’arte e della tecnologia confettiera, nel quale sono espo­sti antichi macchinari ed attrezzi che attestano l’evoluzione nel tempo del­la tecnica di fabbricazione dei confetti.

La citata (ed approssimativa) quantità di confetti prodotti giornalmente a Sulmona è soggetta, tuttavia, a rilevanti incrementi a seconda della domanda stagionale, che raggiunge di solito alte percentuali nel periodo primaverile.

Venduti in tutta l’Italia ed anche all’estero, soprattutto in America ed in Canada dove sono sempre richiesti dai nostri corregionali, i Confetti di Sulmona attendono ancora uno storico riconoscimento, un vero e proprio marchio D.O.P. che contenga – lo pro­poniamo in tale sede – il motto: “Etenim non potuerunt mihi”,  lo stesso che Santo Di Rocco, famoso artista del ferro vissuto a Pescocostanzo verso la fine del ‘600, fece scolpire sull’architrave della sua bottega e che ancora oggi si può leggere, per ricordare ai posteri che malgrado tutti i tentativi fatti in Italia ed altrove, i confetti di Sulmona restano insuperabili [45].

Per raggiungere questa lodevole finalità occorre tuttavia quella unità di intenti che manca oggi ad onor del vero alle aziende locali, spesso “l’una contro l’altra armata”[46] . Né ci sembra che le varie Amministrazioni Comunali succedutesi negli ultimi tempi al governo della Città d’Ovidio abbiano svolto a tal fine un’azione diretta a coordinare iniziative per lo sviluppo di questo tipico prodotto sulmonese, destinato a rallegrare i momenti più lieti del ciclo dell’uomo e dell’anno. Ma di quest’ importante aspetto parleremo nel capitolo che segue.

IL CONFETTO NEL FOLKLORE

I confetti nel ciclo dell’uomo e dell’anno

I confetti occupano un posto rilevante nel folklore, perché associati come si è detto ai momenti più lieti e significativi del ciclo dell’anno e della vita dell’uomo.

Essi vengono offerti in piccoli sacchetti o bomboniere soprattutto in occasione di matrimoni, donde le locuzioni figurate, con valore talvolta paremiologico: mangiare i confetti (partecipare alle nozze), a quando i confetti? (a quando le nozze?), “dopo i confetti, i difetti” (dopo il matrimonio si scoprono i difetti della moglie o del marito) e via dicendo.

Paolo Toschi scrive che «nell’alta Val Tiberina, durante il pranzo di noz­ze, si usa lanciare con violenza confetti, sì da rompere qualche bicchiere, ed il rompersi di qualche stoviglia è chiaramente allusivo»[47].

In molti cen­tri dell’area peligna il pranzo di nozze, costituito da innumerevoli portate, aveva luogo fino a tempi recenti per lo più in casa della sposa, la quale all’uscita di casa nel giorno del suo matrimonio intonava un simbolico canto di partenza.

Fino alla metà dell’Ottocento questo interminabile pranzo di nozze (sottolinea G. Tanturri nella sua nota Monografia storica su Scanno [48]) veniva chiamato a Villalago “panarda”, termine che si è esteso in seguito ad ogni manifestazione similare e soprattutto al pranzo organizzato nei centri della Marsica e nell’Aquilano in occasione della uccisione del maiale.

Tornando ora al pranzo di nozze, va ricordato che appena ultimato spettava agli sposi dare inizio alle danze, mentre una delle suocere rompeva per terra un piatto colmo di confetti.

Assai viva è tuttora l’usanza di gettare per strada confetti da parte degli invitati alle nozze, allorché il corteo nuziale muove verso la chiesa o esce da questa a cerimonia ultimata.

Il rito è ripetuto nei nostri paesi ad un balcone della casa dove andrà a vivere la coppia oppure alla casa paterna della sposa, in cui per atavica tradizione il corteo compie sempre una sosta.

Il colore dei confetti, in occasione di un matrimonio, è bianco, perché richiama al pari del vestito nuziale la castità della sposa.

Come è noto, il numero dei confetti contenuto nelle bomboniere è sempre dispari ma non tutti gli studiosi sono d’accordo sulle origini di questa antica consuetudine. «Nelle credenze popolari – scrive l’Albergamo – il numero dispari è apparso come qualcosa di singolare; in parecchi paesi si ritiene che il numero dei con­fetti della sposa dev’essere dispari»[49].

Ogni spiegazione di tale diffusissima superstizione è stata ricollegata dagli studiosi, ma con risultati non sempre convincenti, al potere posseduto dai numeri di­spari: si pensi per esempio al valore magico del “tre” presente in quasi tutte le religioni (nel cristianesimo, la SS. Trinità, nella Trimurti del bramanesimo, ecc.) oppure nel co­siddetto «misticismo dei numeri», che tanta importanza ha nell’ analisi prelogica del Lévy-Bruhl.

 Il numero pari dei confetti, essendo sempre divisibile per due, simbolo della coppia, costituisce invece nella credenza popolare un cattivo augurio per gli sposi, destinati in tal modo a restare senza prole. Il numero dispari dei confetti rappresenta dunque secondo alcune teorie un atto di magia simpatica diretto a favorire la nascita di un figlio e ad assicurare così la continuità della famiglia e della vita.

Non mancano tuttavia teorie diverse, desunte dalla cultura classica. Secondo Jean N. Robert, per esempio, nell’antica Roma “bisognava evitare in ogni caso che il numero dei commensali fosse pari. Il numero pari è dunque un cattivo presagio […] L’intero pasto nel mondo romano si basava infatti sulla cifra simbolica del tre: antipasto, portate forti e dessert[50].

Negli ultimi tempi si è consolidata anche la tradizione di confezionare bomboniere con confetti sui quali è scritto il nome della sposa e dello sposo oppure che imitano alla perfezione due fedi nuziali, simbolici anelli della catena della vita.

In occasione delle nozze d’argento (25 anni di matrimonio) o d’oro (50 anni)vengono offerte bomboniere i cui confetti sono rispettivamente argentati o dorati, mentre nelle feste di laurea la «bomboniera» è costituita di solito da un piccolo berretto goliardico, la cui stoffa è di colore diverso a seconda della facoltà univer­sitaria frequentata dal neodottore.

Un cenno particolare merita il colore dei confetti che si offrono in occasione del battesimo, comunione e cresima. Innanzitutto, un nastro rosa affisso ad una porta significa che tale abitazione è stata rallegrata dalla nascita di una bambina e di color rosa saranno pertanto anche i confetti che si offriranno in occasione del Bat­tesimo, della Comunione e della Cresima. Il color rosa è associato al rosso e quindi al sangue, simbolo perenne di vita. Nelle antiche cosmogonie il rosa, come anche l’aurora, è simbolo di fertilità e dunque attributo primigenio della donna[51].

Per la nascita di un maschietto viene esposto invece un nastro azzurro e di conseguenza sono azzurri i confetti offerti in occasione del Battesimo, Comu­nione e Cresima. L’azzurro, sottolinea l’Albergamo, è associato al concetto di cielo ed esprime l’augurio che il ragazzo raggiunga elevatezza sociale e morale.

Di color rosa o azzurro risultano anche le candeline accese sulle torte in occasione dei primi compleanni di una bambina o di un bambino.

 Il frettoloso uomo moderno, che non lascia tra sé ed il mondo che lo circonda quella intercapedine necessaria ad ogni riflessione, sembra aver perso dunque i riferimenti insiti nella semantica dei colori e ricalca meccanicamente schemi comportamentali di cui ha perso i significati originari.

E ciò accade pro­prio in un periodo in cui a Sulmona si vanno consolidando altre tradizioni legate ai confetti. Così, da qualche anno, il classico «Babbo Natale», tanto caro ai bambini, distribuisce per le strade della Città di Ovidio a bambini ed adulti sacchetti di confetti, suscitando una piacevole sorpresa soprattutto nei turisti, che dalle località montane limitrofe si riversano a Sulmona per acquisti o per respirare una boccata di genuina atmosfera natalizia.

Non v’è poi un convegno, una manifestazione culturale o una riunione a carattere conviviale in cui non si distribuiscano confetti alle gentili signore presenti, sicché in tali circostanze i confetti sembrano aver sostituito completamente l’atavico omaggio floreale.

Non mancano tuttavia altre importanti tradizioni legate ai confetti.

Per esempio, vige ancora in qualche centro dell’area peligna l’antica usanza della sciarra, cioè il lancio di confetti e monete sulla bara che trasporta una bimba o una fanciulla, allorché il corteo funebre si reca in chiesa oppure al cimitero, alla fine delle esequie. La ratio di questa usanza, radicata in area peligna, poggia sulla credenza che le fanciulle morte prematuramente reclamano i confetti che sarebbero stati lanciati in occasione del loro matrimonio.  

L’antica consuetudine della “sciarra” è tuttavia vigente e diffusa ancora oggi nella Conca peligna in occasione dei matrimoni, dove si assiste al lancio di confetti e monete sui cortei nuziali. Il Colarossi-Mancini sottolinea in proposito che a Scanno «entrato il corteo nella casa maritale, la madre dello sposo gittava dalla finestra una gran quantità di confetti, noci e denaro, il che si diceva fare la sciarra»[52].   

Sciarra” significa rissa violenta[53] e dunque baccano o rissa che esplode soprattutto fra ragazzi allorché da una finestra o da parte degli invitati al corteo nuziale vengono lanciati soldi e confetti in occasione di un matrimonio. Si tratta di un’usanza ricordata anche dal poeta scannese Romualdo Parente nel suo poemetto “Zu matremonio a z’uso”(1765), ventesima strofa.[54]

Un’altra antica ed importante costumanza, ancora in uso a Sulmona verso la metà del secolo scor­so, era quella di inviare il primo maggio un piatto di granati e confetti ad amici e parenti, «il qual dono, chiarisce il De Nino, si usa anche quando si fanno comparatici tra giovanette»[55].

Le composizioni floreali con confetti

 Non meno inte­ressante risulta l’utilizzazione dei confetti in una tipica attività artigianale che rag­giunge a Sulmona il suo apice nel corso del Novecento.

Avvolgendo confetti di diversa grandezza e forma con veline colorate, si ottengono infatti vivaci composizioni floreali che imitano alla perfezio­ne rami di pesco in fiore, ciclamini, spighe di grano, ecc. destinati ad ab­bellire vasi di ceramica o piccole conche di rame usati come graziosi soprammobili. La stessa funzione svolgono i classici cestini, confezionati con confetti dipinti con tinte vegetali diverse ed assai richiesti soprattutto dai turisti che visitano Sulmona nei vari periodi dell’anno.

Fino ad alcuni decenni fa si potevano ancora ammirare delle grosse corone, chiamate in molti paesi dell’area peligna corone del rosario, da appendere devotamente nella camera da letto o sulle pareti di un santuario come ex voto. La folklorista e scrittrice inglese Estella Canziani ci ha lasciato come si è già detto in precedenza alcune preziose testimonianze sull’uso di tali corone agli inizi del secolo scorso[56]. Le donne peligne portavano sempre con sé queste pie testimonianze della loro devozione, anche quando erano costrette ad emigrare nelle Americhe o in Australia per ricongiungersi ai loro familiari.

Inoltre, e ciò appare ancora più rilevante, dalla Canziani apprendiamo come i confetti fossero entrati anche nella narrativa popolare peligna, arricchen­done tipologie e motivi. Così nella fiaba dal titolo Le tre sorelle, dalla scrittrice raccolta a Sulmona e pubblicata nel citato volume, l’uomo lupo, che nasconde­va nel suo palazzo la più bella fra tre sorelle, di nome Carofiore, non può impe­dire il matrimonio tra quest’ultima e il figlio del re. La fiaba finisce allora con queste parole: «L’uomo lupo rimase ancora solo e si consolò con una buona mangiata di confetti». Erano, ovviamen­te, “confetti di Sulmona” e la loro straordinaria storia – di cui abbiamo ricordato gli aspetti più significativi – ha contribuito a rendere più famosa la Città di Ovidio nel mondo.

Giornali e confetti

Avviene spesso che sfogliando i quotidiani si venga a conoscenza di importanti notizie concernenti modifiche apportate alla tecnica di produzione dei confetti oppure varianti relative ai classici gusti, da tempo codificati nel settore dolciario.

Così sul quotidiano Il Centro, in data 4 agosto 2013, è apparso nella cronaca di Sulmona un articolo a cura di Annalisa Civitareale, dal titolo “E la gelateria Di Silvio propone il gusto al confetto”, in cui l’Autrice sottolinea quanto segue:

 “E dove si può cercare (e trovare) un gelato al confetto, se non nella Città che del dolce a base di mandorle e zucchero ha fatto il proprio segno distintivo? I titolari della gelateria precisano al riguardo che il gelato al confetto è nato una decina d’anni fa ed è uno dei gusti più venduti, apprezzato non solo dai turisti ma anche dai Sulmonesi…Quelli che vanno nel gelato sono i classici confetti alla mandorla sulmonesi”.

Una importante ed intelligente iniziativa è stata adottata due anni fa dall’Associazione Ars di Sulmona, presieduta dal Dr. Franco Iezzi, in occasione delle fauste nozze fra il Principe William d’Inghilterra e Kate Middleton, celebrate nell’Abbazia di Westminster. In data 26 aprile 2011 è apparso così nella cronaca di Sulmona un articolo a firma di P. Iavarone, dal titolo “Per William & Kate i confetti made in Sulmona”, in cui si precisa che i confetti, insieme ad un bouquet floreale, sono stati offerti ai Reali Sposi tramite l’Ambasciata d’Italia a Londra. Il giornalista definisce giustamente l’iniziativa dell’Associazione Ars “un’ottima trovata pubblicitaria” che contribuirà non poco, come riteniamo, alla ulteriore diffusione in Europa e nel mondo dei famosi confetti di Sulmona.

Tuttavia, la nostra società si evolve, nel bene e nel male, ed a risentirne è anche l’Istituto del matrimonio. E così una nota Casa sulmonese ha ideato, come si apprende dal quotidiano “Il Messaggero” in data 30 maggio 2006, il confetto Gay Bride per la sposa gay, “una specialità destinata alle coppie non eterosessuali, che sarà di colore lilla, un colore che nasce dall’unione del celeste e del rosa, tipici colori della tradizione maschile e femminile, con mandorle di San Francisco, zucchero di canna del Brasile e vaniglia naturale dei Caraibi”…, quasi “a ribadire la naturalità di una scelta di vita come quella delle coppie omosessuali”.

Si tratta come sottolinea l’Articolista di “un’idea originale che non mancherà di creare approvazione o sconcerto, come tutte le novità di un certo tipo”. Un dato è indiscutibile, si legge a conclusione dell’articolo: “Sulmona in tema di confetti si riconferma capitale assoluta sia per la qualità che per innovazione di idee e tradizionale genuinità delle materie prime, e ovviamente, dei prodotti”.

Le “mandorle di San Francisco”impiegate nella confezione del confetto Gay Bride suggeriscono alcune riflessioni legate ai territori di produzione. Un tempo, come si è visto, la Conca peligna era un magnifico “giardino” ancora ornato agli inizi del Novecento da fiori di mandorlo. La coltura – si legge in una brochure sulla Mandorla di Avola – è stata introdotta in Florida e California “solo dalla metà del secolo scorso”. Molte Case produttrici di confetti, utilizzano tuttavia a Sulmona ed altrove soprattutto le mandorle siciliane di Avola o di altre rinomate località del Siracusano. Esse sono state esposte circa dieci anni fa a Sulmona in Piazza XX Settembre, nel corso di una manifestazione che ha riscosso un buon successo commerciale e richiamato folle di visitatori. Le mandorle siciliane, hanno sottolineato per l’occasione gli intenditori, si sposano divinamente – è il caso di dire – con i confetti di Sulmona, che finché “il sole brillerà sulle sciagure umane”, resterà per sempre la “Città degli Amores e dei confetti”.    


[1] Va ricordato che oltre ad essere Patria di Ovidio e dei Confetti, la nostra Città è anche Patria del Montepulciano, segnalato per la prima volta in Abruzzo nell’agro sulmonese nell’opera di Michele Torcia “Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’ Peligni fatto nel 1792”, Napoli 1793. Cfr. F. Cercone, “La meravigliosa storia del Montepulciano d’Abruzzo”, Amalthea Ed., Corfinio 2000. Tuttavia, Sulmona non ha saputo valorizzare questo importante primato storico e solo oggi si avvertono nella Conca Peligna segni di ripresa nel settore della viticoltura, fondamentale anche per la salvaguardia dell’ambiente.

[2] Cfr. La bomboniera dalla nascita ai giorni nostri; Catalogo della Mostra della Bomboniera, Milano 1983. Un altro Viaggiatore arabo, Idrisi, vivente alla corte normanna di Ruggero II, scrive nel 1154 nel suo Libro di Ruggero (Flaccovio, Palermo 1994), che “fra Campo Marino, presso Vieste, ed Ancona, vivevano “individui che trovavano rifugio nelle foreste per dedicarsi alla caccia ed alla ricerca in quelle zone disabitate di miele”, che veniva forse commercializzato anche per la preparazione di confetture.   

[3] G. Susi, Il Casato Pelino e la storia dei confetti di Sulmona, Sulmona 1962. Mancano documenti a sostegno dell’affermazione del compianto storico introdacquese, secondo cui la lavorazione dei confetti sarebbe stata «ideata nel monastero di S. Chiara di Sulmona» (ivi, p. 27). Vero è tuttavia che nel Seicento a Napoli «in tutte le comunità religiose si fabbricano marmellate, chicche, confetti, cose di zuccaro, tavolette dolci e profumate…». Cfr. A. Cirillo Mastrocinque, Usi e costumi a Napoli nel Seicento, p. 36, Napoli 1978.

[4] Cfr. G. Pansa, Le relazioni commerciali di Sulmona con altre Città d’Italia durante il sec. XIV, p. 22; Simeone Ed. L’Aquila 1902 (estratto Bullettino DASP, n° 1, 1902).

[5] Cfr. E. Mattiocco, Struttura urbana e società della Sulmona medievale, p. 79 sgg., Sulmona 1978.

[6] G. Celidonio, La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. IV, p. 205, Sulmona 1912. Secondo alcuni storici “Una libbra” equivaleva a circa 320 grammi: cfr. N. Fiorentino, Parole e cose dei nostri avi (Abruzzo meridionale) s. v. libbra; Edigrafital, S. Atto di Teramo 2004.

[7] M. Montanari, Il mondo in cucina. Storia, identità, scambi, p. 50; Laterza Ed., Roma Bari 2002.

[8] C. Benporat, Storia della gastronomia italiana, p. 50; Mursia Ed., Milano 1990.

[9] G. Pansa, Le relazioni commerciali, ecc., op. cit., p. 22.

[10] Cfr. G. Pansa-P. Piccirilli, Elenco cronologico delle pergamene e carte bambagine pertinenti all’Archivio della Pia Casa della SS. Annunziata di Sulmona, Lanciano 1891. Di “confecteria” si parla in alcuni atti dotali (del 18-6-1359, a favore di una certa Nicolasia; del 3-7-1362 a favore di Petruccia, figlia di Giovanni di Penne; del 2-12-1369 a favore di tal Maria de Rege) ed anche in un testamento, quello di Masio de Rogerio, redatto il 29-9-1388. Cfr. anche G. Pansa, Giovanni Quatrario di Sulmona (1336-1402). Contributo alla storia dell’Umanesimo p. 51, Sulmona 1912. Questi “confecteria”, cioè cofanetti smaltati e de­stinati a contenere confetture, rappresentano dunque le antenate delle nostre bomboniere e non va esclusa l’ipotesi che esse provenissero, insieme a tanti altri capolavori, dalle botteghe degli orafi ed argentieri sulmonesi.

[11] G. Pansa, Le relazioni commerciali, ecc., cit., p. 22 sgg.

[12] G. Celidonio, La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. III, p. 118, De Arcangelis Ed., Casalbordino 1911.

[13] N.F. Faraglia, La casa dei conti Cantelmo in Popoli ed il suo arredamento secondo un inventario del 1494, in «Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte», n. 10, p. 23, Casalbordino 1900.

[14] Il Torcia scrive nel suo Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’ Peligni (op. cit. p. 68) che a Sulmona si confettavano alla fine del ‘700 anche le “trigone mandorline del faggio”.  

[15] G. Pansa, Le relazioni commerciali, ecc., cit., p. 23.

[16] Giova ricordare che la Diocesi di Valva assume ufficialmente la designazione di Valva e Sulmona sotto l’episcopato di Francesco Cavalieri (1621- 1637).

[17] A. Chiaverini, La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. VI, p. 129, Sulmona 1978.

[18] A. Chiaverini, ivi, p. 264. 1 confetti di Sulmona erano molto apprezzati da influenti personalità ecclesiastiche della curia romana. Si veda in proposito E. Mattiocco, L’insegnamento pubblico aSulmonanel XVI e XVII Secolo, in «Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria», 1982, p. 291 sgg., L’Aquila 1982.

[19] F. Sardi de Letto, La Città di Sulmona, voll. 3-4, p. 226, Sulmona 1979. In tale documento si parla anche di coliantri, presenti in alcuni documenti del ‘500. Essi corrispondevano secondo l’A. a «con­fetti di varia misura e forma». Qualche perplessità suscita il racconto «poetico» (ivi, p. 225) sul modo in cui “alla fine del XV secolo” sarebbe nato, secondo il Sardi de Letto, il confetto cannellino, di cui si parlerà in seguito.

[20] A. De Nino, Le confetture di Sulmona, ne «La Gazzetta di Sulmona», n. 22, 8 agosto 1874. L’articolo è stato di nuovo pubblicato in A. De Nino, Tradizioni popo­lari abruzzesi, Scritti inediti e rari a cura di B. Mosca, vol. I, p. 195 sgg., L’Aquila 1970. Sottolinea al riguardo il Mosca: «Riporto questo articolo perché esso contie­ne una minuta documentazione su un ‘arte che potrebbe definirsi, per quanto ri­guarda la città di Sulmona, “popolare”, tanto il popolo sulmonese sente ab antico quella della confettura, come arte sua propria, sorta nel ‘400 e forse prima…».

[21] A. De Nino, Le confetture, ecc., cit., p. 198.

[22] A. De Nino, Le confetture, ecc., cit., p. 198.

[23] 1. Di Pietro, Memorie istoriche della Città di Sulmona, p. 337, Napoli 1804.

[24] F. Sardi de Letto, ivi, p. 204. Si tratta dell‘Accademia degli Erranti, trasformatasi poi, verso la metà del ‘600, in quella degli Agghiacciati.

[25] G. Spini, Documenti e profilo storico, vol. II, p. 139, Roma 1974.

[26] W. Goethe, Viaggio in Italia, p. 99 sgg., a cura di G. Perticone e M. De Vincolis; Carabba Ed., Lanciano 1933.

[27] M. de Montaigne, Viaggio in Italia. 1580-1581, p. 221; Bompiani, Milano 1942.

[28] A. Di Vittorio, Gli Austriaci e il Regno di Napoli (1707-1734). Ideologia e politica dì sviluppo, p. 244 sgg., Napoli 1973

[29] Vol. I, p. 688; Einaudi Ed., Torino 1982.

[30] E. De Matteis, Memorie storiche dei Peligni, p. 264; a cura di E. Mattiocco e G. Papponetti, Deputazione Abruzzese di Storia Patria, Colacchi Ed., L’Aquila 2006.

[31] Parte I, p. 606, Napoli 1692.

[32] F. Sardi de Letto, op. cit., p. 226; cfr. anche L. Braccili, Folk-Abruzzo, p. 158. L’Aquila 1979.

[33] V. Cianfarani, La processione di San Zopito; in ‘Lares’, XVIII, 1952, p. 88 sgg.; A. Di Nola, Gli aspetti magico- religiosi di una cultura subalterna italiana, II Ediz., p. 285, Boringhieri Ed. Torino 2000.

[34] M. Torcia, Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’ Peligni fatto nei 1792, p. 68, Napoli 1793.

[35] M. Torcia, op. cit., p. 130.

[36] Cfr. V. Giuliani, Ragguaglio Istorico della Terra di Roccaraso e del Piano delle Cinquemiglia, acura di E. de Panfilis, p. 53; A. Ausilio Ed. Padova 1991. Verso il 1720, il colto viaggiatore tedesco Adam Ebert, di passaggio per Sulmona, resta meravigliato nel vedere «al mercato» la statua di Ovidio «circondata da una fila di negozi di merceria…tra cui anche delicate confetture». Cfr. A. Ebert, Auli Apronii Reisebeschreibung… ecc.», p. 243, Frankfurt zur Oder, 1723

[37] E. Lear, Viaggio Illustrato nei Tre Abruzzi, p. 109, Sulmona 1974. Si tratta della traduzione italiana, a cura di B. Di Benedetto-Avallone, di un capitolo dell’opera del Lear dal titolo Illustrated Excursìons in Italy, London 1846. Il Lear parla di «grandi fabbriche», mentre il Serafini, più vicino forse alla verità, ci dice che nelle 12 fabbriche erano occupati «quaranta confettari», con una media dunque di circa quattro addetti per ogni fabbrica, il che denota la struttura familiare di tali aziende nella prima metà dell’Ottocento

[38] Cfr. R. Keppel Craven, Viaggio attraverso l’Abruzzo e le Province settentrionali del Regno Napoletano, p. 22, trad. di Ilio Dì Iorio, Sulmona 1982. Id.: Escursioni negli Abruzzi, trad. a cura di D. Lepore, Sulmona 1981.  Si tratta del II vol. del Craven, dal titolo Excursions in the Abruzzi and northern Provinces of Naples, pubblicato a Londra nel 1837. È significativo al riguardo che fra le «arti e manifatture» caratteristiche del Regno di Napoli (settore delle confetture) vengano menzionate, nel 1820, quelle di Sulmona, Chieti, Agnone, Lanciano e Casoli», il che sembra indicare che la concorrenza, nel settore delle “confetture”, era ancora forte in Abruzzo nel primo ventennio dell’800. Cfr. G. Del Re, Calendario per l’anno bisestile 1820, p. 128, Napoli 1820.

[39] K. Hassert, Gli Abruzzi, in «Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti», fasc. IX, p. 421, Teramo 1897; trad. dal tedesco di F. De Magistris.

[40] R. Colucci, Viaggio negli Abruzzi nell’anno 1856, p. 123 sgg., Napoli, Stamperia dei Classici Italiani, 1861.

[41] T. Mommsen, Viaggio in Italia. 1844-1845, p.175; a cura di A. Verrecchia, Fogola Ed., Torino 1980.

[42] E. Lear, op. cit. p. 34. Un bel disegno relativo ad una “corona di zucchero” è riportato da E. Canziani nel suo libro di viaggio (agosto 1914) dal titolo Attraverso gli Appennini e le terre degli Abruzzi. Paesaggi e vita paesana, p. 9; trad. a cura di D. Grilli; Sinapsi Edizioni, Sulmona 2009. Per la II Edizione dell’opera, a cura solo di D. Grilli, vedasi oltre.

[43] A. Macdonell, Negli Abruzzi, p. 243, Sulmona 1991; Traduzione di G. Taurisani, Introduzione e note a cura di F. Cercone.

[44] R. Colucci, op. cit. p. 123.

[45] In occasione della manifestazione Sulmona Sposi si è svolto il 10 gennaio 1998 un Convegno sul tema: Un marchio DOC per il Confetto di Sulmona. Nel corso dei vari interventi è stata prospettata anche la possibilità di ottenere il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta).

[46] Vedasi l’articolo apparso su “Il Messaggero”, venerdì 7 marzo 2003, p. 45, a proposito della “guerra dei confetti” fra due Aziende produttrici cittadine.

[47] P, Toschi, Il Folklore, p. 37, Milano 1967.

[48] Cfr. Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato, Napoli 1853.

[49] F. Albergamo, Mito e magia, p. 282, Napoli 1970.

[50] Cfr. Jean Noel Robert, I piaceri a Roma, p. 137; Rizzoli Ed., Milano 1985.

[51] Cfr. F. Albergamo, op. cit., p. 222 sgg.

[52] A. Colarossi-Mancini, Storia di Scanno e guida della Valle del Sagittario, p. 194, L’Aquila 1921; cfr. anche D. V. Fucinese, Raiano. Notizie storiche e vita tradizio­nale, p. 108, L’Aquila 1971. Scrive in proposito il De Nino, «A Barrea… il corteo nuziale si dirige verso la casa dello sposo. Non parlo delle confetture e dei quattrini che si gettano in mezzo al follame (sic) dei curiosi…»; cfr. A. De Nino, Usi Abruzzesi, I, p. 84, Firenze 1879.

[53] Cfr G. Devoto- G.C. Oli, Dizionario della lingua italiana, s. v. sciarra, Firenze 1975. In alcuni paesi della conca peligna esiste anche il verbo dialettale “sciarrare”, che equivale a “rompere rapporti” e specialmente il fidanzamento. In tal caso esplo­devano, come è facile immaginare, furiosi piati tra le famiglie interessate – e non solo nei tempi passati! –  a causa del matrimonio “andato in fumo”.

[54]  Edizione Scanno 1971, a cura di E. Giammarco; Cfr. anche M. Notarmuzi, L’Arcadia di Romualdo Parente, Prefazione di U. Vignuzzi, Sulmona 2013.

[55] A. De Nino, Tradizioni popolari abruzzesi, Inediti e rari,a cura di B. Mosca, op cit., p. 274.Il dono dei granati, cioè del granturco lesso, assumeva in tale giorno un particola­re valore propiziatorio, poiché iniziava con esso quella che i nostri contadini e la povera gente in genere chiamavano la costa dì maggio. Si trattava diun periodo assai criti­co per l’alimentazione della famiglia rurale, prossima ormai a veder esaurite tutte le scor­te alimentari durante il lungo periodo invernale e nei primi mesi primaverili. I granati venivano offerti anche nella ricorrenza della festività di S. Antonio Abate.

[56] E. Canziani, Through the Apennnes and the lands of the Abruzzi. Landscape and peasant life, Cambridge 1928; trad. Ital. A cura di Diego Grilli, Synapsi Ed., Sulmona 2009.




IL CERASUOLO DELLA CONCA PELIGNA

Una breve ma necessaria premessa

[Saggio di Franco Cercone, pubblicato da MAC Edizioni, Corfinio AQ 2016. Contiene integrazioni dell’A. rispetto all’edizione stampata.]

Nell’ottobre del 1868 ebbe luogo a Chieti la Prima Esposizione Agraria Regionale e con l’occasione fu redatta a cura di uno sconosciuto agronomo (che si firma F.C.) un importante Saggio di Ampelografia della Regione Abruzzese, pubblicato l’anno successivo (1869) per i tipi dell’Editore teatino Del Vecchio.

Questo Saggio conferma la lenta espansione del vitigno montepulciano lungo la Val Pescara, ostacolata circa cinque anni prima dalla nefasta apparizione della fillossera nella nostra Regione, in concomitanza con la proclamazione del Regno d’Italia.

Il vitigno, partito – si fa per dire – dalla sua storica sede abruzzese, cioè la Conca Peligna, dove è segnalato nel 1792 dal bibliotecario di re Ferdinando IV di Borbone, Michele Torcia, era ancora sconosciuto in area marrucina e frentana. Se ne ha conferma da una operetta dell’agronomo Raffaele Sersante (ma in realtà si trattava di una monografia composta dal noto enologo Francesco de Blasiis, di Città Sant’Angelo) dal titolo “Trattato teorico-pratico dell’arte della vinificazione, con riguardo specialmente alle diverse qualità di uve” [Tip. F. Vella, Chieti 1856].

Il de Blasiis, ricercato dalla polizia borbonica per le sue idee liberali, era stato costretto a rifugiarsi a Firenze, dove fu benevolmente accolto dall’Accademia dei Georgofili e prima di fuggire aveva affidato in custodia il suo manoscritto al Sersante, il quale, ad onor del vero, conferma nella Introduzione la paternità dell’opera al De Blasiis e ne tesse gli elogi.

Dopo aver sottolineato l’importanza del “tagliamento dei vini”, il Sersante stila un elenco di uve da lui ritenute ideali per “affinità elettive” negli uvaggi, e fra queste sono annoverate “le uve aromatiche dette moscato, malvagia e aleatico”, nonché il trebbiano, chiamato uva passa ma anche camplese. Tuttavia su una probabile derivazione del camplese da Campli, nota località del Teramano, egli non si pronuncia ed anzi si trincera in un prudente silenzio,perché la dizione antica di questo aggettivo sostantivizzato non era “camplese”, ma “campolese”, non citato comunque da G. Pansa [Saggio di uno studio del dialetto abruzzese, Lanciano1885], daG. Finamore[Vocabolario dell’uso abruzzese. Città di Castello 1898], daE. Giammarco[Dizionario Abruzzese e Molisano, voll. 4, Roma 1976] e soprattutto nel recente “Vocabolario del dialetto raianese”, di D. Venanzio Fucinese[Raiano2008], località situata a nord-ovest della Conca peligna.

Ora fra i vitigni menzionati dal Sersante non è annoverato il montepulciano, malgrado il pressante invito,  rivolto ai viticoltori abruzzesi dal barone teatino Giuseppe Durini nel periodico  Annali Civili del regno delle Due Sicilie [n° 36, Napoli 1820], a “moltiplicare nei Tre Abruzzi la Lagrima,  l’Aleatico e il Montepulciano”, in modo da privilegiare la ‘qualità’ e non la ‘quantità’ dei vini nella nostra Regione, un appello, questo, da ritenersi ancora valido oggi malgrado che non poche aziende vinicole abruzzesi facciano talvolta orecchie da mercante su questo scottante tema che investe il futuro della nostra viticoltura.

Questo pregiato vitigno, il montepulciano appunto, si rinviene citato – allo stato attuale delle nostre conoscenze – per la prima volta da Michele Torcia, il colto bibliotecario di re Ferdinando IV di Borbone, nella sua opera dal titolo “Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’Peligni fatto nel 1792” [Napoli 1793], dove evidentemente prosperava da alcuni lustri.

E pensare che questa splendida uva, pervenuta – non sappiamo precisamente quando – dall’agro toscano di Montepulciano a quello peligno, aveva anche avuto, per dirla con il Veronelli, il proprio “Vate Sacro”. Il famoso storico sulmonese Panfilo Serafini aveva infatti illustrato nella sua Monografia Storica di Sulmona, apparsa nel 1853 (nel periodico Il regno delle due Sicilie descritto e illustrato), l’evoluzione ampelografica del montepulciano, che già nella prima metà dell’800 si presentavadiversificato nelle due specie di premutico (o primaticcio) e cordisco (o tardivo), anche se era quest’ultimo ad essere considerato il vero e proprio montepulciano.

Vien fatto di pensare dunque che già agli inizi del ‘900 Sulmona poteva non solo fregiarsi del titolo di “Patria del Montepulciano d’Abruzzo” ma anche di Città del Cerasuolo, dato che allo stato attuale delle nostre conoscenze la prima notizia storica su questo particolare “modus vinificandi”, del vitigno montepulciano ci è offerta dal colto Viaggiatore tedesco Woldemar Kaden, durante il suo pur breve soggiorno nella Patria di Ovidio nell’agosto del 1874. 

Ora, ci sembra proprio questa la sede opportuna per sottolineare che noi non siamo né enologi e né ampelografi. Apparteniamo infatti alla famiglia degli studiosi (ahimè sempre più rari!) che si basano nelle loro ricerche storiche solo sui documenti conservati nei nostri polverosi Archivi pubblici e privati. Pertanto per onestà intellettuale dobbiamo evidenziare ancora una volta l’importanza di un documento segnalato nel nostro saggio “Storia della vite e del vino in Abruzzo” [Carabba Ed., Lanciano 2008]. Si tratta di una non nota opera di G. Battista Pacichelli (il famoso Autore de Il Regno di Napoli in prospettiva, Napoli 1703), dal titolo Lettere familiari, istoriche et erudite, pubblicate a Napoli nel 1695 e che merita la massima attenzione.

Infatti nel Tomo I delle citate “Lettere familiari”, il Pacichelliscrive che trovandosi a Capestrano in qualità di Visitatore degli Stati Farnesiani in Abruzzo, apprende dai nativi del luogo che un esponente della Casa fiorentina dei Bardi “manipolava” nella suddetta località “vini assai simili alli verde e Montepulciani, e che per tali ne facesse gratuito spaccio a Roma e Firenze”.

Si noti innanzitutto il nome “(vini) Montepulciani”, indice questo di più vini originari dell’agro di Montepulciano e diffusi negli Abruzzi, ribadendo così quanto aveva sottolineato Sante Lancerio (bottigliere di papa Paolo III) all’incirca un secolo e mezzo prima, nel saggio Della natura dei vini e dei viaggi di Papa Paolo III (1549):

“Il vino di Montepulciano è perfettissimo tanto il verno quanto la state,

et meglio è il rosso la state”.

Del resto, quando compone il ditirambo Bacco in Toscana, che termina con il celebre verso “Montepulciano, d’ogni vino è re”, il Redi non intendeva affatto il vino Montepulciano, all’epoca inesistente, ma il toponimo Montepulciano, il che reclama alcune notizie di carattere storico per comprendere meglio il senso dell’espressione “vini montepulciani”.

Era avvenuto infatti che nel 1579 Costanza Piccolomini, “utile Signora del Marchesato di Capestrano e Baronia di Carapelle”, avesse venduto i suoi possedimenti situati nella Valle del Tirino (o Valle Tritana) al Granduca di Toscana Francesco dei Medici, il quale come si evince dal  carteggio con il suo Governatore Gentile Acciaioli, aveva ampliato il patrimonio ampelografico della Valle arricchendolo di diversi vitigni originari del territorio di Montepulciano, i quali ci chiariscono così il significato del termine “montepulciani” (e non montepulciano) usato al plurale da Giovan Battista Pacichelli.

Dopo la prima menzione fatta dal Torcia nel 1792, bisognerà attendere all’incirca un ventennio, prima di avere ulteriori notizie del montepulciano in agro peligno. E ci aiutano in tal senso alcuni atti notarili, segnalatici da R. Carrozzo, oppure venuti alla luce durante le nostre ricerche condotte negli Archivi di Stato.

Ne citiamo uno per tutti. Sub anno 1819, Notar Vincenzo Stecchini, di Sulmona, stila un contratto d’affitto di un terreno tra la famiglia sulmonese De Amicis Aceti ed un contadino di Sulmona, tal Giuseppe La Vella, con l’obbligo da parte di quest’ultimo di “piantarci viti di buona qualità, vale a dire di Monte-Polciano (sic) e Tivolese… e di impalare detta vigna a sue spese”.

Nel frattempo si era verificata (seconda metà del ‘700) una diffusione del Montepulciano anche nell’Italia centro-settentrionale. Così Girolamo Baruffaldi nel suo Bacco in Giovecca (1758) ci parla della presenza del montepulciano nel Ferrarese ed altrettanto fa con maggior numero di notizie un grande ampelografo del Mantovano, Giuseppe Acerbi, il quale parlando del montepulciano nel suo trattato Delle viti italiane (Milano 1825) sottolinea in riferimento a Valenza Po quanto segue:

“Questa specie di uva, venuta a noi dalla Toscana da non molti anni, è già sufficientemente sparsa sul nostro territorio e ritiene tuttavia il nome Montepulciano forse per essere stata presa su quei colli, non essendovi in Toscana nessuna uva che ne porti il nome”.

Erano noti dunque i vini di Montepulciano ma non un vino montepulciano, all’epoca del tutto inesistente. Ce lo conferma un famoso passo del “Candido” di Voltaire, il quale nel Cap. XXIV descrive una lauta cena innaffiata con “vino di Montepulciano”, allorché trovandosi a Venezia nel 1759, invitò alcuni amici in una locanda sita in piazza San Marco in cui dimorava, “a mangiare maccheroni, pernici di Lombardia, uova di storione, ed a bere vino di Montepulciano”, a riprova della fama raggiunta ovunque dai vini prodotti nel territorio di tale località toscana.

Più tardi, nel 1853, il patriota e storico sulmonese Panfilo Serafini ci offre nell’opera Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato un importante quadro evolutivo del montepulciano che risale almeno ad un quinquennio precedente. Scrive il Serafini che le viti più comuni nella Conca peligna, “sono il montepulciano, sia cordisco che primaticcio, ed il Tivolese”. Era il cordisco tuttavia ad essere considerato “il vero e proprio montepulciano”.  

Il Serafini segnala tuttavia anche “una diversa specie di montepulciano”, difficile oggi da individuare (forse il Prugnolo, oppure il Sangiovese).

Nessuna menzione fa invece lo Storico sulmonese in merito al Cerasuolo, vino ricavato (per mutuare una espressione medievale benedettina) da un particolare modus vinificandi il montepulciano, sul quale tace nel 1876, come vedremo in seguito, l’agronomo peligno Giuseppe Sebastiani. E ciò appare decisamente singolare, perché due anni prima, nell’agosto del 1874, il colto Viaggiatore tedesco Woldemar Kaden nel suo pur breve soggiorno a Sulmona ci offre come vedremo in seguito quella che allo stato attuale delle nostre conoscenze è da considerarsi la prima menzione del Cerasuolo.        

Il Sebastiani, su richiesta del sindaco pro tempore di Sulmona, redige una Relazione sulle viti e sui vini di Sulmona, dalla quale stralciamo per ora solo la parte iniziale, quella appunto che in tale sede interessa:

“Sulmona 30 marzo 1876,

Le viti che comunemente si coltivano nel tenimento di Solmona (sic) e dalle quali si ricava la maggior quantità di mosto, sono di uva appellata montepulciano nero, e questo è di due specie, cioè il primaticcio, che chiamasi pure “gaglioppo”, ed il serotino (cordisco o tardivo), che si coltiva a preferenza dell’altro. Coltivasi pure e molto attesamene la vite che dà l’uva detta Camplese, ossia il trebbiano, ed avesene bianca e nera. Per formare vino sonovi altresì le seguenti specie di uva, cioè la Malvagia bianca e nera […], Moscatello bianco e nero […], il Canaiolo bianco e Canaiolo rosso […]”.

Vi erano dunque diverse uve a bacca nera che potevano essere vinificate secondo la “tecnica” del Cerasuolo,ma su quest’ultimo il Sebastiani tace del tutto ed altrettanto fa l’agronomo a proposito della Lagrima, segnalata in agro sulmonese dal Torcia nel 1792 insieme al Montepulciano e scomparsa misteriosamente dal panorama ampelografico peligno, dove attende da circa due secoli e mezzo di farvi nuovamente ritorno come Ulisse alla sua Itaca.

Tuttavia, come si è accennato, due anni prima della Relazione del Sebastiani fa il suo ingresso trionfale nel panorama enologico peligno quella notizia che attendevamo nel corso delle nostre indagini. Infatti il Viaggiatore tedesco Woldemar Kaden, di passaggio in terra peligna, ci fornisce quasi per caso, come vedremo in seguito, la prima notizia che possediamo in Abruzzo sul Cerasuolo, da lui chiamato (e ciò è significativo) “vino di color rosa”, ottenuto con una particolare vinificazione del montepulciano, la nuova uva che da poco aveva riempito di sé la Conca Peligna. 

Ci sia concesso pertanto, a mo’ di conclusione di questa necessaria premessa, di sottolineare come il nostro saggio dal titolo La meravigliosa storia del Montepulciano d’Abruzzo [Amalthea, Corfinio 2000] abbia costituito l’unico documento presentato nel 2007 dal Ministro per le Attività Agricole pro tempore, G. Alemanno, nel contenzioso sollevato a Bruxelles  dal Comune di Montepulciano e dalla Provincia di Siena contro la Regione Abruzzo, per il nome Montepulciano dato al nostro famoso vino, che occupa ormai il terzo posto nell’ambito delle vendite a livello mondiale.

Sappiamo come è andata a finire questa vexata quaestio e la riferiamo utilizzando un articolo apparso in data 26 ottobre 2010 sul quotidiano “Il Centro” e dal titolo “La Carica delle DOC. L’Abruzzo scala il podio dei vini di qualità”:

 “Nei giorni scorsi il Ministro Galan ha fugato alcuni timori rispetto all’utilizzo del nome Montepulciano, (che è) il nome geografico delle tre denominazioni di origine ( Vino Nobile di Montepulciano, Rosso di Montepulciano, Vin Santo di Montepulciano) riferite al territorio del Comune di Montepulciano […] Il  Regolamento (U.E. n.d.r.) n° 401/ 2010 della Commissione ha rafforzato la protezione della denominazione, limitando le deroghe solo all’Italia e unicamente alla DOC Montepulciano d’Abruzzo e Montepulciano d’Abruzzo Colline Teramane. Un passaggio normativo – sottolinea il Ministro Galan – che ha permesso di non estendere la deroga all’Australia, che ne aveva fatto richiesta alla Commissione Europea”.

Questo ambìto riconoscimento si deve dunque anche al nostro saggio “La meravigliosa storia del Montepulciano d’Abruzzo”, a proposito del quale due illustri studiosi italiani, Alessandro Calò ed Alessandro Costacurta, in occasione della Tornata ad Atri (settembre 2008), promossa dall’Accademia Italiana della Vite e del Vino, hanno espresso nel loro contributo dal titolo “Il Montepulciano, una storia lunga secoli”, un lusinghiero giudizio, affermando di “concordare pienamente con quanto ipotizzato da Franco Cercone nell’ottimo saggio storico La meravigliosa storia del Montepulciano d’Abruzzo…

Ma se da un lato è venuto il riconoscimento di illustri enologi ed ampelografi nazionali, non altrettanto si può dire da parte dei “vinattieri” abruzzesi. Ed anzi il nostro saggio, frutto di una ricerca decennale in fonti d’archivio, è stato saccheggiato a dovere da parte di numerosi pseudo- storici del settore, i quali hanno ripetuto talvolta citazioni erronee contenute soprattutto nei resoconti dei Viaggiatori Europei del Grand Tour, che in passato hanno soggiornato, anche se per brevi periodi, a Sulmona e Corfinio.

Ma di questo aspetto parleremo necessariamente in seguito, se non altro al fine di evitare, per dirla con il De Saussure, che la parole diventi langue…

L’arte del Cerasuolo prima della comparsa del Montepulciano in Abruzzo.                  

Errata corrige…

Nel periodo anteriore all’introduzione del Montepulciano in Abruzzo, documentata in modo irrefutabile nel 1792 da Michele Torcia, nell’agro sulmonese, vi erano diverse uve a bacca nera che si prestavano ad essere vinificate nella Conca Peligna come il Cerasuolo, che rappresenta – se ci è concessa l’espressione – la “seconda anima” del meraviglioso vitigno poliziano.

Anche se il Torcia non ne fa menzione, all’epoca in cui tale studioso redige il suo “Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’Peligni” [Napoli 1793], prosperavano ancora in territorio peligno, pur se non citati, i vitigni greco, gaglioppo e hosmanum (quest’ultimo di difficile individuazione) e già menzionati nel Cap.350 degli “Statuta Civitatis Aquile” del 1355, pubblicati da A. Clementi [Roma 1977].

Sui vini e soprattutto sui vitigni  coltivati nella Conca Peligna, definita nel celebre verso Ovidiano “Terra ferax Cereris, multoque feracior uvae”, tacciono sorprendentemente i Viaggiatori Europei del Grand Tour che soggiornano nel corso della prima metà dell’800 soprattutto a Sulmona e Corfinio ed i cui resoconti o “Libri di viaggio”, quelli  appunto che in tale sede maggiormente interessano, sono stati tradotti e pubblicati per lo più a Sulmona, a partire all’incirca dall’ultimo trentennio del secolo scorso.

Il primo Viaggiatore di cui vogliamo far cenno è il famoso storico tedesco Ferdinand Gregorovius, Autore dell’opera (in 5 volumi) dal titolo Anni di peregrinazione in Italia [Wanderjahre in Italien, Lipsia 1877, trad. ita. M. Corsi, Roma 1906-1909].

Nel volume III e precisamente nel Cap. II, dal titolo Una settimana di Pentecoste in Abruzzo, lo storico tedesco descrive il viaggio da lui compiuto in Abruzzo insieme al suo amico e noto pittore, K. Lindemann-Frommel durante la settimana di Pentecoste, festività che si celebra come è noto 50 giorni dopo la ricorrenza della Pasqua.

I due studiosi, provenienti da Aquila, scendono in carrozza dalla piana di Collepietro e sostano poche ore a Popoli, dove assistono alla sfilata della “dote della sposa”, un caratteristico corteo ancora in voga – e non solo in Abruzzo -fino alla metà del secolo scorso.

Lasciata Popoli essi si dirigono poi a Pentima, nome che Corfinio conserverà fino al 1929, e qui il Gregorovius osserva affascinato: “Io non vidi mai un paesaggio così superbamente stilizzato come questo di Corfinio!”.

Secondo l’agronomo G. Giuliani [Il vino in Abruzzo, Japadre, Aquila 1970], il Gregorovius visitò anche Pratola Peligna ed aggiunge che:

“questa visita viene ricordata pure da Ignazio Silone, il quale scrive in una pagina di rara bellezza che è impossibile trovandosi a Pratola non parlare di vino. Quando Gregorovius venne da queste parti, pagò un soldo un litro di ottima qualità” [1].

Non sappiamo da dove il Silone abbia tratto questa strabiliante notizia. Infatti l’itinerario del Gregorovius e del Lindmann, come risulta dalla fedele lettura del testo tedesco, segue il tratto Collepietro – Popoli – Corfinio – Raiano e Forca Caruso, da dove i due scendono verso la piana del Fucino, che all’epoca del viaggio (1875) non era stata ancora del tutto prosciugata[2] .

Lo storico tedesco dunque non ha mai messo piede a Pratola Peligna, località del resto che non viene mai citata nel testo. Sicché il brano tratto dalla citata opera di Ignazio Silone viene pedissequamente riprodotto dal Giuliani. Resta comunque l’aspetto più paradossale e cioè che il Gregorovius non fa mai cenno nella sua Opera al Montepulciano o al Cerasuolo, quello che in tale sede particolarmente interessa.

Questo riferire in modo errato o fantasioso brani tratti da opere di altri Autori ci ricorda pertanto il famoso “giuoco dei mattoni”, cui tutti noi da ragazzi abbiamo partecipato: se cade il primo mattone, cadono tutti gli altri che compongono la fila!

Ma il danno che queste “errate citazioni” provocano è da considerarsi irreparabile nel campo delle ricerche storiche ed ampelografiche… E non è tutto! Vi sono infatti ulteriori precisazioni da fare anche in merito a quanto scrive Silone nel citato volume Abruzzo. Lo scrittore infatti sottolinea in merito al vino di Pratola che si tratta di un “vino schietto, limpido, secco, con un bouquet che varia da una cantina all’altra e persino da una botte all’altra”.

Fin qui Silone ha pienamente ragione e non è difficile arguire dalla descrizione che fa che egli si riferisca al Cerasuolo, senza tuttavia mai citarlo esplicitamente. Ma in seguito egli afferma che tale vino si ottiene “secondo la diversa proporzione di uva bianca e nera, che al momento della pigiatura viene lasciata quasi sempre al caso”, e conclude dicendo: “E’ un vino che non ama viaggiare, perché decade nel trasporto in altra altitudine”.

Queste due ultime osservazioni dello scrittore di Pescìna reclamano decisamente alcune precisazioni. Secondo il Silone infatti il Cerasuolo si otterrebbe a Pratola Peligna con un uvaggio (“uva bianca e nera”), il cui rapporto al momento della pigiatura viene lasciato “quasi sempre al caso”. Ciò non sembra rispondere a verità, perché “il colore”’, nella tradizione vinicola peligna, si otteneva per lo più da una determinata quantità di chicchi d’uva messi a fermentare con il mosto nella botte. Lo stesso dicasi riguardo all’affermazione che si tratta di un vino il quale “non ama viaggiare, perché decade nel trasporto in altra altitudine”. Infatti già il Torcia avvertiva nel 1792 nel suo citato Saggio Itinerario Nazionale, che nella Concapeligna “tutti i luoghi aprichi producono ottimi vini, ed imbottati nelle gelide cantine di Scanno acquistano un gusto superiore”.

A tal proposito un altro storico peligno, Pietro De Stephanis, scrive nella sua monografia storica su Raiano (1853) che il vino prodotto in quest’ultima località peligna, come pure a Prezza e Bugnara, presenta questa caratteristica, che “traslato in luoghi di più fresca temperatura, acquista perfezione tale da non temere il paragone del miglior vino straniero”.

Se ne ha conferma anche da un esperto enologo teatino, il barone Giuseppe Durini, il quale nel Saggio De’vini degli Abruzzi, apparso negli “Annali del Regno delle Due Sicilie” [n° 36, 1820], sottolinea che gli abitanti di Scanno fanno incetta di vino, che “acidulo a valle, riacquista sapore e profumo se messo in botti ad altitudini superiori”.

Ma v’è qualcosa di più incredibile nelle dichiarazioni del Giuliani. L’agronomo scrive infatti che “già nel 1792 il Torcia ebbe modo di rilevare l’esistenza del Montepulciano nella vallata di Cansano”, località distante 12 km a sud di Sulmona. Ma anche ciò è inesatto. Il Torcia infatti scrive solo che visitando la parte meridionale della Conca peligna, gli apparve quasi all’improvviso “Cansano, appesa su di un colle invisibile, nella sua secca ma vignata Valle”, senza specificare dunque di quali uve si trattasse [M. Torcia, Saggio Itinerario… op. cit. p. 61.].

Non si fermano qui, comunque, i guasti prodotti dal citato Agronomo. Nel commentare un pensiero che il famoso Viaggiatore inglese Edward Lear esprime durante un pranzo ad Amatrice (3 ott. 1844), il Giuliani si lascia sfuggire il seguente commento: “Giudizio di rilievo, quest’ultimo, fatto dal Lear, che sta a dimostrare come il Cerasuolo della vocata Valle del Tirino avesse già da allora una meritata rinomanza”.

Sembra di sognare! Ci siamo sottoposti ad una ulteriore ed attenta lettura dell’opera di E. Lear, dal titolo Viaggio Illustrato nei Tre Abruzzi[3],ma in nessun punto il famoso viaggiatore inglese cita il Montepulciano oppure il Cerasuolo. Anzi: il vino offertogli dai suoi anfitrioni era quasi sempre il “vino cotto”, dal Lear qualificato con orribili aggettivi, come “imbevibile” o addirittura “infamante”, come per esempio a Rocca di Corno (presso Aquila) ed addirittura a Miglianico. L’unica eccezione si rinviene a Civita d’Antino, nella Valle Roveto, dove il Lear degusta nel palazzo dei Signori Ferrante “un vino bianco da pasto, particolarmente degno di lode”.

La confusione operata dalle affermazioni del Giuliani ha prodotto in seguito ulteriori danni, fornendo agli studiosi notizie errate e fuorvianti. Sicché solo il Torcia ci offre nel 1793 (la sua ricognizione si riferisce tuttavia all’anno precedente) la prima e fondamentale notizia sulla presenza del Montepulciano nella Conca peligna, dove il vitigno prosperava evidentemente già da un periodo anteriore al 1792, insieme alle altre uve citate dal Torcia: “muscatella, muscatellone, zibibbo, lacrima, cornetta, monte-pulciano (sic), pane del Vasto senza granelli e malvasia”, quest’ultima bianca e nera [M. Torcia, op. cit. p.67].

Di rilevante importanza appare in area peligna la conferma della coltivazione della lagrima, originaria di Somma Campania, dalla quale si ricavava uno squisito Ciliegiuolo.Varicordato che la notizia più antica su questo pregiato vitigno è contenuta in un rogito del notaio Vincenzo Giannitti di Pettorano sul Gizio, stilato in data 21 gennaio 1606 [4]e quindi circa mezzo secolo dopo rispetto alle notizie forniteci dal “bottigliere” di papa Paolo III, Sante Lancerio, contenute nell’Operetta “Della natura dei vini e dei viaggi di papa Paolo III Farnese, descritta da Sante Lancerio, suo bottigliere” [L’Operetta apparve nello stesso anno di morte di papa Paolo III Farnese (1549) ed è dedicata al cardinale Guido Ascanio Sforza].

La Cianfruscola e le uve labrusche.

Nessuna menzione fa invece il Torcia, nella sua citata Opera, di una misteriosa uva chiamata dai ceti rurali peligni Cianfruscola, la quale cresceva soprattutto fra le pietraie e le siepi che segnavano il confine fra i diversi appezzamenti di terreno e che sfuggiva ad ogni tentativo di coltivazione.

Ce ne parla come vedremo meglio l’agronomo sulmonese Giuseppe Sebastiani nella sua Relazione sullo stato della viticoltura peligna nel 1876. Si trattava forse della designazione locale dell’uva labrusca (o ambrusca), di cui parla anche Plinio nella Storia Naturale [XIV, 25]; un’uva che dava “forza e colore” alle altre uve nere durante la vinificazione. Per l’importanza che rivestiva, l’impiego della “lambrusca o uva selvatica” era regolamentato dagli Statuti Municipali, come per esempio quello di Atri promulgato nel 1531 [Statuto Municipale di Atri, CCXLIII, “La lambrusca o uva selvatica” a c. di F. Barberini, Atri 1972.]

Più tardi, probabilmente agli inizi del ‘600, Rodolfo d’Acquaviva (Priore del Collegio dei Gesuiti di Montepulciano ed esponente della Famiglia Acquaviva di Atri) redige un importante quanto finora sconosciuto Poemetto dal titolo “L’arte del vino a Montepulciano”, in cui sottolinea nel processo di vinificazione la funzione delle uve labrusche,definite “concia dei vini deboli”. [5]

Rodolfo precisa, sulla base di informazioni attinte dai viticoltori poliziani, che la quantità delle uve labrusche da impiegarsi nella fase di vinificazione era fissata in agro poliziano “in uno a dieci”, cioè una parte di uve labrusche per 10 parti di uve nere da vinificare[6], una percentuale che assicurava ai vini rossi la giusta gradazione e colore.

Rodolfo consiglia comunque “per far buon vino” di scegliere i grappoli più maturi e di “sollevarli con la mano sinistra, in modo da tagliare la punta del grappolo con la mano destra”. Ed aggiunge: “Si taglia la punta del grappolo quasi dal mezzo in giù, perché quell’uva è sempre mal matura”.

Nell’ambito di una necessaria politica vinicola, che punti nella Conca peligna sulla qualità e non sulla quantità, il “precetto” di Rodolfo d’Acquaviva ci sembra decisamente importante e dovrebbe essere più che mai osservato nell’attuale processo di vinificazione.

Per tornare comunque in argomento, c’è da augurarsi che i nostri viticoltori abbiano maggior fortuna nella ricerca dell’uva cianfruscola, dato che le nostre indagini non hanno avuto finora in agro peligno alcun esito positivo. Tuttavia, come ammoniva Costanzo Felici nella seconda metà del Cinquecento, bisogna sempre riflettere sulla circostanza che un medesimo vitigno si nasconde spesso con nome diverso in territori talvolta non molto distanti l’uno dall’altro e dunque le ricerche sulla cianfruscola andrebbero effettuate anche sotto quest’ultima ottica.

Sante Lancerio e i “Chiarelli” italiani del ‘500.

Nel 1882 lo storico ed ampelografo piemontese Giuseppe Ferraro diede alle stampe per i tipi della UTET due Operette di Sante Lancerio, bottigliere personale di Sua Santità Paolo III Farnese, eletto papa nel 1534 e morto nel 1549. La divulgazione di questi scritti enologici si deve tuttavia alla loro recente ristampa, apparsa nella Collana dell’Editore Veronelli [Alpignano 1992], riscuotendo un buon successo per le preziose notizie forniteci.

La prima di tali Operette ha per titolo “I vini d’Italia giudicati da Papa Paolo III Farnese e dal suo bottigliere Sante Lancerio”,pubblicata nel 1536 (in seguito citata semplicemente I vini d’Italia) e la seconda “Della natura dei vini e dei viaggi di Papa Paolo III descritta da Sante Lancerio, suo bottigliere” (in seguito citata Della natura dei vini e dei viaggi di Papa Paolo III), pubblicata nel 1549, proprio nello stesso anno di morte di Paolo III, e dedicata al Cardinale Guido Ascanio Sforza.

La prima Operetta scaturisce da un episodio storico. Paolo III, come è noto, dovendo recarsi a Nizza per “pacificare Carlo V Imperatore Cattolico con Francesco, Cristianissimo re di Francia”, ordina a Sante Lancerio di precederlo nel suo viaggio a Nizza e di segnalargli le località dove a suo avviso si producevano vini conformi ai gusti raffinati di Papa Paolo III e ben noti al suo fidato “bottigliere”. Il Lancerio doveva pertanto contrassegnarli con l’espressione “vino da signori”, oppure con il pessimo giudizio di “vino da osti” o “vino matto”. Questo episodio ci ricorda -commenta il Veronelli – “la storiella dell’Imperatore Arrigo, che in viaggio verso Roma, dove era atteso per la sua incoronazione (anno MCXI), si fece precedere dal suo vescovo Johannes Fugger, con l’obbligo di segnalare con un EST le cantine con vino buono”. Ma il pio vescovo, buon sacerdote non solo di Dio ma anche di Bacco, pervenuto a Montefiascone, nel Viterbese, “apprezzò tanto il vino di una cantina da lasciare come messaggio sul muro EST EST EST, come tuttora serbato da questo delizioso vino bianco”.

Ai fini della nostra ricerca l’Operetta di Sante Lancerio I vini d’Italia risulta di scarsa importanza, in quanto i vini citati non esorbitano dalla dicotomia biancorosso oppure buonocattivo, evidenziata nei giudizi del bottigliere pontificio. Rilevante è invece la seconda Operetta (Della natura dei vini e dei viaggi di Papa Paolo III) composta come si è detto nel 1549, proprio nell’anno di morte del Pontefice e dedicata al Cardinale Ascanio Sforza.  

Qui il Lanceriofa un preciso resoconto dei vari vini, alcuni dei quali già noti a Paolo III nel corso di precedenti viaggi effettuati per lo più nello Stato della Chiesa ed in Toscana e diligentemente annotati dal Lancerio per il favore riscosso da parte del Pontefice.

In tal modo il fedele bottigliere poteva facilmente disporre nelle cantine pontificie di tali vini, assai graditi al Papa e confortati spesso dai suoi lusinghieri giudizi. Insomma il Lancerio organizzava la cantina vaticana soprattutto secondo i gusti di Paolo III Farnese. Ora della seconda Operetta noi citeremo solo i vini chiarelli (chiamati anche chiaretti, oppure ciliegiuoli), partendo proprio dal famoso Chiarello che perveniva – informa il Lancerio – alle cantine pontificie “da una Terra denominata Chiarella, nella provincia di Calabria, distante dal mare 3 miglia”, ma soggetto a sofisticazioni “fin dal suo arrivo alla Ripa (sul Tevere), dove molti hosti lo vendono per Chiarello”.[7]

Movendo dalle citazioni del Lancerio, incontriamo il Vino di Pavola, giudicato“molto buono e viene da una Villa nella prov. di Calabria…La sorta di tale vino…non è né bianco né rosso, ma ciliegiuolo” [p. 69]; il vino del Ciragio viene invece “dauna Villa così nominata della Provincia di Calabria…molto scarico di colore. Raro ne viene a Roma, perché Don Pedro di Toledo, già Viceré di Napoli, se li faceva condurre nelle sue cantine” [p. 71]; i vini di Salerno, “sono per la maggior parte rossi ed alcuni non del tutto bianchi, ma sono ciregiuoli” [p. 81]; “buon nome avevano i ciregiuoli di Santo Severino, i vini francesi provenienti dalla Provenza e soprattutto i vini claretti di Avignone…che sono molto buoni per i Francesi, sicché in Roma non sono ritenuti  vini da Signori” [p. 83].

Un particolare “Chiarello”: la lagrima di Somma Campania e la sua diffusione in Abruzzo.

Interessante è la dissertazione del Lancerio in merito alla Lagrima di Somma [p. 85 sgg.], che derivava con ogni probabilità dal vitigno Fistignano coltivato nella Montagna di Somma Campania e che assume anche con il nome di lagrima per il particolare modusdi vinificare le sue uve, dalle quali si ricavava un pregiato ciliegiuolo.

Il divin Bottigliere di papa Paolo III esordisce dicendo che pur coltivandosi la lagrima a Somma, alle falde del Vesuvio, “per tutte le parti del mondo dove si fa vino, si può fare”, sottolineando così l’adattabilità ad ogni terreno di questo vitigno, dal quale si otteneva uno squisito Chiaretto.

Sottolinea il Lancerio che di lagrima “ne viene a Roma poco, perché i Viceré lo vogliono per loro… nella vinificazione non sia del tutto bianco, … et del colore si faccia sempre prova”.

A tal riguardo – continua il Lancerio – molti hosti lo falsificano con vino bianco et rosso mistiati, et a Roma lo vendono per lagrima.” [p. 87]:

“Si domanda lagrima perché alla vendemmia colgono l’uva rossa et la mettono nel Palmeto, ovvero ‘alla Romana’ vasca […] Et quando è piena cavano, innanzi che l’uva sia ben pigiata, il vino che può uscirne, et lo imbottano. Et questo domandano lagrima perché nel vendemmiare, quando l’uva è ben matura, sempre geme. Ne viene a Roma poco, perché i Viceré lo vogliono per loro, ma il meglio è quello della Montagna di Somma. A volere conoscere la sua bontà, non sia del tutto bianco, sia odorifero, mordente, polputo et del colore si faccia sempre prova. Tuttavia molti hosti lo falsificano con vino bianco et rosso mistiati, et a Roma lo vendono per lagrima.”

Sistemata l’uva nella “vasca”, sottolinea il Lancerio, si raccoglieva dunque tutto il mosto che si poteva ottenere “per naturale pressione”, ma non doveva risultare, avverte il Lancerio, “del tutto bianco”, bensì rosato,forse grazie alla macerazione di una piccola quantità di chicchi d’uva, aggiunta nella botte dove il mosto della lagrima doveva entrare “in ebullitionem”.

Particolare attenzione merita il passo del Lancerio in precedenza riportato, “innanzi che l’uva sia ben pigiata” in cui si sottolinea che la lagrima si ottiene “innanzi che l’uva sia ben pigiata”. Evidentemente l’uva che aveva cessato di lagrimare veniva sottoposta poi a normale pigiatura per ricavarne a parte un vino rosso (rubino) che doveva risultare di grande bontà.

Si comprende così quanto scrive Bernardo Valera nel suo ditirambo Le Quattro Stagioni a proposito

della lagrima di Tollo: “Questa località non molto lontana dal mare Adriatico è celebre pel suo vino rosso volgarmente detto lacrima[8]

Il Valera non dice dunque che si trattava di un ciliegiolo ma di un vino rosso, detto anche rubino, con riferimento forse all’antico nome del vitigno fistignano, chiamato anche lagrima, perché parte delle sue uve veniva lasciata a stillare “naturalmente”. Secondo quanto scrive Fra’ Bernardo Valera, verso la metà del ‘500 la lagrima designava “volgarmente” sia il vitigno che il vino. [Poesie edite ed inedite, Tomo II, Teramo 1835, dove si celebra “il di Tollo vivace Rubino”]

Chiarelli e Cerasuoli in Abruzzo.

Per quanto concerne l’Abruzzo abbiamo alla fine del ‘500 vaghe notizie solo sui chiarelli della Marsica e si devono ad Andrea Bacci, medico personale di Papa Sisto V ed Autore della monumentale Opera, scritta in latino, composta da 7 volumi dal titolo De naturali vinorum Historia ecc., apparsa a Roma nel 1596. In essa è citata per la prima volta in Abruzzo il trebbiano, originario della Toscana e diffuso dai Colonna nei loro possedimenti marsi.

 Nel V libro e precisamente nel paragrafo dal titolo De locis ac vinis circa Fucinum Lacus, il Bacci scrive che “L’agro di Trasacco…ricco di cereali e di biade, è reso esuberante dalle vigne da cui si ottengono ottimi Chiaretti (clarellis)” [9], senza citare i rispettivi vitigni. Il color “ciliegiuolo” di tali uve era dovuto forse alla loro scarsa maturazione che perdurava fino al tempo della vendemmia, malgrado l’azione benefica esercitata in tal senso dalle acque del lago di Fucino.

Comunque per l’area marsa il Bacci non parla di “lagrima” e per quanto concerne l’Abruzzo si ha notizia di essa per la prima volta nella Conca peligna, nel citato atto del notaio Vincenzo Giannitti di Pettorano sul Gizio, rogato nel 1606 [Archivio di Stato, Sulmona, Atti del Notaio V. Giannitti, 21 gennaio 1606].

A questo vitigno, in origine chiamato fistignano, fu dato in seguito con ogni probabilità anche il nome di lagrima per un particolare processo di vinificazione cui erano destinate le sue uve (o parti di esse), così sintetizzato dal Corongiu che al riguardo scrive:

“I chicchi più perfetti, raccolti in un tino, non venivano spremuti ma lasciati a stillare naturalmente come lagrime” [A. Corongiu, Il vino fra sacro e profano, MIBAC Milano 1999].

Donde appunto il nome di “Lagrima” dato al vino ed al vitigno, non più chiamato fistignano, originario come si è detto della Montagna di Somma (Campania).

Nell’agro peligno dunque la diffusione di questo vitigno va ascritta ad un periodo decisamente anteriore alla lagrima di Tollo, dalla quale si ricavava come scrive fra’ B. Valera anche un “rosso rubino” parte del quale veniva vinificato evidentemente con la tecnica della lagrima, che permetteva di ottenere uno squisito Cerasuolo, come abbiamo sottolineato in alcuni nostri lavori[10].

Si comprende così l’ammonimento del Lancerio a proposito della Lagrima: “Del colore si faccia sempre prova” fino ad ottenere il rosa desiderato, che presenta come vedremo in seguito diverse gradazioni. Tuttavia, commenta il Lancerio a proposito della Lagrima di Somma, molti “la falsificano con vino bianco e rosso mistiati et a Roma lo vendono per Lagrima”.

Esisteva dunque nel mercato vinicolo anche una “Lagrima” ottenuta per uvaggio, il che conferma come fosse forte la domanda di tale vino.

Il Monelli, in base ad ulteriori fonti storiche riguardanti Paolo III Farnese, scrive a proposito dei Chiarelli che questo papa “ricercava anche il vino aglianico, specie quello di poco colore, definito bevanda delli vecchi” e pertanto dal principio di marzo fino a tutto l’autunno il papa beveva di preferenza il Chiarello di Calabria, assai ricercato per il suo profumo di ciliegia [P. Monelli, Il vero bevitore, Longanesi Milano 1971].

Con la diffusione del Montepulciano, segnalato per la prima volta in Abruzzo dal Torcia e precisamente nella Conca peligna (1792), i chiarelli, chiaretti o cerasuoli si ricavarono con ogni probabilità solo dal Montepulciano, che presenta – come scrive il Giuliani – “particolari caratteri organolettici” che lo rendono ideale per questo tipo di vinificazione.    

 Il “Montepulciano” nell’analisi di Sante Lancerio.

Per l’importanza che riveste in Abruzzo ed in particolar modo nella Conca peligna, merita una pagina a parte il Montepulciano, perché il Cerasuolo, a ben osservare, è da considerarsi la seconda  (o la prima ?) anima del vitigno “portabandiera” della nostra Regione.

Il Lancerio riserva a questo tema un capitolo a parte dal titolo Il vino di Montepulciano (cioè della località Montepulciano, in provincia di Siena), ricavato da uno dei diversi vitigni che nel territorio poliziano prosperava ad una altitudine compresa all’incirca fra i 400 ed i 500 metri e dunque non molto diversa da quella dei terreni vignati della Conca peligna.

Siamo in grado così – giova ripeterlo – di comprendere l’esatto significato dell’ultimo e famoso verso del ditirambo Bacco in Toscana di Francesco Redi: “Montepulciano d’ogni vino è re”, ove Montepulciano viene citato non come nome di un vino, ma come località, come topos, poiché -precisa il Giuliani – di vino Montepulciano in Toscana si parla solo a partire dagli Anni Settanta del secolo scorso, in quanto in precedenza era “pressoché sconosciuto in Toscana” [G. Giuliani, op. cit.]

Scrive, come si è visto, il Lancerio:

“Il vino di Montepulciano è perfettissimo tanto il verno quanto la state, et meglio è il rosso la state, io ne sono certo. Tali vini hanno odore, colore et sapore et volentieri Sua Santità ne beveva …Volendo conoscere questo vino, vuole essere odorifero, polputo, non agrestino, né carico di colore. Volendolo per la state alli caldi grandi, sia crudo et di vigna vecchia. Di questa sorte Sua Santità beveva volentieri et faceva honore … sicché è vino da Signori” [S. Lancerio, Della natura dei vini e dei viaggi di Papa Paolo III ecc., op. cit. pagg. 89- 90].

I vini di Montepulciano dovevano risultare dunque per i gusti del papa “non carichi di colore” – e come raccomanda anche per l’Aglianico -“di poco colore et pastoso … cioè ciregiuolo”.

Possiamo immaginare cosa direbbe oggi il divin bottigliere di papa Paolo III in merito all’attuale Montepulciano, “nero come la pece”, specie dopo il suo soggiorno in barrique.

In tal modo dunque il Lancerio, bottigliere di papa Paolo III, rivela la preferenza per i cerasuoli, perché osservando questi vini in candide coppe e controluce, come dice Dante, vedi ‘l calor del sol che si fa vino.

Vicende sulla “Lagrima” in Abruzzo.

Come si è detto in precedenza, la fondamentale Relazione dell’agronomo sulmonese Giuseppe Sebastiani del 30 marzo 1876, di estrema importanza, contiene in allegato l’elenco delle uve da vino coltivate in agro peligno, che inizia con la descrizione delle caratteristiche ampelografiche del montepulciano primaticcio (o gaglioppo) e Montepulciano cordisco (quest’ultimo già definito da Panfilo Serafini nel 1853 “il vero e proprio Montepulciano”).

Tuttavia nell’elenco del Sebastiani non si rinviene più la lagrima, citata per la prima volta in Abruzzo in territorio peligno, in un Atto del notaio di Pettorano sul Gizio, Vincenzo Giannitti, stilato in data 21 gennaio 1606, ed in seguito da Michele Torcia nel suo citato Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’ Peligni [1792], stessa opera in cui fa la sua apparizione per la prima volta in Abruzzo anche il Montepulciano.

Il Lancerio come si è visto sostiene che la lagrima “per tutte le parti del mondo in cui si fa vino, si può fare”. Sicché in tale occasione il bottigliere di papa Paolo III ci sorprende, perché non tiene conto della lezione magistrale di Plinio contenuta nel XXIV Libro della Storia Naturale, in cui il grande storico romano invece ammonisce che “un medesimo vitigno, piantato in terreni diversi, dà vino diverso”. Ma riassumiamo meglio la tecnica usata per ottenere la lagrima, nome che già nel XVII secolo indicava (come per il Montepulciano) sia il vino che il vitigno.

La parte superiore dell’uva contenuta nel “Palmeto”, cioè nella vasca riservata normalmente alla “pigiatura con i piedi” fin dall’antichità, esercitava dunque, attraverso il suo peso, una pressione naturale su quella inferiore e causava una lenta fuoriuscita dai chicchi del “succo d’uva”, che veniva raccolto in un tino posto più in basso rispetto al Palmeto, sicché a causa del gocciolio sembrava – dice il Lancerio – che l’uva gemesse e lacrimasse, donde il nome di “lagrima” attribuito al poco ma pregiato vino che se ne ricavava.

Finito di lacrimare, l’uva veniva poi pigiata, forse prima con i piedi e dopo con torchi a vite, per ricavarne un tipo diverso di vino, meno pregiato ma comunque – come è da ritenersi – di grande bontà.

Come sottolinea il bottigliere di papa Paolo III, la “lagrima non doveva essere del tutto bianca, ma di color ciregiuolo”, cioè cerasuolo.

Ma come si ottenevano nella vinificazione queste “sfumature” diverse del color rosa?

Forse sistemando alla base del tino che raccoglieva le lagrime una quantità variabile di chicchi d’uva a seconda del color rosato che si intendeva ottenere.

Il Lancerio lamentava comunque che “molti falsificano la lagrima con vino bianco et rosso mistiati, et a Roma lo vendono per lagrima, ma spesso si fa giallo”.

Per quanto concerne il territorio abruzzese va osservato che la lagrima non è compresa fra i vitigni citati in area frentana negli Statuti di Lanciano del 1592 e precisamente nel Cap. 87, che menziona per tale area solo il moscatello, pergolo, uva pane, precoccio, uva donnola et malvasia” [L. Cerulli, Gli Statuti antichi della Città di Lanciano, Lanciano 2001].

V’è però un singolare personaggio, fra’ Bernardo Valera, il quale come abbiamo precedentemente accennato ci parla nel 1743 della lagrima coltivata nell’agro di Tollo.

Il Valera era nato nel 1705 a Giuliano Teatino ed era stato inviato dai suoi Superiori di Lanciano al Convento dei Minori di Siena per i necessari “perfezionamenti” spirituali. Qui il Valera compone alcuni ditirambi nei quali esalta i vini abruzzesi e cita i bianchi di Prezza ed i vini di Tollo, “piccola Terra nell’Apruzzo Citeriore… celebre pel suo vino rosso, volgarmente detto lagrima” [cfr. F. Cercone, La lagrima …ecc, op. cit.].                                   

Non si trattava dunque, scrive il Valera, di un chiaretto o di un cerasuolo ma di un “rosso rubino”, da ritenersi (contrariamente a quanto scrive il Redi nel suo ditirambo Bacco in Toscana)superiore ai vini rossi di Montepulciano.

A causa della sua bontà non erano pochi gli studiosi che sollecitavano una maggior coltivazione del vitigno lagrima nel nostro territorio. Il barone teatino Giuseppe Durini, noto enologo, sottolinea per esempio nel suo citato Saggio apparso nel periodico Annali Civili del Regno delle Due Sicilie (1820) che in Abruzzo “certamente tornerebbe utilissimo il moltiplicare la lagrima, l’aleatico e il montepulciano”.

 La lagrima osservata nel 1792 da Michele Torcia nell’agro peligno derivava sicuramente dalla stessa lagrima citatanel 1606 nel rogito del notaio di Pettorano V. Giannitti, di cui si è parlato in precedenza, e certamente era diffusa per contiguità in tutta la Conca Peligna.

Lo storico napoletano Giuseppe Del Re conferma comunque nel 1835 che negli Abruzzi “di luogo in luogo si sono piantate moltissime uve negre e specialmente il montepulciano e la lagrima”.[11]

Tuttavia circa venti anni dopo lo storico sulmonese Panfilo Serafini conferma nella sua Monografia storica di Sulmona [1853] solo la presenza del montepulciano e non più quella della lagrima, scomparsa misteriosamente dal panorama ampelografico della Conca Peligna, dove non vi ha fatto più ritorno.

La lagrima è tuttavia sopravvissuta in area marrucina-frentana, come risulta dalla citata Operetta dell’enologo teatino Raffaele Sersante, dal titolo Trattato teorico-pratico dell’arte della vinificazione [Chieti 1856], dove era assai utilizzata per gli “uvaggi” e quindi anche per i cerasuoli. In concomitanza con l’Unità d’Italia la lagrima scompare tuttavia ovunque in Abruzzo, e non viene più citata, avendo concluso il suo ciclo produttivo a causa probabilmente del devastante oidio.

Essa è coltivata oggi in agro di Jesi e costituisce insieme al Verdicchio la fortuna di questo territorio. Malgrado le ricerche condotte in loco, non è risultato chiaro come e quando questo vitigno sia approdato in area marchigiana. C’è solo da augurarsi che esso possa tornare a prosperare ancora, come nei secoli passati, in agro peligno e ne diventi il vessillo, visto che questo riconoscimento, per scarsa lungimiranza, non è stato perseguito dai Concittadini del poeta Ovidio.  

Woldemar Kaden ed il primato del Cerasuolo nella Conca Peligna.

Abbiamo constatato in precedenza l’importanza dei “resoconti” dei Viaggiatori Europei nella Conca Peligna, e soprattutto a Sulmona e Corfinio, i quali contengono talvolta notizie preziose per le vicende ampelografiche del suo territorio. A tal riguardo vogliamo ricordare il nostro Saggio dal titolo Sulmona negli scritti dei Viaggiatori tedeschi del XVIII e XIX secolo, pubblicato a Sulmona nel 1985 a cura del Centro Studi Panfilo Serafini, perché esso risulta prezioso per quanto concerne l’indagine da noi condotta sul Cerasuolo.

Fra questi Viaggiatori riveste grande importanza lo scrittore tedesco Woldemar Kaden, il quale nella sua opera Wandertage in Italien (Passeggiate in Italia) fa una poetica descrizione della Conca Peligna e di Sulmona, dove sosta provenendo dal Piano delle Cinquemiglia in un caldo pomeriggio di agosto del 1873, insieme al suo compagno di viaggio e giornalista Carl Stieler.

Dopo aver trovato alloggio per la notte nella Locanda “di un certo Signor Bonitatibus”, i due gironzolano per Sulmona attratti dai solenni monumenti artistici della Città d’Ovidio e sostano, come sembra arguirsi dal racconto, a “Piazza Grande”, che assumerà a partire dal 1882 la denominazione di Piazza Garibaldi [12].

Dopo un po’ di tempo una giovane inserviente del Sig. Bonitatibus raggiunge i due turisti e li avvisa che la cena è pronta. Il Kaden resta affascinato dai prodotti della terra che spiccano sulla candida tovaglia posta sul tavolo apparecchiato, fra cui “grappoli d’uva purpurei e pesche coperte di lanugine. Ma su tutta la scena – sottolinea il dotto Viaggiatore tedesco – troneggiava un imponentefiasco di vino color rosa (rosafarbig Wein)”, fatto fuori dal Kaden e dallo Stieler nel giro di poco tempo.

Come si è detto l’opera Wandertage in Italien fu pubblicata a Stoccarda nel 1874 e si può supporre pertanto che il viaggio del Kaden, in assenza di altre informazioni al riguardo, risalga a qualche anno prima (1872 o forse 1873). L’aspetto più interessante è rappresentato tuttavia -come vedremo in seguito- dalla circostanza che nella Relazione Ampelografica dell’agronomo sulmonese Giuseppe Sebastiani, del 30 marzo 1876, e di cui si parlerà in seguito, non si accenna minimamente al Cerasuolo, al Rosato o al Ciliegiolo, ottenuti con un modus vinificandi che invece era assai diffuso – come dimostra l’episodio del Kaden- nel mondo rurale peligno e nella produzione vinicola della Conca. 

Come si è detto l’opera Wandertage in Italien fu pubblicata a Stoccarda nel 1874 e si può supporre

pertanto che il viaggio del Kaden, in assenza di ogni informazione al riguardo, risalga a qualche anno prima (1872 o forse 1873). L’aspetto più interessante è rappresentato tuttavia, come vedremo, dalla circostanza che nella Relazione Ampelografica dell’agronomo sulmonese Giuseppe Sebastiani del 30 marzo 1876 e di cui si parlerà in seguito, non si accenna minimamente al Cerasuolo, al Rosato o al Ciliegiolo, ottenuti con un modus vinifcandi che invece era assai diffuso – come dimostra l’episodio del Kaden – nel mondo rurale peligno e nel commercio vinicolo della Conca.

Allo stato attuale delle nostre conoscenze, il passo del Kaden rappresenta pertanto la prima notizia che possediamo sul Cerasuolo d’Abruzzo, o – se si preferisce – sul “vino color rosa”come erachiamato dai contadini nella Conca peligna. Questo episodio viene ad incrementare paradossalmente la summa delle occasioni storiche perse da Sulmona e dal mondo rurale peligno nel campo della viticoltura, dato che il medesimo e triste primato va riconosciuto anche per il Montepulciano, citato lo stesso per la prima volta in Abruzzo nella Conca Peligna, come testimonia appunto Michele Torcia nel suo ormai noto Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’ Peligni fatto nel 1792. Anche in tal caso nessuno ha saputo utilizzare commercialmente nel nostro territorio tale importante primato e pertanto, “non ci resta che piangere” per la grande occasione che si è persa. 

Cenni sulla tecnica di vinificazione del Cerasuolo.

Riportiamo qui di seguito due brevi descrizioni sul modo di ottenere il Cerasuolo dalle uve Montepulciano, le quali appaiono indispensabili ai lettori che, come noi, non sono enologi o “vignaiuoli” di professione. Queste due descrizioni hanno il pregio di risalire quasi a mezzo secolo di distanza l’una dall’altra e dunque ci offrono una idea sul piano diacronico di come la vinificazione si sia evoluta in questo non breve arco di tempo e faccia ormai parte della nostra storia ampelografica ed enologica, dominata oggi ahimè da leggi fisiche e chimiche!

D’altro canto già Plinio lamentava nella sua Naturalis Historia [XIV, 25] che ai suoi tempi, nel corso della vinificazione, i viticoltori “aggiungono al vino delle sostanze coloranti, come una sorta di belletto ed in tal modo diventava più denso grazie a numerose sofisticazioni, sicché il vino è costretto di conseguenza a piacere!”  Passando a tempi più recenti, va ricordato il biasimo del famoso conte Odart, il quale “non voleva che mani temerarie toccassero, in nome della chimica, sostanze di prim’ordine, come il vino, tanto bene preparato dalla sapienza del Creatore”.[13]

Ma veniamo al nostro cerasuolo einiziamo con quanto scriveva il Giuliani nel 1975:

Nel Montepulciano d’Abruzzo rosso, comunemente chiamato fermentato, la fermentazione più o meno prolungata si svolge sempre a contatto delle bucce, o dei raspi e delle bucce. Nel vino della varietà cerasuolo è invece prevista la vinificazione in bianco: le uve restano a contatto delle bucce solo poche ore, in presenza di dosi ridotte di anidride solforosa, e vengono subito svinate. La vinificazione in bianco tuttavia può essere anche condottafacendo fermentare il mosto completamente in assenza di vinacce, con l’aggiunta se mai, di mosto proveniente dalle vinacce vergini torchiate… Per il tipo cerasuolo il colore deve essere rosso ciliegiuolo, anche tenue, e le ceneri possono avere un limite di grammi 1,3 per mille …”.

Conclude infine il Giuliani, sulla base della nota relazione di L. Laporta del 1962, che “il Montepulciano rosso, ed il Montepulciano cerasuolo pur rivelandosi entrambi vini generosi e di alta gradazione, sono sostanzialmente differenti”[14]. Più particolareggiata risulta un’altra Relazione coeva, a cura di Giovanni Garoglio, sulle caratteristiche organolettiche del Cerasuolo, il quale secondo tale Autore:

“ha un colore rosso ciliegiuolo, molto chiaro, quasi rosato, brillante, tenue, sapore rotondo, gradevolissimo, asciutto, talora leggermente amabile, morbido…, delicatamente profumato… leggermente aromatico, talora mandorlato come il cerasuolo della Valle Peligna, talvolta ricordante quello delle viole” [Enciclopedia vitivinicola mondiale, Vol. I, Milano 1973].

Lasciamo ai ‘tecnici’ del settore i giudizi su tali brani e riportiamo invece una diversa e più efficace descrizione del cerasuolo fatta di recente da un noto enologo abruzzese:

“Dalle stesse uve che compongono il Montepulcianod’Abruzzo, ma utilizzando una diversa tecnica di vinificazione che limita il periodo di fermentazione in presenza delle bucce a poche ore, ovvero mediante vinificazione “in bianco”, si ottiene un vino con un caratteristico colore rosso ciliegia, più o meno carico, denominato Cerasuolo. Il Cerasuolo ha un odore gradevole, delicatamente vinoso, fruttato, fine ed intenso; il sapore è secco, morbido, armonico, delicato con retrogusto mandorlato…” [G. Cavaliere, L’Abruzzo del vino. Storia e caratteristica di un territorio, a c. dell’AIS, Bibenda, Roma 2003].

Nel saggio Il piacere del vino. Manuale per imparare a bere meglio[15], si passano in rassegna “le tonalità dei vini rosati”, le quali “percorrono l’infinita gamma di sfumature tra l’aranciato e il rosso chiaro, ed è difficile quindi codificarle. Valgano come orientamento questi termini: rosa pallido, rosa fior di pesco, rosa cerasuolo, chiaretto, buccia di cipolla. Il rosa pallido, è tenue, il rosa fior di pesco è quello dei petali dell’omonimo fiore; il rosa cerasuolo richiama certe ciliegie primaticce; il chiaretto si avvicina al colore dei vini rossi; il (colore) buccia di cipolla è carico di riflessi aranciati”.

Merita un cenno il modo di ottenere tradizionalmente nel mondo rurale peligno il cerasuolo, che viene chiamato in gergo “il vino di casa”. La colorazione infatti, secondo alcuni contadini intervistati, si ottiene con la vinificazione in bianco del mosto nel quale si lascia macerareuna determinataquantità di chicchi d’uva. Il primo travaso si effettua alla fine di dicembre, il secondo alla fine di febbraio. L’imbottigliamento, solitamente con tappi a corona, avviene di norma nella prima metà di marzo, quando il vino “ancora dorme”. Con i primi caldi “il vino si sveglia” e fa una leggera fermentazione in bottiglia, perdendo il senso di abboccato e – sottolineano i viticoltori intervistati – aumentando alquanto la gradazione, il che conferisce un gradevole senso di freschezza ed una piacevole effervescenza, che può essere paragonata al classico perlage.

Probabile influenza dei mandorli coltivati nei terreni vignati della Conca Peligna.

Sono tanti gli Autori che insistono fin dalla seconda metà del secolo scorso sul gusto mandorlato del Cerasuolo peligno, che per tal motivo si contraddistingue meglio dai Cerasuoli dell’entroterra adriatico. Già il Nardi, illuminista teramano del Circolo di Melchiorre Delfico, metteva in rilievo la circostanza che “i mandorli son alberi salutevoli e amano terre brecciose”, come sono appunto quelle della Conca peligna ed in verità anche della Valle del Tirino.

È quanto evidenzia l’agronomo svizzero De Salis von Marschlins, il quale, sempre nel 1789, soggiornando a Sulmona, resta attratto dalla visione offerta “dai boschetti di alberi di mandorli che si alternavano nella Conca ai vigneti”.[16]

Non meno affascinante risulta la descrizione fatta al riguardo dallo storico tedesco G. Vom Rath, il quale nel marzo del 1887, viaggiando in treno da Sulmona a L’Aquila, ha modo di osservare dalla stazione di Raiano “milioni di mandorli sbocciati, che conferivano al paesaggio un particolare ornamento ed essi a tratti erano così folti da celare con un velo di fiori i luoghi pietrosi in cui crescevano”. [17]

La grande diffusione della coltivazione del mandorlo nella Conca Peligna va messa in relazione con il notevole sviluppo dell’industria dei confetti di Sulmona, a partire soprattutto dal XVII secolo. Tuttavia è sul probabile rapporto fra mandorli e terreno vignato che va riposta la nostra attenzione, come già evidenziato da Plinio nel Capitolo XIV della sua Naturalis Historia, dove appunto il grande storico sottolineache “meravigliosa è la natura delle piante di tirare a sé il sapore del terreno ove sorgono”, siano esse viti che altre piante. 

Sicché nei terreni in cui esistevano mandorli, in seguito recisi perché ormai vecchi, sembra che le radici di questa pianta – sostengono i vecchi contadini intervistati – continuino a nutrire il terreno circostante, che una volta vignato, entra in simbiosi con le radici dei mandorli, ricreando un rapporto di amorosi sensi che agronomi moderni ed enologi, sommersi da una marea di formule chimiche, sembra abbiano dimenticato.

Solo in tal senso si spiega a nostro avviso quel “retrogusto mandorlato”, proprietà che sembra possedere maggiormente il cerasuolo peligno, non disgiunto dal profumo di mandorle, che lo contraddistingue rispetto agli altri cerasuoli abruzzesi. Ci sia concessa pertanto una riflessone: le grandi opere degli storici del passato, attenti osservatori di quella natura che noi stiamo distruggendo, andrebbero lette di nuovo, e con grande attenzione, se non altro perché ci aiutano talvolta a dubitare delle certezze che regnano ovunque nel campo scientifico e quindi anche nell’ambito dell’enologia.

Aspetti storico-etnografici del vino nella Conca Peligna.

A partire dalla fine del ‘700 emerge in territorio peligno una dicotomia fra quantità e qualità della produzione vinicola, che a ben osservare non è del tutto scomparsa nei nostri giorni in Abruzzo.

Il fenomeno si presenta già descritto dal citato agronomo svizzero C. Ulisse De Salis von Marschlins, il quale nel settembre del 1789 – anno fatidico della Rivoluzione Francese – dopo aver visitato il Lago di Fucino sosta per alcuni giorni nel Capoluogo peligno ed annota che “nei dintorni di Sulmona, pur essendo quasi tutta pianura, si produce molto vino…che qui ha pochissimo valore;   pur tuttavia si piantano giornalmente nuovi vigneti “ [op. cit. p. 259]

Per una curiosa coincidenza nello stesso anno 1789 Gianfrancesco Nardi, rappresentante di spicco del Circolo Illuminista di Melchiorre Delfico a Teramo, lamentava lo stesso problema nell’Abruzzo Ulteriore I, cioè nel Teramano, al punto di consigliare il ricorso ad esperti vignaioli toscani anche per quanto concerneva la tecnica di vinificazione, in cui erano impiegate tante qualità di uve “di cui non si conoscevano nemmeno il nome”. [18]

Dalla lettera trasmessa da A. De Nino allo storico russo Zwetaieff, apprendiamo ulteriori notizie al riguardo [G. Papponetti, Carteggio De Nino- Zwetaieff, Sulmona 2006].  Scrive il De Nino:

“Ora anche nei terreni irrigui si vengono mettendo vigne, sicché tutta la Valle (peligna) pare un solo vigneto… Ogni proprietario ha la sua cantina con grosse botti che contengono generalmente da 40 a 50, a 100 e 200 ettolitri. A Sulmona la botte detta di Granata contiene 490 ettolitri ed è la più grossa degli Abruzzi”

seguita subito dopo da una botte di 365 ettolitri che tuttora troneggia come un Santo nella sua nicchia nella cantina della nota azienda vinicola Pietrantoni di Vittorito.

Il De Nino, nella comunicazione inviata allo storico russo Zwetaieff, che ne aveva fatto in tal senso richiesta, precisa tuttavia la funzione principale cui era preposta la grande produzione vinicola nella Conca Peligna: “Il vino – sottolinea lo storico di Pratola Peligna – va all’estero per mezzo delle Case Enologiche dell’Alta Italia e da qualche anno in qua, più che il vino si trasporta l’uva in casse formate da asticelle”. 

Tale particolarità è confermata dal Franchetti, che fissa nel quinquennio precedente questo fenomeno commerciale: “L’uva nell’autunno scorso,1874, era trasportata nell’Alta Italia dove se ne faceva vino; e sulla Popoli-Pescara, aperta da poco, il trasporto necessitava fino a sei o sette treni speciali al giorno”. [19]

Restavano sempre tuttavia delle quantità di vino invendute, a prezzo decisamente conveniente, che diventavano preda dei paesi montani della Conca Peligna, specie di Scanno, ed “imbottate di nuovo – scrive il Franchetti – non solo si bevono ma dilettano e piacciono ancora”.

La quantità di vino che restava nelle cantine di casa costituiva comunque una ricchezza per la famiglia contadina. Entriamo così nell’ambito di un aspetto sociale del vino, di grande importanza e pressoché sconosciuto al mondo etnografico, cui va comunque ascritta anche la viticoltura.

Ancora nell’ultimo ventennio dell’800 la maggior parte dei nostri paesi non possedeva una rete idrica. Esistevano infatti per tutto il centro abitato due o forse tre fontane pubbliche fornite di abbeveratoio per asini e muli, dove le donne si recavano soprattutto di sera ad attingere acqua da bere, trasportata a casa con le caratteristiche conche di rame. Sicché, come accennato in precedenza, l’unica sostanza liquida a disposizione dei ceti rurali (e non solo nella Conca peligna), era proprio il vino, con cui si spegnevano i frequenti incendi causati dal camino acceso, unica fonte di riscaldamento per la famiglia rurale, oppure si lavavano neonati e bambini per assenza di acqua corrente.

L’impiego necessario del vino si riveste così nella visione popolare di una sovrastruttura culturale; lavare i bambini con il vino significava immunizzarli da ogni malattia; inoltre un tuorlo d’uovo in mezzo ad un bicchiere di vino, costituiva nella visione delle madri di famiglia, la miglior colazione per i bambini prima di recarsi a scuola, dove arrivavano talvolta secondo alcune anziane maestre intervistate, in uno stato di evidente sonnolenza.

In una brochure edita in occasione della Quarta Sagra del vino aVittorito, 7-8 agosto 1998, viene sottolineato che il rimedio offerto dal vino per la cura di forti raffreddori ed altri sintomi influenzali costituiva, secondo il parere di alcuni vecchi contadini, un vero e proprio toccasana.

Anche sotto il profilo alimentare si riteneva un tempo a Vittorito ed in altri centri limitrofi che i bambini nutriti con il vino “venivano più robusti”, come vuole un antico proverbio del luogo che riportiamo in lingua per una sua miglior comprensione:

  “Pane con l’olio e zuppa di vino, fanno crescere di più il bambino”.

La pulizia dei bambini con il vino, l’unico liquido a disposizione delle madri in famiglia, avveniva, secondo la brochure pubblicata a Vittorito, nel modo seguente: “Si mettevano tre bicchieri di vino in una pentolina di terracotta, si bagnava una pezzolina di canapa e con questa si lavava il bambino”[20].

Ricordiamo che anche in altri paesi peligni era assai diffuso il detto “chi tiene la vigna, tiene la tigna”, con riferimento ai faticosi lavori che reclama il vigneto. Ce ne offre un’idea un atto del notaio Aquili di Popoli, rogato il 15 marzo 1653, relativo all’affitto di un terreno vignato a Popoli, in cui si stabilisce:

“In primis che le vigne siano tenute da essi conduttori a farci tutto quello che abbisognerà, come potarle, zapparle, ripianarle, e recallarle…” [21], termini tuttora presenti nel linguaggio dei viticoltori dei nostri paesi. In particolare con “recallare” si intendeva ed ancor oggi s’intende in area peligna “una lieve zappatura del terreno attorno alle viti”.

La figura dello “zappatore”, che si reca al lavoro nella vigna con un fiasco di vino in mano, era poi un’immagine a stampa comune a Napoli ed assai richiesta fin dalla prima metà del XVIII secolo dai Viaggiatori Europei come souvenir. Il vino infatti era l’unica sostanza energetica a disposizione dei contadini, data la rarità del miele e l’alto costo dello zucchero nel regno di Napoli Di conseguenza per la preparazione dei dolci fatti in casa, come ricorda opportunamente la brochure citata, edita a Vittorito nel 1998, “si utilizzava il mosto cotto oppure il vino annoso”.

La revanche del Cerasuolo

Piacevole è stata negli ultimi decenni la riscoperta del Cerasuolo come vino da dessert, oppure da accompagnare a particolari vivande, per esempio il baccalà o lo stoccafisso, esaltati in alcune sagre abruzzesi come quella che si svolge a Sant’Omero nel Teramano. Tuttavia la stampa regionale si è soffermata a ragione sulla valorizzazione del Cerasuolo anche come aperitivo, specie se associato nel periodo estivo alla nostra saporitissima frutta, soprattutto alle pesche.

Al riguardo va ricordato un antico detto con valore paremiologico, cioè: “Il cocomero nasce nell’acqua e muore nel vino”. E se si tratta del cerasuolo, questo accostamento, dimenticato dalle nostre abitudini alimentari, diventa decisamente sublime.

Non sono poche comunque le riserve avanzate di recente persino dai produttori nei confronti del Cerasuolo o, se si preferisce, del “vino color rosa”, come lo chiama per la prima volta il Viaggiatore tedesco Woldemar Kaden.

Nella stessa brochure in precedenza citata e pubblicata a Vittorito nell’agosto del 1998, sono contenute alcune sorprendenti affermazioni. A pag. 23 si legge:

oggi, purtroppo la quasi totalità dell’uva ‘Montepulciano d’Abruzzo’ di Vittorito viene vinificata in Cerasuolo, appiattendosi su un livello qualitativo di certo inferiore a quello che potenzialmente compete a tale uva”.

Si dimentica così l’insegnamento di Sante Lancerio, che già alla metà del ‘500 aveva ammonito i vignaioli sulla fondamentale caratteristica del Cerasuolo (chiamato chiarello o ciliegiuolo), il quale per piacere “deve risultare di colore non acceso, né in tutto scarico, et così si havrà buona bevanda”.  E questa “bevanda”, certamente, non si è giovata di una appropriata divulgazione delle sue qualità organolettiche, specie in abbinamento con i cibi, anche se Plinio nella sua Storia Naturale sottolineava: “Per Ercole! Strano a dirsi, ma il prodotto più genuino è ormai quello meno conosciuto!” [Naturalis Historia, Cap. XXIII, 34.]

L’affermazionecontenuta nella brochure di Vittorito non è pertanto condivisibile, tanto più che nel quinquennio 1961- 1965 il Cerasuolo era il vino più conosciuto d’Abruzzo ed a diffondere tale notorietà, a parte i successi registrati al riguardo dall’Enologo Valentini di Loreto Aprutino, aveva contribuito anche l’Alitalia, la Compagnia Aerea Nazionale, che lo offrivaai passeggeri transoceanici riscuotendo un lusinghiero successo, specie quello prodotto da una Azienda a Bagnaturo ( Aq.) e destinato ad aperitivo o ad  accompagnare i pasti dei viaggiatori in bottigliette di circa un quarto di litro.   

Ma non è tutto. Noi siamo stati invitati nel novembre del 1998 a Montreal dall’Institut du Tourisme

et d’Hotellerie du Québec, dove il 16 novembre del suddetto anno abbiamo svolto nel Palais des Congrés una Relazione dal titolo La Gastronomie italienne: aspects historiques et prospectives futures. Ebbene fra il grande numero di ascoltatori presenti alla manifestazione vi erano molti ristoratori di origine abruzzese, i quali lamentavano (incredibile a dirsi!) le difficoltà incontrate all’epoca in Canada nella distribuzione del Cerasuolo d’Abruzzo, non disgiunte dalla mancanza di manifestazioni preposte alla valorizzazione ed alla conoscenza di questo eccezionale vino nel settore fondamentale del Food and Beverage.

Nella brochure citata, apparsa a Vittorito nel 1998, viene sottolineata tuttavia la necessità di “mantenere le rese per ceppo su livelli tradizionalmente contenuti”, al fine, aggiungiamo noi, di evitare, come avviene di tanto in tanto, che di celebri vini circolino nel mondo milioni di ettolitri, a fronte della scarsa quantità d’uva prodotta.

Questo problema si avverte oggi anche per il Montepulciano d’Abruzzo, perché in alcune annate sfugge il rapporto fra superfici vignate e produzione vinicola, malgrado l’aiuto che proviene in tal senso dalla stampa regionale. Ed i conti si fanno presto, sostengono i nostri contadini intervistati, perché da 1,30 quintali d’uva si ricava all’incirca un ettolitro di vino e pertanto il quotidiano regionale Il Centro, in data 26 ottobre 2010 [pag. X], ha così riassunto questa semplice operazione di natura matematica:

“In Abruzzo la superficie coltivata a vigneto (relativamente all’anno citato, n. d. r.) è di 33.685 ettari. La produzione totale di uva è di 4,6 milioni di quintali, il vino prodotto 3,3 milioni di ettolitri…Nel 2009, riguardo il solo Montepulciano, sono stati prodotti1.350.000 quintali di uva, trasformati in 950.000 ettolitri di vino, dei quali sono stati imbottigliati 747.000 ettolitri, pari a 100 milioni di bottiglie…”.

Ciascuno tragga al riguardo le proprie conclusioni. Scarse notizie si hanno dunque in merito ai 950.000 ettolitri di Montepulciano, di cui non viene indicata per l’anno 2010 (qui preso in considerazione come campione) la percentuale vinificata a Cerasuolo, un datoquesto che sarebbe interessante conoscere per seguirne l’andamento nel mercato, dato che fra vino e cibo v’è un rapporto di cui non sempre si coglie l’eco nella stampa regionale. La quale tuttavia, a partire all’incirca dall’ultimo decennio del secolo scorso, è stata scettica, ma a torto, sull’abbinamento del Cerasuolo con il pesce,proposto da coraggiosioperatori gastronomici regionali, a fronte di una tradizione consolidata che vuole per i prodotti ittici l’abbinamento con i vini bianchi, specialmente trebbiano, cococciola e pecorino.

A parte l’abbinamento consigliato con il pesce, l’AIS (Associazione Italiana Sommeliers) ha rivalutato il Cerasuolo anche come aperitivo, in sostituzione di analcolici contenenti probabilmente coloranti artificiali assai dannosi alla nostra salute.

Il Cerasuolo nel pensiero di Paolo Monelli.

Come si è visto in precedenza, il Lancerio non mancava mai di suggerire ai vignaioli: “dei chiaretti si faccia sempre prova”, fino ad ottenere il color rosa desiderato, ed altrettanto si raccomanda nel citato volume “Il piacere del vino”, pubblicato da Arcigola slow Food.

Nel 1971 apparve per i tipi della Longanesi un Saggio di Paolo Monelli dal titolo Il vero bevitore, da considerarsi uno dei lavori più preziosi della letteratura enologica italiana.

Dopo aver rivolto parole di biasimo per i “Sommeliers prezzolati”, per gli “osti ignoranti” e soprattutto “contro gli astemi”, il Monelli aggiunge che ha voglia di “dirne quattro anche a queiproduttori che si son messi afabbricare il vino rosa” ed a tal riguardo precisa:

“Intendiamoci: non quei rosati che si producono da un pezzo ed hanno una tradizione e nobile origine, come il rosa di Ravello, il vin rosa di Parendo, i Cerasuoli d’Abruzzo, i rosa della Valténesi (basse colline lungo la riva destra del Garda) … e un rosa vispo e petulante che bevvi molti anni fa all’Osteria del Sudicio a Savona…” [P. Monelli, op. cit. p.47 sgg.]

Inutile sottolineare l’importanza del riconoscimento attribuito, da parte di un grande giornalista ed enologo come il Monelli, al Montepulciano Cerasuolo d’Abruzzo ed al ruolo rivestito da questo grande vino abruzzese nell’ambito dei cosiddetti vini rosa italiani.

Il motivo che spinge il Monelli ad arroccarsi su una rigida posizione è che:

“da qualche tempo si sta progettando da parte di parecchi produttori di ‘scolorire in rosa’ tutti i vini rossi e neri, mescolando al loro mosto pallide vinacce… e questo perché si dice dai commercianti che i consumatori preferirebbero i vini color di rosa agli altri”.

A sostegno di quanto affermato, il Monelli cita “il dotto enologo Francesco De Blasiis, abruzzese, di Città Sant’Angelo, il quale nel suo Saggio dal titolo Istruzione teorico-pratica sul modo di fare il vino [Firenze 1869] sottolinea che “tutti i sensi domandano di essere appagati dalle estrinseche qualità del vino: il gusto, l’odorato e la vista” […] e nessun vino soddisfa meglio la vista come il Cerasuolo”.

Commenta tuttavia in tal senso il Monelli:

“Se sia vero che il gusto degli Italiani, come affermano giurie e tecnici, si orienta verso i vini rosa (ma io ne dubito; credo piuttosto ad un capriccio di produttori, ad una ricerca ad ogni costo di originalità, o all’invidia per certi vini rosa, legittimi, antichi e celebrati) opera savia sarebbe non assecondarne le matte, ma ricondurli sul retto cammino…”.

Insomma il Monelli non riesce ad immaginare, forse perché figlio del suo tempo, “chianti, barbera e sangiovese rosati”, sangue purissimo di tralci e di raggi solari e cosmici. Sicché nel ribadire la sua preferenza per i rossi, il Monelli fa suo il famoso pensiero espresso da Galilei nel corso di una lectio magistralis edannotato dal conte Lorenzo Magalotti, Segretario a Firenze dell’Accademia del Cimento, pensiero che recita:

                                        “Il vino è come il sangue della terra,

                                           sole catturato e trasformato da una struttura

                                          così artificiosa qual è il granello d’uva,

                                          mirabile laboratorio in cui operano ordigni

                                          e potenze congegnate da un clinico occulto e perfetto.

                                          Il vino è un composto di umore e di luce…”.                

Quello che ci preme sottolineare è dunque che circa mezzo secolo fa vi erano in Italia ampelografi ed enologi del calibro del Monelli, che riconoscevano nel Cerasuolo abruzzese, ricavato dal vitigno Montepulciano, una qualità di “vino di gran razza”, citato per la prima volta nella Conca Peligna  dallo storico tedesco Woldemar Kaden nella sua citata opera Wandertage in Italien, pubblicata a Stoccarda nel 1874, ma tale testimonianza si riferisce evidentemente all’anno precedente, 1872 oppure 1873.

La circostanza poi che molti Enologi e Sommeliers abbiano sottolineato nel cerasuolo della Conca Peligna un “retrogusto mandorlato”, più accentuato rispetto ai cerasuoli di altre aree abruzzesi, ha richiamato alla nostra memoria il nesso, forse non casuale, con il territorio sulmonese che negli ultimi decenni dell’800 era descritto dal Viaggiatore tedesco Von Rath come “uno splendido mandorleto”, fungendo da supporto all’industria dei confetti, tuttora vanto della Città d’Ovidio.

La Conca peligna può considerarsi non solo patria del Montepulciano e della sua seconda anima che è appunto il Cerasuolo, ma anche della lagrima, testimoniata come si è visto fin dal 1606 in un rogito notarile stilato nel territorio di Sulmona. E proprio in questa varietas giace la risposta più efficace che i viticoltori locali dovranno dare alla sfida enologica dell’immediato futuro.  

Appendice Bibliografica

 Le fonti storico-letterarie sulla presenza del Montepulciano e del Cerasuolo nella Conca Peligna.

  • Michele Torcia e la prima notizia sul Montepulciano.

Anche se “Archivista e Bibliotecario di Sua Maestà Ferdinando IV di Borbone”, Michele Torcia (1736-1808) resta – come sottolinea I. Di Iorio – un Figlio dell’Illuminismo che fa dei Viaggi la fonte più importante per l’acquisizione di informazioni storico-culturali non solo dei popoli europei (assai noti restano i suoi resoconti in Francia ed in Olanda) ma anche delle Province che costituivano quello straordinario mosaico che era appunto il regno di Napoli.

Nell’ultimo decennio del ‘700 il Torcia pubblica l’importante “Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’ Peligni fatto nel 1792” pubblicato a Napoli l’anno successivo. In esso troviamo citato in Agro peligno e per la prima volta in Abruzzo il vitigno montepulciano da cui si ricavava l’omonimo vino portabandiera della nostra Regione.               

La citazione del Torcia è contenuta a pag. 67 e la riportiamo fedelmente qui di seguito:

 “… Le uve muscatella, muscatellone, zibibbo, non grosso come l’arabo Zebib di Calabria e Sicilia di cui fansi i passi psithii (Virgil., georg., II, v. 93, e IV, v. 269; Plin. l. 14, c. 9, sert. II p. 323), ma piccolo; lacrima, Monte-pulciano, cornetta, pane (bumasta), del Vasto senza granelli, e la malvasia, ma non la veracebiondina, l’antica lageos cioè di color simile a quello di lepre, che col suo melato gusto in uva ed in vino, soprattutto in Lipari, annoda per ebrietà la lingua e rende tremule le ginocchia. (Virgil. georg., II, v. 93) …: tenuisque lageos Tentatura pedes olim vincturaque linguam …”.

  • Atto del notaio Vincenzo Stecchini di Sulmona: Anno 1819, 15 Novembre

Contratto d’affitto di un terreno di proprietà dei signori De Amicis Aceti con l’obbligo di “piantarci viti di buona qualità, vale a dire Monte Polciano  e Tivolese, escluso il Clampese (sic: Camplese)”.

[Archivio di Stato Sulmona, Atti del Notar V. Stecchini, in data 15 nov. 1819.]

  •  Panfilo Serafini e la sua “Monografia storica di Sulmona”

Nel 1853 viene pubblicata a Napoli nel periodico Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato la “Monografia storica di Sulmona” di Panfilo Serafini, contenente preziose notizie sull’evoluzione ampelografica del Montepulciano e sulla viticoltura della Conca Peligna. Scrive il Serafini nel Capitolo relativo all’Agricoltura:

“La pianta più coltivata in Sulmona è il maiz e la vite, come anche in altri Comuni del nostro bacino. Le vigne del nostro Distretto venti anni addietro occupavano un 12 mila moggi di terreno; al presente ne occupano forse 20 mila. Sulmona e Pratola però più che gli altri Comuni amano questa coltura. Noi ne abbiamo circa 30.000 salme di vino annualmente (1 salma è di 132 caraffe).

Le viti più comuni sono il Montepulciano, sia primaticcio, sia cordisco o tardivo, e il Tirolese. Le migliori sono il moscatello ed anche in parte una specie di Montepulciano, la malvasia, il Campolese, e per tavola l’uva corniola, l’uva di pane, la ragia, l’ursina, la sanguinella, il zibibbo ecc. Le viti sono per lo più propagate con magliuoli in autunno ed anche ne’ principi di primavera; potansi basse in febbraio e in marzo; e basse, piane, e distanti fra loro circa tre palmi si mantengono. Si appoggiano generalmente a pali cinti con vimini, eccetto poche maritate ad alberi o sostenute a pergolato”.

  • Woldemar Kaden (1838- 1909) e la prima testimonianza storico-letteraria del “cerasuolo” in area peligna ed in Abruzzo.

Nel 1874 lo storico e Viaggiatore tedesco Woldemar Kaden pubblica a Stoccarda l’opera Passeggiate in Italia [titolo originale: Wandertage in Italien], in cui l’Autore descrive un breve soggiorno fatto nella Città di Ovidio nell’agosto del 1872 o 1873 insieme al connazionale C. Stieler (i due, insieme ad E. Paulus, visiteranno ancora Sulmona nel 1883, descritta in un’altra opera: Italia. Viaggio pittoresco dalle Alpi all’Etna [Casa Ed. Treves, Milano 1885].

Del resoconto di tali viaggi ci siamo occupati nel nostro Saggio dal titolo Sulmona negli scritti dei Viaggiatori tedeschi del XVIII e XIX secolo, Sulmona 1985, a cura del Centro Studi P. Serafini.

Nel suo primo soggiorno, illustrato nell’opera Wandertage in Italien, Woldemar Kaden, cui a Sulmona è stata dedicata una Via Cittadina, resta affascinato dalle pesche e dai grappoli d’uva che facevano spicco sulla candida tovaglia apposta sul tavolo da pranzo della locanda dove avevano preso alloggio ed aggiunge: “Su tutta la scena troneggiava un imponente fiasco di vino color rosa, quel vino appunto che nel giro di alcuni lustri si accingeva ad assumere il nome di Cerasuolo, ricavato con una particolare vinificazione dalle uve Montepulciano.

  •  Relazione dell’agronomo Giuseppe Sebastiani sulle viti coltivate in agro sulmonese:30 marzo 1876

La richiesta da parte del sindaco di Sulmona pro tempore, in data 30 marzo 1876 e diretta all’agronomo comunale Giuseppe Sebastiani, è intesa a conoscere il patrimonio ampelografico del territorio della Città d’Ovidio e costituisce un documento di estrema importanza per la storia della viticoltura della Conca Peligna ed anche dell’Abruzzo. Il quadro tracciato per l’agro di Sulmona non doveva essere differente da quello dei Comuni confinanti, soprattutto Pratola Peligna e Corfinio, data l’omogeneità e le comuni caratteristiche territoriali della Conca, che appare già nei primi decenni dell’800 senza soluzione di contiguità per quanto concerne la coltivazione di alcuni vitigni, fra cui predominanti erano il Montepulciano ed il Trebbiano.

A cosa servisse la Relazione richiesta al Sebastiani non viene specificato. Certamente essa era preposta alla conoscenza del patrimonio ampelografico della Conca peligna in vista di un importante convegno che forse si intendeva organizzare su scala nazionale, come era avvenuto appunto nel 1867, quando la “Regia Commissione Italiana”, presieduta dall’abruzzese Giuseppe Devincenzi, si accingeva ad organizzare a Firenze la nota Esposizione Universale.

Sulmona, 30 marzo 1876

                                                              All’Ill.mo Sindaco del Comune di Solmona (sic)

“Le viti che comunemente si coltivano nel tenimento di Solmona e dalle quali si ricava la maggior quantità di mosto, sono di uva appellata Montepulciano nero : e questo è di due specie, cioè il primaticcio, che chiamasi pure gaglioppo ; ed il serotino (cordisco o tardivo ) che si coltiva a preferenza dell’altro. Coltivasi pure e molto attesamene la vite che dà l’uva detta camplese , ossia  il trebbiano , ed avesene bianca e nera. Per formare vino sonovi altresì le seguenti specie di uve, cioè la malvagia bianca e nera, il verdetto, appellato dal volgo verdelicchio , moscatello bianco e nero, l’aleatico, il canaiolo bianco e nero, uva detta di Santa Messa bianca e nera, il Tivolese, il grappalone, in vernacolo racciappalone, uva detta di San Francesco ed il Torcicane. Le uve mangerecce poi sono quelle dette del Vasto o Zibibbo, la corniola bianca e nera, uva Rojo nera, comunemente detta uva rascia, ed è a granelli rotondi ed ovali oblunghi ; maturain autunno avanzato e dura fino alla primavera ; uva sancinella  bianca, il  moscadellone, ed il cosiddetto pergoligno nero a granelli oblunghi. Havvi un’uva non coltivata, che cresce nelle siepi, detta cianfruscola, da cui si ha vino squisito. Questo è quanto ha potuto e saputo raccogliere lo scrivente intorno alle viti del territorio sulmonese, ma egli manca di cognizioni di botanica, e di ampelografia      intorno alla materia, di che trattasi, che però merita indulgenza se non ha saputo far meglio….”                                                                                                          

Giuseppe Sebastiani

Segue in un foglio a parte un “Elenco dei vitigni coltivati nel territorio del Comune di                Sulmona”, con una sintetica descrizione delle loro caratteristiche ampelografiche:

Uve da vino

Montepulciano: Nero, a grappoli di media grandezza, acini ovali. È il più coltivato perché il più atto a far vini neri.

Galoppo Primaticcio nero: a grappoli di media grandezza, ma più piccoli del precedente ; acini sferici ; è anche coltivato comunemente  ma non quanto il Montepulciano

Verdero Color glauco, grappoli di media grandezza, acini ovali, (volgarmente verdelicchio) maturazione piuttosto tardiva. È anche coltivato comunemente ma non quanto il Montepulciano.

Trebbiano bianco: Grappoli grandi ma radi, acini tondi; coltivato comunemente ma un poco meno del Verdero.

Trebbiano rosso: Ha gli stessi caratteri del precedente, ma coltivato in piccola quantità.

Moscato bianco: Coltivato soltanto da qualche proprietario

Moscato nero: Coltivato in piccola quantità

Malvagia bianca: Coltivata in piccola quantità

Malvagia rossa Coltivata in piccola quantità

Canaiolo bianco e rosso Coltivati in piccola quantità 

Tivolese Coltivato in piccola quantità

Aleatico bianco e rosso –

Uva Santa Maria Somiglia molto al moscato bianco, ma gli acini  sono un poco allungati e matura in agosto.

Uva San Francesco Rossa, grappoli grandi, acini grossi e tondi e duri

Cianfruscola Non coltivata, cresce quasi spontanea lungo le siepi

Zibetto bianco Volgarmente Zibibbo

Corniola bianca e rossa –

Uva grassa –

Rojo Comunemente detta Uva Roja ; è a granelli ovali,color rosso e duri ; matura in autunno avanzato e  può tenersi sino alla primavera; atto per conserve

Pergoligno Ha gli stessi caratteri del precedentema ha gli acini più oblunghi

Sancinella bianca. Grandi grappoli, acini sferici, grossi primi (sic) e duri

Moscatellone –

“Tutte queste varietà sono coltivate – conclude il Sebastiani – in piccole proporzioni soltanto dagli amatori”.

Considerazioni finali.

La Relazione dell’agronomo Sebastiani si presta a numerose considerazioni, ma noi ci soffermiamo solo su quelle che appaiono di rilevante interesse ampelografico.

Dopo aver ricordato che il vero e proprio Montepulciano è quello cordisco (o tardivo), da cui si otteneva – per usare le stesse parole del Kaden – il miglior “vino color rosa”, il Sebastiani scrive che l’altra qualità di Montepulciano, detto primaticcio e qualitativamente inferiore al cordisco, era chiamata anche gaglioppo, galoppo o gaglioppa. Allo stato attuale delle nostre conoscenze risulta difficile accertare i rapporti fra tale gaglioppo e quello citato negli “Statuta Civitatis Aquile del 1315”, Cap. 355, pubblicati da A. Clementi, ed  in precedenza citati.

V’era poi il trebbiano, chiamato anche camplese (il Relleva sostiene che in realtà il nome esatto era campolese )[22] e veniva coltivato “molto attesamente” nella Valle del Tirino “a sostegni morti” e con il nome di buon vino[23]  ..

Come si è detto in precedenza, il termine camplese non sembra derivare dal topos “Campli” e va ricordato inoltre che nel rogito del notaio Vincenzo Stecchini di Sulmona, del 1819, il camplese non viene annoverato – a differenza di quanto sostenuto da altre fonti – fra i vini di buona qualità[24] .

Ma non finiscono qui le novità, perché R. Sersante nel suo Trattato teorico pratico sull’arte della vinificazione [Chieti 1856] scrive che “il trebbiano era chiamato anche uva passa”.

Richiama subito la nostra attenzione, nell’elenco stilato dal Sebastiani, anche il vitigno verdetto o verdelicchio, “coltivato comunemente in agro peligno ma non quanto il Montepulciano cordisco”. Con ogni probabilità il nome di tale vitigno si ricollega al verdicchio, coltivato sotto il profilo ampelografico in quella “terra di nesuno” che va dai confini del Tronto fino all’agro di Jesi, dove oggi – forse non a caso – si coltiva la lagrima

Menzione a parte merita la misteriosa vite cianfruscola, non coltivata, che cresceva sottolinea il Sebastiani spontaneamente nelle siepi (probabilmente quelle che fungevano da confine fra i vari appezzamenti vignati) e dalla quale si ricavava un “vino squisito”.  Ne abbiamo discusso qualche anno fa a Vittorito, invitando alcuni Amministratori locali ad effettuare ricerche su questo misterioso vitigno, che sembra svanito, malgrado le nostre continue ricerche, dall’orizzonte ampelografico della Conca peligna.

Ma tornando al nostro argomento, va ricordato quanto sottolinea nel 1876 il Sebastiani e cioè che “per formare vino nero” vi sono oltre al Montepulciano primaticcio e cordisco “altre specie di uve, soprattutto il trebbiano rosso, la malvagia nera, il moscatello nero, il canaiolo nero ecc.” che potevano essere vinificate in modo da ottenere “vino color rosa”, cioè l’antenato del nostro cerasuolo, che non risultamai presente tuttavia nel corso dell’800 nelle manifestazioni ufficiali.

Se ne ha conferma dal menu (in lingua francese) servito a Sulmona dalla Casa Spillman il 28 agosto 1888, in occasione della Inaugurazione della Linea Ferroviaria Roma-Sulmona, ed in cui fra quelli serviti compaiono solo i seguenti vini:

Vins :

Chianti e vino di Sulmona, Chablis, Bordeaux, Champagne, Café.

Liqueurs :

Cognac, Mandarino, Centerbe, Corfinio, Elisir Maiella”.

Come si vede, mancano a distanza di 12 anni dalla Relazione del Sebastiani precisazioni circa il “vino di Sulmona”, malgrado che nel suddetto Menù siano menzionati alcuni liquori locali, come centerbe (forse di Tocco a Casauria)[25] , l’Elisir Maiella, certamente prodotto in una località della Conca peligna, ed il notissimo Corfinio, citato dal D’Annunzio, ma nulla si chiarisce in merito al ‘vino di Sulmona’, il quale permane ancora avvolto da una insignificante genericità. 

Alla data del 1888 non si parla dunque né di Montepulciano e né di vin rosa o cerasuolo, nomi che risultano assenti non solo nel saggio Le antiche industrie della Provincia di Aquila, di R. Bonanni, pubblicato nello stesso anno 1888, ma soprattutto nell’opera di F. De Blasiis Istruzione teorico-pratica sul modo di fare il vino e conservarlo, Firenze, Barbera, I. Ed. (1857) e II Ed. 1860, dove nell’ultimo Cap., dal titolo “Coltivazione della vigna bassa in Abruzzo”, si fa cenno solo al moscato, aleatico, malvasia e uva fragola.     

Pertanto l’assenza del nome cerasuolo – almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze – perdura anche nell’ultimo decennio dell’800 e malgrado le nostre ricerche non sono emerse notizie che possano dimostrare il contrario. Le indagini devono essere effettuate dunque a partire dai primi lustri del ‘900, quando appunto – come sostiene il Franchetti – l’incremento del mercato viticolo e lo sviluppo della commercializzazione vinicola in Italia assumeranno aspetti decisamente rilevanti[26].

Ci piace concludere questa nostra indagine storico-ampelografica ricordando che Sulmona non è solo la Patria di Ovidio, dei confetti e del montepulciano, ma – dulcis in fundo – anche del cerasuolo, il vino che attendeva una pagina di storia che finora non era stata ancora scritta.

Il cerasuolo dà lustro tuttavia non solo a Sulmona, ma anche a tutta la Conca, la quale come una grande culla ha tenuto in serbo questo prezioso gioiello da cui si attende la rinascita della viticoltura peligna. 

Franco Cercone.


[1] I. Silone, L’Abruzzo. la terra e la gente, in AA.VV. “L’Abruzzo”, Casa Editrice Electa, Milano 1963. 

[2] La bonifica si concluse nel 1878. Cfr. C. Felice- A. Pepe –L. Ponziani, Storia dell’Abruzzo, vol. IV, Bari 1999.

[3] È un Capitolo dell’opera Illustrated Excursions in Italiy, London 1846. La traduzione italiana è a cura di B. Di Benedetto Avallone, pubblicata a Sulmona nel 1974.

[4] Archivio di Stato Sulmona, Atti di Notar V. Giannitti, vol. IV.

[5] Cfr. G. Morelli (a c. di), “Gli Acquaviva d’Aragona duchi di Atri”, Atti del Convegno Teramo 1985.

[6] Delle uve labrusche, che potevano essere sia bianche che nere, parla già Pier de’ Crescenzi agli inizi del ‘300 nell’opera Liber ruralium commodorum. La labrusca, precisa al riguardo Pier de’ Crescenzi, è “vite selvatica” usata per i “tagli”.

[7] La “Ripa” era lo scalo marittimo di Roma sul Tevere. In seguito ometteremo, come si è detto, di ripetere il titolo completo dell’Operetta’ Della natura dei vini e dei viaggi e riporteremo solo il n° di pagina dell’opera citata.          

[8] Cfr. F. Cercone La Meravigliosa Storia del Montepulciano d’Abruzzo, Amalthea, Corfinio 2000; Id. La Lacrima di Tollo, e la viticoltura del Settecento nella Provincia di Chieti, Qualevita, Torre dei Nolfi 2004.

[9] Dobbiamo la traduzione dei brani in latino al Prof. Ilio Di Iorio, che in tale sede ringraziamo vivamente.

[10] F. Cercone, La meravigliosa storia del Montepulciano… ecc., op. cit.; Id. La lagrima di Tollo e la viticoltura del Settecento … ecc. op. cit.

[11] G. Del Re, Descrizione topografica, fisica, economica, politica de’ Reali Domini al di qua del Faro nel Regno delle Due Sicilie, Tomo II, p. 439, Napoli 1835.

[12] Cfr. Fabio V. Maiorano, Strademecum. Toponomastica storica e contemporanea della Città di Sulmona, p. 112,

    L’Aquila 2012.

[13] S. Relleva, Conferenze enologiche nel Comizio Agrario Aquilano, L’Aquila, B. Secchioni Tipografo, 1878.

[14] L. Laporta, Indagine sulle caratteristiche chimiche e chimico-fisiche del Montepulciano d’Abruzzo nelle due varietà rosso e rosato “, Bologna 1962.

[15] P. Gho, G. Ruffa, Il piacere del vino…, Arcigola Slow Food, Bra (Cn.), 1993.

[16] C. Ulisse de Salis von Marschlins, Nel Regno di Napoli. Viaggi attraverso diverse Province, p. 259 sgg.; trad. a cura         di I. Capriati, Trani 1906.

[17] G. Vom Rath, Attraverso l’Italia e la Grecia..ecc., op. cit., Heidelberg 1888 ; cfr. F. Cercone, Sulmona negli scritti dei Viaggiatori tedeschi ecc., op. cit. p. 57.

[18] G. Nardi, Saggi su l’agricoltura, arti, e commercio della Prov. di Teramo, 20 febbraio 1789, in A. Marino (a c. di) “La Montagna teramana. Risorse e ritardi”, vol. I, Colledara (Te).

[19] L. Fianchetti, Condizioni economiche ed amministrative delle Province napoletane, p. 12, Firenze1875.

[20] Vedasi al riguardo anche D. Venanzio Fucinese, Un anno, una vita. Storia del popolo raianese, vol. I, Sinapsi Ed., Sulmona 2003.

[21] Archivio di Stato, Sulmona, Atti del Notaio Francesco Aquili, di Popoli (Pe), vol. III, Busta 79.

[22] L’origine del nome rimanderebbe pertanto, almeno nella prima parte, a campus.

[23] S. Relleva, Conferenze enologiche nel Comizio Agrario Aquilano, B. Vecchioni Tipografo, Aquila 1878.

[24] Archivio di Stato, Sulmona, Atti di Notar Vincenzo Stecchini, 15 novembre 1819.

[25] Non va dimenticato quanto scrive in proposito il Bonanni, il quale parlando nel 1888 delle Industrie di Sulmona scrive: “Ora si è aggiunta pure la fabbrica della Centerbe, che non è punto inferiore a quella celebrata di Tocco”.

[26] L. Franchetti, Condizioni economiche ed amministrative delle Province napoletane, Firenze 1875.




LEGGENDE ABRUZZESI SULLE FORMICHE DISTRUTTRICI DI CITTÀ

[Articolo di Franco Cercone pubblicato in “Rivista Abruzzese”, Anno LIX N 3. Lanciano 2006.]

di Franco Cercone.

Nel 1886 il De Nino pubblica il saggio Ovidio nella tradizione popolare di Sulmona (Casalbordino, N. De Arcangelis Editore), dal quale si apprende fra le altre la seguente e curiosa leggenda su Ovidio (“Viddie”): “Dicono che Viddie avesse un’altra villa ad Orsa. Bisogna sapere che Orsa era un paese distrutto dalle formiche”.

Si tratta come è noto di un castello medievale feudo dei Celestini, di cui si vedono ancora oggi gli avanzi in tenimento di Roccacasale alle falde del Morrone (foto 1). La leggenda è ripresa dal Pansa che scrive: “Secondo alcuni, Ovidio possedeva un’altra villa ad Orsa, un castello poco distante, di cui si veggono le rovine sull’erta del Morrone, a nord-ovest della Badia. Orsa è un paese che fu distrutto dalle formiche…” (G. Pansa, Ovidio nel Medioevo e nella tradizione popolare, Sulmona 1924).

 I due studiosi non furono attratti stranamente dalla particolarità della leggenda e di conseguenza non si interessarono più di formiche, le quali secondo la tradizione avrebbero distrutto in Abruzzo molti castelli ed addirittura interi paesi. Segnaliamo pertanto altre notizie al riguardo, ripromettendoci di tornare sull’affascinante argomento con dovizie di documenti.

In un saggio dal titolo Fitoterapia e devozione mariana nel culto pedemontano della Madonna della Tibia di Crognaleto [1], E. D’Ambrosio scrive che la chiesa di Santa Maria della Tibia era situata nei pressi dell’antico abitato di Tibbla, abbandonato in un periodo di tempo incerto e vago (XII-XVI secolo!) ma “sebbene le cause non siano molto chiare, gli abitanti (di Crognaleto) dicono che il paese fu distrutto dalle formiche”. Secondo altre leggende, vicino all’odierno abitato di Carpineto Sinello, nell’Alto Vastese, si vedono ancora i resti dell’antica Carpineto che invasa e distrutta dalle formiche fu abbandonata dagli abitanti, costretti di conseguenza a fondare un nuovo paese.

La stessa sorte è toccata ad un piccolo insediamento non lungi da Quadri (Chieti) ed i suoi abitanti, come mi comunica il Prof. Carlo Angelucci residente in quest’ultima località, avvertiti in tempo dalle fondamenta delle case che cominciavano a sgretolarsi, fecero appena in tempo ad abbandonare il centro abitato ed a salvarsi.

A Cerqueto di Fano Adriano (Teramo) si narra che in tempi non precisati gli abitanti del paese scaraventarono da una rupe il loro sacerdote, accusato di orribili crimini, ma dopo qualche tempo “milioni di formiche”, quasi per cancellare tale misfatto, emersero dal sottosuolo e dopo aver distrutto i raccolti fecero crollare tutte le case. Gli abitanti furono costretti pertanto a ricostruire il paese nei pressi di una chiesa situata non lungi da Cerqueto e dedicata a Sant’Egidio Abate, festeggiato con particolare solennità dai pellegrini provenienti da molti centri della Valle del Vomano il primo settembre d’ogni anno.

Leggende simili sono assai diffuse in Abruzzo ed altrove, specie nel Cilento, e meriterebbero certamente ricerche più approfondite. Tanto più che esse probabilmente non sono sorte per caso e devono rappresentare un riflesso del terrore assai diffuso nei Paesi orientali, soprattutto in India, dove il tema di immensi “eserciti di formiche” distruttrici di templi, i cui avanzi sono stati celati per secoli da impenetrabili foreste, fa parte ampiamente della favolistica locale.

Certo è che fin dall’antichità si è constatato che insieme alle api le formiche sono gli insetti meglio dotati d’intelligenza e caratterizzati da sorprendenti forme di vita sociale organizzata. Costantemente impegnate nella raccolta del cibo, trasportato e conservato nelle “caverne” dei formicai, esse sono considerate a differenza delle “cicale” ovunque e da tempo immemorabile simbolo di una proverbiale laboriosità che persiste tuttavia accanto a quello della loro pericolosità. Un dualismo destinato a non conciliare mai la propria ambiguità.


[1] In AA. VV., Studi in onore di Benedetto Carderi, a cura di A. Marino, S. Atto di Teramo, Edigrafital 1999. Sul culto della Madonna della Tibia cfr. il nostro saggio L’uomo e le tradizioni; in “Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. Capolavoro della natura, capolavoro della cultura”, a cura di E. Burri e M. Centofanti, Carsa Ediz. Pescara 2002. L’A. afferma che “la chiesetta della Tibia conserva il nome dell’antico abitato, Tibbla, già noto in un documento del 1130” non riportato e specificato. Il toponimo va ricollegato invece all’attività della trebbiatura effettuata davanti al sagrato dell’edificio sacro, come sottolinea anche il Camporesi, il quale ricorda opportunamente che le parole “tibbia, tibia, o trita” indicano “la trebbiatura effettuata generalmente coi cavalli”. Cfr. P. Camporesi, Alimentazione, folklore, società, p. 27, Parma 1980.   




GASTRONOMIA COME STORIA

La cucina Tradizionale degli Altopiani Maggiori d’Abruzzo [Prefazione di F. Cercone pubblicata in La Cucina tradizionale degli Altopiani Maggiori d’Abruzzo, Quaderno N. 1 IPSSAR Roccaraso, Ed. Qualevita, Torre dei Nolfi (AQ) 1993].

(La ricerca, vero e proprio viaggio attraverso la gastronomia tradizionale dei centri situati sugli Altopiani Maggiori d ‘Abruzzo, è stata condotta nell’anno scolastico 1992-93 dagli studenti e docenti dell’Istituto Alberghiero di Roccaraso [in foto sotto], sotto l’impulso dell’allora Preside Franco Cercone che ne è autore e curatore.)

di Franco Cercone

 Dalle indagini degli studenti, effettuate non in polverosi archivi ma “sul campo”, frugando in quella meravigliosa “biblioteca ambulante” che è appunto la memoria dei vecchi, è emerso un interessante

pattern alimentare costituito non solo da tipiche colture cerealicole e dai prodotti caseari ovini e bovini, ma anche dalla sapiente conoscenza di verdure ed erbe di montagna tramandatasi oralmente di generazione in generazione.

Questo modello alimentare svanirà dopo gli Anni Cinquanta con l’esplosione della cosiddetta “Civiltà dei Consumi” e con il diffondersi dello Snack Bar o del Fast Food, scie luminose della buona stella del turismo di massa che, comunque, costituisce l’unica risorsa dei centri degli Altopiani d’Abruzzo, soprattutto nel periodo invernale.

L’omologazione susseguente alla massiccia “opera di persuasione” effettuata dai mass-media, una volta raggiunto lo zenith, ha imboccato inesorabilmente una parabola discendente sotto la spinta di diversi e complessi mutamenti socio-economici, come il fenomeno del nativismo, la riscoperta delle proprie “radici”, una maggiore coscienza dell’importanza del fattore “alimentazione” per la salute dell’uomo e – dulcis in fundo – della rivalutazione della gastronomia tradizionale.

L’importanza di quest’ultima è stata messa in luce dalla cosiddetta “Dieta Mediterranea”, proprio perché ritenuta scientificamente il modello di alimentazione più consono alla sana nutrizione dell’uomo.

Come si diceva in precedenza, la ricerca degli studenti dell’Istituto Alberghiero di Roccaraso è stata effettuata in una ristretta anche se particolare area montuosa dell’Appennino Centrale, quella degli Altopiani Maggiori d’Abruzzo. Appare opportuna pertanto una breve descrizione di questo territorio, riproponendo all’attenzione dei lettori una bella pagina tratta dall’opera di F. Sabatini dal titolo appunto Gli Altopiani Maggiori d’Abruzzo. Roccaraso-Pescocostanzo (1970):

«Lasciata Sulmona e la sua ampia e popolosa conca, che si distende come un verde giardino racchiuso in una cerchia di montagne nevose, chi percorre verso sud la Strada Statale 17 dell’Appennino Abruzzese ha davanti a sé il maestoso scenario della Maiella, altissima cordigliera dalla cresta spesso velata di nubi. Ma presto la visuale cambia, non appena la strada – a differenza di un’altra di nuova costruzione che prosegue in quella direzione, verso Cansano e Pescocostanzo – volge a destra imboccando la Valle del Gizio: in questa s’inerpica arditamente e, toccando Pettorano e Roccapia, serpeggia a lungo ora sull’uno ora sull’altro ripido versante, per raggiungere l’arduo valico di Fontanella che apre infine la vista sull’immenso Piano delle Cinque Miglia. È questo il primo e il più suggestivo dei grandi altopiani che proseguendo, si scoprono in verde meravigliosa distesa».

L’ambiente fisico che circonda a mo’ di corona i paesi situati su questi Altopiani, cioè Roccapia, Rivisondoli, Roccaraso, Pescocostanzo, Campo di Giove e Cansano, è dominato ad ovest dal monte Genzana ed a sud-est dalla catena della Maiella.

Dalla propaggine occidentale di quest’ultima, la catena del Porrara, si estende in direzione ovest il Piano del Cerreto, che con i suoi 1050 metri costituisce il limite altimetrico più basso rispetto agli altri Altopiani di questa verde regione.

Il graduale declino della pastorizia transumante e l’incremento demografico che si registra ovunque agli inizi del ‘700 incidono fortemente sulla struttura del territorio. In conseguenza dell’intensificarsi delle colture cerealicole e dell’introduzione della coltivazione della patata, esso si presenta infatti nel primo ventennio del XVIII secolo, e fino ad un’altitudine di 1.350 metri circa, polverizzato in una miriade di piccoli appezzamenti, molti dei quali ricavati dal disboscamento di manti arborei, soprattutto di cerri, donde i toponimi “Cerreto” che residuano numerosi nell’area degli Altopiani Maggiori.

La quantità dei cereali prodotti e destinati insieme alle patate a sfamare interi gruppi familiari, è in stretto rapporto con le precipitazioni atmosferiche, spesso devotamente invocate a maggio e giugno con le cosiddette “Processioni delle Rogazioni”.

Né diversa appare la situazione nel campo dell’allevamento. Al di fuori della nobiltà locale, del clero e delle Confraternite, che possiedono armenti calcolati in “morre” (una morra= 350 pecore circa) e condotti con il sistema della transumanza all’inizio dell’autunno, i nuclei familiari più umili posseggono in media alcune pecore o mucche affidate ad un pastore che le conduce al pascolo di mattina e le riporta in serata in paese. D’inverno esse restavano nelle stalle, foraggiate con il fieno raccolto d’estate.

I bovini in particolare, oltre a fornire il latte indispensabile per la famiglia, venivano utilizzati insieme agli equini per l’aratura dei campi, effettuata ancora come scriveva lo storico tedesco A. Steinitzer nel 1909, con “aratri simili a quelli usati dai Sanniti”.

V’è poi un modesto ma prezioso allevamento di animali da cortile, fra i quali primeggia il maiale, chiamato la gráscia de la case (l’abbondanza della casa), dal quale la famiglia ricava buona parte del fabbisogno di carne necessario per tutto l’anno. Dei suini veniva utilizzata ogni parte e grande importanza assumeva il grasso per la preparazione dello strutto, unico e vero condimento a disposizione un tempo delle popolazioni di montagna.

L’acquisto di pur modeste quantità di olio di oliva era sempre problematico per gente che viveva nell’ambito di una economia pastorale. L’olio di oliva era raro e prezioso. La giornalista e saggista

americana Maud Howe, che soggiorna a Roccaraso nel settembre del 1898, riferisce nella sua opera “Roma Beata” (Boston,1907) che “ogni famiglia a Roccaraso provvede alle proprie necessità, chiede poco ai vicini ed al mondo esterno, eccetto sale, vino ed olio”. Ed è straordinario che ancora oggi, per indicare che una persona ha molti soldi, si dice che “ha la pila”. Infatti nei tempi passati solo i ricchi avevano nelle proprie dimore la “pila dell’olio d’oliva”, un enorme recipiente di pietra, a forma di parallelepipedo, in cui veniva conservato l’olio d’oliva e che troneggiava in un angolo del fondaco come un Santo nella propria nicchia.

Pertanto per il fabbisogno della famiglia si ricorreva al baratto di merci. Si scambiavano infatti formaggi con olio oppure – e questo era il mezzo più usuale – si “emigrava” per tutto il mese di novembre per lo più nelle campagne del Chietino e del Molise per prestare giornate lavorative durante la raccolta delle olive e si era remunerati con una quantità pattuita di olio di frantoio.

Vi sono state pertanto particolari “transumanze” non legate soltanto all’attività della pastorizia transumante e che attestano la difficile vita della maggior parte della popolazione degli Altopiani.

Scriveva infatti nel 1859 il notaio Filippo Destephanis di Pettorano:

«Esuberando le braccia sono obbligati i meschini andar raminghi l’inverno o nell’Agro Romano, o a Terra di Lavoro o alle Puglie, imitando gli armenti, pervero anche in Calabria, dove guadambiando il vitto gli uomini riportano poche monete alla famiglia che per lo più a stenti ha tirato l’invernata››.

Non migliore appariva la condizione dei pastori transumanti al saldo dei ricchi proprietari di armenti. Antonio De Nino scriveva nel 1881 che il salario di un pastore era costituito da “trenta ducati l’anno. un rotolo di sale (un chilo) e un rotolo d’olio (un litro) al mese ed un filo di pane ogni giorno”.

L’emigrazione stagionale degli uomini i quali – scriveva il De Salis Marschlins nel 1789 – sugli Altopiani “in maggior parte si dedicano all’allevamento delle pecore”, proietta sulla donna una luce di autentica eroicità. A lei spetta arare i campi, improvvisarsi sarta o muratore, far legna in montagna e trasportarla faticosamente a casa sulle spalle, come nel famoso quadro del Patini dal titolo Bestie da soma [foto 2] ed in cui l’Artista ha immortalato un gruppo di donne di Roccapia colte in un attimo di riposo, mentre con la legna addosso fanno ritorno in paese. Il momento più difficile per la donna, data l’assenza del marito per molti mesi o addirittura per anni, perché era emigrato negli U.S.A., è quello di nutrire sé stessa e la prole in un particolare momento dell’anno coincidente con l’esaurimento delle scorte alimentari e l’inizio del nuovo ciclo produttivo dei campi.

In questo periodo, tristemente noto come la costa di maggio, la sopravvivenza era legata a pochissimi sacchi di patate, di farina di granturco o di orzo rimasti ed alle residue parti di maiale tesoreggiate durante il rigido inverno. I pochi cereali superstiti, soprattutto ceci, fagioli e lenticchie, venivano cotti insieme e degustati a minestra.

Questa è appunto l’origine del tipico piatto denominato le Virtù, che si usa preparare in molti paesi abruzzesi a fini propiziatori nel giorno del primo maggio. Abbiamo un’autorevole testimonianza al riguardo che conferma la difficile vita delle nostre popolazioni. Sottolinea la scrittrice americana Maud Howe che soggiorna, come si è detto, a Roccaraso nel 1898:

«Dall’autunno, quando i pochi vegetali verdi che si coltivano vengono consumati, fino a quando essi maturano di nuovo nell’estate seguente, la gente vive di polenta, fatta con farina di granturco, di macaroni, di patate, di piselli secchi e di formaggio di pecora».

Anche i resoconti dei Viaggiatori stranieri della fine del XVIII secolo sono assai illuminanti al riguardo. Il De Salis Marschlins per esempio, ci dice che a Roccapia si produceva “poco grano” e che

sul Piano delle Cinque Miglia, oltre alle patate, “si produce poca quantità di orzo e avena”, mentre “Roccaraso, paesello sospeso ad una roccia, ha solo pochi campi di grano e numerosissimi armenti di

pecore e suini”.

La farina di grano era dunque preziosa per la famiglia e destinata per la maggior parte alla preparazione del pane, cotto nei forni a legna. Più facile era l’approvvigionamento della farina gialla; sia impastata e cotta al camino sotto il coppo, che preparata per la polenta, essa costituiva il nutrimento base giornaliero ed una necessaria alternativa per prolungare le scorte di farina bianca.

La polenta in particolare era condita in bianco con lo strutto disciolto e pecorino grattugiato oppure con l’aggiunta di cavoli lessi e soffritti in padella. Cavoli e broccoletti sono verdure assai utilizzate perché prosperano ad altitudini superiori anche ai 1200 m. e pertanto vengono coltivate nei piccoli orti adiacenti alle abitazioni o nelle immediate vicinanze dei centri abitati. In qualche ricorrenza speciale la polenta veniva insaporita da salsicce o costolette di maiale conservate – dopo essere state soffritte e coperte interamente dallo strutto – nelle cosiddette composte, cioè recipienti di coccio abbastanza capienti ed adatti anche alla cottura dei legumi al camino.

Come condimento era utilizzata con parsimonia la conserva di pomodoro, perché essa era costosa e si acquistava ad etti in angusti negozietti allorché volgeva alla fine la provvista fatta in casa nel mese di settembre.  Scrive infatti la Howe in data 28 settembre 1898:

«Per ogni dove le donne erano occupate a Roccaraso a fare conserva di pomodoro. Nella parte esterna delle finestre di quasi ogni casa vi erano spianatoi di legno, pieni di succhi di pomodoro che evaporavano al sole».

Era dunque sconosciuta la tecnica di conservazione di succo di pomodoro “a bagnomaria”, oggi assai in uso e rivelatasi di grande importanza per l’economia familiare.

Talvolta essa era addirittura irreperibile nel periodo invernale, quando la neve cadeva copiosa ed isolava per molti giorni i centri dell’Altopiano. I piccoli negozi di generi alimentari non erano di solito in grado di poter effettuare grosse provviste di derrate alimentari e le scorte avvenivano “a singhiozzi”, conseguenza questa anche della limitata circolazione monetaria.

Un salto di qualità in fatto di rifornimenti si verifica tuttavia con l’apertura al traffico, nel 1897, del tratto ferroviario Cansano-Roccaraso-Castel di Sangro-Isernia, una data “storica” questa che segna l’inizio dell’attività turistica su tutto l’Altopiano e che ben presto si trasformerà in vera e propria “industria”.

Facevano parte altresì della costante alimentazione quotidiana, soprattutto in inverno, in special modo le aringhe affumicate ed il baccalà, un tempo acquistabile a modico prezzo, mentre oggi come è noto, il merluzzo salato ha superato in fatto di prezzo la stessa carne di vitello. Le aringhe venivano cotte sotto la brace avvolte in pezzi di carta “gialla” bagnata (che in tal modo “assorbiva” il sale), spinate e condite con aglio, olio e prezzemolo. Emanavano la massima fragranza con tale condimento sopra le fette di pane casareccio appena sfornato.

Si è parlato in precedenza della cosiddetta costa di maggio, espressione diventata tristemente proverbiale per indicare un momento critico dell’anno in cui le provviste alimentari erano ormai in fase di esaurimento. In questo periodo la neve si è già sciolta sui prati e l’occhio esperto della donna è in grado di riconoscere diversi tipi di erbe commestibili che, consumate fresche o bollite, sono in grado di offrire un ulteriore contributo all’alimentazione quotidiana della famiglia.

Ma quali sono queste erbe per lo più ricche di ferro e generalmente indicate con il termine dialettale “foje”?

Elenchiamo qui appresso quelle più apprezzate per il potere nutritivo ed al nome dialettale aggiungiamo, quando è possibile, anche la loro designazione scientifica e l’uso abituale in cucina:

° Carducci (o “papagnóle”):

cardi freschi colti nel periodo primaverile; la parte tenera del torso può essere degustata in brodo con uova e pecorino.

° Cicoria selvatica:

è mangiata cruda in insalata oppure lessa in acqua salata e condita con olio e limone; viene anche ripassata in padella con aglio, olio e peperoncino.

° Cicorietta di Salle (“Taràxacum glaciale”):

termine dialettale: rùscja. Erba con foglie basali a forma di rosetta e molto aderenti al suolo. Cresce in alta montagna all’incirca dai 1500 m. in sopra nel periodo estivo. Ottima se mangiata sia cruda in

insalata che bollita e ripassata in padella con olio, aglio e peperoncino.

° Cascigni (o “crespigni”):

appartengono alla famiglia del sonchus oleraceus. Possono essere mangiati crudi in insalata (utilizzando le foglie più tenere) e conditi con olio, sale ed aceto, oppure lessati in acqua salata. In tal caso si condiscono con olio e limone oppure vengono ripassati in padella con olio, aglio e peperoncino, eventualmente con l’aggiunta di fagioli lessati a parte. Di particolare bontà risulta l’acqua in cui i cascigni sono stati bolliti.  Il brodo, servito in tazze a mo’ di consommé, viene condito con olio, limone e pecorino grattugiato. L’uso del parmigiano al posto del pecorino rappresenta una “variante” diffusasi in tempi recenti. Il brodo di cascigni, condito nel modo descritto, è ritenuto il miglior rimedio contro il mal di pancia.

° Ruchetta selvatica:

ritenuta di grande potere energetico, viene mangiata solo cruda, condita con olio e scaglie di pecorino secco.

° Ortica:

si utilizzano solo le cime tenere che vengono lessate in acqua salata e ripassate in padella con guanciale, olio e peperoncino. Costituiscono in tal modo un’ottima salsa con cui condire “penne” o “rigatoni”.

° Vítalba:

ottima nel mese di giugno; dopo essere stata lessata in acqua salata, può essere condita con olio e limone oppure cotta con le uova a frittata.

° Örapi:

verdura di eccezionale bontà e potere nutritivo che cresce alla fine della primavera negli stazzi di montagna. Gli órapi vengono lessati in acqua salata e conditi con olio e limone oppure ripassati in padella con aglio, olio e peperoncino. In tal caso costituiscono un’ottima salsa con pasta di grosso formato. Gli órapi vengono dai “buongustai” ripassati con olio, aglio e peperoncino in padella assieme ai fagioli lessati a parte. Il “piatto” è servito con bruschetta.

° Cipolle selvatiche, termine dialettale: “ciaciavítte”:

se sbollentate in aceto costituiscono un ottimo contorno con carne di maiale e salsicce. Possono essere conservate in barattolo con la stessa acqua oppure sott’olio.

° Cipolle:

vengono cotte al coppo sotto la brace e condite con sale e olio, talvolta accompagnate da spicchi di patate aggraziate da foglie di rosmarino. Le “cipolle cotte al coppo” risultano appetitose se farcite con tonno sott’olio o salsiccia.

° Funghi:

nell’alimentazione quotidiana del periodo primavera-autunno va sottolineato il costante uso di funghi, per lo più prataioli, che spontaneamente e copiosi crescevano su tutto il territorio. Il fungo era la sostanza più povera che madre natura potesse offrire alla gente per calmare i morsi della fame. Sicché ancora oggi, a mo’ di proverbio, si sente ripetere dai vecchi il detto: “le nozze non si fanno con i funghi”.

Accanto alle erbe di campo vanno annoverate, nel periodo tra la tarda primavera e l’autunno, quelle tipiche di stagione coltivate negli orti oppure acquistate dai rivenditori ambulanti che provenivano da valle su traballanti carretti. La testimonianza della Howe è precisa al riguardo: a Roccaraso, Rivisondoli e Pescocostanzo non esistevano negozi di frutta e verdura; queste venivano dunque consumate fresche, a differenza dei nostri giorni in cui le tecniche di coltivazione in serra ed il traffico commerciale aereo hanno annullato il regolare susseguirsi dei prodotti agricoli nelle varie stagioni.

Nei tempi passati inoltre erano sconosciuti gli attuali metodi di conservazione degli ortaggi con la “tecnica del freddo”. Provviste di melanzane, zucchine e peperoni venivano tuttavia effettuate nel primo periodo autunnale (quando appunto tali ortaggi presentano la loro migliore bontà) mediante la bollitura in aceto, metodo questo assai efficace per la conservazione dei prodotti ed adottato da sempre anche a livello industriale.

Va spesa infine una parola anche per il vino. Fino all’immediato periodo successivo al secondo conflitto mondiale la conservazione del prezioso ed energetico liquido era affidata alla “cottura”, perché i contadini produttori non potevano permettersi il lusso di correre il pericolo che esso si guastasse e si trasformasse in aceto, vanificando così il duro lavoro condotto nelle vigne per quasi nove mesi l’anno. La Howe, la scrittrice americana di cui abbiamo spesso parlato e che ci ha lasciato importanti notizie sulla Roccaraso fine ottocento, riferisce che “l’orribile vino cotto” era contenuto in “otri di pelle” sistemati sopra muli e condotti in giro per il paese dai contadini che provenivano “da valle” per venderlo. Il “vino cotto” era ritenuto comunque preferibile a quello contenente il bisolfito, sostanza chimica preposta alla conservazione del vino ma ritenuta giustamente nociva alla salute.

Le ricette qui “riscoperte” dagli studenti dell’Alberghiero, che sottoponiamo all’attenzione dei lettori e soprattutto degli Operatori turistici locali, appartengono alla speciale gastronomia dei “giorni di festa”. Per la loro originalità e la particolare rielaborazione cui sono state sottoposte attraverso il tempo, esse meritano non solo di essere conosciute ma anche di essere reinserite nel mosaico della cucina regionale con benèfici influssi sul movimento turistico.

Il primo piatto nelle ricorrenze festive di carattere religioso era costituito nei centri degli Altopiani quasi sempre dai maccheroni alla chitarra, ottenuti con impasto di farina e uova. La sfoglia, resa sottile al punto giusto, viene tagliata a pezzi (grandi rettangoli) e passata col matterello sulla “chitarra”. Sono tuttora apprezzate anche le tagliatelle, che si preparano avvolgendo sulla spianatoia due o tre volte la sfoglia, tagliata a mano con il coltello.

I maccheroni invece, acquistati “sfusi” al negozio di “generi alimentari e diversi”, costituivano di solito il primo piatto dei giorni festivi del “ciclo dell’uomo” e nel “ciclo dell’anno”, soprattutto in occasione di matrimoni e della festa per l’uccisione del maiale, che avveniva per lo più il 17 gennaio.

Se le sagne, ottenute ammassando acqua e farina, costituivano il piatto giornaliero della famiglia, i maccheroni, specie i “bucatini”, rappresentavano una vera leccornia che poteva essere degustata, dato il prezzo elevato di questo prodotto, in poche occasioni durante l’anno.

Tuttora le persone anziane chiamano i bucatini la “pasta delle nozze” ed è significativo il fatto che ancora oggi le persone invitate ad un matrimonio vengano apostrofate con l’espressione: “uòje so meccherùne!”, dal “sapore” prettamente proverbiale.

Per quanto concerne i secondi piatti, va sottolineato che la carne di vitello si mangiava in rare occasioni; per la preparazione del ragù si utilizzava la carne di pecora o di castrato e per il brodo quella di gallina. I tagliolini all’uovo in brodo venivano resi più saporiti con le rigaglie (interiora) soffritte e duole constatare come oggi sia del tutto scomparso dai menù dei ristoranti il brodo di gallina preparato in siffatto modo.

Fra gli altri piatti tradizionali del passato che vanno riscoperti e inseriti nei menu dei ristoranti segnaliamo i “Torcinelli”, le “Pallottole cacio e uova”, i “Carducci”, i “Cavatiélle”, la “Scarsella”, la “Muscischia”, gli “Abbutarièlle”.

Vogliamo concludere questa breve ma necessaria introduzione con l’augurio che soprattutto gli operatori gastronomici sappiano rinverdire una cucina locale ormai “stantia” con le ricette raccolte dagli studenti dell’Alberghiero di Roccaraso, per la cui preparazione si rimanda alle pagine seguenti della pubblicazione.

Questo rinnovamento è ulteriormente favorito dalla recente scoperta del tartufo bianco lungo il medio corso del Sangro e nei territori limitrofi. Il sapiente impiego del prezioso tubero nelle antiche ricette

può conferire a queste ultime nuovi ed interessanti sapori, dando luogo a delle “varianti” che arricchiranno di molto la gamma dei “piatti” offerti ad una clientela sempre più esigente.

Gli studenti dell’Alberghiero possono sentirsi dunque soddisfatti per il lavoro svolto. Attraverso la gastronomia essi hanno ricostruito un interessante capitolo di quell’affascinante poema che è appunto

la storia delle genti degli Altopiani Maggiori d’Abruzzo.

Franco Cercone

Elenco delle ricette dei “piatti riscoperti”, pubblicate nel volume con l’indicazione dei paesi di provenienza, Centri degli Altopiani Maggiori d’Abruzzo:

Roccaraso: Carducci e uova; Testicoli di vitello alla griglia; Cazzarièglie e foje; La Colostràta.

Pietransieri: Cavatielle; Orapi e fagioli; Polenta alla spianatoia.

Pescocostanzo: Gnocchetti alici e broccoletti; Verza patate e fagioli; Maccherune a la chitarra col ragù di castrato; La Scarsella.

Rivisondoli: Agnello in brodetto; Patate fagioli e cotiche; Pecura al cotturo.

Roccapia: Baccalà e patate; Carrarellitte de grandìnie; Frescarièglie e fagioli.  

Campo di Giove: Palluttèlle cacio e uova; La muscischia di capra; Il Pappòne; Zuppa verza con osso di prosciutto.

Cansano: Torcinelli; Sagne ceci e baccalà.

Castel di Sangro: Abbuttarièlle; Trippa e patate.




ASPETTI STORICO-ETNOGRAFICI DELLE ARTI PER VIA

[Contributo di Franco Cercone, Aspetti storico-etnografici delle “arti per via”, pubblicato in AA.VV. “ARTI E MESTIERI PER VIA”, Fast Edit, Ascoli Piceno 2007.]

(ndr: Qui viene proposto il contributo nella versione integrale e completa rispetto alla pubblicazione del 2007)

Alla fine di settembre, scrive F. Longano nel suo Viaggio per lo Contado del Molise (1788), i paesi molisani “restano spopolati d’uomini, i quali al pari dei pastori calano anch’essi nella Puglia coll’esercitare diverse arti, come di ferrai, di falegnami, agrimensori, scarpai, scoppettieri, fabbricatori, tavernai, fornai, scalpellini, pesatori di lana ecc.”.

Anche per l’allievo del Genovesi non si esaurisce con quelli citati il novero delle arti e dei mestieri, decisamente più numerosi, che sono alla base delle esigenze dei gruppi umani, spesso così variegate e particolari da superare la più accesa fantasia, come appunto i velestrièri (balestrieri) esperti nel bonificare i prati dalle talpe e di cui parleremo in seguito. È un argomento decisamente affascinante quello dei mestieri o delle Arti per via, sul quale è intervenuto di recente anche S. Russo con un lucido saggio dal titolo Montagne e pianura nel Mezzogiorno adriatico (secc. XVII-XIX) ed in cui le ‘Arti per via’ sono viste anche come scambio di attività e servizi particolari fra le popolazioni montanare dell’Appennino e quelle dell’entroterra costiero adriatico.

Questo interscambio di specializzazioni ha modo di manifestarsi fra Abruzzo e Capitanata nell’ambito dell’attività allevatoria. Secondo il Russo la transumanza, a fronte dei circa 30.000 pastori “al servizio nel Tavoliere dei locati abruzzesi, molisani, della Basilicata e del Principato Ulteriore” costituiva un fenomeno di ristretta dimensione rispetto per es. a quello della discesa in Puglia delle numerose ‘compagnie’ di mietitori, che erano state precedute da quelle dei seminatori.

Sicché N. M. Cimaglia poteva affermare nel suo Saggio Della natura e sorte della coltura delle biade (Napoli 1790) che “in Capitanata un popolo ara e semina, un popolo diverso miete, e un altro trebbia”. Questa cultura della mobilità, legata all’esercizio di diverse arti, trova dunque proprio nei tratturi un proscenio ideale che permette una loro nitida identificazione.

 Queste arterie erbose non erano percorse solo dai pastori, che a loro volta si trasformano nelle varie locazioni in ulteriori specialisti come i caciai, bassettieri, fiscellari, tosatori (quest’ultimi diventati così rari da venir reclutati oggi dagli allevatori abruzzesi e molisani in Nuova Zelanda ed Australia), ma da tanti “artieri”, esperti nei più diversi campi e capaci di soddisfare in una collettività i bisogni che diventano sempre mutevoli con l’inesorabile trascorrere del tempo.

Fin dal periodo romano le persone che svolgevano lo stesso mestiere appaiono organizzate in speciali corporazioni dette Collegia e tali erano in periodo medievale le Arti, associazioni riunite di norma in una Confraternita, regolate da “Statuti” e composte da artigiani che svolgevano spesso la medesima attività in una via che da loro prendeva appunto il nome.

La toponomastica delle città antiche ha tramandato spesso i nomi di tali attività, come per es. a L’Aquila, dove esiste tuttora la Via degli Scardasseri, le maestranze appunto che erano addette alla cardatura della lana con lo scardasso, attrezzo con cui secondo una leggenda agiografica fu martirizzato San Biagio e diventato in seguito attributo iconografico del Santo.

In passato tali “congreghe professionali” avevano per lo più la loro “sede sociale” presso le chiese più rappresentative della città. A Sulmona per es. la confraternita dei calzolai aveva la propria sedenella Chiesa della SS. Annunziata ed era riunita nella “Congrega del Corpo di Cristo”.

Tali congreghe o “pie associazioni laicali” svolgevano secondo una diffusa costumanza in Italia   una preminente quanto importante attività sociale e dato che si è fatto cenno all’attività calzaturiera va ricordato che a Venezia la Confraternita dei calzolai aveva la propria sede a Campo San Tomà e proprio in un sacro edificio in cui, secondo la tradizione, San Marco aveva guarito un calzolaio islamico, convertitosi in seguito al cristianesimo.

Vi sono attività per le quali parlare di mero artigianato può sembrare tuttavia alquanto riduttivo.

Quando si parla infatti di orafi, ebanisti o di altri mestieri che si apprendono comunque in una bottega posta per via, ci riferiamo ad attività decisamente rilevanti dalle quali scaturiscono spesso dei veri e propri capolavori. Pertanto solo un “tono psicologico”, come sostiene B. Croce, può erigersi a metro di giudizio fra arte ed artigianato. Così per soffermare la nostra attenzione a tre particolari aree quali il Piceno, l’Abruzzo ed il Molise, vi sono delle località come per es. Agnone, Sulmona, Pescocostanzo, Scanno, Guardiagrele e la stessa Ascoli Piceno le quali hanno toccato nel settore dell’oreficeria livelli di massima espressione artistica. Non meno preziosi risultano nel campo dell’ebanisteria alcuni reperti venuti alla luce in una villa romano-bizantina sita presso il Casino Vezzani, in tenimento di Ortona a Mare, e risalenti al VII- VI secolo. Essi sono conservati oggi nel magnifico museo bizantino realizzato nel Castello di Crecchio (Ch.) e ci testimoniano l’eccezionale valore artistico raggiunto dai Collegi lignarii, la cui attività  viene ereditata e proseguita in periodo medievale dalle Congreghe degli ebanisti che realizzeranno, specie nell’Italia centrale, pulpiti, cori, organi ed altri arredi lignei civili e chiesastici considerati oggi (si pensi per es. alle opere di Ferdinando Mosca di Pescocostanzo) dei veri e propri capolavori.

Altri settori in cui l’artigianato di bottega (per mutuare una felice espressione del Croce) assurge a livelli artistici sono quelli del ferro battuto e della ceramica. Capolavori in ferro battuto si rinvengono come è noto a Pescocostanzo, dove un artigiano locale – così narra una leggenda del luogo – aveva scoperto nel XVIII secolo una particolare erba che riusciva addirittura a piegare il ferro! Pertanto, sull’architrave della sua modesta bottega fece scolpire il motto Etenim non potuerunt mihi, che tuttora si può ammirare sulla facciata del piccolo edificio, posto sulla sinistra della scalinata che porta alla magnifica Collegiata.

Grande rilevanza assume in Abruzzo l’attività della ceramica, di cui Paolo Toschi individua in un lucido saggio (Pagine abruzzesi, L’Aquila 1970) due anime, perché “dalla semplice fornace del vasaio rurale si passa a forme più perfezionate di artigianato vero e proprio”, con singoli vasi o “servizi” composti da più pezzi, prodotti nelle botteghe di Faenza e Castelli, località quest’ultima dove operano forti personalità appartenenti alle famiglie dei Grue, dei Fuina, dei Gentili e dei Cappelletti cui si devono veri e propri capolavori nell’arte figulina.

La ceramica d’uso, o come scrive il Tosti “la ceramica rustica” è una attività che predomina in tutto il regno di Napoli e soprattutto nei centri marittimi della Campania. Soffermando lo sguardo nell’area abruzzese-molisana, quella che in tale sede maggiormente interessa, va rilevato come fossero ancora importanti negli Anni Sessanta del secolo scorso alcuni centri di produzione di ceramica d’uso, come per es. Palena, Anversa degli Abruzzi, Torre dei Passeri ed altre località molisane fra cui Campobasso e Guardia Regia, dove persistono oggi aziende familiari di pentolari nelle cui botteghe si producono tegami rustici di creta, modellati in torni ancora azionati con i piedi.

Il segreto della sopravvivenza di queste aziende familiari risiede proprio nella produzione delle cosiddette terraglie, ampiamente utilizzate oggi come recipienti da cucina. L’arte sta riprendendo vigore sia per la diffusa convinzione che i tegami di coccio siano più igienici rispetto a quelli metallici, sia perché la gastronomia tradizionale ne prescrive obbligatoriamente l’uso per i brodetti di pesce e per la cottura dei legumi.

Queste due anime della ceramica, quella rustica e quella artistica, sono state ben evidenziate dal Toschi, il quale sottolinea nel saggio in precedenza citato come in Abruzzo, Molise e Campania (in quest’ultima Regione la produzione delle “terraglie da cucina” è assai rilevante a Camerota) si passi oggi “dalla semplice fornace del vasaio rurale, di antica tradizione, a forme più perfezionate di artigianato vero e proprio, industrialmente attrezzato”.

Caratteristica appare nei vasai rurali la produzione di particolari oggetti votivi, come i campanelli (per la ricorrenza per es. di Sant’Egidio,1° settembre) ed i fischietti, oggetto di approfonditi studi da parte di Vito Giovannelli, il quale ha evidenziato come quest’ultimi fossero prodotti anche a Castelli ed anzi alcuni tipi in particolare, come quelli “bitonali”, risultano simili ai fischietti rinvenuti in alcune tombe della necropoli di Campovalano.

 Fino a tempi recenti esistevano in Abruzzo centri specializzati nella produzione di tali oggetti, come per es. Anversa degli Abruzzi e Nocella, frazione di Campli. Così Luigi Braccili, nel saggio Arti e mestieri in Abruzzo (1988), scrive che gli abitanti di Nocella venivano chiamati addirittura i figli della creta. L’aspetto cromatico permette spesso, come avverte P. Toschi, di individuare il luogo di produzione delle ceramiche. Così quelle di Palena si distinguevano per brillantezza di smalti e vivacità di colori. Inoltre, la decorazione era sempre a fiori o gruppi di fiori stilizzati, “dipinti con rozzo pennello e talora a goccia con un pezzetto di spugna sostenuto da una cannuccia”. Le forme più in uso sono i boccali trilobati, versione moderna degli antichi oinokòe, fiaschette, borracce piatte o “a ciambella”.

Siamo di fronte ad una diversa destinazione d’uso di tali prodotti, rispetto alle ceramiche di Castelli, nelle quali sottolinea il Toschi i colori predominanti sono il giallo, il turchino e il verde, mentre il rosso appare nel corso dell’Ottocento.

Rispetto all’umile ceramica di Palena o Guardia Regia, quella di Castelli sembra aver privilegiato la produzione di “servizi” non destinati per il costo elevato ai ceti indigenti. Ne fanno fede i reperti recentemente esposti ed appartenenti al Museo Ermitage di San Pietroburgo, dove Piatti, Albarelli, vasi – soprattutto quelli da farmacia – fungono da cornice a rappresentazioni floreali di grande respiro. Ciò spiega il motivo per cui sia svanito dall’orizzonte dei vasai castellani l’interesse per una particolare arte come quella delle statuine destinate ad animare la scenografia ed il paesaggio dei presepi. In questo particolare settore dell’arte figulina emerge la figura di un singolare artista di Pacentro, Giuseppe Avolio, cui si deve la produzione di figure femminili colte nelle caratteristiche fogge di vestire delle diverse località peligne. Si tratta di documenti etnografici di primaria importanza, delle vere e proprio “foto a colori” ante litteram e disperse purtroppo fra le varie collezioni appartenenti a privati e ad antiquari, sicché non sono pochi gli studiosi che si augurano di poter ammirare un giorno queste statuine in una mostra da organizzarsi eventualmente nella Cattedrale di Chieti, dove è conservato appunto il presepe Valignani risalente alla seconda metà del ‘500. Nelle statuine, riproducenti fedelmente le fogge di vestire femminili di diverse località peligne, G. Avolio mette in risalto ove possibile anche gli ornamenti muliebri d’oro o di corallo, come per es. “orecchini a navicella, odorini e fialette per profumo, anelli di fidanzamento (detti testoni) … e i finissimi lavori di filigrana”, tipologie ben evidenziate e studiate da E. Mattiocco e A. Gandolfi in Ori d’Abruzzo.

I paesi molisani di origine “schiavona” sono quelli in cui ancora oggi si conserva la tradizione della tessitura a mano fatta su telai di legno. I prodotti (coperte, stuoie, tappeti rustici ecc.) si contraddistinguono per la vivacità dei colori e la peculiarità dei disegni che animano ad onor del vero anche le coperte realizzate a Taranta Peligna e Sulmona.

Una particolare attività artigianale, che quando è bel tempo viene esercitata sugli scalini d’ingresso alle abitazioni e pertanto può essere ascritta fra le arti per via, è quella del merletto a tombolo, mai svanita in Italia e diffusa ovunque da Burano alla Sicilia. Studi e ricerche hanno messo a fuoco particolari aspetti di quest’arte antica e per quanto concerne l’area abruzzese-molisana gli esperti parlano di “pizzi e merletti a tombolo di Isernia, di Scanno, di Pescocostanzo, di merletti aquilani” ecc. nei quali sono messi in evidenza caratteristiche con toni spesso da blasone popolare.

A Napoli in particolare i merlettai formavano nel corso della seconda metà del ‘500 una categoria prestigiosa di artigiani, organizzati in Arte e titolari di una Cappella a Santa Marta.

Una efficace descrizione dei vari tipi di merletti (detti pezzille), fra cui quelli cosiddetti “a dieci fuselli”, si rinviene nel poemetto “Micco Passero ‘nnamurato”, di G. Cesare Cortese (Napoli 1638) e qualche studioso, come per es. A. Cirillo-Mastrocinque, propende nel saggio Usi e costumi a Napoli nel ‘600 per il fenomeno di monogenesi e dunque di diffusione di tale arte anche a Napoli:

 “Il merletto – sottolinea la storica napoletana – arriva a Napoli in tutte le sue espressioni e per vie diverse, ma i fuselli passano per quelle d’Abruzzo, dove nel XVI secolo una colonia di merlettai veneti avrebbe iniziato all’arte gli abitanti di Pescocostanzo, creando un primato regionale che dura ancora oggi”.

Più che un fenomeno di monogenesi e diffusione, l’arte del merletto sembra risalire per altri studiosi al fenomeno contrario di poligenesi ed evoluzione, che riguarda anche altri importanti aspetti della cultura materiale. Si pensi per es.- dato che abbiamo avuto modo di farne cenno in precedenza – alle conche di rame, che possiedono ciascuna una particolarità stilistica (conca laziale, abruzzese ecc.) e la cui funzionalità scompare con la costruzione in tutti i paesi delle reti idriche, le quali in Italia si possono considerare ultimate intorno agli Anni Sessanta del secolo scorso.

 È un argomento questo decisamente importante e collaterale all’artigianato dei nostri giorni: molti oggetti d’uso sono ancora prodotti oggi come un tempo nelle botteghe ed esposti en plein air, ma la loro antica destinazione d’uso è stata per così dire stravolta, dando luogo a quel complesso fenomeno socioeconomico che G. Profeta e V. Lanternari chiamano di “transfunzionalità” degli oggetti d’uso e del quale occorre necessariamente far un breve cenno.

 La transfunzionalità degli oggetti d’uso

 Come si è detto in precedenza le arti e i mestieri si estrinsecano nell’espletamento di servizi, si pensi all’arrotino, allo spazzacamino ecc., oppure nella produzione di una vasta gamma di oggetti d’uso. Molti di essi, dalle conche di rame ai ferri da stiro a carbone, per tacer dei piatti grandi di ceramica rustica, sono oggi assai richiesti ma per usi diversi da quelli tradizionali. Esposti anche per via in botteghe che vendono oggetti simili ma ormai prodotti in serie, essi hanno perso la loro originaria destinazione d’uso ed a causa di un fenomeno chiamato come si è detto di “transfunzionalità” vengono utilizzati oggi per lo più a scopo di arredamento.

 Così le antiche ceramiche rustiche pendono oggi alle pareti al posto di quadri, mentre cornici di vario materiale racchiudono merletti a tombolo non più destinati al ruolo di centrotavola.

Le conche di rame sono diventate portaombrelli o vasi per fiori, i vecchi ferri da stiro a carbone oppure i bracieri di rame si sono trasformati in soprammobili o fioriere, fino agli scaldaletto che maliziosamente chiamati un tempo “Zi préute”, sono adibiti a contenitori di noci e castagne.

Questo mutamento della destinazione d’uso, fenomeno interessante ma poco studiato, caratterizza anche il settore del ferro battuto, che soprattutto  in Abruzzo e Molise vanta rinomati centri come Chiarino (Teramo), Penne, Agnone, Pescocostanzo ecc. ed ha trovato  un nuovo  quanto insperato incremento produttivo nello sviluppo edilizio dei centri turistici montani, nei quali gli appartamenti  vengono arredati con suppellettile per lo più in ferro (sono sempre presenti ovviamente gli alari nel camino)  ed arredi vagamente ispirati a modelli rustici, nel tentativo di personalizzare l’ambiente e sottrarlo alla monotonia ed allo squallore degli oggetti prodotti in serie. Si affacciano a nuova vita anche i canestri, oggi ovunque prodotti ed adibiti talvolta a portariviste, ma anche a funzioni naturali come porta-frutta e verdure.

L’arte dei canestrai era ed è tuttora assai diffusa nel mondo rurale, specie dove è agevole approvvigionarsi di vimini o di canne. Le località che vantano una antica tradizione nel settore sono numerose in Abruzzo ed in Molise è famosa Riccia (Campobasso), dove sussistono maestranze esperte nel rivestire di corde vegetali gli enormi recipienti fittili destinati alla conservazione del vino.

Il Braccili ricorda nel saggio in precedenza citato i “canestrari’ di San Vincenzo Valle Roveto e sottolinea che “con i canestri le donne abruzzesi effettuano ancora oggi l’antico rito dei donativi, cioè l’offerta votiva delle primizie dei campi fatta in modo professionale nelle ricorrenze religiose,

soprattutto nei mesi di maggio e giugno.

 Nel regno di Napoli: antichi “mestieri per via”

Nei suoi “Documenti per la storia, le arti e le industrie delle Province Napoletane” (Napoli 1883-1891) G. Filangieri ci ha lasciato una fondamentale opera sugli antichi mestieri per via ancora presenti non solo a Napoli ma anche nelle Province dell’ex regno. Mestieri strani, talvolta paradossali e comunque preposti a soddisfare esigenze della collettività, arti che sfuggono – come scrive E. Variali in un lucido saggio dal titolo Mestieri e mestieranti. Gli ambulanti di Napoli (Napoli 2003) – ad ogni tentativo diretto ad elencarli o classificarli. Tuttavia per la loro straordinaria particolarità vogliamo far cenno ad alcune di tali arti per via iniziando proprio con i barbieri ambulanti, eredi di quei tonsores romani che non esercitavano l’arte nella tonstrina (oggi diremmo nel “Salone”) ma lungo i vicoli urbani, come dice appunto Marziale, richiamando clienti da pelare con il classico grido: tonsor!.., ripetuto più volte. Nei centri più importanti delle varie ‘Province Napoletane’ il barbiere ambulante era accompagnato spesso dalla moglie, quando costei esercitava l’arte della capéra, cioè della parrucchiera, dei cui servizi approfittavano non solo le “popolane” ma anche le donne del ceto borghese fino agli inizi del ‘900.

Particolare era a Napoli il mestiere del chiagnazzàro, ancora in auge nella prima metà del ‘900, un personaggio che dietro una modesta somma di denaro si recava nei cimiteri a “piangere sulle tombe dei cari estinti”. In Abruzzo e Molise questo compito era affidato fino alla metà del secolo scorso a gruppi di donne, “lamentatici pubbliche ed eredi dell’antica arte delle prefiche, le quali avevano anche il compito di “raccontare” coram cadavere i fatti più salienti della persona morta.

La narrazione degli episodi della vita del defunto avveniva in forma scomposta, lamentevole e con lo strappo apparente dei capelli, non disgiunta dall’atto fittizio di graffiarsi il viso. È l’antico modo di urlare la morte, quasi per esorcizzarla, dentro la dimora dell’estinto e cancellato solo in tempi recenti da un sommesso pianto sciolto nelle fredde camere mortuarie dei nostri ospedali, dove non si può per sopravvenute convenzioni sociali “lamentare la morte”.

Mestieri strani, dicevamo, che sorgono tuttavia in funzione dei bisogni dell’uomo e pertanto appaiono sempre mutevoli sul proscenio della storia, adattandosi alle continue esigenze dei tempi che ne determinano la nascita ma anche la fine. È il caso per es. del portatore d’acqua, felicemente colto da F. Palizzi su un mulo carico di botti e da A. Carracci mentre trasporta sulle spalle due tinozze di legno (Acquarolo d’acqua). Il mestiere dell’acquarolo è ancora presente nei primi anni del ‘900 a Napoli, come dimostra una Cartolina di B. Cascella, ed è particolarmente prezioso lungo l’Appennino, dove fin dal medioevo la costruzione di castelli o castra è condizionata dalla presenza nelle vicinanze di sorgenti d’acqua. A Pratola Peligna l’unico “liquido” a disposizione del ceto rurale, prima della costruzione della rete idrica, era il vino e con esso si lavavano i bambini appena nati, donde la credenza sovrastrutturale che il bagno con il vino fortificasse i neonati.

Altro tipico “artiere” era l’ombrellaio di Secinaro, che a tale specializzazione sommava altre due attività, quelle di accomodare gli “ingegni” (cioè le chitarre per maccheroni, chiamate soprattutto nel Chietino carrature) e risanare tegami e piatti di coccio lesionati, mediante una particolare cucitura fatta con ferro filato dolce. Fra le particolari arti per via vanno ricordate quella degli ‘mpagliasegge, mestiere esercitato anche da donne, come si evince da uno splendido disegno di Filippo Palizzi, e quella dei costruttori dei famosi “ddu bbotte”, cioè gli organetti gioviali e villerecci: grandi protagonisti un tempo delle feste sull’aia, in questi ultimi tempi sono oggetto di grande attenzione anche da parte degli studiosi di strumenti musicali. Costruiti un tempo ad Atri, Casoli ma anche in altre località molisane, la loro produzione è oggi notevolmente aumentata e si registrano in occasione di manifestazioni estive anche gare che vedono la partecipazione soprattutto di giovani, affascinati dal suono di questo particolare strumento.

Laltro suono è stato il titolo di una trasmissione radiofonica sulle musiche etniche, assai in voga qualche lustro fa, la cui sigla musicale era costituita da un brano suonato appunto da una zampogna. Lo strumento evoca automaticamente alla nostra memoria il periodo natalizio e le novene davanti alle edicole votive, ben raffigurate dal Pinelli. Lo strumento, come sappiamo, è molto antico e ne parla addirittura Esiodo (IX- VIII sec. a. C.) ne “Le Opere e i Giorni”. In Abruzzo si rinviene raffigurato lungo il fregio della facciata della Chiesa della SS. Annunziata (quella del XIV sec.), in una statua lignea del Museo Nazionale a L’Aquila ed in un quadro cinquecentesco conservato nella Chiesa di San Franco, ad Assergi.

Scapoli, in Prov. di Isernia, viene riconosciuta come centro importante di fabbricazione a livello artigianale della zampogna e sulla storia di questo straordinario strumento, insegnato oggi nei Conservatori musicali, vi sono fondamentali lavori fra cui vanno segnalati: M. D’Alessandro-V. Giovannelli e A. Piovano, La zampogna in Abruzzo (Pescara 2003) e V. Giovannelli, La zampogna zoppa negli Abruzzi (Pescara 2004). Le citate opere, cui vanno aggiunti i due volumi di M. Gioielli dal titolo “La zampogna. Gli aerofoni a sacco in Italia” (Isernia 2005), stanno rilanciando decisamente l’importanza del “bucolico” strumento, utilizzato da Brahms in alcune sue notissime composizioni.

Strani mestieri

Se soffermiamo la nostra attenzione sulla voce Mestieri, contenuta nell’Indice della fondamentale opera di G. Profeta, “Bibliografia della cultura tradizionale del popolo abruzzese” (L’Aquila, 2005), si resta sorpresi dalla mole incredibile delle attività esercitate talvolta con grande inventiva per soddisfare i bisogni dei singoli o della collettività, sempre mutevoli in rapporto ai tempi.

Se alcuni mestieri, come per es. quello dell’arrotino, del calzolaio, dell’ombrellaio ecc., rientrano nel concetto di Arti e mestieri per via, ve ne sono altri, più specialistici, che sono stati sempre esercitati nel chiuso di umili botteghe, come quelle dei sarti, dei barbieri, delle tessitrici, degli orafi, falegnami e via dicendo, con la partecipazione di alcuni elementi della famiglia e con discenti attivi in bottega per “imparare l’arte”.

E’ la piazza tuttavia che offriva nei giorni di mercato una rassegna straordinaria delle arti e dei mestieri più vari e che costituiva – come scrive G. Brandozzi – “uno straordinario palcoscenico anche per l’ingegnosa sopravvivenza del proletariato urbano”, fatta fino a qualche secolo fa di venditori di pozioni medicamentose, di indovini che facevano estrarre a pappagalli addomesticati ‘la pianeta’ o la cosiddetta ‘sorte’, cantastorie ecc. i quali riuscivano spesso a carpire al mondo rurale buona parte del guadagno ricavato dalla vendita dei prodotti dei campi.

Quali fossero nel regno di Napoli e nello Stato della Chiesa queste “perfide arti per via, che facevano impallidire persino i venditori di almanacchi come il Barbanera di Foligno, sono quelle indicate in quegli straordinari documenti etnografici che sono appunto i Sinodi Diocesani.

Ve n’è uno in particolare, celebrato nel 1715 dal vescovo di Valva e Sulmona, Bonaventura Martinelli,nella Cattedrale di Sulmona e pubblicato due anni dopo a Roma sul quale va spesa qualche parola. Fra le prime Arti ad essere condannate dal vescovo troviamo quelle esercitate da “malefiche fattucchiere”che vanno in giro vendendo polveri ritenute capaci di effetti straordinari, come l’impotentia  generandi, o di causare “damnum notabile”’ a persone, animali (fattura semplice oppure ‘a morte’) ed alle stesse messi sui campi. Vengono poi le persone che esercitano l’arte di predire il futuro, quelle che speculano sulla “vana lucri thesaurorum prurigine”, vendendo bastoni ritenuti capaci di scovare tesori nascosti e coloro che esercitavano (con probabile allusione ai Sandomenicari o Sanpaolari) l’attività di immunizzare con particolari rituali le persone dal morso ofidico, particolarmente temuto nel mondo rurale.

Insomma, nessun aspetto del vasto e complesso mondo magico-religioso sfugge alla attenta analisi e condanna del vescovo B. Martinelli. Ma nel mondo rurale i bisogni insorgenti e l’esigenza di soddisfarli erano così numerosi e straordinari che il Filangieri non esita a definirli “impossibili dal ben enumerarli”. Si pensi per es.- come già accennato – ai cosiddetti velestrièri (balestrieri) di Villalago (L’Aquila) e di Montenero Valcocchiara (Isernia), esperti nel bonificare i terreni pascolativi dalle dannose talpe mediante particolari trappole costituite da “balestre di canna secca” che scoccavano sottilissime ma mortali frecce di canna. V’erano poi i costruttori di arche, composte da doghe di faggio ed assemblate senza l’uso di chiodi, in modo da essere composte e scomposte agevolmente e facili da essere trasportate sulle vetture, termine con cui si indicavano non le attuali automobili ma animali da trasporto come asini e muli. Gli arcari lavoravano per via ma essenzialmente ai margini dei boschidi faggio e della loro attività ci parla fra’ Serafino Razzi nei suoi Viaggi in Abruzzo, allorché nel 1575 sosta a Farindola (Pescara), le cui maestranze erano specializzate nella costruzione di tali ingegnose madie, utili per la conservazione del grano, del pane e dello stesso corredo femminile.

Le arche, come si apprende da Francesco Longano nel suo Viaggio per lo Contado del Molise venivano costruite anche a Guardia Regia (Campobasso) ed una loro descrizione dettagliata non disgiunta dalle molteplici finalità d’uso si deve ad A. Clementi nel Saggio dal titolo L’organizzazione demica del Gran Sasso nel Medioevo (L’Aquila 1991). Queste particolari “madie”, che poggiano su “quattro piedi”, costituiscono uno dei tanti esempi di inefficienza amministrativa regionale con cui vogliamo concludere queste nostre note sulle Arti e mestieri per via.

 Vi sono infatti alcuni manufatti artigianali destinati a non tramontare mai ed a sfuggire all’oblio cui il tempo tenta di condannarli. È questo proprio il caso delle arche, i cui pochi esemplari superstiti sono gelosamente custoditi dai loro proprietari ed adibiti ancora oggi alla conservazione del pane o del tovagliato di casa.

Questi “reperti” – per mutuare un felice pensiero del De Saussure – sono paroles che meritano di essere reinserite nella nostra langue, la quale deve prevederne la medesima ed antica destinazione d’uso. Ma nessun progetto è stato presentato a tal riguardo da paesi montani abruzzesi o molisani agli Organi Comunitari Europei, i quali costantemente stanziano fondi diretti al recupero di tali attività produttive. La povertà di idee non ha diritto a versare lacrime ed a lamentare l’inesistenza del lavoro. Pertanto, non tutte le Arti per via vanno viste come attività del passato, da dimenticare o considerare irripetibili: infatti alcune di esse possono essere reinserite con profitto nella nostra società grazie al ‘carattere di perennità’ insito in alcuni elementi naturali, come appunto il legno, il ferro e la ceramica, mediante i quali l’uomo ha segnato mirabili tracce del suo passaggio nel difficile sentiero della storia.              

Franco Cercone




INTRODUZIONE ALLA RICERCA DI UN VITIGNO SCOMPARSO

[Introduzione/Appendice di Franco Cercone, autore del volume La Lacrima di Tollo e la Viticoltura del ‘700 nella provincia di Chieti, Casa Ed Aterno, Pescara, per edizioni Qualevita Aq. 2004.]

di Franco Cercone

Chi percorre l’Autostrada A-14 in direzione sud, nel tratto Pescara Ovest-Val di Sangro, resta affascinato dal verde manto dei vigneti che si perdono a vista d’occhio fino alle pendici della Maiella Madre. Interrotti ogni tanto da appezzamenti di uliveti fino alle altitudini in cui prospera l’albero sacro a Pallade, i vigneti conferiscono al territorio un aspetto esotico che raggiunge la sua massima intensità nella fascia compresa tra Francavilla ed il corso del Sangro, da K.Craven paragonata ai garden grounds  inglesi nelle sue note Escursioni del 1837 in Abruzzo[1].

Il contributo che la viticoltura ha dato a quest’area nella salvaguardia dell’ambiente non è stato finora sufficientemente valutato, dato che essa è esercitata fino a livelli che raggiungono all’incirca, e talvolta li supera, i 600 metri di altitudine.

A ben osservare, questa sorta di paradiso terrestre è frutto di mutamenti scaturiti dalla crisi della pastorizia transumante e ben evidenziati dallo storico napoletano Giuseppe Del Re, che nel 1820 scriveva: “Decaduti i greggi ed aboliti i dazj, gli abitanti del Chetino rivolsero incontinente le loro cure all’agricoltura. Dissodando nuove terre, seminando nuovi campi, e piantando nuovi ulivi e nuove viti, divennero agricoli nel decorso di pochi anni; e sempre più progredendo nei varj rami d’industrie agrarie, sono giunti oggidì a spedire per mare e per terra grani, granoni, olj, vini e aceti[2].

Una vera rivoluzione ampelografica si verifica in questo territorio, costituente la parte settentrionale dell’Abruzzo Citeriore, con l’introduzione del Montepulciano, anche se la prima notizia storica circa la presenza di tale vitigno in Abruzzo – e specificamente nella conca di Sulmona – risale al 1792, grazie ad una segnalazione fatta da Michele Torcia, bibliotecario di Ferdinando IV di Borbone, nell’opera dal titolo Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’ Peligni fatto nel 1792 (Napoli 1793).

Fungevano da corona al Montepulciano, quando nella seconda metà dell’800 tale uva si rinviene sufficientemente diffusa dall’Ortonese fino al Sangro e su tutte le “Colline Teatine”, alcuni vitigni già attestati nel corso del XVIII secolo nell’Abruzzo Citeriore, soprattutto il trebbiano, il greco, la moscadella, la malvagìa, e l’alegatico.[3]

Sempre nel corso del Settecento regnava tuttavia nell’agro di Tollo un’uva a bacca rossa, chiamata dai viticoltori locali “volgarmente” lagrima, da cui si otteneva un rosso rubino che in base alletestimonianze storico-letterarie dell’epoca potremmo definire energia degli spazi sideralitramutata in liquido.

Di tale vitigno si perdono misteriosamente le tracce verso la metà dell’800, anche se il vino di identico nome che da esso si ricavava era ritenuto di gran lunga superiore ai vini di Montepulciano, quei vini poliziani cioè tanto celebrati in Europa ed in Italia dagli amanti della buona tavola.

Riportiamo solo un esempio, finora sconosciuto[4], con l’invito rivolto ai plagiari (sempre più numerosi nel campo storico – enologico) di citare l’Autore della presente scoperta. Si tratta del Viaggio in Italia dello scrittore francese Charles de Brosses, il quale nel 1739 sottolineava quanto segue: “Dopo aver

lasciato a destra Montepulciano, famosa per i suoi buoni vini, arrivammo a notte fonda a Radicofani, brutto villaggio accampato sulla più alta cima degli Appennini”[5].

Va rilevato, se ce ne fosse ancora bisogno, che il de Brosses non parla di un vino Montepulciano, del tutto inesistente fino alla metà del secolo scorso, bensì di una località famosa per i suoi buoni vini.

L’Autore che celebra la lagrima di Tollo è, come vedremo in seguito, fra’ Bernardo Valera, il quale proclama questo vino, chiamato anche Rubino, il miglior rosso dell’Italia centrale e di gran lunga superiore rispetto ai celebrati vini di Montepulciano. Da dove provenisse questo vitigno e quali siano state le circostanze che ne hanno determinato la scomparsa dall’agro di Tollo alla metà dell’800, è ciò che cercheremo di scoprire nei paragrafi che seguono.

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Appendice

Il ritorno del “Figliuol Prodigo”

L’episodio biblico del “figliuol prodigo” può essere utilizzato per auspicare il ritorno della lagrima nella sua Terra Eletta di Tollo, se non altro perché ovunque in Abruzzo vanno effettuandosi impianti con vitigni addirittura estranei alla cultura ampelografica regionale.

Le numerose fonti bibliografiche citate nel volume ci dicono che nell’agro di Tollo, la lagrima aveva trovato affinità elettive con le caratteristiche geologiche del territorio, caratteristiche tuttora esistenti.

L’esigenza da parte della famosa azienda Tollo di ripristinare impianti a base di lagrima, diventa pertanto a nostro avviso di urgente priorità.

Non va dimenticato infatti, come leggiamo nel Gattopardo, che affinché tutto resti come prima, occorre che cambi qualcosa.

L’azienda vinicola di Tollo dovrebbe ampliare pertanto la gamma delle sue pur famose “linee”, realizzando impianti di lagrima di Tollo che in un primo momento possono assumere anche un carattere sperimentale, in modo da consentire al vitigno la possibilità di riadattarsi al suo ambiente.

In tal senso l’aiuto che ad una siffatta iniziativa può provenire dall’ARSSA e dalla Enoteca Regionale di Ortona è di grande portata e potrebbe configurarsi come l’operazione ampelografica più importante dell’ultimo mezzo secolo in Abruzzo.

All’Azienda Tollo spetta dunque il compito di intraprendere l’importante iniziativa di recupero del vitigno della lagrima, che più di due secoli fa tanto lustro aveva conferito alla Terra di Tollo.

Franco Cercone.


[1] R. Keppel Craven, Excursions in the Abruzzi and northern Provinces of Naples, London 1837; trad. Italiana con il titolo Escursioni negli Abruzzi, a cura di D. Lepore e R. Cincione, p. 170, Sulmona 1981.

[2] Cfr. G. Del Re, Calendario per l’anno bisestile 1820. Il IV del Regno di Ferdinando I. Con la giunta di copiose notizie su lo stato fisico, storico, politico, amministrativo, su le produzioni, su l’industria e sul commercio delle Tre Province di Abruzzo, p. 142; Napoli, Nella Stamperia del Regno delle Due Sicilie, 1820.

[3] Il barone Giuseppe Durini, famoso enologo di Chieti, in un saggio dal titolo “De’ vini degli Abruzzi” comparso negli Annali del Regno di Napoli (X vol.)1836, sosteneva “la necessità di moltiplicare” in Abruzzo i vini di Montepulciano, la lacrima di Tollo e la Malvasia rossa. Quest’ultimo vitigno largamente diffuso in Abruzzo Citra.

[4] Per la letteratura relativa all’argomento cfr. il nostro saggio La meravigliosa storia del Montepulciano d’Abruzzo, Corfinio 2000.

[5] Cfr. C. de Brosses, Viaggio in Italia; Bari, Laterza, prefazione di C. Levi.




SULL’ORIGINE DELLA CHITARRA PER FAR MACCARONI

Il quadro storico di un problema di antropologia alimentare

[Contributo di F. Cercone pubblicato in tre parti nella “Rivista Abruzzese” di Lanciano ai numeri: N. 2, N. 4 / 2003 e N. 1 /2004 ]

di Franco Cercone

Il presente lavoro, cui attendevamo pazientemente da qualche anno, doveva veder la luce secondo le nostre iniziali intenzioni dopo ulteriori indagini sul singolare strumento detto appunto chitarra, diventato nel corso del Novecento quasi un simbolo della gastronomia tradizionale abruzzese e della stessa Regione Abruzzo.

La sua pubblicazione è stata tuttavia accelerata dalla conoscenza delle Opere poetiche di Giulio Cesare Cortese (1597-1626 circa)[1], un singolare poeta che scrive in “lingua napoletana” e di cui tesse gli elogi B. Croce nel commento al Pentamerone del Basile, nonché di alcuni articoli e saggi apparsi proprio di recente su tale argomento, che riveste notevole interesse storico-gastronomico per la nostra Regione[2].

I risultati delle nostre ricerche sull’evoluzione degli attrezzi “per far maccaroni”, da considerarsi precursori della attuale chitarra, sembrano confermare che come per altri fatti culturali ci troviamo di fronte ad una poligenesi e dunque ad una evoluzione storica di tali “congegni” non solo nelle varie realtà regionali italiane, ma anche in Francia, grazie all’introduzione oltralpe dei macaroni – è lo stesso Alessandro Dumas a dircelo – “quando Caterina De’Medici venne a sposare Enrico II” [Dictionnaire de Cuisine, Paris 1965].

Se tuttavia, allo stato attuale delle nostre conoscenze, il termine pizza appare per la prima volta nel famoso Codex Cajetanus del 997 ed in area abruzzese in un documento del 1201 pubblicato dal Faraglia[3], lo stesso primato deve essere accordato agli antenati dei maccheroni, cioè i cosiddetti vermicelli, grazie ad una sorprendente notizia del geografo arabo Idrisi risalente alla metà circa del XII secolo e contenuta nel suo noto Libro di Ruggero, di recente ristampa. Scrive Idrisi, parlando del territorio posto “a levante di Palermo” che qui “vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini, con una bella pianura e vasti poderi nei quali si fabbricano vermicelli in tale quantità da approvvigionare oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono consistenti carichi”[4].

Il Rizzitano, noto arabista e traduttore del testo di Idrisi, aggiunge in nota che il termine vermicelli “si dice in arabo itriya ed è rimasto nel dialetto siciliano”. È questa una precisazione non di poco conto, perché – come apprendiamo da M. Montanari – “Il libro della cucina, scritto da un anonimo toscano del XIV secolo, segnala una tria genovese per li infermi, ricetta semplicissima, dove la pasta (tale dev’essere il significato di tria, termine di probabile ascendenza araba indicante appunto il manufatto di semola) viene fatta bollire in latte di mandorla, salata e servita”[5].

Ci troviamo così per quanto riguarda il prodotto, cioè i vermicelli, di fronte al fenomeno opposto all’evoluzione autonoma degli attrezzi per pasta e dunque ad una “monogenesi” e conseguente diffusione delle tecniche di produzione delle tria, dalla Sicilia verso i “territori musulmani e cristiani”, come sottolinea appunto Idrisi nel brano riportato. E per tali territori bisogna intendere oltre a quelli che si affacciano sul bacino medio-orientale del Mediterraneo, anche le coste settentrionali dell’Africa e buona parte della Penisola Iberica.

I particolari rapporti fra le Repubbliche Marinare, soprattutto Genova, con la Sicilia normanna, sono alla base di proficui scambi commerciali e tecnologici. Come si è visto, Idrisi non ci dice se i vermicelli – che comunque dovevano risultare essiccati per la conservazione e trasporto – si ottenessero con l’impiego di un pur rudimentale attrezzo. Certo è che egli compone il Libro di Ruggero nella prima metà del XII secolo e già in quello successivo le itriye tradotte come vermicelli, ma forse nome di diverse paste alimentari, compaiono con altre designazioni nel Compendium de Naturis et Proprietatibus alimentorum, redatto nel 1338 da Mastro Barnaba de Riatinis, di Reggio Emilia,  dove a proposito della pasta alimentare , indicata col nome generico di tria, è detto ( foglio 44 a ) che questa vulgariter habet diversa nomina, essendo chiamata “a quibusdam vermicelli, ut a thuscis, a quibusdam orati, ut a bononiensis, a quibusdam minutelli, ut a venetis, a quibusdam fermentini, ut a regiensibus, et a quibusdam pancardelle, ut a mantuanis”[6].

Il Compendium di Mastro Barnaba non registra nella prima metà del XIV secolo la diffusione del termine maccheroni in Toscana, documentata invece dal Boccaccio nel Decamerone, composto com’è noto nel periodo 1349-1353, e propriamente nella terza novella dell’Ottava Giornata, dove -come sottolineano i primi commentatori a proposito del mitico paese di “Bengodi”, da Calandrino posto più là che Abruzzi – i “maccheroni” erano in realtà gnocchi lunghi, affusolati e di piccolo spessore[7], dunque vermicelli, come registra per la Toscana Mastro Barnaba.

Inoltre, sottolinea G. Alessio [op.cit.], della parola maccheroni “non vi è traccia alcuna nel Glossario Latino-Italiano e nel Glossario Latino-Emiliano del Sella, che comprendono lo sfoglio di documenti dello Stato della Chiesa, del Veneto, degli Abruzzi, e dell’Emilia, il che fa pensare che in tali regioni le paste alimentari avessero nel passato altro nome.

Dove invece la parola “maccheroni” compare per la prima volta [8], almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze, è in un Atto notarile genovese, esattamente del 4 febbraio 1279, nel quale è menzionata “Barixella una plena de maccaronis”. [ Il documento si rinviene citato nell’Opera di G. Rossi, Glossario medievale ligure (appendice), Torino 1908].

Nel commentare questo fondamentale documento il Sereni rileva che il termine “sembra impiegato non per indicare gli gnocchi, ma nel senso moderno di pasta alimentare allungata e forata, suscettibile di lunga conservazione”[9]

Questa vivacità, se non inventiva dei pastai genovesi, è confermata secondo il Montanari dalla circostanza che alcuni documenti della metà del XIV secolo attestano la presenza sulle navi genovesi di mastri lasagnari, “segno questo che la pasta era entrata a far parte della normale razione alimentare degli equipaggi” [op. cit.].

Attenendoci alla documentazione della voce maccheroni, ricordata per la prima volta nel citato atto notarile di Genova del 1279, “si sarebbe portati a concludere – rileva l’Alessio – che i maccheroni si diffusero nella seconda metà del XIII secolo da Genova e raggiunsero nella prima metà del XIV secolo la Toscana e la Sicilia e solo agli inizi del XVI secolo Napoli. Ma le cose stanno ben diversamente”[10], come avremo modo di osservare in seguito, perché l’area di irraggiamento del termine maccheroni è costituita proprio dai territori dell’antica Magna Grecia, spesso etichettati semplicemente come “area siciliana”. Qui forse, già all’epoca di Idrisi, i pastai arabi avevano brevettato un metodo per così dire rivoluzionario, la bucatura delle itriya (o “vermicelli”) per favorirne meglio l’essiccazione e la conservazione. Non a caso infatti Mastro Martino, nel suo Libro di arte coquinaria (metà XV secolo), intende per maccheroni sia “strisce di pasta tagliata larga un dito piccolo” che una pasta “bucata nel senso della lunghezza”, forma che si ottiene “modellando dei piccoli rotoli di pasta all’interno dei quali si fa passare un ferro per tutta la sua lunghezza”. Con questo procedimento si ottengono quelli che Martino chiama “maccheroni alla siciliana”[11], a proposito dei quali il Montanari osserva che “la loro produzione era già a quel tempo affidata a degli specialisti” [op. cit.].

Fra quest’ultimi nel corso del XV e XVI secolo vanno annoverati anche i Conventi e certamente prodotti in un Cenobio erano i “maccheroni col formaggio parmigiano” offerti il 23 maggio 1577 a Fra’ Serafino Razzi dai monaci di Cassino[12] , mentre A. Cirillo-Mastrocinque ci ricorda alla luce di molti documenti che “nelle grandi cucine dei monasteri napoletani si lavoravano nel XVII secolo e si rivendevano lasagne, tagliolini, pappardelle e casatielli” [op. cit.].

Allo stato attuale delle nostre conoscenze ci troviamo così di fronte ad una paradossale situazione, che potrà essere chiarita solo a seguito di nuove fonti archivistiche: abbiamo cioè, come sottolineano alcuni autori in precedenza citati, la certezza – a partire dal ‘400 – della produzione di maccheroni, “lunghi e forati” ed “adatti a lunga conservazione” [L. Sada, op. cit.], ma non notizie in merito agli attrezzi con cui venivano ottenuti.

E l’orizzonte d’indagine, pieno di incertezze, non comprende – come erroneamente è stato fatto finora – solo il mosaico delle realtà italiane, ma gli ambienti di corte francesi all’indomani dell’arrivo di Caterina dei Medici in Francia, ed anche il mondo arabo, a conferma, come sottolinea l’Aubaile-Sallenave, “de la varieté des cultures de ce vaste bassin méditerranéen”[13].

È probabile che, a differenza degli ambienti di corte, nel mondo rurale meridionale fosse diffuso nei secoli passati un singolare strumento per ottenere maccheroni, assai in auge soprattutto in Cilento ma sconosciuto, per quanto ci risulta, in Abruzzo. In quell’area del Salernitano si ottenevano particolari “fusilli” mediante un ferro quadrato attorno al quale si avvolgevano strofinando abilmente con le mani in senso orario ed antiorario delle strisce sottili di pasta, larghe all’incirca 3-4 cm. e lunghe a piacere[14].

Questi particolari fusilli, lasciati asciugare sopra delle spianatoie, potevano conservarsi per alcuni giorni e risultavano di particolare bontà con i vari condimenti, perché la salsa veniva trattenuta nelle spire della pasta attorcigliata, una forma questa che sarà esaltata in seguito dall’introduzione del pomodoro in cucina[15].

Al di fuori di questo rudimentale strumento, dalle mie informatrici salernitane ritenuto di antica origine, le fonti storico-letterarie non ci hanno tramandato fino al XVI secolo nomi o descrizioni di attrezzi per far maccaroni , a meno che ad essi non si voglia ascrivere anche il “ferro” di cui parla il Maestro Martino e che si faceva passare attraverso i rotoli lunghi di pasta per forarli ed ottenere così i particolari “maccheroni alla siciliana”, simili per forma agli gnocchi, un binomio che si è protratto semanticamente fino a tempi non lontani da noi. Agli inizi dell’800 il Placucci scrive infatti nei suoi “Usi e pregiudizj de’contadini della Romagna” che in occasione della nascita di un bimbo “il pranzo sarà di gnocchi, ossiano maccheroni, s’è maschio; e s’è femmina di lasagne”[16].

Probabilmente la separazione concettuale fra gnocchi e maccheroni, come è intesa nei nostri giorni, si verifica nell’utimo decennio del XVIII secolo e soprattutto con la pubblicazione da parte di Vincenzo Corrado del “Trattato delle patate” (Napoli 1798), in cui appaiono codificati sia la ricetta patate in gnocchi che l’uso di mescolare farina di grano e patate nella panificazione[17].

Va rilevato che ancora nell’Inchiesta Iacini, i cui atti furono pubblicati nel periodo 1880-85, emergono dati impressionanti sull’alimentazione dei ceti sociali indigenti, a base per lo più di formentone, mentre nell’impasto casalingo per gnocchi e maccheroni solo di rado veniva impiegata farina di grano. I cereali usati da questi ceti erano di norma il miglio, l’orzo, il farro e soprattutto la segala, nella quale si sviluppava un fungo ritenuto causa dell’ergotismo cancrenoso o “fuoco di Sant’Antonio”, una devastante cancrena che causava la perdita degli arti inferiori e superiori[18]. Questi cereali erano impiegati anche nella panificazione e specie nei paesi dell’area della Maiella è tuttora viva l’espressione “l’hanno messo a pane bianco”, per indicare una persona moribonda cui veniva somministrato un po’ di pane bianco per soddisfare, quale lugubre viatico, un desiderio rimasto spesso inappagato per tutta la sua vita.

È arrivato tuttavia il momento, dopo il quadro storico generale descritto in precedenza, di entrare nel vivo del problema analizzando i risultati cui sono pervenuti i linguisti nella spiegazione della parola maccheroni, strettamente legata alla chitarra, risultati che possono essere ritenuti decisamente sorprendenti.

Sull’origine del nome maccheroni, “cibo dei morti”.

Quella che non è più una supposizione, la diffusione cioè dei maccheroni e vermicelli non solo da ambienti arabi e siciliani, ma anche da quell’area geografica più ampia corrispondente alla Magna Grecia, viene riaffermata dalla Diodato, la quale sottolinea che “uscita dalle cucine di ricchi privati siciliani, che perpetravano una tradizione araba, la produzione della pasta trova già nel XII secolo i suoi artigiani nelle città della grande isola. A metà del XII secolo alcuni produttori di paste alimentari si sono installati a Napoli, altri aprono botteghe in numerose città liguri”[19].

Quest’ultima affermazione va presa tuttavia, in assenza di fonti sicure, con molta cautela, alla luce soprattutto di un fondamentale studio sull’argomento per lo più sconosciuto agli studiosi di storia della gastronomia. Alludiamo al già citato saggio di Giovanni Alessio dal titolo Storia linguistica di un antico cibo rituale: i maccheroni.

L’illustre linguista, passato a miglior vita alcuni anni fa, ci offre l’etimologia della parola maccheroni con una rigorosa impostazione storico-linguistica, da considerarsi oggi esemplare e fondamentale per ogni ricerca sull’argomento, i cui risultati possono essere sintetizzati come segue, avvertendo però che si rimanda alla lettura del saggio citato per ogni altro aspetto storiografico da noi non trattato in tale sede.

Si è detto in precedenza che la più antica documentazione della parola maccheroni appare in un atto notarile genovese del 4 febbraio 1279, nel quale è menzionata barixella una plena de maccaronis. Alla luce di tale documento, sottolinea l’Alessio, “si sarebbe portati a concludere che i maccheroni si diffusero nella seconda metà del XIII secolo da Genova e raggiunsero nella prima metà del XIV sec. La Toscana e la Sicilia e solo agli inizi del XVI sec. Napoli”. Ma, avverte l’Alessio, “le cose stanno ben diversamente”.

Infatti alcuni studiosi, come per es. V. De Bartholomeis, avevano invano richiamato l’attenzione dei ricercatori sul soprannome Mackarone, assente nei documenti coevi dello Stato della Chiesa e degli Abruzzi, ma presente in alcune carte della prima metà dell’XI sec. soprattutto nel Salernitano e nell’antico “territorio della Magna Grecia”.

Quello che nelle suddette aree era evidentemente un “nomignolo”, comunque significativo, appare in Sicilia un vero e proprio nome. Di conseguenza, scrive l’Alessio, “questi dati rendono legittima la ipotesi che la patria dei maccheroni vada ricercata nella Magna Grecia piuttosto che nella Liguria”.

Pertanto “nulla vieta di pensare che a Genova i macheroni siano stati introdotti proprio dalla Sicilia”, dato che i rapporti fra la Repubblica marinara e l’isola furono particolarmente intensi durante la dominazione normanna. Questa ipotesi, sottolinea l’Alessio, “prende maggior consistenza se consideriamo che più tardi da Genova si diffonde anche il nome di fidelli o fedelini… dal greco moderno fides, ma di origine araba, cui corrisponde la tria della Sicilia, che risale all’arabo al-itriya”. Tale voce è documentata dal IX sec. ed indicava “un manufatto di semola, che veniva preparato come un tessuto di stuoie che veniva di poi seccato e cotto, ed è ancor viva nelle parlate arabe per designare una specie di vermicelli. La voce, che l’arabo ha in comune con l’aramaico e con il siriaco, è un prestito dal greco itria”, termine presente come si è visto nel testo di Idrisi dal quale apprendiamo che “la Sicilia era già nel secolo XII un centro di esportazione di pasta, chiamata itriya, in tutto il bacino del Mediterraneo. C’è da scommettere, come sottolineano S. Serventi e F. Sabban (ivi p.41), che si trattasse proprio di pasta del tipo vermicelli.

Una scommessa, questa, vinta in partenza, avrebbe rilevato l’Alessio, perché nel famoso dizionario arabo del persiano al-Firuzabadi (XIV sec.) l’itriya è definito un “piatto di pasta filiforme”.

Da quale voce, si chiede l’Alessio, derivano sia il soprannome che il nome mackarone presenti nei documenti siciliani e del Salernitano dell’XI e XII secolo citati, che si presentano su un piano sincronico e differente rispetto a quello delle tria o itriya per indicare comunque “paste filiformi”? Ricollegandosi ad una intuizione, definita “mirabile”, dello storico e linguista francese Gilles Ménage (1613-1692), Giovanni Alessio perviene dopo ulteriori riscontri filologici alla eliminazione di ogni dubbio sulla vexata quaestio: la parola maccheroni deriva dal “greco tardo makarìa, cioè “cena funebre”, termine a sua volta collegato al sostantivo makàrioi che significa “i beati, i morti”. Si tratta dunque di “una formula di buon augurio a favore del morto, pronunziata da ogni convitato al pasto funebre, una sopravvivenza rituale del perideipnon che nell’antica Grecia seguiva il seppellimento e che tutt’ora si pratica nei paesi di rito bizantino con il nome di makarìa:

makarìa e mneme tou kekoiménou”,

cioè buona cena funebre in ricordo di chi giace (dunque del morto).

Alla “cena funebre” fatta in comune – prosegue l’Alessio – fu più tardi sostituito il pranzo che dai vicini si manda nella casa di un defunto nei primi giorni dopo la morte, noto in Abruzzo con i termini cònzele o recùnzele. Il termine tardo-greco makarìa diventa successivamente nel “latino regionale” dell’area della Magna Grecia macario-onis ed è in rapporto con il “grecismo regionale maccum”, nel senso di puls fabata, cioè una sorta di polenta a base di fave da cui deriva l’italiano macco, “vivanda grossa di fave sgusciate, cotte nell’acqua e ridotte come in pasta”.

Ci sembra molto probabile, prosegue l’Alessio, dato che le due voci appaiono originariamente diffuse nella stesa area, cioè nella Magna Grecia, che maccum possa essere una forma ipocoristica, con geminazione espressiva, del ricostruito macario e che da una contaminazione delle due voci, passate più tardi ad indicare cibi differenti, si possa spiegare l’ageminazione che vediamo in maccheroni”.

Si focalizza così il valore semantico insito nella fusione delle due parole maccum-makàrioi (puls fabata – morti) cioè “polenta di fave in onore dei morti”, che ci restituiscono a distanza di secoli il significato originario di maccheroni come cibo rituale nei banchetti funebri in onore del defunto.

Infine – sottolinea l’Alessio – va ricordato che da maccum derivano le voci dialettali tuttora in uso nel Mezzogiorno ed in Abruzzo: macche oppure màcchene, nel senso di “polenta molto dura”.

A Cansano, Campo di Giove, e Pacentro, lu màcchene viene tagliato a fette, data la sua durezza, con uno spago o filo di ferro. Forse non a caso nei paesi sopra citati gli spaghetti sono tuttora chiamati la pasta delle nozze e d’altro canto costituiscono il primo piatto preparato dalla famiglia del compare (lu San Giuanne) dopo la fine delle esequie.

Il Cinquecento e l’Opera di Bartolomeo Scappi.

È nel corso del XVI secolo che abbiamo notizie precise su alcuni attrezzi “per far maccaroni”, in uso prima nelle cucine di corte, nobiliari o di alti prelati e dopo discesi, come tanti altri fatti culturali, nel variegato mondo subalterno tramite gli stessi scalchi, sottoscalchi, trincianti, inservienti ecc., tutti di modesta estrazione sociale.

Non mancano casi opposti perché da sempre l’arte della cucina ha affascinato persone a prescindere dal ceto di appartenenza. È il caso per es. del nobile ferrarese Cristoforo Messisburgo, autore della nota opera culinaria Compendi pubblicata nel 1549. Egli è un gentiluomo diventato scalco ducale per soddisfare le complesse esigenze di corte che si accompagnano ai “servizi di credenza e di cucina”, quali danze, musica, giochi ecc. destinati a rallegrare i commensali al pari della bontà delle vivande servite.

La presenza presso la Biblioteca del Convento di Santa Chiara a L’Aquila di una rarissima copia dell’Opera di Bartolomeo Scappi, stampata a Venezia nel 1570 per i tipi di Michele Tramezzino, ci indusse a riproporre in uno dei “Quaderni” pubblicati dall’Istituto Alberghiero di Roccaraso, allora da noi presieduto, i brani più significativi dell’Opera composta dal “cuoco secreto” di Pio V[20].

Il prezioso cimelio bibliografico è corredato di 28 tavole “universalmente considerate – come sottolinea D. Adacher nell’introduzione al citato Quaderno – un punto di riferimento nella storia della gastronomia italiana”, che già il Montaigne, nei suoi Essai, riteneva “splendido esempio dello spirito rinascimentale”.

Le Tavole che corredano l’Opera dello Scappi, divisa in sei libri, rivestono una straordinaria importanza perché riproducono gli spazi riservati alla cucina, ampi ed ariosi, nonché l’immagine quasi fotografica di tutti gli utensili e suppellettili adoperati dal personale in servizio. Anticipando con mirabile intuito alcuni princìpi della moderna gastronomia, lo Scappi ricorda al suo allievo Giovanni il modo di comportarsi da parte del personale e la tecnica dei servizi, sottolineando nel primo libro che le vivande devono risultare sia “saporose et grate al gusto, che piacevoli et dilettevoli all’occhio, con loro bel colore, et vaga prospettiva”.

Ma veniamo ora alle immagini che particolarmente interessano, tratte dall’Opera diScappi. Nella figura n°1 è riprodotta quasi “a volo d’uccello” la cucina di un palazzo signorile dell’epoca, al centro della quale alcuni scalchi – come si legge nella didascalia – “lavorano de pasta” attorno ad un tavolo sul quale spiccano una sfoglia di pasta con il matterello (dallo Scappi chiamato nel testo bastone) ed uno strano attrezzo con manico, raffigurato due volte (all’inizio e verso la fine del lungo tavolo), costituito da una ruota con due file di denti.

L’attrezzo in questione non è stato certamente raffigurato per caso sul “tavolo da pasta” (come si legge in una didascalia) e probabilmente serviva per tagliare la sfoglia in modo tale da ottenere strisce di pasta della stessa larghezza. Che potesse trattarsi di uno “sperone” è assai improbabile, perché quest’ultimo attrezzo, come nei nostri giorni, era usato all’epoca dello Scappi per “tortiglioni ripieni”, “raviuoli” ecc. e dunque per il ritaglio di pezzi di sfoglia destinati a contenere ripieni di ricotta, verdure o formaggi grattugiati, spesso impastati con l’uovo, ed è chiaramente raffigurato ed indicato in un’altra Tavola insieme a diversi utensili (figura n°2).

Di particolare importanza risulta invece un altro attrezzo illustrato nella stessa Tavola, dove insieme ad una serie di coltelli adibiti a vari usi (coltelli da torta, coltelli da pasta ecc.) viene raffigurato un ferro da maccaroni (figura n°2), che, osserva giustamente il Marsilio, “è identico all’odierno rentròcelo usato in Abruzzo in area frentana, anche se ora è costruito in legno”[21]. Si tratta, come risulta dalla figura, di un “matterello scanalato” avente alle due estremità un manico per far pressione sulla sfoglia di pasta e tagliarla a strisce. Lo strumento, sia quello raffigurato nell’Opera dello Scappi, che quello in uso in area frentana, poteva essere di ferro o di legno. Se di metallo, l’attrezzo aveva ovviamente una maggior durata e risultando più pesante esercitava maggior pressione sulla sfoglia, che veniva così tagliata in modo più netto.

I “maccaroni” in tal modo ottenuti venivano afferrati con le molete (sic) per pasta raffigurate in alto nella figura n°3 e posti ad asciugare prima della loro cottura, se destinati al consumo giornaliero, su un telaio di legno in una stanza arieggiata posta a fianco della cucina.

B. Scappi non ci offre nella sua Opera una immagine di questi telai, raffigurati invece nel famoso Tacuinum Sanitatis (seconda metà del XIV sec.) in ambienti che possono essere considerati aziende casalinghe per la produzione e lunga conservazione della pasta.[22] Assai importante ai fini della nostra ricerca risulta il Libro V dell’Opera in cui lo Scappi tratta le paste, ed in particolare il cap. CLXXIIII, sfuggito all’attenzione del Marsilio e di altri gastronomi, che ha come titolo: Per far minestra di maccaroni alla romanesca. Scrive infatti lo Scappi:

“Et impastata che sarà essa pasta … facciasene sfoglio con il bastone

 lasciando esso sfoglio alquanto più grossetto … et facciasi asciugare;

con il ruzzolo di ferro o di legno, taglinosi i macaroni”.

L’attrezzo genericamente indicato nella Tavola dello Scappi come ferro da maccaroni aveva dunque un nome, cioè ruzzolo, che poteva essere, come il rentrocele frentano, di legno o di ferro. Introducendo il discorso sulle paste (Libro V), Bartolomeo Scappi precisa a proposito della tavola de pasta che questa deve essere “un tavolone liscio, et spianato, di lunghezza di quindici palmi ed altezza di palmi tre e mezzo, ove si possa lavorare d’ogni sorte di paste”.

L’impasto avviene nel modo tradizionale e dunque a mano, come si vede chiaramente nella immagine in cui è raffigurato un inserviente che ammassa, mentre sul tavolo spicca la didascalia “lavorano de pasta”.

Non è rappresentata nelle Tavole la gramola a briga, forma arcaica della gramola a stanga, già segnalata in documenti del XIII sec. e nel “Codice Diplomatico Barese” ma diffusasi come mezzo tecnico per un efficace impasto alla fine del XVI sec. con lo sviluppo delle piccole aziende pastaie [Serventi-Sabban, op. cit.]. Tuttavia lo Scappi ne aveva previsto la grande utilità anche per le cucine private e signorili allorché afferma nel libro primo che fra gli attrezzi deve essere annoverata “una gramola per gramolar ogni sorte di paste, acciocché tal cucina habbia ogni commodità”.

Il taglio della sfoglia avveniva di norma anche con i “coltelli da pasta” raffigurati nelle diverse Tavole, specie per i maccheroni alla genovese, che si ottenevano avvolgendo la sfoglia attorno al matterello e sfilato quest’ultimo si tagliava il tubo di pasta in anelli più o meno larghi. Si intuisce che con il ruzzolo descritto dallo Scappi il taglio della sfoglia avveniva secondo la forma desiderata ed i “maccaroni” in particolare risultavano identici per lunghezza, spessore e larghezza, un risultato questo non sempre garantito dall’impiego del coltello o dello “sperone”, quest’ultimo adoperato comunque per il “riquadro” della sfoglia prima di effettuare il taglio con il ruzzolo.

Vien fatto di pensare così che il principio della “armonia delle forme” abbia pervaso in pieno Rinascimento non solo le straordinarie realizzazioni artistiche e architettoniche, ma anche gli aspetti più impensati della vita quotidiana, dalle fogge di vestire fino agli stessi attrezzi da cucina. Sicché nell’allestimento di sontuosi banchetti nei palazzi di nobili famiglie o di alti prelati, di cui lo Scappi ci offre alcuni esempi, le tavole sono apparecchiate con “cocchiari, forcine e cortelli d’oro o d’argento”, ed ornate con statue “di zuccaro e butiro”. Così in una collatione (colazione) organizzata nel giardino di una lussuosa dimora in Trastevere, Bartolomeo Scappi realizza “cinque Ninfe” e “Diana con l’arco et cane al laccio” con grande stupore e plauso degli illustri commensali.

In tale atmosfera rinascimentale il tradizionale e pur sempre indispensabile coltello da pasta è relegato ad un ruolo secondario nel taglio della sfoglia, lasciando il posto al ruzzolo, attrezzo più consono a conferire omogeneità geometrica alla forma dei maccaroni e – come sottolinea lo Scappi – ad “allietare l’occhio del Principe”.

Insomma, nota acutamente l’Adacher, leggendo l’Opera dello Scappi “vengono subito alla mente i trattati rinascimentali, ad es. quelli dell’Alberti o di Leonardo, in cui tutto deve concorrere a dare senso di armonia e bellezza”[23]

La “chitarra” per maccheroni. Origini e diffusione.

Il ruzzolo è un attrezzo diffuso presso le cucine di corte ed assai adatto alla divisione della sfoglia di pasta fatta di semola di grano duro. Quello più ricercato dalla seconda metà del XVI sec. era la saragolla, che perderà tale primato soprattutto in Abruzzo nella seconda metà del ‘700 con l’impiego del grano solina, più adatto alle caratteristiche dei terreni appenninici[24]. Poiché i ceti indigenti solo di rado avevano la possibilità di mangiare pane bianco oppure pasta fatta di semola di grano – per gli impasti infatti venivano usati di norma farina di miglio, orzo, segala e farro – ne deriva che il ruzzolo fosse in origine un attrezzo in auge presso le cucine signorili e successivamente diffuso dal personale di cucina negli strati sociali più umili cui essi stessi appartenevano.

Noi propendiamo dunque, per le ragioni suddette, a favore di un “fenomeno di discesa” dell’attrezzo, ma non mancano opinioni opposte, di “ascesa” cioè dai ceti umili e rurali verso quelli nobili e comunque agiati, come sostengono appunto Serventi e Sabban, secondo i quali il ferro da maccheroni (i due Autori ignorano il termine ruzzolo usato dallo Scappi) “utilizzato nell’ambito della confezione domestica, non poteva essere ignoto ai professionisti” [op. cit.] ma cadono come ci sembra in contraddizione quando affermano (ivi) che “il ferro da maccheroni ha conosciuto una vasta diffusione, per lo meno nelle grandi cucine dell’alta società”.

Nelle cucine di corte il ruzzolo deve avere avuto comunque vita breve, perché di esso si perdono le tracce mentre con il nome di rentrocele si è conservato nel mondo rurale – e non solo frentano – fino ai nostri giorni. Ne abbiamo uno sotto gli occhi acquistato a Pretoro (Ch). Esso è lungo 38 cm., con 18 cm. di spirale[25] al centro e 10 cm. in ciascun lato nei due manici. Un altro rentrocele ci è stato mostrato dal sig. Rocco Di Clemente, proprietario dell’Albergo Ristorante “Vistamonti” di Ortona (Ch). Quest’ultimo tuttavia non è di origine frentana, ma proviene invece dal Gargano e precisamente da Monte Sant’Angelo.

Il sig. Di Clemente l’ha ricevuto in dono dal sig. Franco Gatta, pensionato di 74 anni originario di Monte Sant’Angelo, ma residente da molto tempo ad Ortona. Secondo il sig. Gatta ‘u ‘ndròccele – così suona in dialetto foggiano lu rintrocele (o rentrocele) frentano – era diffuso in tutta l’area della Capitanata e presentava spirali di diversa larghezza a seconda della forma desiderata di pasta. Qui l’attrezzo tuttavia viene ancora usato nei giorni festivi ed i maccheroni da esso ottenuti si chiamano lintorci.

Ci sarebbe da indagare molto sul ruolo svolto a tal riguardo dalla pastorizia transumante, cui si deve lungo i territori attraversati dai tratturi la trasmissione di questo come di tanti altri fatti culturali e lo scambio di esperienze che attraverso un metodo dialettico hanno portato all’ampliamento delle cognizioni materiali e spirituali dei vari gruppi sociali.

Indagini, queste, tanto più opportune perché lu rentrocele è del tutto sconosciuto in Molise, come ci assicura il noto studioso Enzo Nocera, di Campobasso, autore di importanti saggi storico-gastronomici, e di tale fenomeno non è certamente agevole scoprirne le cause.

Le perplessità tuttavia aumentano quando si riflette sulla circostanza che in area teramana esiste un attrezzo chiamato pure runtròccelo, ma completamente diverso da quello frentano. Di tale attrezzo abbiamo immagini fotografiche effettuate a Borgonovo dal compianto studioso Rino Faranda, durante le sue “peregrinazioni” storico-gastronomiche nell’area orientale del Gran Sasso e dei Monti della Laga. Si tratta in breve di un cilindro di ferro filettato, chiuso alla base da un coperchio forato e sostituibile (trafila), nel quale si introducono uno alla volta pezzi di pasta ammassata, spinti in basso da un lungo ferro, anch’esso filettato e dotato di manico. A causa della pressione esercitata, la pasta fuoriesce dai fori in forma di maccheroni, simili a quelli che si ottengono con la chitarra. La base forata del runtròccelo non è saldata perché – come avverte lo stesso Faranda – “si possono ottenere forme di pasta diverse, a seconda della trafila voluta ed usata”[26].

Ciò che sorprende tuttavia è che questo runtròccelo, che il Faranda dopo attive ricerche fa risalire alla fine del XVIII sec., presenta straordinarie somiglianze con un attrezzo descritto nei seguenti termini da Alessandro Dumas nel suo Grand dictionnaire de cuisine [s.v. macaroni]:

“Il macaroni è stato introdotto in Francia dai fiorentini, probabilmente quando Caterina de’ Medici venne a sposare Enrico II … l’Italia e soprattutto Napoli è la patria dei maccaroni. Tutte le specie di farina con le quali si fa il pane, possono servire per fare i macaroni … La semola, convertita in pasta, schiacciata e pestata, è messa in un cilindro metallico … Sul fondo del cilindro si trova un crivello bucato da piccole fenditure della larghezza che si vuol dare alle fettucce del macaroni. Premendo fortemente, la pasta fuoriesce dallo stampo sottoforma di nastro del quale si riuniscono i bordi che si attaccano e formano così i tubi destinati al consumo. I veri golosi introducono in questi tubi, con l’aiuto di una piccola siringa, del sugo di carne o di pesce”.

Il passo da questo tipo di “fettuccine” che venivano arrotolate, ad un crivello “dello spessore di un grosso fuscello di paglia” di cui il Dumas parla in altro luogo, deve essere stato breve e salutato anche in Francia come evento gastronomico, perché eliminava “la riunione dei bordi” e l’impiego di molto tempo superfluo. Vien fatto di chiedersi come mai due attrezzi diversi, quello frentano e teramano, abbiano lo stesso nome di rintrocelo e solo il primo sia spiegabile etimologicamente in base al movimento rotatorio compiuto dall’attrezzo sulla sfoglia di pasta. L’unica spiegazione plausibile è che nel teramano si conoscesse il ruzzolo oppure il rintrocelo frentano, da cui si ottenevano maccheroni simili a quelli ricavati con l’attrezzo risalente – come scrive il Faranda – alla fine del XVIII sec. e dunque al periodo di dominio francese, il che spiegherebbe la somiglianza del runtròccelo teramano con l’attrezzo descritto da A. Dumas.

Ma frattanto a Napoli erano stati fatti progressi notevoli in questo campo, poiché – sottolinea Jeanne C. Francesconi [La cucina napoletana, Roma 1992] – “agli inizi del ‘600 … era stata inventata una primitiva macchina detta ingegno, nella quale la pasta, dopo essere stata lavorata con i piedi, veniva fatta passare forzandola attraverso dei fili tesi o a quella che doveva essere la prima idea della trafila”. Si tratta, per completare e chiarire il passo riportato della Francesconi, di una innovazione importante costituita dal torchio, simile a quello del vino. Se in un primo momento l’impasto avveniva con i piedi, come facevano fino a mezzo secolo fa i vignaiuoli che pigiavano l’uva, alla forza dei piedi fu sostituita subito dopo quella esercitata dalla gramola a stanga e l’impasto ottenuto con questa macchina veniva inserito nel torchio dotato di trafila [Serventi-Sabban, op. cit.].

Siamo in grado oggi, a distanza di dieci anni, di precisare il periodo alquanto vago indicato dalla Francesconi (“inizi del ‘600”) a proposito dell’invenzione a Napoli della “primitiva macchina detta ingegno”, grazie all’Archivio Storico Municipale di Napoli che ha permesso agli studiosi di poter consultare le delibere riportate nelle Assisae, cioè nei pubblici parlamenti. A seguito di una risoluzione adottata in una riunione precedente, fu emesso a Napoli in data 24 ottobre 1565 un’ordinanza che fissava il prezzo dei “maccheroni, vermicelli e altre robbe de pasta fatte all’ingegno a grani sette il rotolo, con ordine espresso che debbiano li vermicellari fare roba di pasta di semola assoluta”[27].

Pur non essendo Napoli – a differenza di quanto scrive A. Dumas – “la patria dei maccaroni”, l’importante data del 1565 è indice di un mutamento in atto presso la società partenopea ed i Napoletani, non più “mangia foglie”, come si è detto in precedenza, cominciano ad essere apostrofati come “mangia maccheroni”.

Il termine ingegno continuò a designare per tutto il ‘600 l’attrezzo citato nella Assisa del 1565, che era tuttavia di carattere professionale ed usato nelle piccole aziende a carattere familiare che si diffondono rapidamente, come scrive la Cirillo-Mastrocinque, a Napoli ed in altri centri del Regno.

A riprova tuttavia del fenomeno della poligenesi nel settore delle “invenzioni” finalizzate alla produzione di paste filiformi, abbiamo la notizia di un’altra “macchina” chiamata ingegno per li maccheroni di cui ci dà notizia Cristoforo Messisburgo[28], che prestava servizio come scalco nella prima metà del XVI sec. a Ferrara, presso la corte Estense.

Non si tratta tuttavia di un “ingegno” come quello napoletano con torchio e trafila, bensì di uno strumento descritto come segue dal frate domenicano Giovan Battista Labat agli inizi del ‘700 in occasione del suo Viaggio in Italia. Esso consiste, scrive padre Labat, in una “siringa il cui cannello presenta una gran quantità di forellini e con la quale si fanno questi vermicelli nelle case private” [Serventi-Sabban, op. cit.].  

Insomma nel XVI e XVII sec. il termine “ingegno” sta ad indicare per lo più – come vedremo ancora nel corso dell’800 – un congegno meccanico, un apparecchio oppure un attrezzo collegato ad una trafila e “proprio in quest’epoca si diffonde nella lingua napoletana l’espressione pasta d’ingegno, ossia modellata alla trafila”. [Serventi-Sabban, op. cit.]

Queste innovazioni meccaniche scaturite da esigenze di commercializzazione da parte delle fiorenti aziende pastaie, risultavano di dimensioni comunque notevoli rispetto agli spazi fruibili nei modesti ambienti familiari. Per la casa occorreva dunque non una macchina, ma un attrezzo. Sicché dai telai con fili di ferro tesi ed adibiti all’essiccazione dei maccheroni deve essere scaturita la prima idea della “chitarra”. E non – come riteniamo – in area campana, dove tutt’ora essa è estranea per tradizione, ma lungo la fascia orientale attraversata dai tratturi, cioè Abruzzo, Molise e Puglia, regione quest’ultima in cui i pastai mostrano una vivace attività produttiva e commerciale a partire dal XV sec.     

Premesso che almeno in area frentana, teramana e, come si è visto, in Capitanata, lu rentrocele ha avuto modo di convivere comunque con la “chitarra” fino ai nostri giorni, è possibile ipotizzare – pur sulla base di scarne notizie – in quale periodo la “chitarra per maccheroni” abbia iniziato a diffondersi nelle tre regioni sopra ricordate ed in parte anche nel Reatino. La prima riflessione parte proprio dallo “strumento musicale” chitarra, che ha conferito per evidenti somiglianze lo stesso nome all’attrezzo “col quale vengono fatti tradizionalmente gli spaghetti (sic!) in Abruzzo ed in altre regioni meridionali della Penisola. [Serventi-Sabban, op. cit.]

Come si è detto [cfr. nota 1], nella tradizione Napoletana esistevano nel XVIII sec. due strumenti, il colascione e la tiorba, che trovano grande eco nella storia letteraria e musicale partenopea. Nella prima metà del XVIII sec., ed in ambiente abruzzese, troviamo citato il colascione nel poemetto di Romualdo Parente Zu matremonio a z’uso, in dialetto scannese, (stanza 21: Mazzuòcco ‘ntanno … comenzette a sonà zu qualascione)[29]. La prima edizione del poemetto risale 1765 e fu pubblicata a Napoli, dove il Parente si forma culturalmente e consegue la laurea in Diritto Civile.

Ma dove emerge, particolare questo di grande importanza, l’assenza completa dell’attrezzo “chitarra per maccaroni” è negli Inventari e Carte Dotali dei secoli XVII e XVIII nonché nei Riveli dello stesso periodo, quest’ultimi contenenti “la descrizione analitica dei beni mobili ed immobili posseduti dalle singole chiese, cappelle, ospedali e confraternite delle diocesi, redatti dalle autorità civili dei singoli paesi in forma di atto pubblico”.

Nel Rilevo stilato nel 1721, relativo all’Ospitale di S. Antonio de Padova, di Pettorano, troviamo elencati tutti gli attrezzi di cucina possibili ed immaginabili, ma non la chitarra:

“Una caldarella di rame, un cotturo, un caldarello, una conca, una fressora, una statela, due catene di ferro per il foco, una cocchiara di maccaroni usata, due spiti, un ferro per le pizzelle, un spianaturo, una botticella ecc.”.

Nell’inventario stilato nel 1808 nel Convento dei Padri Carmelitani di Pettorano, sono elencati nel capitolo Cucina i seguenti attrezzi: “Vari ordegni di ferro per il fuoco, due candelieri, una lucerna, due conche di rame, uno scolatoio, tre caldai, una statera, un braciere, cinque treppiedi, un polsinetto, un pignato (sic), una sartagine (specie di padella) per friggere, una tiella, due cocchiare, una graticola, una grattacacio, un coltellaccio, due cati o siano cottorelle, un mortaio, un’arca da far il pane, una cassa da tener farina vuota, un mezzetto, una coppa, sette fra botti e vascelli, un barile per trasportar vino …” [Cfr. E. Mattiocco- E. De Panfilis, La Terra di Pettorano, Teramo 1989].

Gli stessi attrezzi sono elencati poi nell’Inventario della “Cucina e Refettorio”.

Non meno importanti risultano le “Carte Dotali” di Scanno pubblicate da G. Morelli [Pagine scannesi, Roma 1996], dove accanto agli arnesi ed attrezzi da cucina non viene mai menzionata la “chitarra per maccaroni”. In un Inventario del 5 maggio 1693, fatto nella “Casa dell’heredi del quondam Dr. Francesco Giuseppe De Angelis”, compare tuttavia accanto ad un “arciliuto” un altro strumento chiamato “quitarra spagnola”.

Nell’Inventario de’beni del fu Don Orazio Barone Serafini, stilato nel 1840, sono elencati addirittura utensili ed attrezzi relativi a due cucine, ma della “chitarra per maccheroni” non v’è alcuna traccia. Nella cucina del secondo piano sono solo citati: tre casserole, tre tielle co’coverti di rame, tre sartagini, due manieri di rame, sette cochiare di ferro, due graticole di ferro, sette trepiedi di ferro, due spiedi anche di ferro, un trita caffè, un fiasco di rame, una bilanciola, vari piatti e pignatte, quattro candelieri, due bracieri di rame, due tavolini ed una spianatora di faggio, una mesa da far pane, numero 18 sedie vecchie, un mortale di metallo, un cassone di legno, oltre a piatti, bicchieri , forchette ed altri utensili citati in altri elenchi.

Se è vero che la storia è fatta dai documenti, dovremmo concludere che alla data del 1840, quella appunto dell’Inventario in precedenza ricordato, non si ha notizia nell’Abruzzo Aquilano dell’attrezzo noto come ’ngegne, adibito alla produzione di maccheroni in casa. Ma sappiamo che le ricerche d’archivio riservano sempre sorprese e non si possono di conseguenza trarre conclusioni affrettate. Infatti maggior fortuna ha avuto lo storico Nicola Fiorentino che in tale sede ringraziamo vivamente per una preziosa notizia fornitaci inerente all’area frentana.

Nel X volume dei suoi “Regesti in terra Casularum” [doc.177], il Fiorentino ha trascritto una carta dotale del 1779, redatta a favore di Felicia Sirolli, di Altino, che va sposa ad un tal Antonio Travaglino, di Casoli, nella quale è menzionato assieme ad altri beni mobili “un maccaronaro con corde di ottone”, stimato “carlini 6”.

Ciò significa che l’attrezzo cominciava gradualmente a diffondersi nella seconda metà del XVIII sec. non solo in area frentana, ma forse in tutto l’Abruzzo Citeriore. Quando il termine maccaronaro e le altre voci ‘ngegno e carraturo (quest’ultimo in uso – come mi assicurano alcuni informatori – maggiormente nell’attuale area del Pescarese)[30] saranno sostituiti dalla parola chitarra, è difficile da accertare. Ciò è avvenuto probabilmente nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, quando si completa l’attuale rete ferroviaria regionale e cominciano ad apparire le prime guide turistiche sull’Abruzzo, più esaurienti rispetto a quelle precedenti pubblicate da Karl Baedeker in lingue straniere dal 1869 in poi[31]. Occorreva infatti riunire in una singola voce, operazione questa di “origine dotta” e desunta dalla somiglianza dei vari attrezzi con lo strumento “chitarra”, tutte le diverse designazioni esistenti nelle varie aree regionali ed indizio sicuro della diffusione già in atto del termine “chitarra” è costituito dal Vocabolario del Finamore (1893), nel quale oltre alla voce areale maccarunare, vengono registrate in forma dialettale anche catarre e chetarre. Come si è detto in precedenza, in area peligna ed in genere nell’Abruzzo Aquilano la voce più diffusa è lu ‘ngegne, anche se non manca qualche rilevante eccezione. A Pettorano è in uso infatti il termine maccarunare. Va comunque sottolineato che i termini ‘ngegne, maccarunare e carrature non sono riportati nell’opera giovanile di G. Pansa, Saggio di uno studio sul dialetto abruzzese, (Lanciano 1885).

È rimasto famoso il richiamo degli ombrellai di Secinaro (Aq.), i quali per attirare l’attenzione della gente gridavano per strada “acconcia ‘ngegne e acconcia ‘mbrelle!”, oppure – come si legge in una bella poesia di E. Ricci, di Secinaro – “Acconcia piatte e ‘ngegne rutte!. [Ju Surente Nustre, Sulmona 1966].

Merita di essere riportato il seguente brano di L. Braccili [Folk Abruzzo, Ferri ed., L’Aquila 1979] sugli ombrellai di Secinaro, i quali, secondo l’A., girando per i paesi del Chietino o del Teramano gridavano, al fine di richiamare l’attenzione della gente “assette pure li maccarunare!”, (accomodo anche i maccarunare!),sostituendo così per una vera e propria esigenza semantica il termine ‘ngegne, in uso a Secinaro ed in area peligna, ma sconosciuto in altre parti d’Abruzzo, con quello di maccarunare:  

Giravano di paese in paese, con a tracolla una cassetta piena di attrezzi. Il loro grido era: «ombrellaroooo!» con la “o” finale allungata, come quella che caratterizzava il grido dell’arrotino. Dopo una breve pausa però l’ombrellaio, aggiungeva, in dialetto, «assette pure li maccherunare!». Sì perché quei modesti artigiani quando avevano fra le mani qualche ombrello da riparare chiedevano sempre alla massaia se aveva in casa una chitarra con i fili rotti da rimettere in sesto. Provenivano da Secinaro (altri ne esistevano anche a Pretoro dove era diffusa la lavorazione del legno) e ciò spiega il fatto che si trovavano disposti ad accomodare anche ombrelli da spiaggia, sedie a sdraio, tinozze per il bucato Gli ombrellai insistevano molto nel richiedere quelli che chiamavano “li maccherunare” perché sapevano che in Abruzzo in ogni casa c’è una chitarra per fare i maccheroni carrati. La chitarra non è altro che un telaio rettangolare di legno di faggio che presenta fra i due lati inferiori del rettangolo dei fili di acciaio molto tesi disposti alla distanza di pochi millimetri. Vi sono due tipi di chitarre, secondo i due tipi di maccheroni carrati, il primo per produrre i «maccheroni» tuttuovo, finissimi come i cosiddetti capelli d’angelo, presenta i fili n distanza minima ed il secondo per fare i «maccheroni a mezzuovo», più grossi dei primi e più sodi ed in questo caso la chitarra reca i fili messi ad una distanza più larga.

Su questi fili viene disposta la sfoglia e la massaia lavora con la forza delle sue braccia e con un mattarello per far si che i fili taglino la sfoglia per ridurla in tanti fili sottili.

Questo sforzo della massaia spesso determina la rottura dei fili ed è in questo caso che l’opera dell’ombrellaio diventa indispensabile. Per quanto riguarda gli ombrelli poi ognuno di noi a sue spese si accorge che le piccole cerniere che reggono i fili interni del «paraacqua» sono soggetti facilmente a rompersi.

Purtroppo, quando avvengono queste rotture, siamo costretti a buttare l’ombrello e comprarne un altro. Questo atto dispendioso, dovuto alle implacabili regole del consumismo, lo compiamo abitualmente da quando non sentiamo più gridare in strada: ombrellarooo!.

La diffusione per tutto l’Aquilano del termine ‘ngegne, di chiara origine napoletana, trova spiegazione negli stretti rapporti esistenti fra l’Abruzzo interno e la capitale del regno a partire soprattutto dal 1820, anno di entrata in esercizio della “Real Strada di Fabbrica” che univa Napoli e Sulmona ed il cui ultimo tratto, quello che da Roccapia perviene a Pettorano, è tuttora noto come Via Napoleonica, perché completato sotto il Regno di G. Murat.

In definitiva, la circostanza che in qualche documento d’archivio o notarile si possa rinvenire già agli inizi o alla metà del ‘700, una delle suddette voci (‘ngegne, maccarunare o carrature) non assume a nostro avviso una decisiva importanza, perché ciò che è rilevante è il periodo in cui le suddette voci cominciano a perdere il loro antico valore semantico e la parola “chitarra” si sostituisce alle diverse voci dialettali. Insomma, per dirla con il De Saussure, quando “la parole” diventa “langue”.

Un singolare racconto del D’Annunzio sull’origine della “chitarra per far maccheroni”.

Concludiamo questa nostra ricerca con un racconto del d’Annunzio sull’origine della “chitarra per far maccheroni”, da ritenersi- almeno crediamo- frutto della fervida fantasia dell’Imaginifico.

Ma procediamo con ordine. Gian Carlo Fusco ha pubblicato di recente una raccolta di saggi gastronomici dal titolo “L’Italia al dente” [Sellerio ed., Palermo 2002], un “libro quasi commestibile – sottolinea l’A. nell’introduzione – dedicato a due galantuomini” che furono appunto Giovanni Voiello, fondatore nel 1879 a Torre Annunziata dell’omonimo pastificio, e Raffaele Fusco, nonno dello scrittore, che fu buon letterato.

Ora uno dei saggi di Gian Carlo Fusco ha per titolo “La chitarra dell’Imaginifico” ed in esso si narra come nel 1926 la Marina Militare Italiana decidesse di “donare a Gabriele d’Annunzio, sistemandogliela fra le amene verzure del Vittoriale, la prora della nave Puglia. Cimelio ambitissimo dal Poeta Soldato, perché su quella tolda, nel 1920, a Spalato, era stato ucciso il comandante Tommaso Gulli”.

L’incarico di quell’operazione fu affidato ad alti ufficiali del Genio Navale, fra cui appunto Carlo Fusco, padre dello scrittore, che per una serie di motivi fu costretto a portare con sé il figliuolo Gian Carlo, che all’epoca aveva 11 anni.

Qualche giorno dopo – scrive Gian Carlo Fusco – il gruppo si ritrovò a pranzo a Gardone, invitato dal d’Annunzio, e “due donne dai capelli corvini iniziarono il servizio recando ciascuna un vassoio colmo di pastasciutta fumante”.

A questo punto il d’Annunzio si rivolse a Gian Carlo Fusco e gli chiese: “Hai guardato bene, nostromo giovinetto, i maccheroni che la mia ancella divota t’ha messo nel piatto? Hai notato la loro foggia singolare, curiosa?”

Guardai il piatto – scrive Gian Carlo Fusco – per la prima volta e notai che gli spaghetti non erano di forma cilindrica. “Questa è la pasta caratteristica dell’Abruzzo – aggiunse il Poeta – ch’è la mia terra. È nomata pasta alla chitarra perché un tempo la sfoglia veniva tagliata proprio con le corde di una chitarra. Al posto della quale venne poi usato un istrumento, munito di alcuni fili metallici ben tesi. Si dice che l’arnese sia stato ideato da un ciabattino di Palena, sulle pendici della Maiella, chiamato Manicone. Questa è la storia di questa pasta abruzzese. La rammenterai, angeluzzo marino?”.  Conclude Gian Carlo Fusco: “Si, la ricordo ogni volta che mi capita di mangiare spaghetti alla chitarra”.

La notizia che la “chitarra” sia stata inventata, secondo il d’Annunzio, da un “ciabattino” di Palena va relegata come dicevamo all’inizio, al mondo delle amene curiosità se non delle consuete “bugie” dell’Imaginifico. E fra queste, forse la più vistosa, è quella concernente “la genesi della Figlia di Iorio”, come ha precisato di recente A. Rubini in uno studio storico-critico sull’argomento[32] , nel quale viene smentito il racconto del Vate, secondo cui “lui e Michetti se ne stavano sulla piazzetta di Tocco, allorché vi apparve una donna che fuggiva, inseguita dai mietitori”.

Infatti, sottolinea il Rubini, “sono inesatte le credenze che lo vogliono a Tocco nel 1881,1882 e 1883…e sarebbe impossibile registrare tutti i cambiamenti di umore del Vate, il quale cambiò idea anche a proposito del tempo di realizzazione dell’opera”.

Un’indagine svolta a Palena sul ciabattino “chiamato Manicone” ed inventore secondo il Vate della “chitarra per far maccaroni”, non ha portato ovviamente ad alcun risultato. Ci piace immaginare tuttavia che, come per tanti altri utensili conservati nei nostri Musei Etnografici, ci troviamo di fronte ad un caso di “monogenesi” e diffusione dell’attrezzo ma al di là di ogni ipotesi resta comunque il fatto che la “chitarra” deve essere considerata a giusto titolo come la più bella bandiera del nostro Abruzzo.

Franco Cercone


[1] – Cfr. Giulio C. CORTESE, Opere poetiche, Voll.2, a cura di E. Malato, Roma 1967. Particolarmente importanti risultano due “poemi” inclusi nel 1° volume: la Vaiasseide, poema satirico sulle vaiasse, cioè “serve” o “fantesche”, dal Tassoni definito “eroicomico”, e La Tiorba a taccone. La “tiorba” era una speciale chitarra a due manici, con 8 oppure 10 corde, suonata con un plettro di cuoio detto taccone, donde il suo nome di tiorba a taccone. Essa si distingueva dal calascione (o “colascione”) perché le corde in quest’ultimo strumento “non erano più di due o tre”. Cfr. Giulio C. CORTESE, ivi, Vol. I. Del calascione parla com’è noto Romualdo Parente nel poemetto in dialetto scannese Zu matremonio a z’uso, composto nel 1765, sul quale torneremo in seguito. 

[2] – Cfr. L. SADA, Spaghetti e compagni. Prima documentazione per una storia delle paste alimentari e nomenclatura dialettale pugliese Bari 1982; E. SERENI, Terra Nuova e buoi rossi, Torino 1981; A. CIRILLO MASTROCINQUE, Usi e Costumi popolari a Napoli nel Seicento, Napoli 1978; Jeanne C. FRANCESCONI, La Cucina Napoletana, Roma 1995; R. RICCIO, A tavola con i Borboni, Bologna 2002; C. DE BROSSES, Viaggio in Italia. Lettere familiari, prefazione di C. Levi, Bari 1992; V. CORRADO, Del Cibo Pitagorico ovvero erbaceo per uso de’ Nobili e de’ letterati, rist. dell’Edizione Napoli 1781, a cura di T. Gregory, Roma 1991; R. FARANDA, Itinerari turistico-gastronomici dei Monti della Laga, Colledara 1996; Carlo A. MARSILIO, Su alcuni strumenti della cucina abruzzese, in “Rivista Abruzzese”, n° 2, 2002; id., Due attrezzi abruzzesi, in “L’Accademia Italiana della Cucina”, n 127, Milano 2002;M. MONTANARI, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Bari 1988; id.: L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo, Napoli 1979; AAVV, Il mondo in cucina. Storia, identità, scambi, a cura di M. Montanari, Bari 2002.

[3] – Cfr. Dizionario etimologico italiano, a cura di C. Battisti e G. Alessio, s.v. pizza, vol. IV, Firenze 1975; N.F. FARAGLIA, Codice Diplomatico Sulmonese DOC. XLV, Sulmona 1888. Più tardi, nel 1276, compare anche il termine splanata in una “concordia” stipulata fra l’Abate del monastero di Santa Maria de Quinquemilliis e gli uomini dei casali di San Nicola e Scodanibio, villaggi posti nel medio corso del Sangro. Il termine splanatas indica “schiacciate” cotte al forno, o forse anche “focacce”, antesignane delle attuali “pizze”. Cfr. G. CELIDONIO, La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. III, Casalbordino 1910; E. GIANCRISTOFARO, La pasta e la pizza, in “Rivista Abruzzese”, n° 1, 1999.

[4] – Cfr. IDRISI, Il Libro di Ruggero. Il diletto di chi è appassionato per le peregrinazioni attraverso il mondo, a cura di U. Rizzitano, Palermo 1994.

[5] – M. MONTANARI, Alimentazione e cultura … ecc, op. cit.; F. Zambrini (a cura di), Libro della cucina del sec. XIV, Bologna 1863; L. Sada, op. cit.

[6] – Il brano di Mastro Barnaba, tuttora allo stato di manoscritto, è tratto da un fondamentale saggio di Giovanni ALESSIO (sul quale torneremo in seguito) dal titolo Storia linguistica di un antico cibo rituale: i maccheroni, in “Atti dell’Accademia Pontaniana”, Nuova Serie, VIII, 1958. Il passo riportato si trova a p. 265; il manoscritto del Compendium di Mastro Barnaba è conservato nella Laurenziana di Firenze ed è stato scoperto da E. Sereni.

[7] – Cfr. Decameron, a cura di R. Marrone, Roma 1995. Va ricordato che il Sacchetti, discepolo del Boccaccio, scrive nella raccolta delle Trecentonovelle (n° C 101015) che uno dei protagonisti, Noddo d’Andrea, si serviva della forchetta per “raguazzare e avviluppare” i maccheroni, che dovevano essere pertanto lunghi.

[8] – Va corretta pertanto l’affermazione di Serventi e Sabban, secondo cui la parola “maccheroni” compare per la prima volta nel Libro di Arte Coquinaria del Maestro Martino da Como (prima metà del VX secolo). Cfr. S. SERVENTI- F. SABBAN, La pasta. Storia e cultura di un cibo universale, Bari 2000.

[9] – Cfr. E. SERENI, Terra nuova e buoi rossi, op. cit.; M. MONTANARI, Alimentazione e cultura, op. cit.

[10] – G. ALESSIO, ivi, p.264. Va ricordato che nella commedia La vedova (1569) di Giambattista Cini, i Siciliani sono apostrofati “mangiamaccheroni”, al contrario dei Napoletani qualificati come “mangiafoglia”. Cfr. B. CROCE, Commento a Il Pentamerone. Ossia la fiaba delle fiabe tradotta dall’antico dialetto napoletano e corredata di note storiche, ristampa Bari 1957.

[11] – Cfr. S. SERVENTI – F. SABBAN, La pasta…, op. cit.

[12] – S. RAZZI, Viaggi in Abruzzo, a cura di B. Carderi, L’Aquila 1968.

[13] – Cfr. F. AUBAILE-SALLENAVE, Quelques caractères communs aux quisines mediterranèennes, in AA VV. Cultures, Nourriture, p.164, Saint Amand Montrond, Babel Ed. 1997.

[14] – Il metodo tradizionale per ottenere questi particolari fusilli non è del tutto scomparso e qualche anno fa abbiamo assistito a Vallo della Lucania (Sa.) ad una prova dimostrativa da parte di alcune casalinghe della suddetta località del Cilento.

[15] – Cfr. V. CORRADO, Del cibo pitagorico, ovvero erbaceo per uso de’ Nobili e de Letterati, Napoli 1781. Ristampa a cura di T. Gregory, Roma 2001. Il volume presenta in Appendice il Trattato delle patate per uso di cibo, da V. Corrado dato alle stampe a Napoli nel 1798.

[16] – In P. CAMPORESI, Alimentazione, folclore, società, Pratiche ed., Parma 1980.

[17] – La ricetta sarà riportata anche nell’altra opera di V. Corrado, Il cuoco galante (Napoli 1801), che secondo il Camporesi segna il vero e proprio atto ufficiale di nascita dei “moderni gnocchi”.

[18] – Cfr. A. DI NOLA, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino 1976.

[19] – L. DIODATO, Il linguaggio del cibo. Simboli e significati del nostro comportamento alimentare, Saveria Mannelli (Catanzaro) 2001.

[20] – Cfr. La cucina tradizionale italiana nell’Opera di Bartolomeo Scappi, “Quaderno n° 2 dell’IPSSAR Roccaraso”, Torre dei Nolfi (AQ), 1975, a cura di D. Adacher. Dell’Opera di B. Scappi esistono due edizioni anastatiche a cura dell’editore Forni, Bologna, 1981 e 2003. Il titolo preciso del trattato dello Scappi è Opera dell’arte di cucinare di M. Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di Papa Pio V, divisa in sei libri , in seguito citata semplicemente Opera.

[21] – Cfr. Carlo A. MARSILIO, Su alcuni strumenti della cucina abruzzese, in “Rivista Abruzzese” n° 2, 2002 p.163; id., Due attrezzi abruzzesi, in “L’Accademia Italiana della Cucina”, n° 127, Milano 2002; D. COLTRO La cucina tradizionale veneta, Roma 2002.

[22] – Cfr. L. Cogliati Arano (a cura di), Tacuinum Sanitatis, Milano, Casa Ed. Electra, 1979.

[23] – D. ADACHER, La cucina tradizionale italiana, ecc., cit. in “Quaderno dell’IPSSAR Roccaraso”.

[24] – Cfr. G. DEL RE, Calendario per l’anno bisestile 1820. Il quarto del regno di Ferdinando I, Napoli 1820.

[25] – Ci si imbatte spesso nei termini scanalatura o scanalato, assai efficaci per l’immagine che proiettano, ma non riportati nei vocabolari di lingua italiana più accreditati, come per es. quello di G. Devoto-G. Oli.

[26] – Cfr. R. FARANDA, Itinerari turistico- gastronomici ecc., op. cit.; il Faranda scrive che i maccheroni non venivano conditi col pomodoro, per la semplice ragione che ai tempi del runtròccelo, ovverosia alla fine del ‘700, esso era ancora sconosciuto in Italia. L’affermazione non è esatta, perché il pomodoro entra a far parte di molte ricette riportate nell’ultimo decennio del ‘700 nelle Opere di V. Corrado in precedenza citate.

[27] – Archivio di Stato del Municipio di Napoli, Assisae, T. 9, 1576, Foglio 199.

[28] – Cfr. C. MESSISBURGO, Libro Novo nel quale si insegna a’ far d’ogni sorte di vivanda secondo la diversità de’ tempi, così di carne come di pesce, Venezia 1557, ristampa an. Forni, Bologna 1980.  

[29] -Cfr. R. PARENTE, Zu Matremonio a z’uso, a cura di E. Giammarco, Scanno 1971; a cura dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo. Contiene anche l’altro poemetto di R. Parente, La fjjana de Mariella.

[30] – Un vivo ringraziamento va in particolare al prof. Nicola D’Alonzo, docente di Cucina presso l’Istituto Alberghiero di Villa S. Maria. Va ricordato che il termine carraturo non è registrato da G. Finamore nel suo Vocabolario dell’uso abruzzese, Città di Castello 1893.

[31] – Cfr. al riguardo L. RUSSI, Viaggiatori Europei dell’Ottocento; in “Atti del Terzo Convegno Viaggiatori Europei negli Abruzzi e Molise”, Teramo 1976.

[32] – Cfr. A. RUBINI, La Figlia di Iorio di G. d’Annunzio compie il secolo; in “Abruzzo e Sabina di ieri e di oggi”, n.2, 2003.




L’IMPORTANZA DELLA CUCINA TRADIZIONALE NELLO SVILUPPO TURISTICO DELL’ABRUZZO

[Contributo di F. Cercone pubblicato nel volume: AA. VV.  “Vecchi e nuovi sapori nella cucina tradizionale abruzzese”, Quale Vita Edizioni, Torre dei Nolfi 1995.][1]

di Franco Cercone

Con l’inaugurazione delia linea Sulmona-Isernia (1897) si completa nella nostra Regione la rete ferroviaria. Per le difficoltà superate e la mole degli investimenti l’opera fu salutata da G. Strafforello come «un nuovo trionfo dell’intelligenza e del lavoro», una pietra miliare anche per lo sviluppo turistico dell’Abruzzo, che veniva a collegarsi con il resto dell’Italia e dell’Europa.

Si deve proprio ai resoconti dei colti viaggiatori europei, che utilizzano la comoda e veloce strada ferrata per visitare l’Abruzzo, l’eliminazione di molti pregiudizi che persistevano oltralpe nei confronti di una Regione, come la nostra, ben presto definita ideales Ferienland sia per il fascino del

suo territorio che per la peasant life dei suoi abitanti, quasi elevata a “modello di vita”.

Alfred Steinitzer scrive al riguardo nella sua “Aus dem unbekannten Italien” (1909) che, dopo aver concluso presso la sede del Club Alpino di Monaco di Baviera una conferenza sull’Abruzzo, molti membri del sodalizio gli rivolsero queste precise domande: “Non è stato mai assalito laggiù dai briganti?” Ed ancora: “Ma dove si trovano precisamente gli Abruzzi?”

La “scoperta” dell’Abruzzo, non incluso normalmente negli itinerari del Grand Tour settecentesco, avviene essenzialmente nei primi decenni dell’800 sotto la spinta di tendenze storico-culturali che possono essere considerate come i prodromi del movimento turistico nella nostra Regione, in un’epoca dunque anteriore alla realizzazione della rete ferroviaria. Il “campo base” per le escursioni è per lo più Roma e seguendo l’antica Tiburtina-Valeria si perveniva al lago di Fucino che costituiva una attrattiva irresistibile per la maggior parte dei colti “turisti”. Accanto a personaggi come K. Craven, E. Lear, T. Mommsen, F. Gregorovius va annoverato un folto gruppo di storici, incisori, studiosi di oreficeria medievale, geografia ecc. e soprattutto artisti che, sulla scia delle teorie romantiche, considerano il paesaggio come proiezione di un particolare stato d’animo.

Una menzione particolare merita Christian Zahrtmann, caposcuola della pittura romantica danese, che soggiorna per alcuni anni a Civita d’Antino. Alcuni suoi capolavori, oggi al Museo Nazionale di Copenaghen, riproducono scene di vita della Valle Roveto e contadini colti nei loro caratteristici costumi.

In seguito molti discepoli danesi ripercorsero le orme del loro maestro e contribuirono a diffondere nel nord Europa l’immagine affascinante della nostra terra.

Al completamento delle linee ferroviarie segue la realizzazione della rete stradale regionale. Va ricordato in particolar modo il tratto Anversa-Scanno, scaturito da un ardito progetto dell’ingegnere di Popoli, Antonio Lepidi-Chioti, in ricordo del quale l’Amministrazione Provinciale di L’Aquila volle

affiggere nel 1911 una lapide commemorativa nei pressi di Anversa.

Connesso allo sviluppo della rete stradale è quello dell’industria automobilistica, che contribuisce notevolmente, come scrive nel 1909 Giovanni Cena, alla scoperta dell’Abruzzo, la cui fama, per essere terra attraente e per certi versi “primordiale”, aveva cominciato a diffondersi grazie ad alcuni

capolavori del D’Annunzio, all’opera di Primo Levi dal fortunato titolo “Abruzzo forte e gentile” ed alle prime guide pubblicate in tale periodo, fra cui la nota Guida dell’Abruzzo di E. Abbate, apparsa nel 1903.

«Non potremmo sottolineare – scrive F. Sabatini a tal riguardo – alcun fatto più caratteristico della famosa spedizione automobilistica di deputati, scrittori e giornalisti, che mosse da Roma nel 1909 per una ricognizione ufficiale dei quieti borghi, dei monti e delle vallate abruzzesi».

L’avvenimento ebbe grande eco sulla stampa dell’epoca ed oggi potrebbe essere considerato una prova generale d’orchestra rispetto al movimento turistico legato essenzialmente all’automobile.

Nel periodo compreso fra le due guerre mondiali vengono create – ed in certe aree, come negli Altopiani Maggiori, potenziate – le indispensabili strutture alberghiere e ricettive. In particolare Roccaraso, grazie alla ferrovia che lambisce il centro abitato, diventa la località più importante dell’Italia centro-meridionale per gli sports invernali e per il soggiorno estivo, meta preferita da esponenti di Casa Savoia, dalla nobiltà romana, dall’agiata borghesia ed anche dal mondo letterario. Nel settembre del 1898 vi soggiorna per es. Maud Howe, che dedica a Roccaraso alcune pagine significative nell’opera “Roma Beata”. All’incirca dieci anni dopo Estella Canziani esalterà i prodotti dell’artigianato abruzzese, fra cui i merletti di Pescocostanzo. Un turismo dunque “d’élite” che assumerà in Abruzzo ed altrove la connotazione “di massa” dopo il secondo conflitto mondiale, in conseguenza del processo di industrializzazione avviato nel nostro Paese. Il generale miglioramento delle condizioni economiche fa sentire i suoi benèfici effetti anche in Abruzzo e soprattutto nella fascia costiera regionale, verso la quale si proietta di preferenza la domanda turistica.

Sottoposto tuttavia – anche a causa dell’emigrazione interna – ad una allucinante voluptas fabrícandi, il litorale abruzzese diventa nell’arco di pochi decenni un tassello di quella immensa ed indifferenziata “megalopoli padano-adriatica” invano denunciata da studiosi ed ambientalisti.

Anche la ristorazione si adegua da noi alle profonde trasformazioni determinate dal turismo di massa. Le tecniche di surgelazione, sperimentate con successo nei grandi centri urbani per veloci soste al fast-food, subentrano negli alberghi e nei ristoranti, all’insaputa – come avviene ancora oggi – degli ignari commensali. Svanita tuttavia la cosiddetta civiltà dei consumi, molti corposi problemi si sono addensati sull’orizzonte della nostra società, afflitta da una vistosa crisi occupazionale e riduzione dei redditi. Fattori che hanno proiettato i loro deleteri effetti anche nel movimento turistico e nel settore alberghiero, con una drastica riduzione delle presenze perfino nelle strutture ricettive più economiche. Questo complesso fenomeno socio-economico ha imposto nuove scelte nell’impiego del tempo libero ed una necessaria riconversione del modo di trascorrere le ferie, che sono venute a coincidere in Abruzzo con un particolare momento “storico”, quello del potenziamento delle aree destinate a Parchi e Oasi flori-faunistiche, non disgiunto dalla sempre più diffusa e corrente necessità di difendere e nello stesso tempo di “industrializzare” il verde, finalmente inteso come la più importante risorsa economica dell’Abruzzo che, non a caso, è stato riconosciuto “Regione Verde d’Europa”.

Come ha messo in rilievo una recente indagine ISTAT, questo fenomeno ha contribuito anche ad avviare un pur lieve “movimento demografico di ritorno”, soprattutto dalla indifferenziata megalopoli costiera verso l’entroterra regionale, scoperto come ambiente a misura d’uomo. Inoltre sui nostri “paesi-presepio” si sono riversati da Napoli e Roma gruppi familiari che hanno acquistato e ristrutturato persino vecchie stalle, rese cosi abitabili. La fuga dalle invivibili città ha contribuito a rianimare la vita dei nostri piccoli centri adagiati sulla fascia pedemontana e ad eliminare il silenzio cui l’emigrazione, da mezzo secolo, li aveva condannati.

Le conseguenze scaturite da queste nuove tendenze sono molteplici ed hanno portato, per ciò che in tale sede interessa, ad un notevole incremento di aziende agrituristiche (luoghi ideali di fruizione sia di prodotti genuini “di stagione” che di ospitalità a prezzi accessibili) nonché di ristoranti sorti anche

negli angoli più remoti del territorio regionale, ma spesso troppo facilmente qualificati dai proprietari come “tipici”. I menu risultano infatti ovunque indifferenziati e ibridi, dagli antipasti costituiti da “Salame Milano” e sottaceti di fabbrica fino alla Carbonara con panna, mozzarelle allo spiedo, agnello alla brace ecc., per tacer poi del cosiddetto “Amaro della Casa” che conclude a mo’ di cicuta socratica un pasto pesante e raramente preparato con olio extra-vergine d’oliva. È inutile inoltre cercare il proprietario del locale, magari ex idraulico o venditore di vernici che ha chiuso bottega per aprire un ristorante: di norma egli non è mai presente in sala da pranzo per illustrare ai clienti ciò che stanno mangiando. Questa facile intercambiabilità professionale è tanto grave che meriterebbe addirittura l’intervento deciso del Legislatore Regionale.

Per mancanza di formazione enogastronomica questi improvvisati ristoratori non sono in grado di capire che il mangiare ha perso oggi la valenza del nutrirsi ed ha assunto una dimensione socio-culturale connessa ad un saldo principio della scienza dell’alimentazione: mangiare e bere bene per

vivere meglio.

In questo mutato scenario il piatto tradizionale è il solo che possa costituire una alternativa sia alle allettanti proposte della Nouvelle Cuisine, che durano – come le “Penne alla vodka” – brevissimo tempo, sia alla gastronomia standardizzata, la quale, proprio perché uniforme e priva di “diversità”, si traduce in un decremento dell’attrazione clientelare.

L’unica via d’uscita a quella che è stata definita “tensione epocale gastronomica”, è costituita dalla cucina semplice tradizionale, imperniata attorno alle combinazioni di sapori genuini del mondo rurale ed all’uso sapiente dei prodotti stagionali di campo e di bosco, come funghi, asparagi selvatici, erbe,

lumache e via dicendo.

Quanti sono infatti i ristoranti abruzzesi che presentano nei loro menù orapi, “cascigni”, brodo di pollo ruspante con tagliolini e rigaglie, sagne e ceci al sugo di baccalà, “pallotte” cacio e uova, e torcinelli?

Al posto del brodo con tagliolini troviamo quello con tortellini, estraneo alla nostra cultura gastronomica come il ragù di vitello, magari reso pingue da estrogeni, con cui si condisce, al posto del castrato, la salsa per i nostri maccheroni alla chitarra. Ne consegue, come crediamo, che nessuno compie un’ora di viaggio per raggiungere un ristorante che prepara le stesse cose del ristorante che abbiamo sotto casa.

Ai tradizionali fattori del turismo (arte, storia, folklore ecc.) che spingono a spostarsi dal luogo di residenza ad un altro, va aggiunta dunque la cucina tradizionale, intesa come emanazione della cultura gastronomica di una determinata località o area geografica regionale.

Ora, che la cucina sia destinata a possedere perennemente due anime, una conservatrice e l’altra innovativa, costituisce una costatazione inoppugnabile e le “varianti” di un determinato piatto tradizionale possono benissimo riscuotere il favore del buongustaio.

È appunto questa la ratio insita nel tema dibattuto nel corso della presente manifestazione ed al quale l’Assessorato Regionale al Turismo ha dato molto opportunamente il titolo di “Vecchi e nuovi sapori nella cucina tradizionale abruzzese”.

La ricerca promossa, vera e propria operazione di recupero di un bene culturale, ha avuto due finalità:

– accertare quali ristoranti abruzzesi annoverano nei loro menù piatti tipici regionali;

– individuare “varianti” di tali piatti, degne di essere annoverate per i prodotti regionali usati (si pensi per es. allo zafferano di Navelli, al tartufo nostrano bianco e nero ecc.) fra i piatti della gastronomia regionale.

Per fregiarsi di tale riconoscimento, queste “variazioni sul tema” dovranno conservare requisiti costanti nel tempo, sia per quanto concerne gli ingredienti usati – che vanno perciò “codificati” al pari delle ricette originali – che per il modo di cottura.

È stato proposto inoltre che tutte le ricette siano incluse in una specie di “Annuario gastronomico regionale”, da pubblicarsi a cura dell’Assessorato e da distribuirsi a tutti gli operatori gastronomici. Nei menù pertanto la dicitura “piatto tipico” potrà essere apposta solo alle ricette originali ed alle “varianti” riconosciute come tali dall’Assessorato. Una volta codificate nei loro ingredienti e modalità di preparazione, esse non sono più suscettibili di modificazioni. Il mosaico della tipicità, secondo le illuminate intenzioni dell’Assessorato al Turismo della Regione Abruzzo, non sarà mai tuttavia una entità statica, ma si arricchirà sempre, alla luce anche di ricerche storico-gastronomiche, di nuovi tasselli che, ottenuto il riconoscimento di piatto tipico, confluiranno poi “nell’Annuario Gastronomico Regionale”.

È stata indicata così, simile a quella tracciata in Francia e che sta riscuotendo notevole successo, la Via del buon bere e mangiare, la sola che nell’attuale panorama gastronomico può conferire nuova vitalità al movimento turistico di fine settimana.

Il “buon bere” impone però sforzi organizzativi anche a tutte le aziende vinicole regionali. Esse infatti restano chiuse normalmente di domenica, mentre i ristoranti presentano carte dei vini in cui non sono rappresentate tutte le qualità prodotte in Abruzzo. Si dimentica così, come ha scritto di recente Bruno Casetta nel periodico “Arte in tavola” (giugno 1994) che «il ristorante da sempre è stato ambasciatore e portatore di immagine per le aziende di vini che propone». Il ristorante pertanto non deve essere, al pari degli Istituti Alberghieri della nostra Regione, luogo di preventiva esclusione nei confronti di certi vini, ma al contrario un punto di incontro e di confronto.

Dal che si evince anche la necessità, ovunque avvertita, che le migliori aziende vinicole istituiscano nei più noti centri turistici e storico-artistici regionali dei “Punti d’assaggio e degustazione” al fine di rendere note anche le nuove tendenze che si registrano nella nostra vinicoltura.

È un dato di fatto incontestabile che alcuni vini, “Trebbiano”, “Montepulciano” e soprattutto “Chardonnay”, solo raramente oltrepassano la soglia dell’area geografica abruzzese in cui vengono prodotti e non vengono valorizzati, come opportunamente meriterebbero, anche come ottimi aperitivi.

Riappropriarsi del vino bianco come aperitivo, auspicato da molti gastronomi, costituisce a nostro avviso un omaggio alla scienza dell’alimentazione ed un atto economico-culturale di grande importanza, se non altro per sradicare anche quella deprecabile e diffusa convinzione che associa il concetto di “ubriacone” al bevitore di vino e non invece al bevitore di liquori.

Ai fattori tradizionali del movimento turistico, quali arte, storia, folklore ecc. va aggiunto dunque anche il settore eno-gastronomico, il quale, nei giusti intendimenti dell’Assessorato al Turismo della Regione Abruzzo, deve essere ora pienamente rivalutato e valorizzato.


[1] (N.d.r.: La Pubblicazione è stata presentata nell’ambito della Manifestazione svoltasi l’8 aprile 1995 presso L’Istituto Alberghiero di Roccaraso, in cui l’A. era Preside. L’evento, patrocinato dall’Assessorato al Turismo Regione Abruzzo, aveva lo scopo di codificare i piatti da ascrivere alla gastronomia tradizionale come “piatti tradizionali e tipici abruzzesi” per la valorizzazione dell’offerta gastronomica abruzzese, quale importante fattore del movimento turistico.)




LESSAME, GRANATI, TOTEMAJE E VIRTÙ

Cibi sacrali in Abruzzo nella ricorrenza del Primo di Maggio

[Prefazione di Franco Cercone Pubblicata nel volume “Tra la fame e l’abbondanza” di A. Stanziani. Edizioni Tabula Lanciano 2012]

di Franco Cercone

Quando il Liber mortuorum fa luce sulle cause delle flessioni demografiche, soprattutto in occasione di epidemie e carestie, esso riscatta la sua sterile funzione di mero registro dei defunti ed assurge a fonte storica di primaria importanza.

Questo principio, contenuto nel noto saggio di G. De Rosa dal titolo “Rituali della morte e cronaca nei libri parrocchiali del Mezzogiorno tra XVIII e XIX secolo”, ha suggestionato non pochi studiosi abruzzesi ed aperto nuovi squarci sull’orizzonte storiografico regionale.

Così nel redigere una monografia su Collelongo, suo paese natio, il compianto Walter Cianciusi ha saputo – grazie a tale chiave interpretativa – “ficcar lo viso a fondo” in un Liber mortuorum della seconda metà del XVIII secolo, miracolosamente conservatosi nell’archivio parrocchiale di questo centro agricolo della Marsica.

L’attenzione dello Studioso è stata attratta infatti da una sfilza di persone passate a miglior vita nel maggio del 1764, e puntualmente registrate dal parroco dell’epoca insieme alle cause del decesso.

Il lessico usato dall’arciprete è una allucinante variazione sul tema della “morte per fame”: fame interfectus, fame confecta, fame repente confectus e via dicendo.

Commenta, al riguardo, il Cianciusi: “Morto all’improvviso (repente) di fame! Sembra impossibile. E tutti alla costa di maggio!”, espressione tuttora viva nel mondo rurale e che ci aiuta a comprendere l’argomento che ci accingiamo a trattare. Le frequenti carestie nel XVIII secolo – e quella di maggio del 1764 fu particolarmente terribile – mettevano in luce, in modo drammatico, una precaria situazione alimentare che emergeva soprattutto in un periodo dell’anno rimasto tristemente proverbiale nella memoria dei nostri vecchi, appunto la “costa di maggio”.

Va ricordato che a partire dalla prima metà del XVI secolo, scarso giovamento trasse il mondo rurale europeo dalla introduzione dei nuovi e rivoluzionari prodotti originari dell’America Centrale e Meridionale e nei luoghi dove se ne iniziò la coltivazione essi apportarono sensibili mutamenti al paesaggio agrario, e non solo abruzzese.

Risale proprio al periodo successivo al 1764, scrive il Palma nella sua Storia ecclesiastica e civile di Teramo[1], “l’uso dei nostri contadini di seminar il grano turco” o grano d’India (donde la voce dialettale grandinie), mentre alla seconda metà dello stesso secolo XVIII risale la diffusione in Abruzzo della  patata, a spese soprattutto di vaste estensioni di cerreti che, radicalmente disboscati per incrementare le aree coltivabili, sopravvivono ancora oggi nella toponomastica regionale, privi tuttavia di alcun significato[2].

Ma chi erano i “contadini” nel XVIII secolo, il periodo appunto che in tale sede interessa? La risposta ce la offre F. Longano nel suo noto saggio Viaggio per lo Contado del Molise (1788): “Generalmente i contadini sono fittuarj, e fittuarj annuali, ed è in arbitrio de’ proprietari di espellerli da’ loro territorio. … A molti manca la terra, o la sementa, o gli istromenti, o la salute, o lo stesso vitto”.

A questi diseredati, o “eredi” immortalati nell’omonimo e famoso quadro del Patini, si prospettava costantemente lo spettro della fame nella prima decade del mese di maggio, caratterizzata dall’esaurimento delle scorte dell’annata agricola precedente e dall’assenza sui campi dei prodotti del nuovo ciclo coltivatorio.

Tale situazione si verificava specie quando il mese di aprile – fenomeno tuttora riscontrabile – era stato particolarmente freddo ed accompagnato anche da fenomeni nevosi. Il Longano per es., nell’opera in precedenza ricordata, scrive che in Molise nel mese di aprile “lo foco è più importante de lo pane” e se ne ha una conferma da due proverbi assai noti in Abruzzo nei vari dialetti e che riportiamo in lingua per una loro miglior comprensione. Il primo recita: “In aprile chi ebbe il fuoco campò, e chi ebbe il pane morì”; ed il secondo: “Chi non ha la legna d’aprile, fa una brutta fine!.  Ecco, dunque, il senso drammatico insito nell’espressione “costa di maggio”, quando le scorte alimentari della casa contadina erano ormai prossime all’esaurimento e poche manciate di farina, soprattutto di mais, oppure di legumi restavano nel fondaco nei sacchi afflosciati, immagini plastiche dello stomaco perennemente afflitto dal morso della fame.

Per essere la prima ad apparire, insieme ai piselli, nel nuovo ciclo coltivatorio, grande attesa v’era per la maturazione della fava, che riscatta la sua negatività presente nel pensiero pitagorico come “legume inferico” perché legata – come del resto nella stessa Roma – al culto dei morti, assumendo già nel basso medioevo una sacralità che sarà ereditata dall’agiografia popolare.

In molti racconti popolari (si vedano, per esempio, anche alcune “Sacre leggende” raccolte da De Nino)[3], le fave sono sempre benedette da Dio, dalla Madonna o da alcuni Santi (per es. da San Domenico di Cocullo), ai quali si attribuisce in alcuni episodi agiografici la fioritura miracolosa e perciò fuori stagione del prezioso legume, capace di lenire il morso della fame che attanagliava la gente umile, specie quella del mondo rurale.

La preparazione di minestre a base di legumi, detti appunto “virtù”, imponeva ai ceti indigenti un uso promiscuo di questi ultimi, allorché verso la fine di aprile poche manciate restavano di ciascuna varietà ed il loro consumo, in fase ormai di completo esaurimento delle scorte, si arricchiva di una ritualità propiziatoria per l’imminente raccolto.

Vanno relegate pertanto al mondo delle amene curiosità le notizie sulle origini delle “virtù teramane”, che di tanto in tanto riaffiorano in tono fiabesco nei quotidiani o nei diversi periodici in occasione della ricorrenza del 1° maggio.

Va sottolineato innanzitutto che ancora oggi le “virtù“, nell’accezione in precedenza ricordata, costituiscono il piatto devozionale del 1°maggio in alcuni paesi della Valle dell’Aventino e del Sangro, dove assumono – anche in area frentana e nei centri degli Altopiani Maggiori (soprattutto a Pescocostanzo) – la designazione di totemaje, granati oppure – come ad Atessa – lessame.

Il termine i “lessame” chiarisce il modo in cui ad Atessa venivano preparati i legumi, conditi con solo olio ed offerti devotamente a parenti e conoscenti. Sorprende tuttavia la circostanza che né il Bartoletti e né storici atessani, come Alfonso e Domenico Iovacchini, si soffermino su questa particolare costumanza, conservatasi come sembra solo presso i ceti rurali.

 Il Finamore d’altro canto, nel chiarire che con “virtù” si intendono generalmente cereali e legumi bolliti, ci dice che a Torricella Peligna esse vengono designate con il nome di “granati[4] ed offerte ai poveri il 1° maggio, mentre M. Javicoli ci informa in un suo noto saggio[5] che a Cittaducale i “granati” si chiamato “vertuti“, quasi a sottolineare l’identico valore semantico dei due termini, estesi a tutti i cereali o legumi che hanno “il potere” di generarsi di nuovo attraverso la semina.

Nel corso delle conviviali teramane del 1° maggio, le virtù, ormai piatto rielaborato, “colto” ed assai lontano dalla sua antica semplicità, sono degustate insieme ad altre vivande e specialità della gastronomia locale, fra cui le note e squisite “mazzarelle“.

L’atmosfera che circonda la loro degustazione è particolarmente allegra, per essere il I° Maggio la ricorrenza della festa del lavoro. Il luogo d’incontro delle comitive è costituito per lo più da ristoranti o tipiche trattorie che vantano una propria “ricetta” in merito alle virtù, ormai profondamente destoricizzate. Si coglie, al riguardo, una profonda modificazione di quello che fino agli anni Cinquanta circa del secolo scorso costituiva un vero e proprio “rituale magico-propizìatorio”, celebrato attorno ad un altare costituito dal desco della umile famiglia rurale.

I pochi cereali superstiti, lasciati bollire in una grande pignatta che troneggiava nel piano del camino, come un Santo nella propria nicchia, venivano consumati devotamente e talvolta per più giorni, fino al loro completo esaurimento, in attesa che l’intenso freddo di aprile cessasse del tutto in modo da favorire la crescita dei nuovi prodotti agricoli sui campi.

Non clima di festa, ma preghiera sommessa come quella recitata dai due personaggi dell’Angelus del Millet e pregna di angoscia per l’incertezza del futuro e del raccolto, accompagnava dunque il frugale consumo delle “virtù“. E la circostanza che fossero donate il 1° maggio ai poveri, ci dice che esse costituivano in tale periodo, per i ceti rurali, un dono divino elargito dal cielo.

Gli umili legumi o “virtù“, inseriti nell’ambito del quadro storico-culturale delineato, riscattano cosi la loro apparente insignificanza e ci aiutano a comprendere meglio una pagina di quell’affascinante poema che è appunto la storia delle Genti d’Abruzzo.

Franco Cercone


[1] Teramo1833, vol. III della ristampa, Teramo 1980.

[2] Da recenti indagini d’archivio si apprende tuttavia che la prima notizia sulla presenza del mais in Abruzzo è contenuta in un rogito del 1720 stilato a Casoli, ma tale prezioso cereale non era ancora destinato all’alimentazione umana bensì a quella degli animali da cortile. Cfr. N. Fiorentino, Parole e cose dei nostri avi. Abruzzo Meridionale, secc. XVI-XIX., s.v. ‘granodindia’. Edigrafital, S. Atto di Teramo, 2004. La prima notizia sulla patata in Abruzzo (in area fucense, nella Marsica) risale invece al 1789 ed è contenuta nel resoconto di viaggio dell’agronomo svizzero Carlo Ulisse de Salis von Marschlins, Viaggi attraverso varie Province del regno di Napoli nel 1789, trad. a cura di I. Capriati, Trani 1906. Cfr. anche F. Cercone, Storia della coltivazione della patata in Abruzzo, Ed. Qualevita, Torre de’ Nolfi (Aq.) 2000.

[3] Cfr. A. De Nino, Usi e costumi abruzzesi. Sacre leggende, vol. IV. Firenze 1883.

[4] Anche nella Conca Peligna. Cfr.al riguardo A. De Nino, Tradizioni popolari abruzzesi. Inediti e rari a cura di B. Mosca, vol. I, Japadre Ed., L’Aquila 1970.

[5] Cfr. M. Javicoli, Cibi di rito, Cittaducale (Rieti) 1920.




ALLA RICERCA DI UN’OPERA SCONOSCIUTA

La Valtellina vista dai Grigioni. Carlo Ulisse de Salis, studioso svizzero del Settecento, è l’autore di uno scritto di storia locale che non si sa se sia stato pubblicato

[Articolo di Franco Cercone. Pubblicato su “Il Graffito”, mensile di informazione e cultura a cura della Biblioteca civica di Grosio, Anno IX, N. 6, giugno 1994.]

di Franco Cercone

Chi legge i monumenti storiografici della “nostra” cara Valtellina – ci riferiamo particolarmente alle opere di Alberti, Besta, Romegialli e Urangia Tazzoli – nota che sotto il profilo bibliografico e quindi delle fonti storiche non sono citati i contributi di parte grigione, certamente utili ai fini della comprensione dei difficili rapporti da sempre esistiti fra i due gruppi etnici in questo particolare scacchiere geografico. Tale menda affiora anche in recenti pubblicazioni come la magnifica monografia storico-artistica dal titolo “La Chiesa di San Giorgio a Grosio”, a cura di Gabriele Antonioli, Giorgio Galletti e Simonetta Coppa, che meritava forse una migliore messa a fuoco della simbologia di San Giorgio “vincitore del drago”, simbolo delle acque malsane nonché del culto delle cosiddette “Madonne del latte”, tema questo presente nell’affresco di Giovannino da Sondalo (Cappella di Sant`Antonio Abate) e sul quale tomeremo sia per evidenziare le straordinarie somiglianze stilistiche che la Madonna di Grosio offre se paragonata ad altri esempi umbro-abruzzesi coevi, sia per trattare l’importante argomento dei culti galattogeni.

Dicevamo poc’anzi che della storiografia grigione gli storici valtellinesi hanno tenuto scarso conto e allora, alla loro attenzione, vogliamo sottoporre una sconosciuta opera di Carlo Ulisse de Salis, barone di Marschlins, nel cantone svizzero dei Grigioni, dove nasce nel l728. Quella dei de Salis è una delle famiglie più potenti e rappresentative in terra grigione. Essa si è distinta per i suoi teologi e giuristi, per i suoi uomini d’arme e politici, come lo stesso Carlo Ulisse sottolinea nell’opera Stegmatographia Rheticae familiae Saliceorum, vulgo ‘a Salis, ex authenticis docomentis deducata, pubblicato a Coira nel 1782.

Ulisse de Salis in particolare, nonno del Nostro e Signore nel l6l3 del castello di Marschlins, fu al servizio di Venezia e poi Maresciallo di campo di Luigi XIV, che si avvalse di lui per missioni che precedettero la pace di Westfalia. Fautori dei Borboni di Francia, i de Salis assunsero una posizione preminente nel Cantone dei Grigioni e la rafforzarono con Giovanni Gaudenzio, Landmann della Lega Retica tra il 1766 e il 1792 e nominato tre anni prima (1789), in coincidenza con lo scoppio della Rivoluzione Francese, Capitano Generale della Valtellina.

Carlo Ulisse de Salis, nato come s’è detto nel castello di Marschlins nel 1728, rivela ben presto ingegno e un multiforme interesse per gli studi storici, economici, botanici e persino medici. Infatti nel quarto volume del noto Dizionario biografico universale di Felice Scifoni (Firenze, 1845-46), l’autore riferisce, senza riportarne il titolo, un lavoro di Carlo Ulisse, in tre volumi, sulla hemweh, malattia endemica delle popolazioni del Cantone dei Grigioni. Di forte tempra e fisico robusto, Carlo Ulisse de Salis intraprende nel 1787 (e quindi all’età di 59 anni) un viaggio a Napoli, attratto dall’eco dell’insegnamento di Antonio Genovesi sull’economia e sull’incremento sia delle scienze naturali che dell’agricoltura, argomento quest’ultimo particolarmente a cuore del Nostro. Frutto di questo suo viaggio nel Regno di Napoli sono due volumi pubblicati a Zurigo:

  • il primo, dal titolo Beitrage zur naturlichen und oeconomisken Kenntniss des Koenigreichs beiden Sizilien;
  • il secondo, dal titolo Reisen in verschiedenen Provinzen des Koenigreichs Neapel (Zurigo, 1793).

Quest’ultima opera vede la luce mentre il Nostro è esule a Vienna, perché dopo aver fatto ritorno a Marschlins nel 1790, egli si era schierato contro la Francia repubblicana ed era stato costretto a riparare nella capitale austriaca, dove sarebbe morto nel 1800.

Ma perché – si chiederà il lettore – questa digressione? È presto detto. La seconda opera di Carlo Ulisse, in precedenza citata, cioè Reisen ecc… contiene una minuziosa analisi della situazione socio-economica della Puglia fine Settecento, che attrasse l’attenzione di una studiosa di Trani, Ida Capriati

che la tradusse con il titolo “Nel Regno di Napoli. Viaggi attraverso varie Province nel 1789 di Carlo Ulisse de Salis Marschlins” e la pubblicò a Trani per i tipi dell’editore Vecchi nel 1909.

Nella prefazione la Capriati, accennando alla vita e agli scritti di Carlo Ulisse de Salis, cita un’opera del Nostro dal titolo Frammenti della Storia della Valtellina, ancora “inedita”, secondo l’autrice, e allo stato di manoscritto, ma assai importante per le vicende storico-artistiche della Valtellina.

Invece nel già citato Dizionario biografico universale, l’opera di Carlo Ulisse de Salis risulta pubblicata nel 1792, addirittura in quattro volumi.

Tale notizia è confermata da T. Pedìo che ha curato per i tipi dell’editore Congedo la seconda ristampa del Reisen di Carlo Ulisse de Salis (Galatina,1979). Come conciliare la duplice “versione”?

A noi resta un forte dubbio circa la pubblicazione dei Frammenti della Storia della Valtellina, attualmente forse ancora allo stato di manoscritto. Se non altro perché il de Salis nel 1792, data della presunta pubblicazione dell’opera, certamente in lingua tedesca, era esule a Vienna, dove si sarebbe spento, come già detto, nel 1800. Comunque, pubblicata o no, l’opera, dati gli interessi specifici di Carlo Ulisse, deve certamente contenere documenti storici di estrema importanza per la Valtellina, molti dei quali giacenti forse nello stesso archivio di famiglia a Marschlins. Spetta ora agli studiosi grosini il compito di sciogliere l’enigma. In tal modo essi apporteranno un decisivo contributo diretto alla ricostruzione di quell’affascinante poema epico che è appunto la Storia della Valtellina e delle sue Genti.




BRIGANTI D’ABRUZZO

[Pubblicato in: AA. VV. “L’Abruzzo nell’Ottocento”, Istituto Nazionale Di Studi Crociani; Ediars, Chieti 1996]

di Franco Cercone

«Non è stato mai assalito li giù dai briganti? Questa fu la prima domanda – lo posso documentare con scrupolosità – che mi fu rivolta allorché raccontai di aver intrapreso un viaggio in Abruzzo».

Così inizia il capitolo dal titolo Drei Wochen in den Abruzzen inserito nel libro di viaggio di Alfred Steinitzer, “Aus dem unbekannten Italien” (L’Italia sconosciuta), pubblicato nel 1911, un viaggio compiuto tuttavia nella primavera del 1907 e finanziato interamente dal Deutschen Alpenklub[i].

Presso la sede di Monaco di Baviera lo Steinitzer svolse nel maggio del 1908 un dettagliato resoconto sugli aspetti storico-geografici della nostra regione e sull’ascensione del Gran Sasso da lui compiuta assieme ad una nota guida di Assergi. Si coglie dunque nel passo in precedenza riportato l’eco della persistenza, oltralpe di una psicosi legata al fenomeno del brigantaggio postunitario che ebbe modo di manifestarsi in tutti i territori dell’ex Regno di Napoli ed in particolar modo in Abruzzo, principalmente “in quella vasta terra di nessuno che da sempre è stata la montagna di frontiera tra il Regno di Napoli e lo stato ecclesiastico”[ii] .

Tuttavia, osserva il Monnier, il brigantaggio non fu storicamente una piaga esclusiva del tormentato decennio postunitario, poiché “in queste contrade vi furono sempre briganti. Aprite le istorie, e ne troverete sotto tutti i regni sotto tutte le dinastie, dai Saraceni e dai Normanni fino ai nostri giorni”[iii]  Con la presa di Roma e la fine dello Stato della Chiesa, il fenomeno imboccò tuttavia ed inesorabilmente il suo Sunset Boulevard, anche se non sono pochi gli storici che vedono in certi tipi di azioni banditesche dei nostri giorni modalità esecutive che furono proprie del brigantaggio «non politico››.

Senza fissare lo sguardo in epoche lontane da noi, va ricordato che nell’ ultimo trentennio del XVII secolo la recrudescenza del brigantaggio fu così intensa da costringere nel 1764 il viceré d’Astorga ad inviare in Abruzzo ben cinque compagnie di fanteria spagnola, senza ottenere tuttavia vistosi risultati. La situazione migliorò alcuni anni dopo grazie anche alle incessanti pressioni degli armentari regnicoli e dello Stato della Chiesa, le cui greggi erano costantemente depredate dalle bande di briganti che infestavano l’aspro territorio dell’Appennino.

“Il viceré marchese del Carpio e papa Innocenzo XI – scrive il Colarossi Mancini – spedirono fanti, cavalleggeri e cannoni sotto il comando dello spagnolo Alonzo Torresano, che dié loro addosso e li cacciò da ogni luogo, finché i briganti si dettero a servire Venezia, che li adibì al recupero di Castelnuovo, della Morea e della Dalmazia. Così il regno, infestato dai banditi per 14 anni, ebbe pace e i locati abruzzesi, a titolo di riconoscenza, presentarono al viceré sei castrati carichi di quattromila ducati”.[iv]

Il passaggio di queste bande al servizio della Serenissima, specie quella capeggiata nel Teramano da Santuccio di Froscia, fu certamente frutto di accordi e perciò di scelte politiche ben precise. Tanto più che il citato episodio non costituisce a ben osservare un caso isolato, ma trova invece in Marco Sciarra un precedente per così dire illustre. Nel 1593 il famoso brigante, nativo secondo il Palma di Castiglione Messer Raimondo (Te), perì miseramente – dopo essere stato padrone incontrastato della Valle del Vomano ed aver esercitato terrore specie nell’Appennino centrale – per mano di uno dei suoi seguaci.[v]  La masnada capeggiata dal re della campagna [vi] sembra che fosse costituita da circa 800 briganti, sicché è lecito supporre come da più parti si tentasse di legare al proprio servizio una tale massa di uomini in armi.

Scegliere una bandiera significava però crearsi automaticamente dei nemici, poiché, sottolinea il Monnier, “quando le bande erano troppo numerose e minacciavano di prendere una bandiera, il governo si risolveva a combatterle” [op. cit.].

Le incursioni dello Sciarra fino alle Puglie sono molto significative e lo qualificano, se ci è concessa l’espressione, come brigante transumante, nel senso che la sua attività era diretta di preferenza contro i ricchi proprietari di armenti, i quali, come classe egemone, potevano contare sull’aiuto degli apparati statuali o di potenti famiglie, radicate – come puntualizza il Colapietra – in “zone in sostanza anche giuridicamente sottratte all’autorità di Napoli” [Abruzzo… ecc, op. cit.].

Nella Weltanschauung popolare il brigante costituisce una figura idealizzata, sottratta con fantasia allo scenario economico e politico in cui egli agisce. In questa visione, cristallizzatasi fin da tempi remoti, il brigante si trasforma in difensore della giustizia sociale e degli umili, esigenza mai sopita presso i ceti rurali, e non di rado diventa un galantuomo dotato di spirito cavalleresco, che nutre particolare rispetto per artisti e letterati. “In Abruzzo – scriverà più tardi in epoca romantica Carl L. Frommel – il Popolo ammira il brigante ed odia il ladro”. [Pittoresksen Italien, Leipzig 1840]. Significativo è anche ciò che a S. Razzi raccontano e che puntualmente egli registra nel suo Viaggio in Abruzzo, [L’Aquila 1968]. A Chieuti, in prov. di Foggia, agiva “un certo famoso bandito, Colle di Caserta nominato, il quale assaliva chiunque passava, togliendo a chi avea di superfluo… e dando a chi non avea a sufficienza, e facea tenere un libro dell’entrata, et uno dell’uscita”.

Un brigante ragioniere, dunque, e pieno di spirito caritatevole che non a caso attrae l’attenzione di fra’ Serafino Razzi.

Nemmeno Marco Sciarra si sottrae a tale visione, che ha influenzato persino letterati come G. B. Manso a proposito del preteso incontro fra il re della campagna e Torquato Tasso, incontro che prima il Solerti e recentemente il Morelli hanno dimostrato, alla luce di documenti, frutto di immaginazione [vii].

La circostanza che figure possenti di briganti appaiano in declino nel corso di buona parte del XVIII secolo è senza dubbio sorprendente e lascia sorgere fondati interrogativi. Si ha l’impressione infatti che il fenomeno sia in relazione con il lento ma inesorabile declino dell’attività armentizia transumante, che secondo il Colarossi-Mancini inizia a verificarsi già dal 1712 con la cosiddetta professazione forzosa, cioè “l’obbligo di rivelare il numero degli animali posseduto da ciascun locato” [op. cit.], mentre in realtà, puntualizza il Colapietra, tale attività “viene sovvertita dalle grandi usurpazioni dell’individualismo agrario, dalla privatizzazione delle montagne e dei pascoli, dall’ingigantirsi delle aziende, risultati di una trasformazione sociale e di un movimento di cultura illuministico che nell’Abruzzo trova un terreno particolarmente fecondo” [Abruzzo…ecc. cit.]. Questa maggior attenzione verso l’agricoltura a danno dell’economia pastorale conduce poi nel 1806, ad opera di G. Bonaparte, all’affrancamento del Tavoliere pugliese, gradualmente sottoposto a coltura[viii].

La grande nemica degli stomaci vuoti, la regina Fame che alberga costantemente nei ceti umili, compare spesso nel XVIII secolo con l’abito da lei preferito: la carestia. E proprio a queste masse rurali e fameliche, a questi «Eredi» in senso Patiniano, molti dei quali – è da presumersi – viventi in uno status perenne di brigante per “furti in pubblico cammino”[ix] ed altri comuni reati, che si rivolge Ferdinando IV nel dicembre del 1798, mentre si accinge a lasciare Roma per rifugiarsi in Sicilia, incalzato dai tragici avvenimenti collegati all’invasione francese.

“Ricordatevi, miei cari Abruzzesi – si legge nel proclama di Ferdinando IV – che siete Sanniti ed avete sempre dato chiare riprove del vostro valore e della vostra fedeltà”. La strumentalizzazione dei ceti umili abruzzesi, di cui il monarca borbonico si ricorda solo nei momenti di pericolo, traluce in pieno in questo demagogico proclama, tanto più che ad organizzare le masse sanfediste contro la “borghesia intellettuale e proprietaria giacobina” provvede la classe armentaria ed aristocratica abruzzese, ben conscia dei pericoli cui andava incontro [R. Colapietra, Abruzzo… ecc, cit.].

D’altro canto, sottolinea il Monnier, “in tempi di crisi politiche il brigantaggio aumentava a dismisura, accogliendo la feccia delle popolazioni delle prigioni dischiuse, i vagabondi e i malfattori in gran quantità. E si vide quasi sempre il partito vinto servirsi di questi banditi a difesa della propria causa” [op. cit.].

Questo passo del Monnier, il quale dimentica che l’adesione alla causa borbonica costituiva comunque una scelta politica e l’occasione – anche per molti detenuti politici – di riacquistare una identità riscattando uno status di illegalità, meriterebbe molti commenti che ci porterebbero però oltre il quadro sintetico che ci siamo preposti di raffigurare.

Certo è comunque che strati sociali cui Ferdinando IV si rivolge con il famoso Proclama e considerati come patrioti, sono qualificati dai Francesi, prima sotto il regno di G. Bonaparte e dopo sotto quello del Murat, non come difensori della monarchia borbonica, ma come briganti. Basti riflettere a ciò che scrive Rémy D’Hauteroche, giovane ufficiale in servizio nel 1806 nel forte di Pescara: “Vers la fin du mois de septembre – si legge appunto nelle sue Memorie – toujours en l’année 1806, la tranquillité de la garnison de Pescara fut troublée. On apprit que les montagnes des environs étaient infestées d’insurgés, auxquels nous donnions le nom de brigands, nom d’ailleur très mérité”[x] . Non a caso la municipalità e dunque la classe egemone di Vasto conferisce nel 1810 a C. A. Manhés, generale di G. Murat, la cittadinanza onoraria per i suoi meriti di «distruttore di briganti». Ce lo ricorda una lapide affissa sulla facciata della chiesa di San Giuseppe, che sorge nel centro storico di questa bella città abruzzese.

Tuttavia, scrive la Macdonell, “né Manhés, né altri nella sua posizione, avrebbero potuto estirpare il brigantaggio per lungo tempo, in quanto esso era il sintomo di una malattia profonda e radicata che nessuna chirurgia militare avrebbe potuto curare”[xi]. Se, infatti, la repressione ottenne sensibili risultati nell’area frentana e nel Vastese, non altrettanto si può dire del Teramano, “devastato per tutto il decennio francese da un brigantaggio ininterrotto ed endemico, che sembra riprodurre le proporzioni del secondo Seicento, e che sostanzialmente dalla montagna minaccia ed assedia la grande proprietà liberale che è al controllo della Cosa Pubblica” [R. Colapietra, Abruzzo…, cit.].

Noi non sappiamo quanti di quei briganti al seguito del Cardinale Ruffo, liberati dalle carceri dove languivano per reati comuni assieme a uomini politici, abbiano continuato a percorrere la strada del banditismo dopo la fine dell’impero napoleonico e il ritorno dei Borboni a Napoli. È probabile tuttavia che molti di essi, scampati alle persecuzioni durante i regni di G. Bonaparte e G. Murat, si siano ritrovati ancora ai ceppi – perché ormai non più considerati «prodi Sanniti» – insieme a giacobini e liberali, verso i quali si scatenò la repressione dell’amministrazione borbonica.

Circa mezzo secolo dopo Francesco II, chiuso nella fortezza di Gaeta, era costretto a ricorrere ad un proclama non dissimile, in quanto a strumentalizzazione, da quello emanato dal suo bisnonno Ferdinando IV ed in cui faceva leva soprattutto sulla necessità di difendere, contro gli usurpatori, la famiglia e la religione.

La fine di un regno era tuttavia imminente e ad essa avrebbero fatto seguito tragici avvenimenti. La circostanza che ad accogliere Vittorio Emanuele II sul ponte del fiume Tronto fosse Pasquale De Virgilii, capo riconosciuto dei liberali teramani ed in seguito nominato «prodittatore» della prov. di Teramo, non deve trarre in inganno. L’area montuosa di questo territorio restava infatti realista e la fortezza di Civitella era ancora in mano dei borbonici. Riaffiorava pur nel mutato quadro socio-politico del momento l’antico dissidio, ricco di contrastanti interessi, fra montagna e pianura, fra ceti armentizi e latifondo, fra pastorizia ed agricoltura; e l’antica nobiltà, che aveva fondato la propria ricchezza sull’attività allevatoria, era stata sostituita dai nuovi ceti emergenti, costituiti da famiglie economicamente potenti e di stampo liberale.

Non staremo qui a ricordare i tentativi di noti personaggi quali Lagrange e Giorgi (di quest’ultimo si occupò anche A. Dumas nelle sue Impressions de voyage), operati al fine di sollevare nel dicembre del 1860 le province abruzzesi con una forza di circa 15.000 uomini, composta da soldati sbandati borbonici, contadini, preti e persino reparti di zuavi del Papa, arricchita da bande di briganti che operavano ancora nelle zone impervie dell’Appennino ed ingrossate da gruppi formati da detenuti liberati dalle carceri delle località messe a sacco, soprattutto nella Marsica e nel Cicolano.

Su scala ridotta si è verificato in Abruzzo, subito dopo il mese di settembre del 1860, ciò che era avvenuto – durante la marcia di Garibaldi verso Napoli – nelle Province Meridionali dell’ex regno: lì “le prigioni al suo passaggio erano state aperte; i detenuti avevano indossato la camicia rossa e proclamato il trionfatore” [M. Monnier, cit.]; qui i detenuti si trasformavano in «realisti» appena liberati dalle carceri messe a sacco. E non pochi erano quelli che attendevano la loro assoluzione ed un reinserimento nella legalità attraverso l’adesione ad una delle parti contendenti.

L’insurrezione realista scoppiò come è noto qualche giorno prima del Plebiscito del 21 ottobre 1860, con cui fu sancita l’adesione delle Province napoletane al Regno d’Italia. Quasi ad un segno prestabilito “i montanari di tutta la linea degli Appennini, che separano il Teramano dalla provincia di L’Aquila, si precipitarono nelle pianure” [M. Monnier, cit.], ma in realtà la reazione divampò fin dal 1° settembre in tutto l’Abruzzo e specie lungo la valle del Sangro.

Dalla deposizione del Sindaco di Castel di Sangro, Raffaele Grilli, sui fatti accaduti in questa cittadina fra il 1° ed il 4 settembre 1860 si apprende che, al canto del ritornello Jam ‘a spass’ a spass’/ Viva ru Re e ru popole bass’, “la reazione scoppiò d’improvviso e fu generale sorpresa, poiché la pubblica opinione qua riteneva come impossibile che il popolo di Castel di Sangro fosse reazionario…”[xii] .

La cospirazione borbonica, organizzata a Roma con la benedizione del Soglio di Pietro, è ben consapevole dell’importanza dell’area abruzzese-molisana. Qui, meglio che altrove, i tentativi insurrezionali potevano registrare maggiori successi grazie alla vicinanza con Roma e ad una labile linea di frontiera determinata da condizioni orografiche note solo a bande brigantesche.

Attrarre quest’ultime alla causa di Francesco II fu in un primo momento un compito demandato dagli esuli filo-borbonici a personaggi di spicco della fazione realista, come per es. i già ricordati Giorgi e Lagrange oppure quel famoso Borjès catturato a Tagliacozzo nel dicembre del 1861 ed ivi fucilato mentre tentava con i suoi di guadagnare la frontiera pontificia [xiii].

Una attenta lettura degli avvenimenti che vanno dall’autunno del 1860 fino all’anno seguente alimenta il sospetto che in tale periodo l’azione del clero realista e dei ceti socio-economici, che avevano perso

nel passaggio dal vecchio al nuovo regno molta parte della loro autorità e del loro potere politico, non ebbe pieno successo nel politicizzare le varie bande operanti nel territorio abruzzese. Un contributo per così dire indiretto ma decisivo scaturì dall’estensione della legislazione piemontese.

Soprattutto l’introduzione di nuove tasse e della leva obbligatoria furono fattori che crearono un “diffuso malcontento che diventa aperta e violenta ribellione” specialmente nei ceti rurali delle antiche province napoletane[xiv]. Sono quest’ultimi che vanno ad ingrossare – insieme a gruppi eterogenei formati anche da militari sbandati – le bande brigantesche, ormai legittimate nelle loro rapine. Come scrive il Monnier, costoro “non erano più ladri, ma partigiani” [op. cit.]. Insomma, come sottolinea il Colapietra, “l’Abruzzo è naturalmente la regione in cui le due componenti principali del brigantaggio, quella politica legittimista borbonica e quella sociale contadina autonoma, si intersecano più strettamente, almeno all’ indomani dell’Unità” [Abruzzo… cit.].

Certamente non intendiamo considerare esaustive poche pagine dedicate ad un problema di vasta complessità come quello del brigantaggio post-unitario, nel trattare il quale abbiamo taciuto sugli altrettanto complessi atteggiamenti dei liberali, del clero (vi erano non pochi preti «carbonari» e fondatori di vendite) e dei letterati. Significativo è il manifesto di A. De Nino affisso in data 1° ottobre 1860 a Sulmona e nel quale lo storico peligno inneggia a Vittorio Emanuele ed al dittatore Garibaldi.

Ciò che appare interessante è invece la dislocazione delle bande brigantesche sia nello scacchiere di confine con lo Stato della Chiesa che sul resto del territorio regionale.

Nell’area orientale della Maiella operano le bande di Angelo Camillo Colafella (che si definiva Generale Comandante delle truppe di S. M. Francesco II) e di Nunziato Mecola. Il Colafella, all’inizio della sua carriera per nulla fervente realista, si era distinto nei saccheggi di Caramanico, Salle, Musellaro e Sant’Eufemia, operati nell’ottobre del 1860 durante lo svolgimento del Plebiscito. Dalla deposizione resa in data 17 gennaio 1862 nelle carceri di Chieti e quindi dopo la sua cattura, emergono interessanti particolari sui contatti avuti da lui con Francesco II, prima a Gaeta e dopo a Roma[xv].

Mecola invece agisce a capo di masse di contadini nell’entroterra dell’area ortonese ed occupa al grido di Viva Francesco II Ari, Arielli, Canosa, Miglianico, Orsogna, Tollo ed altri centri. Catturato dopo uno scontro con reparti piemontesi e della Guardia Nazionale, finirà i suoi giorni nel bagno penale di Castelluccio (Genova) nel 1876. [Brigantaggio Ottocentesco, cit.].Prima della cattura il Mecola aveva abbandonato la sua area operativa per far parte del battaglione comandato dal Lagrange che agiva nel territorio di Nola.

Uno dei luogotenenti più risoluti della banda Mecola è Salvatore Scenna di Orsogna, che agisce spesso per veloci incursioni e saccheggi insieme ad un’altra nota banda, capeggiata da Domenico Di Sciascio di Guardiagrele. Non v’è praticamente un centro del basso corso del Sangro e dei territori posti sia a nord che a sud dell’area fluviale che non sia stato messo a sacco da queste bande, le quali colpivano per primi, e quindi di preferenza, gli archivi comunali (come ad Altino, Guardiagrele, Orsogna, Fossacesia, Guilmi ecc.) simboli odiati della monarchia sabauda. Vanno segnalati a tal riguardo altri episodi che appaiono significativi. Le bande di Pasquale Mancini e Luca Pastore avevano assalito il carcere di San Valentino e liberato i detenuti che seguirono i briganti sulla Maiella,

rifugio sicuro di molte bande brigantesche. Dopo aver messo a sacco Roccacaramanico, Luca Pastore trattenne per sé il boccone più prelibato; ed al grido di «Viva Francesco II» incendiò la Cancelleria di questo centro situato alle falde del Morrone, perché vi erano conservati, a suo giudizio, “molti documenti di debiti contro la povera gente”. In seguito il Pastore fu catturato dai bersaglieri a Peschio Canale sul Liri, mentre tentava di raggiungere il confine pontificio, e fucilato il 30 ottobre 1862 senza – come sembra – un regolare processo, che si concludeva in molti casi con pena tramutata in lavori forzati. È interessante notare come un compagno del Pastore, avendo “promesso di fare rilevazioni”, ebbe salva la vita [Brigantaggio Ottocentesco, cit.]. Un caso questo da ascrivere in sostanza al fenomeno odierno del pentitismo, tanto più che le varie Commissioni Provinciali istituite per la repressione del brigantaggio avevano cura di affiggere manifesti nei quali si promettevano somme di denaro “a chiunque procuri o faciliti l’arresto di briganti, loro complici e somministratori di viveri”.

Fra i «somministratori di viveri» vanno inclusi non solo parenti dei briganti e la vasta gamma di manutengoli, per lo più nobili e borghesi legittimisti, ma anche i contadini, che si recano quotidianamente ai campi spesso lontani dai centri abitati, e soprattutto i pastori. Quest’ultimi infatti sono direttamente esposti in alta montagna alle minacce dei briganti e si comprende pertanto come fra loro sorgessero per così dire dei patti taciti di non aggressione. I pastori infatti non sono proprietari delle gregge ed i briganti trovano in essi degli ottimi informatori sugli spostamenti delle forze di repressione ed altrettanto ottimi messaggeri che trasmettono agli armentari l’entità del ricatto. «Specialisti» in tale attività risultano altri due famosi briganti, Domenico Valerio, un contadino di Casoli soprannominato Cannone, e Croce di Tola, alias Crucitto, di Roccaraso.

Si può dire che Cannone, dopo una spettacolare fuga dal carcere, riesce ad organizzare una numerosa banda che terrorizza dal 1862 tutti i centri del Chietino fino al Trigno. Secondo alcune fonti egli esordisce come spietato esecutore di ordini nella banda di Strillo, alias Antonio Fauci, mugnaio di Lanciano, che dirige l’assalto alla «strada ferrata» il 17 e 18 luglio 1862 nei pressi di Fossacesia, dove fervevano i lavori di costruzione. Non si sa se dopo la cattura e fucilazione di Strillo, avvenuta mesi

dopo, Cannone assumesse il comando della numerosa banda, la quale poteva contare sull’appoggio di “manutengoli appartenenti alla nobiltà lancianese”. L’attacco alla ferrovia è molto significativo, perché questa costituiva un simbolo odiato della monarchia sabauda ed un mezzo veloce per lo spostamento delle forze di repressione piemontesi nelle province dell’ex regno di Napoli.

Sembra invece che i briganti non conoscessero l’importanza del telegrafo, “destinato a ridurre il servizio dei corrieri e delle guide”, la cui linea si iniziò ad estendere nell’Alto Sangro nel 1867 ad opera di un ufficiale piemontese del genio [U. D’Andrea, Il Brigantaggio dopo l’Unità, cit.].

Sul brigante Cannone sono sorti molti aneddoti, probabilmente arricchiti dalla letteratura popolare e dalla tradizione orale. Egli infatti non fu mai catturato e si diffusero solo voci sulla sua presunta morte, che sarebbe avvenuta nel 1868 a seguito di uno scontro a fuoco con reparti della Guardia Nazionale nei pressi della frontiera pontificia[xvi].

Sul Piano delle Cinque Miglia e nell’Alto Sangro agivano di preferenza le bande di Croce Tola e Nunzio Tamburrini, entrambi di Roccaraso[xvii], le quali non di rado si riunivano con altri gruppi operanti nel territorio di Agnone o di Forca d’Acero, che collega la Val Comino (e quindi la Ciociaria) con l’Alto Sangro. In questi due notissimi briganti, alla luce della deposizione fatta dal Di Tola subito dopo la sua cattura, sembra assente ogni componente politica nelle loro azioni delittuose, fra le quali primeggiano i ricatti nei confronti dei ricchi proprietari di greggi[xviii]. Va sottolineato a tal riguardo che “parlare di industria armentizia in riferimento al 1860-1870 significa alludere ai principali elementi che attraevano i briganti: ricchezza da emungere mediante ricatti, amicizia di pastori dalla quale derivavano ottime informazioni, trovarsi in posti alti per spiare i movimenti dei reparti antibrigantaggio e spostarsi al momento opportuno” [U. D’Andrea, Il Brigantaggio…ecc, cit.].

Questo spiega come lo scenario d’azione delle bande Tamburrino e Croce di Tola, spesso congiunte con altre operanti in aree limitrofe (come la banda Cannone), fosse costituito da quel vasto ed impervio territorio compreso fra il Circondario di Sulmona, l’Alto Sangro ed i monti Marsicani, dove d’estate i ceti armentari trasferivano le loro greggi per il pascolo.

Al fine di costituire una valida difesa contro questo brigantaggio transumante furono costruiti a partire all’incirca dal 1865 diversi blockhaus, cioè fortini in muratura o in legno per controllare meglio gli spostamenti delle bande.

Uno di questi, in località «Chiarano» presso il Piano delle Cinque Miglia, fu incendiato da Croce di Tola nel 1871, pochi mesi prima della sua cattura avvenuta nel luglio dello stesso anno (ad opera del leggendario brigadiere dei Carabinieri Chiaffredo Bergia) sul monte Pallottieri, che segna il confine fra i territori di Barrea e Castel di Sangro.

A riprova dell’interesse delle bande per le greggi che pascolavano d’estate sui rilievi montuosi, va sottolineato che il brigante Chiavone, il quale operava con la sua banda anche a Forca d’Acero per controllare i movimenti tra la Val Comino e l’Alto Sangro, venne in forte contrasto con Nunzio Tamburrino allorché tentò di trasferire la propria masnada sul Piano delle Cinque Miglia, considerato da quest’ultimo territorio di propria esclusiva competenza [U. D’Andrea, Il Brigantaggio…ecc, cit.].

Si deve probabilmente a tale circostanza che Chiavone, al secolo Luigi Alonzi di Veroli (Fr.), fosse costretto ad emigrare in un’altra area per le sue operazioni, quella posta fra Villavallelonga ed il medio corso del Liri, lungo la Valle Roveto, dove assorbì e mise al proprio servizio le bande di Vincenzo Mattei e di “Capoccia” che qui operavano preminentemente con grassazioni e ricatti contro famiglie

Armentarie. [L. PALOZZI, Storia di Villavallelonga, Roma 1982]

Non sappiamo se i tre siano venuti a contatto con la singolare figura di un altro brigante, Berardo Viola, il cui teatro d’azione era costituito dalla Marsica e dal Cicolano. Il Viola, pur appartenente alla Guardia Nazionale, imboccò come sembra la strada del brigantaggio dopo aver partecipato ad un’azione di repressione contro gli abitanti di Fiamignano, oggi in prov. di Rieti, che si erano ribellati

per le tristi condizioni economiche in cui versavano[xix] . Arrestato nel 1865, il Viola, pur condannato a morte, ebbe salva la vita per aver collaborato con le forze dell’ordine, e di lui ci parla anche I. Silone nel romanzo Fontamara.

Particolarmente grave si presenta dopo il settembre del 1860 la situazione nel teramano, specie nella Valle Castellana, anche dopo la resa della fortezza di Civitella del Tronto. Si tratta di un’area, sottolinea il Braccili, “i cui abitanti avevano una fede addirittura fanatica per i Borboni”, ma dove le cause del fenomeno del brigantaggio, puntualizza il Colapietra, “a parte le crescenti degenerazioni criminali, si debbono cercare in larga parte autonomamente rispetto alla restaurazione politica” [Abruzzo…, cit.]. La restaurazione appare dunque anche un pretesto per molti che commettono rapine ed omicidi e restano in attesa di amnistie e condoni; in essi, come scrive efficacemente il D’Andrea, “è forte la speranza nel bottino unita al guadagno del perdono”.

Ci limiteremo, secondo la linea fin qui seguita, a ricordare solo alcuni fra i più noti briganti che operarono nell’area intera del Gran Sasso e delle cui gesta ci parla anche Fedele Romani nel suo libro di ricordi “Da Colledara a Firenze” [Firenze 1915, pubblicazione postuma]. Va menzionato per primo quel Giovanni Piccioni che, scrive il Braccili, “aveva tutte le caratteristiche del capo e soprattutto era dotato di un grande spirito di organizzazione”. Le rapine, specie nei confronti dei proprietari d’armenti, e le feroci esecuzioni del Piccioni a danno di esponenti della Guardia Nazionale, si registrano già sul finire del 1860. Le sue incursioni suscitano terrore al pari degli attacchi fulminei e violenti condotti da un altro brigante, Berardo Stramenga, autore del tristemente famoso «Sacco di Campli» messo in atto nell’ottobre del 1860.

L’aspetto preminentemente filo-borbonico, che caratterizza le azioni delle bande brigantesche negli anni immediatamente seguenti al Plebiscito del 1860, svanisce, secondo alcuni Autori già dal 1863, in un orizzonte caratterizzato da mancanza di prospettive politiche.

Quando tale orizzonte non si colora di “diffuso malcontento che diventa aperta e violenta ribellione nel mondo contadino”[xx], esso rappresenta storicamente, come sottolinea il Colapietra, solo il proscenio di “crescenti degenerazioni criminali”.

Una zona particolarmente rischiosa per i viandanti era costituita dal Passo delle Capannelle, teatro delle azioni di briganti quali Andrea Andreani e Giuseppe Palombieri vere primule rosse che si spostavano con celerità nell’agro di Campotosto e nel Cicolano, quest’ultimo un territorio cuscinetto senza dubbio strategico, perché permetteva in breve tempo di sconfinare nello Stato della Chiesa. L’Andreani, ci informa ancora il Braccili, fu catturato a Campotosto l’8 novembre del 1867 dal vice brigadiere Chiaffredo Bergia e stessa sorte subì il Palombieri nel gennaio dell’anno dopo. La fama del valoroso carabiniere è legata come è noto alla cattura del brigante Croce di Tola, avvenuta il 29 luglio del 1871 sul monte Pallottieri. Si tratta di un episodio che merita, a mo’ di chiusura, qualche riflessione. ll Molfese infatti scrive nella sua nota Storia del brigantaggio [Milano 1964.]che “nel gennaio del 1870 vennero soppresse le zone militari nelle province meridionali, segnando così la fine ufficiale della repressione militare del brigantaggio”.

In realtà il fenomeno, come dimostra l’episodio della cattura di Croce di Tola, persiste per tutto il 1871 nelle aree montuose soggette al pascolo estivo e rappresentanti una preoccupazione costante per le Autorità. Una lettera del Prefetto di Chieti, datata 17 agosto 1871, chiarisce bene questo clima gettando non poche luci sugli ultimi episodi del brigantaggio non politico. Scrive infatti il Regio Prefetto: “Sebbene dopo l’arresto del capobanda Croce di Tola parrebbe che fosse cessato il bisogno di mantenere in Palena un nucleo di forza, pure quel Sindaco fa premure… che i carabinieri rimangano almeno fino alla metà del prossimo ottobre, epoca in cui in quei luoghi vanno via gli armenti e così pure i malviventi” [V. Orsini, Campo di Giove, Sulmona 1970].

Gli ultimi bagliori del brigantaggio vengono così a spegnersi proprio sui monti d’Abruzzo in coincidenza con il declino della pastorizia. Ma ciò rappresenta forse solo la cornice di un vasto e complesso fenomeno che, a nostro avviso, attende ancora importanti pagine di storia finora non scritte.


[i]Il capitolodell’opera, Drei Wochen in den Abruzzen (“Tre settimane in Abruzzo”) è stato da me tradotto e pubblicato a Sulmona nel 1977 per i tipi della casa ed. La Moderna.

[ii] R. COLAPIETRA, introduzione al volume di G. Morelli, Il brigante Giulio Pezzolla del Borghetto e il suo «Memoriale» (1598-1673), Roma 1982.

[iii]M. MONNIER, Notizie storiche documentate sul brigantaggio nelle province napoletane dai tempi di fra’ Diavolo sino ai giorni nostri, ristampa anastatica dell’Ediz. di Firenze, 1862, a cura di A. Polla Editore, Cerchio 1986.

[iv]A. COLAROSSI-MANCINI, Storia di Scanno e guida nella valle del Sagittario, L’Aquila 1921; N. PALMA, Storia ecclesiastica e civile della Regione più settentrionale del Regno di Napoli ecc., vol. III, Teramo 1833.

[v]La bibliografia su Marco Sciarra è molto folta. Oltre all’opera citata di N. Palma, vol. III, vedasi anche G. CELIDONIO, Marco di Sciarra nelle contrade peligne, in «Bullettino della R. Deputazione Abruzzese di Storia Patria», 1905; R. COLAPIETRA, Abruzzo. Un profilo storico, Lanciano 1977; L. BRACCILI, Briganti d’Abruzzo, Roma 1988; G. MORELLI, Contributi ad una storia del brigantaggio durante il vicereame spagnolo, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», an. 1968-69,1971.

[vi]Tale appellativo sarà in seguito appannaggio di un altro famoso brigante, Basso Torneo o Basso Tomeo (il nome è riportato nei due modi dal Monnier), particolarmente attivo con la sua banda durante il regno di G. Bonaparte e G. Murat nell’area del Trigno. Vedasi al riguardo anche A. MACDONELL, Negli Abruzzi, traduzione dell’edizione inglese (Londra 1908), a cura di G. Taurisani, Sulmona 1991.

[vii] Cfr. G. B. MANSO, Vita di Torquato Tasso, Venezia 1621; A. SOLERTI, Vita del Tasso, Roma 1895; C. GUASTI, Lettere di Torquato Tasso. Disposte per ordine di tempo ed illustrate, Napoli 1857; G. MORELLI, Contributi ad una storia del brigantaggio, cit.; A. MACDONELL, Negli Abruzzi, cit.

[viii]In seguito vi furono petizioni inviate a Napoli ed intese ad ottenere lo smembramento dei tratturi in appezzamenti da assegnare ai nuclei familiari indigenti. Cfr. F. CERCONE, Agricoltura e pastorizia a Pettorano sul Gizio in un documento del 1859, «Rivista Abruzzese», N. 1, Lanciano 1985.

[ix]U. D’ANDREA, Gli avvenimenti dal 1791 al 1806 nelle Valli dell’Alto Sangro e del Sagittario ed in alcune zone della Marsica e della Conca peligna, Casamari 1974.

[x] R. D’HAUTEROCHE, La vie militaire en Italie sous le Premier Empire (1806-1809), opera pubblicata postuma. Il brano è riportato in «Atti del Terzo Convegno Viaggiatori Europei negli Abruzzi e Molise», Teramo 1976.

[xi]A. MACDONELL, cít. Nel decennio francese fu sistemata a Chieti, fuori Porta Napoli, una ghigliottina che continuò a funzionare fino al 7 aprile 1853, data in cui salì al patibolo il brigante Antonio Salvatore di Lanciano. Cfr. M. T. PICCIOLI OBLETTER, Le vicende storiche della ghigliottina di Chieti, “Rivista Abruzzese” N.1, Lanciano 1986.

[xii]Cfr. Abruzzo, Montagne e briganti, a cura di M. DI CESARE e S. FERRARI, Ari 1994; Archivio di Stato, L’Aquila, Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali; V. BALZANO, La vita di un Comune del reame. Castel di Sangro, Pescara 1942; U. D’ANDREA, Il brigantaggio dopo l’Unità nell’Alta valle del Sangro e nell’Alto Volturno (1860-1871), Casamari 1992.

[xiii]Cfr. A. ALBONICO, La mobilitazione legittimista contro il Regno d’Italia, Milano 1979. Del notissimo Diario di José Borjès siamo riusciti a consultare una edizione completa dal titolo La mia vita tra i briganti, Lacaita Ed., Manduria 1964. T. Pedio, che ne è il curatore, mette in risalto le inesattezze che si riscontrano in quegli appunti di Marc Monnier, pubblicati per la prima volta nella loro traduzione italiana con il titolo Notizie storiche documentate sul Brigantaggio nelle Provincie napoletane dai tempi di fra’ Diavolo sino ai nostri giorni, editi in Firenze nel 1862, per i tipi dell’Ed. Barbera.

[xiv]. Cfr. Brigantaggio ottocentesco in Abruzzo, Presentazione di C. VIGGIANI, Ari 1985, a cura dell’Archivio di Stato, Chieti; cfr. anche Abruzzo. Montagne e briganti, cit.

[xv]Cfr. Brigantaggio ottocentesco, op. cit.; L. BRACCILI, Briganti d’Abruzzo, Roma 1988.

[xvi]Cfr. Brigantaggio Ottocentesco, cit.; L. BRACCILI, Briganti d’Abruzzo, cit. La «Guardia Nazionale Mobile» fu istituita il 14 dicembre 1860 per la tutela dell’ordine pubblico e la lotta al brigantaggio.

[xvii]Nunzio Tamburrini, nei documenti processuali riportato come Tamburrino o Tamborrino, va distinto dall’ altro brigante di Introdacqua Giuseppe Tamburrini. Cfr. G. SUSI, Introdacqua nella storia e nella tradizione, Sulmona 1970. Il Braccili parla di un altro brigante di Roccaraso, Vincenzo Tamburini, di cui non siamo riusciti a reperire notizie. Cfr. L. BRACCILI, op. cit.

[xviii]Cfr. Abruzzo. Montagne e briganti, cit. Particolarmente colpita dalle estorsioni di Croce di Tola, che sapeva scrivere, fu la famiglia Patini di Castel di Sangro, proprietaria di molti capi d’ovini.

[xix]L’istituzione della prov. di Rieti, avvenuta nel 1927 con l’assorbimento di molti centri dell’Aquilano, ha indotto in errori di distrazione non pochi studiosi di Abruzzesistica. Ritenevamo per es., in una nota apposta al citato volume della Macdonell da noi curato, che Rocca di Corno non fosse una località dell’Abruzzo, come scrive appunto l’Autrice inglese. Si tratta invece di un paese che prima del 1927 e quindi anche all’epoca in cui l’Autrice scriveva (1907) faceva parte dell’Abruzzo.

[xx]Cfr. Brigantaggio Ottocentesco, cit. Il problema appare pertanto più complesso rispetto alle tesi di Bianco di Saint-Joroz che divide, forse troppo rigidamente, il fenomeno in due periodi, nel primo del quale avrebbe prevalso il movente politico e nel secondo la delinquenza comune. Cfr. A. BLANCO DI SAINT-JOROZ, Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863, Milano 1864.




ANDREA PIGONATI E LA “REAL STRADA DEGLI ABRUZZI”

[Pubblicato dal “Centro Servizi Culturali” Castel di Sangro – L’Aquila 1983]

Di Franco Cercone

La viabilità da Castel di Sangro a Sulmona, a partire soprattutto dal valico di Roccaraso, ha costituito un problema che storicamente si è risolto solo nei nostri giorni, grazie alle rivoluzionarie tecniche di

costruzione delle autostrade.

Le tre direzioni che si schiudono all’orizzonte dal valico di Roccaraso o dalla piana peligna, cioè il Piano delle Cinque Miglia, il Quadro di S. Antonio (Bosco di S. Antonio) ed il Quarto di S. Chiara (Forchetta Palena), avevano costituito, fin dall’antichità, i canali naturali di comunicazione tra la Valle del Sangro – vera porta per il Sannio – e la Conca di Sulmona.

l diversi periodi storici portarono, in conseguenza di complessi fattori politici ed economici, a privilegiare ora l’una ora l’altra delle suddette direzioni, che avevano comunque a sud, come punto imprescindibile di riferimento, il valico di Roccaraso.

Nella tarda età repubblicana, all’arteria che univa Sulmo con Aufidena, si dà in genere il nome di via Minucia, “nome che certo essa aveva nel tronco meridionale, ben noto perché offriva un’alternativa all’Appia per portarsi a Brindisi”[1].

Poiché, come ha confermato la moderna archeologia, non può non supporsi un collegamento a valle (Conca Peligna) ed a monte (Quarto di S. Antonio) del pagus romano che affiora in località Zeppe, alle falde del Monte Mitra, oggi in tenimento di Cansano, tale arteria doveva snodarsi necessariamente lungo il Vallone della Mazza, che collega direttamente il Quarto di S. Antonio con la piana di Sulmona.

È pertanto nella suddetta località Zeppe (o Pantano), ricca di reperti archeologici, che andrebbero effettuate ricerche dirette ad individuare l’ubicazione del tanto discusso Tempio di Giove Lareno, menzionato dalla “Tavola Peutingeriana”, tanto più che nelle vicinanze è sopravvissuto un toponimo, Casa Minucia, che non richiede ulteriori commenti.

Non sappiamo quali eventi storici determinarono la distruzione dell’insediamento romano sito a valle del Quarto di S. Antonio ed al conseguente declino del Vallone della Mazza come veloce canale di collegamento tra gli Altopiani e l’area peligna.

Certo è che successivamente, tra l’VIII ed il X secolo, la presenza sempre più rilevante dei Volturnesi sul Piano delle Cinque Miglia, con i possedimenti intorno al Monastero di S. Maria de Quinquemilia e la grancia di Florina [2] (attuale Rocca Pia), il lento ma costante vivacizzarsi dell’industria ovina, costituiscono alcune fra quelle decisive premesse che portarono al consolidamento degli interessi e dei traffici sul Piano delle Cinque Miglia, sancito definitivamente, al tramonto del XIII sec., dalla via degli Abruzzi che collegava Firenze con Napoli, assurta a capitale del regno Angioino.

È da ritenersi tuttavia, che il passaggio per il Quarto di S. Antonio non restasse completamente in disuso. Anche se in modo discontinuo, esso dovette essere in parte utilizzato dalla cosiddetta “diaspora lombarda”, cioè “quel grande fenomeno migratorio di artigiani e mercanti che investì tutto il Regno ed in particolar modo l’Abruzzo, e che tracce profonde e durature ha lasciato proprio a Pescocostanzo” [F. Sabatini, op.cit.], nonché in circostanze particolari, come si evince dal seguente documento pubblicato dal Faraglia: “Bartholomeo de Pacili militi, civi Sulmone commissio ad adaptandas stratas et vias quibus itur a Sulmona usque Iserniam per partes vallis oscure, Peschi, Rivinigri et foroli quia sunt adeo occupatae et aquis pluvialibus et saxis et spinis occupatae quod non potest haberi transitus” [N. F. Faraglia , Codice diplomatico Sulmonese.Doc CIX, Lanciano 1888].

E se in tali circostanze non poteva “haberi transitus”, i traffici dovevano svolgersi attraverso il Quarto di S. Antonio, tanto più che le lotte esplose tra Sulmonesi e Pescolani nella prima metà del XIV sec. per il possesso delle Campora, un ampio territorio che si estende da Fonte Sulmontina (alle falde del monte Mitra) fino alla contrada Primo Campo (sita non lungi da Pescocostanzo), rivelano senza dubbio un movimento di merci e viaggiatori attraverso il Quarto di S. Antonio.

Il problema della viabilità sugli Altopiani Maggiori affiora di nuovo nell’ultimo ventennio del ‘700 durante la fase di progettazione della quarta Strada di Fabbrica, cioè la “Real Strada degli Abruzzi”, che doveva congiungere “la Capitale del Regno agli Abruzzi, fino a Chieti e al Mare Adriatico da una parte, e ad Aquila dall’altra”[3].

Il collegamento con l’Abruzzo era quasi inesistente in quanto, sottolinea il Di Vittorio, “solo attraverso piste e sentieri era possibile da Capua – attraverso Venafro, Isernia, Castel di Sangro, Sulmona e Popoli – raggiungere da un lato Avezzano, al confine con lo Stato della Chiesa, dall’altro l’Aquila, Antrodoco, Amatrice e, più a oriente, Chieti, Penne e Teramo” [A. Di Vittorio Gli Austriaci e il Regno di Napoli 1707-1734. Giannini Ed., Napoli 1973].

Secondo il Di Vittorio, “queste carenze del sistema stradale del regno dipendevano, senza dubbio, da difficoltà finanziarie”, mentre da altri Autori sono messe in relazione, per quanto concerneva l’Abruzzo, con un disegno ben preciso dell’amministrazione borbonica, secondo cui le regioni nord-orientali del regno costituivano un baluardo naturale contro eventuali eserciti invasori, donde la necessità che le nostre contrade restassero prive di arterie, capaci di permettere una rapida avanzata di truppe straniere verso il sud[4].

I lavori della Strada di Fabbrica per l’Abruzzo furono eseguiti con una certa celerità da Venafro a Castel di Sangro, mentre per il tratto Castel di Sangro-Sulmona si rendeva necessario, data l’asprezza dei luoghi, uno studio attento delle caratteristiche morfologiche e geologiche del territorio come premessa necessaria al progetto dell’arteria da costruire, che fu affidato, da Ferdinando IV, al “cavalier” Andrea Pigonati, noto architetto dell’epoca.

Nel 1783 il Pigonati pubblicò a Napoli un volumetto dal titolo “La parte di strada degli Abruzzi da Castel di Sangro a Sulmona”, che per iniziativa lodevole del Dr. Mario Liberatore, Presidente dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Roccaraso, viene riproposto in forma anastatica all’attenzione degli studiosi in un momento particolare e significativo: l’imminente e completa realizzazione della superstrada Sulmona-Castel di Sangro.

Il Pigonati esaminò direttamente le caratteristiche del Piano delle Cinque Miglia e del Quarto di S. Antonio e nell’omonima chiesetta, sita in quest’ultima località, interrogò alcuni eremiti sulla quantità di neve che ivi d’inverno cadeva.

Alla fine concluse, informandone Napoli, che l’arteria dovesse snodarsi necessariamente lungo il Piano delle Cinque Miglia, in modo che attraverso la gola di Barbatosa potesse raggiungere Rocca Valle Oscura (Rocca Pia) per proseguire a ponente verso Pettorano ed immettersi così nella piana peligna.

Contro la scelta di questo tracciato, che aveva già ottenuto l’approvazione di Napoli, intervenne Giuseppe Liberatore, medico e dottore di filosofia, nato a Castel di Sangro nel l756.

Nel 1789 – anno, come vedremo tra poco, in cui erano iniziati i lavori nel tratto Pettorano-Rocca Valle Oscura – il Liberatore pubblicò a Napoli, per i tipi di Vincenzo Manfredi, un volume dal titolo Ragionamento topografico-istorico-fisico-ietro sul Piano Cinque Miglia.

Dopo aver descritto i “fenomeni del Piano Cinque Miglia” e le cause che originavano le terribili tempeste di neve che ivi si scatenavano d’inverno, arrecando morte agli infelici “viatori” (perirono sul Piano, nel 1528, trecento fanti al soldo dei Veneziani ed altri 600 fanti, l’anno dopo, al comando del principe d’Orange), il Liberatore conclude: “Dal fin qui narrato, a ciascuno per istinto sorge, diligentemente ricercare, se, oltre il Piano di Cinque Miglia, altro luogo esista, onde, senza tanti disagi, entrare negli Abruzzi. Dalla Terra di Roccaraso, per tre varie direzioni, pel cennato Piano…, pel Quarto di S. Antonio, pel Quarto di S. Chiara, può andarsi alla Città di Solmona. A fin di decidere quale debbasi alle altre anteporre, fa pria mestieri, cadauna precisamente descrivere, e poscia, tutte fra esse confrontare” [G. Liberatore, Ragionamento topografico …ecc., op.cit.]

L’intento dell’A. è chiaramente polemico: dimostrare, contro le tesi sostenute dal Pigonati nella sua citata “operetta”, che, esclusa ogni possibilità di costruire l’arteria per il Quarto di S. Chiara, restavano solo due tracciati da prendere in considerazione: quello per il Piano delle Cinque Miglia e quello per il Quarto di S. Antonio. “Richiamando a memoria – afferma il Liberatore – gli aggiunti del Piano delle Cinque Miglia, e del Quarto di S. Antonio, opìno potersi decidere, che il secondo, meno periglioso, meno ferale, di minor dispendio del primo, sia a giudicarsi, e che conseguentemente presceglier si debba”. Occorre sempre tener presente, conclude l’A., che le strade si costruiscono “affinché con maggior sicurezza, ed agio, e con minor tempo si cammini, si accresca il commercio, il disbrigo delle faccende, e ‘l trasporto delle diverse derrate da luogo a luogo, pel bisogno, e beatitudine della società”. [G. Liberatore, op.cit.].

Non va esclusa del tutto l’ipotesi che dietro le tesi del Liberatore si nascondessero comprensibili e giustificati interessi della borghesia di Pescocostanzo, proiettata, con il declino della pastorizia, verso “una più attiva ricerca di nuove fonti di guadagno” [F. Sabatini, op. cit.] nel settore dell’agricoltura e dove, come sottolinea il Colapietra, “la borghesia professionistica e l’artigianato si dedicano a più complesse forme di investimento e di speculazione”[5], che certamente si sarebbero potenziate, tramite l’arteria da costruire, con il collegamento diretto tra Pescocostanzo e la conca Peligna.

Ma, come si diceva in precedenza, le “real decisioni” non furono favorevoli al Liberatore ed il progetto Pigonati passò già nel 1789 alle fasi di realizzazione. Osservatore d’eccezione, durante lo svolgimento dei lavori nel tratto Pettorano-Rocca Valle Oscura fu, nel 1789, il marchese tedesco von Salis-Marschlins, che annota: “A tre miglia di distanza da Pettorano, ed uno prima di raggiungere Rocca Valoscura (sic), trovai iniziati i lavori della nuova strada che si ha intenzione di proseguire sino a Pescara, attraverso il piano di Sulmona; e siccome gli operai erano intenti al lavoro, ebbi opportunità di seguire il modo di costruzione della strada, osservando le fondamenta dei ciglioni laterali e della copertura”[6]. Il parere, tuttavia, del von Salis-Marschlins, sull’esecuzione dei lavori e sulla scelta del tracciato, è estremamente negativo: “Questa strada, oltre ad essere stretta, poco solida, e con nessun criterio costruita, è stata tracciata in un punto male scelto, attraverso paesi che non hanno se non pochissima importanza. Pur essendovi cosi vera necessità altrove, la si è voluta far passare presso Rocca Valoscura, nel letto di un torrente che la danneggia ogni anno, in una vallata ripida ed angusta, mentre la si poteva tracciare attraverso paesi più importanti per traffico e posizione e che, sino ad un certo punto, offrivano un livello molto più regolare. Si mormora a questo proposito che gli ingegneri si sieno lasciati corrompere cosi dai privati come dai paesi intressati…” [U.K. von Salis-Marschlins, op. cit.].

Gli eventi politico-militari degli anni seguenti, che culminarono con l’invasione degli eserciti francesi e l’instaurazione della Repubblica Partenopea, non permisero il proseguimento dei lavori tra Pettorano e Rocca Valle Oscura. Essi furono ripresi e completati, come è noto, durante il regno di Gioacchino Murat, per cui tale tratto è chiamato ancora oggi via Napoleonica.

Altri particolari interessanti si apprendono da Giuseppe Del Re, che precisa: “La strada consolare che da Terra del Lavoro s’inoltrava in Abruzzo, terminava a S. Maria di Portella, precisamente presso il miglio 80… (Sui Piano delle Cinque Miglia) il cammino era indicato da una traccia naturalmente fatta da ruote e da some, la quale si rendeva invisibile per le erbe che la ricuoprivano, e che dimenate da’venti facevano smarrire il tragitto a’ viandanti. Si progettò nel 1812 una strada regia che scorresse per quel Piano…; se ne approvò nel 1814 il disegno, e se ne intraprese nel 1817 la costruzione, che nel 1820 ebbe il total compimento”[7].

Nello stesso periodo fu sistemato anche il tratto Fontanella-Rocca Valle Oscura, poiché, nota giustamente il Leone (e una conferma si evince anche dal Del Re e dal von Salis-Marschlins) “i1 percorso Pettorano-Rocca Pia viene denominato ancora via Consolare o Napoleonica, mentre quello che da Rocca Pia sale a Fontanella dai vecchi del luogo veniva indicato come Strada o via Borbonica” [O. Leone, Roccapia…ecc., op. cit.].

Il giudizio severo del von Salis-Marschlins sia sulla scelta del tracciato che sulla conduzione dei lavori nel tratto Pettorano-Rocca Valle Oscura è apparso ai tecnici moderni alquanto frettoloso ed al

riguardo il Di Benedetto precisa che l’arteria “si distingue ancor oggi, sebbene da molto tempo abbandonata dal grande traffico, per la concezione tecnica, ardita, ma accorta. Il tracciato, segnando il fianco della montagna secondo l’andamento più naturale (nessun tornante, nessun viadotto), segue la via più breve con buona esposizione e felice scelta del terreno, privo di zone geologiche di detrito calcareo e, quindi, con risparmio di grandi e costose opere di contenimento. Rimangono ancora oggi, bruniti dal sole, grossi muraglioni di sostegno dell’ampia sede stradale, deliziosi piccoli parapetti, anch’essi in pietra, brevi tratti di muratura a mattoni, a rafforzare il pendio dei terrapieni e, infine, monolitiche colonnine in pietra, terminanti a cupola dopo il collarino, con il numero scolpito delle miglia da Napoli… Allora essa doveva creare dei problemi per la trazione dei carri pesanti, in qualsiasi stagione, e delle vetture, nei periodi di neve e ghiaccio. I cavalli erano allora sostituiti dai buoi, ai cui piedi nell’inverno si applicavano ferri chiodati, antenati delle moderne catene e delle gomme antineve. La strada registrò sempre traffico intenso sia in persone che in merci. La Messaggeria degli Abruzzi, il veloce servizio di posta in partenza da Napoli ogni mercoledì e ogni sabato alle 2 e da Sulmona ogni martedì e venerdì, fu uno dei servizi viaggiatori più frequentati del secolo scorso. Il percorso da Sulmona a Napoli contava 90 miglia napoletane, con 12 poste e mezza per lettere e viaggiatori, e sette cambi di cavalli…” [F. Di Benedetto, op. cit.]

Certamente, non pochi dovevano essere i problemi della viabilità soprattutto nel periodo invernale. Da una relazione del vice Intendente, datata Sulmona, 20 marzo 1845, ed inviata al consigliere distrettuale D. Raffaele Vitto, a Pettorano, si apprende che “il Corriere di Reggia Posta D. Gabriele Guidelli ha avanzato delle doglianze contro il Sindaco di Roccavallescura, come indolente alle richieste fattegli per aiuto di cui aveva d’uopo, attesoché nevi (sic) e contro il di costui fratello bovaro, che pretendeva smodato compenso onde attivare la corsa della diligenza con due bovi…”[8]

E ciò malgrado che nel 1817 fosse stata approvata una risoluzione, la quale stabiliva: “A voler che la corrispondenza sul Piano 5 Miglia non venga interrotta nei mesi invernali, si emette il progetto di due slitte tirate da buoi nel Comune di Roccaraso e di Vallescura, le quali… tenessero attiva la comunicazione della Capitale con le Provincie…” [F. Di Benedetto, op. cit.].

Ancora oggi la Napoleonica non manca di esercitare un certo fascino su chiunque la percorre a piedi per respirare una boccata d’aria del tempo che fu.

E con un po’ di fantasia, si possono ancora udire le grida dei passeggeri, atterriti dagli attacchi dei briganti Crucitto e Tamburrino, entrati ben presto nella memoria dei vecchi e trasfigurati in personaggi da leggenda.

Sotto questo aspetto, la cara, vecchia Napoleonica, attende una pagina di storia che finora non è stata scritta.


[1] F. Sabatini, La Regione degli Altopiani Maggiori d’Abruzzo, Roccaraso, a cura della A.A.S.T., 1960.

[2] F. Sabatini, ivi; O. Leone, Roccapia. Notizie storiche, Sulmona, Stab. Tipogr. Angeletti, 1977.

[3] F. Di Benedetto, Da Sulmona verso il Sannio Carecino e Napoli, in “Bollettino del Rotary Club Sulmona”, Sulmona,   sett. 1979. Le altre tre “Strade di Fabbrica” erano: La Strada di Roma, La Strada di Puglia, e La Strada delle Calabrie.

[4] L. Russi, Viaggiatori europei nell’Abruzzo dell’Ottocento, in “Atti del Terzo Convegno Viaggiatori Europei negli Abruzzi e Molise nel XVIII e XIX secolo”, Teramo 1976 (a cura del “Centro di Ricerche storiche Abruzzo Teramano”).

[5] R. Colapietra, Abruzzo. Un profilo storico, Carabba Ed., Lanciano 1977.

[6] K. U. von Salis Marschlins, Viaggio attraverso l’Abruzzo (1789), Polla Ed., Avezzano 1981. Si tratta della ristampa anastatica dell’edizione italiana dell’opera, pubblicata a Trani nel 1906. Il “Viaggio in Abruzzo” costituisce il cap. IX del volume, pubblicato a Zurigo nel 1790 con il titolo originale “Beitrage zur naturlichen und okonomischen Kenntniss des Konigreiches Beider Sizilien”. Una seconda edizione apparve, sempre a Zurigo, nel 1793 ma con titolo diverso: Reisen in verschiedene Provinzen des Konigreiches Neapel, ed è anche citata da L. Russi.

[7] G. Del Re, Descrizione topografica, fisica, economica politica de’Reali Dominy al di qua del Faro nel Regno delle Due Sicilie, Tomo II, Napoli 1835.

[8] F. Di Benedetto, ivi. I documenti in questione sono tratti dall’Archivio della Famiglia Vitto-Massei, Pettorano.




LA SCOMPARSA DELLE RIVÉGLIE dal patrimonio botanico abruzzese

[Pubblicato in “Rivista abruzzese”, Anno LV, N 2 Lanciano 2002]

di Franco Cercone

Non so come, ma discorrendo con alcuni contadini di Cansano, miei compaesani, sull’alto costo nei nostri giorni della verdura, il discorso è caduto sulle erbe di campagna ed in particolare sulle rivéglie (reveje, roveje) che ancora venti anni fa circa crescevano spontaneamente in alcuni campi incolti nei pressi della Difesa del nostro paese.[1]

Scrive nella seconda metà del ‘700 Vincenzo Giuliani a proposito del Piano delle Cinque Miglia, che questo territorio “è poco atto alla semina del grano per le molte nevi che vi cadono d’inverno. Ma comeché non v’è terreno che sia tanto avaro che non dia qualche cosa al suo patrono, vi alligna la segala, e vi si coltiva una specie di legumi simili al pisello di un colore fusco cinereo, detti con lingua patria Riveglie. Queste Riveglie si seminano nel mese di aprile, e vi si raccolgono nel mese di agosto. Molto sodisfano alla povera gente, che costretta a star ritirata in casa per il freddo, e per le nevi, ne fa di esse il magior consumo nell’inverno” [V. Giuliani, Ragguaglio istorico della terra di Roccaraso e del Piano delle Cinquemiglia, a cura di E. de Panfilis, DASP, Padova 1991].

Nel commentare un brano di Ateneo, tratto dal 2° libro di Eruditi a banchetto, il Torcia sottolinea che “il sostegno della vita” sono “la fava, il lupino, l’ortaggio, la rapa, la cicerchia, la cipolla, il cece, il pero selvaggio, il fico secco e l’erveglie, specie di piselli montani diversi dagli ervi, in Apruzzo detti riveglie, ervilia, lodati da Varrone”[2].

Le riveglie, secondo il Torcia, sono diverse dagli ervi (vicia ervilia). Quest’ultimi, informa puntualmente il Manzi, appartengono pure alle leguminose e sono stati coltivati in Abruzzo “fino a qualche decennio fa per il seme, ottimo alimento per il bestiame” [A. Manzi, Le piante alimentari in Abruzzo, Ed. Tinari, Bucchianico 1999].

Dei vicia ervilia sono state trovate tracce, come ricorda lo stesso Manzi, nell’antico alveo del fiume Fucino, allorché in scavi recenti è stato riportato alla luce un villaggio lacustre dell’età del Bronzo.

I vicia ervilia sono citati tuttavia da M. Tenore ed ascritti alla famiglia delle Diadelphia nel suo noto “Viaggio in Abruzzo Citeriore nell’estate del 1831” (ristampa Polla, Cerchio 1997).

Le riveglie dunque, piselli montani appartenenti forse alla stessa famiglia dei “vicia ervilia”, ma differenti dagli “ervi”, venivano seminati ad aprile e raccolte, come ricorda il Giuliani, nel mese di agosto. Questi particolari piselli, almeno nell’area del Piano delle Cinquemiglia, erano di grande aiuto “alla povera gente” e venivano essiccati in modo da essere consumati durante i lunghi e terribili inverni sul Piano.

In una recente e fondamentale opera del Manzi, Flora popolare d’Abruzzo, l’A. chiarisce che il termine riveglie deriva dal “tardo latino herbilia… Si tratta di un’antica varietà di pisello (pisum sativum) un tempo diffusamente coltivata in montagna sia per l’alimentazione del bestiame domestico che per quella umana”[3]. Il Manzi ci parla anche di una minestra ancora in uso tempo fa a Pescocostanzo, nel cui territorio per altro – secondo un informatore locale, Graziano Trozzi – le riveglie sembrano oggi del tutto scomparse.

A tal riguardo riveste particolare importanza la testimonianza di Maud Howe. La scrittrice americana, durante il suo soggiorno a Roccaraso nel settembre del 1898, ha modo di osservare la diffusione della pellagra per l’uso costante della farina di granturco. Qui sottolinea la Howe “la gente vive di polenta, di patate, di piselli secchi e di formaggio di latte di pecora”[4].

 I “piselli secchi” di cui parla la scrittrice sono appunto le riveglie, che lasciate essiccare costituivano una importante riserva alimentare per l’inverno.

Non conosciamo – ed è sorprendente – i motivi della scarsa bibliografia su questo prezioso legume, che deve aver contribuito non poco alla sopravvivenza di quelle popolazioni montane in un periodo in cui – siamo nella seconda metà del Settecento – sull’Altopiano non erano ancora apparsi il mais e la patata.

È da ritenersi che la graduale introduzione delle nuove colture abbia sottratto le riveglie dal normale ciclo produttivo che va dalla semina al raccolto e pertanto, non più coltivate, esse sono degradate allo status di piante spontanee negli stessi appezzamenti dove venivano seminate, svanendo così lentamente dal nostro orizzonte alimentare. A noi resta solo il ricordo del buon profumo di “sagne e riveglie”, preparateci con insuperabile maestria dalle nostre nonne.      


[1] – Sulle “difese” (o defènze) confronta l’importante saggio di A. Manzi, Il Bosco di Sant’Antonio e le antiche Difese (Rivista Abruzzese, n° 1, 2001). Vogliamo aggiungere tuttavia alcune notizie che potranno essere utili a chi vorrà in seguito approfondire l’argomento. Il fenomeno delle “difese” è antico e si manifesta in Europa occidentale nella prima metà del XIII secolo e non riguarda solo il regno di Napoli. (Cfr. G. Duby, L’economia rurale nell’Europa medievale, vol. I, Bari 1970). Come sottolinea il Sereni, “sono proprio i feudatari che, spinti da una accresciuta richiesta di lana sui mercati internazionali , tendono ad estendere nel feudo l’allevamento  ovino, sottraendo abusivamente agli usi promiscui di pascolo delle popolazioni una parte delle terre feudali , che essi chiudono riducendole a difese – come si chiamano – riservate alle proprie greggi o a quelle di grandi imprenditori dell’industria armentizia cui essi le fidano”  (Cfr. E. Sereni , Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1989). Il Sereni (ivi) ricorda, per quanto concerne il regno di Napoli, che fin dal 1443 Ferdinando d’Aragona, con la prammatica De Salario, tentò di opporsi, ma invano, a tale abuso dei feudatari, sottoponendo all’attenzione regia la Costituzione delle “difese”. Sicché fin dagli inizi del ‘700 la “difesa” assume una precisa fisionomia e costituisce “un vasto terreno destinato al pascolo del bestiame di proprietà del signore feudale”. Negli Statuti inediti della Bagliva di Sulmona, risalenti ai “primordi del sec. XVI” (L’Aquila, 1890), G. Pansa scrive che “la defenza era proprio il pascolo assegnato ai bovi “e pertanto l’art. 92 degli Statuti prescriveva che “niuna persona possa andare a pascolare in li lochi … reservati per le defense per li bovi”. È probabile che dopo la legge eversiva della feudalità la maggior parte delle “difese baronali” siano state riscattate dalle Università e destinate a ricovero notturno soprattutto per gli equini. È questo il caso, per es., della Difesa di Cansano, acquistata dai baroni Recupito di Raiano, feudatari di Cansano e Campo di Giove. Nel 1922 l’area della Difesa, tuttora coperta da un manto stupendo di cerri e dai nativi chiamata giardino, fu recintata con pietre a secco con giornate obbligatorie per tutti i cittadini. Qui fino al 1960 circa, si portavano “a vutà” (ad avvolgere o legare) asini e muli, ai quali venivano legate appunto le zampe anteriori per impedirne la fuga.

[2]  – Cfr. M. Torcia, Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’ Peligni fatto nel 1792, Napoli 1793. Ristampa anastatica a cura della libreria Antiquaria Tonini, Ravenna 1974.

[3]  – A. Manzi, Flora Popolare d’Abruzzo. I nomi dialettali delle piante, l’etimologia, i detti e i proverbi popolari, le antiche varietà colturali, Ed. R. Carabba, Lanciano 2001. 

[4] – M. Howe, Roma Beata. Lettere dalla Città Eterna, Boston USA, Little e Brown Co., 1907. La traduzione del brano, tratto dal capitolo “Tra le montagne abruzzesi”, è stata curata da I. Di Iorio in “Uno Sguardo dal treno. Saggi scelti”, Sulmona 1998; volume commemorativo per la ricorrenza del centenario dell’inaugurazione della linea ferroviaria Sulmona-Castel di Sangro.




FRA BROCCHE, BOCCALI, TRUFI E BORRACCE

Breve viaggio storico attraverso i boccali… “divini” delle Marche e d’Abruzzo.

[Pubblicato in AA.VV. “Boccali divini. Antica ceramica popolare”, Collezione G. Brandozzi, Fast Edit, Ascoli Piceno 2008]

di Franco Cercone

Si vedrà una stanza al pian terreno in una casa rustica e vi saranno nella stanza vari utensili e suppellettili, come boccali, scodelle, alberelli e fiasche e vi sarà l’orcio dell’acqua”.

Così immagina Gabriele d’Annunzio la scenografia all’inizio della tragedia La figlia di Iorio, nella quale chiede che si pongano ben in mostra le ceramiche d’uso che arredano la modesta dimora rurale della protagonista. Ad attirare subito la nostra attenzione non è tanto l’alberello delle antiche erboristerie, il vaso ‘colto’ destinato a contenere erbe salutari e medicamentose nelle botteghe degli speziali e la cui presenza quasi stona in un ambiente rustico come quello immaginato dal d’Annunzio, più consono alla presenza di orci, boccali e fiasche.

Manca tuttavia nell’elenco il trufo che forse non per mero caso – come vedremo in seguito – è sfuggito all’attenzione del Poeta. Si tratta della particolare “fiasca di terra cotta” che G. Savini nel saggio La grammatica ed il lessico del dialetto teramano (1881) e G. Finamore nel suo noto Vocabolario dell’uso abruzzese (1893) segnalano nella forma di trùfele in Abruzzo Ultra e basso Piceno, area quest’ultima in cui il termine è presente nella forma di trufo.

Il Savini ci dice anche che nel Teramano una persona bassa e panciuta viene chiamata Don Trufele, mentre ad Atessa (Ch) il termine è sinonimo di deretano.

La caratteristica del trufo marchigiano ed abruzzese, almeno in quell’area culturalmente indistinta e posta a nord del Tronto, è costituita da due caratteristiche anse poste ai lati del collo del recipiente fittile, che lasciano agevolmente intuire la sua derivazione da una tipologia di anfora classica presente non solo nelle Regioni adriatiche dell’Italia centro-meridionale, ma anche in area umbra. Sicché questa particolare fiasca destinata a conservare e versare il liquido in essa contenuto, sia vino che acqua, potrebbe oggi essere quasi assunta a logo delle popolazioni rurali stanziate dalla Puglia fino all’area occidentale umbra.

La posizione delle due anse al collo, simili ad una corona che cinge un capo regale, proietta semanticamente una figura femminile stilizzata che trasporta una conca d’acqua e che aggiunge al suo simbolo congenito di naturale fertilità anche quello contrario maschile, dato che il trufo viene chiamato dai contadini abruzzesi anche vozze, cioè “bernoccolo” oppure come ricorda il Finamore “organo che fuoriesce”, come appunto quello maschile e che permette lente sorsate di liquido.

Caratteristici erano, ancora negli Anni Settanta del secolo scorso, i cosiddetti trufi di Sant’Antonio da Padova, che si potevano acquistare, come segnalano V. Franceschilli e V. Giovannelli nel saggio dal titolo “La ceramica di Rapino e i Bontempo” (Francavilla 1994), nella fiera di Sant’Antonio che ha luogo ancora oggi il 13 giugno e con grande concorso di devoti a Serra Monacesca (Pescara).

Per tale ricorrenza i deputati alla festa provvedevano ad incollare sulla pancia del trufele, una immagine del Santo da Padova e la fiasca, come le Brocche di San Rocco, venivano acquistate dai devoti a ricordo dell’avvenuto pellegrinaggio.

Il trufo marchigiano ed abruzzese può essere sia di “terra cotta àcroma” e preposto dunque al contenimento di acqua che si manteneva pertanto fresca specie durante i faticosi lavori estivi sui campi, che “smaltato” ed adibito pertanto come recipiente da vino, ma in tal caso lo smalto impedisce la trasudazione e dunque il liquido perde freschezza.

Nell’area di Cupra Marittima ed in alcune zone del contado Anconetano il trufo veniva chiamato talvolta, secondo alcune fonti letterarie dei primi decenni del Novecento, anche vrocca (brocca), la quale quando risultava di misura ridotta assumeva il nome di vrocchetta.        

Come si è accennato in precedenza, oltre che nelle Regioni medio-adriatiche il trufo è presente anche in terra umbra con il termine, assai significativo, di truffa (o trufa) e nel noto “Museo del vino” a Torgiano (Perugia) si può ammirare qualche magnifico esemplare di trufo, che viene ascritto genericamente ad un tipo tradizionale di “bottiglia contadina”, ma facilmente riconoscibile per le due anse ed il caratteristico collo lungo e stretto, che costituisce la struttura funzionale alla conservazione del liquido.

In un bel volume dal titolo Dalla vite al vino. Miti, tradizioni, arte e storia, edito a cura della Pro Loco di Piediripa e della Prov. di Macerata (Pollenza 2001), Betto Salvucci scrive a proposito della trufa che “la sua configurazione consentiva solo una breve sorsata alla volta, e ad essa è da attribuire la motivazione del nome popolare che la designa”, cioè truffa.

Infatti la caratteristica del trufo marchigiano ed abruzzese è costituito da un piccolo versatoio realizzato nella parte alta della pancia della fiasca che, poggiata di solito su una spalla e tenuta ferma con la mano stretta ad una delle due anse, permette, mantenendo leggermente obliqua la fiasca, l’uscita del vino (o dell’acqua) come un piccolo e placido zampillo.

Così, come accennato in precedenza, in una mirabile “logica dei contrari” il trufo viene a sintetizzare l’elemento femminile e maschile non presente negli altri similari recipienti se non nell’orcio o in alcuni vasi bianchi biansati prodotti nelle Marche ed a Castelli già nel XVII secolo ma destinati ad ambienti socialmente egemoni.

Caratteristici appaiono in questo periodo anche i boccali trilobati, simili agli antichi oinokòe greci e destinati a ricevere il primo saluto del vino attinto dal “cratere” ed in seguito, nelle società rurali, dalle botti che troneggiano nelle umili cantine come santi nelle proprie nicchie.

L’orciolo si distingue dalla brocca e dal trufo perché di norma presenta al “collo” una sola ansa ed un “versatoio falliforme”, detto bocciolo, come sottolinea anche G. Gagliardi nel saggio Storia della ceramica ascolana (Ascoli Piceno, 1993). Se risulta di terracotta àcroma o smaltata, l’orciolo è destinato a contenere rispettivamente acqua o vino.

La funzionalità del trufo o dell’orciolo è dunque duplice, perché come ha ben evidenziato G. Profeta in una classica indagine dal titolo La logica del recipiente, questi tipi di fiasca sono entrambi destinati a svolgere due funzioni importanti, quelle del conservare e del versare.

Tuttavia, non va dimenticato che nel mondo contadino rivestivano grande importanza come contenitori le cosiddette zucche a fiaschetto, assai documentate iconograficamente fin dal periodo medievale perché costituenti le “compagne fedeli di viaggio” dei pellegrini.

San Rocco, per esempio, il “pellegrino” per antonomasia, viene spesso raffigurato con un bordone cui è appesa una zucca a fiaschetto per conservare l’acqua e la classica conchiglia appesa al petto come segno di riconoscimento per chi si è recato a Compostela in Spagna, al Santuario dell’Apostolo Giacomo.

Le “funzioni” svolte dalla zucca a fiaschetto sono quelle mutuate dalla ceramica tradizionale e destinate al mondo contadino, con la particolarità tuttavia che questo tipo di zucca era adibito nel mondo rurale anche a recipiente per l’olio. Se ne ha una illuminante conferma nella cosiddetta “Vita C” (titolo di un manoscritto) concernente appunto la vita di fra’ Pietro dal Morrone, poi eletto al Soglio di Pietro nel luglio del 1294 con il nome di Celestino V, da cui si apprende che l’eremita conservava l’olio d’oliva con cui alimentava una lampada votiva in una zucca essiccata.

Sia se ascritte alle terrecotte che alle terraglie, brocche, orci e trufi non vengono più prodotti, dalla seconda metà del ‘500, nelle botteghe marchigiane di Ascoli, Ancona, Tolentino, Fano, Pesaro ecc., cioè in quelle che il Piccolpasso chiama nel suo trattato Tre libri dell’arte del vasaio “le ricche Città della Marca”, ma nei centri minori come Casteldurante (oggi Urbania) o nelle piccole aziende familiari lungo la Val Metauro.

Come nota efficacemente S. Anselmi ne Il picchio e il gallo. Temi e materiali per una storia delle Marche (Jesi 1982) dopo il periodo rinascimentale “molte Città delle Marche rimasero inevitabilmente costrette a stazionare nel prodotto figulino, paghe di provvedere al giornaliero uso del popolo minuto, lasciando ai ricchi la cura di procurarsele dai centri più celebri”, come per es. Faenza, Castelli, Pesaro, Montalboddo ecc. per tacer  poi delle ceramiche istoriate dette metaurensi, i cui esemplari superstiti si possono ammirare oggi nei musei e nelle pinacoteche più note  dell’Umbria e delle Marche.

Le ceramiche d’uso marchigiane e soprattutto i trufi e gli orci erano tenuti in gran conto presso le dimore contadine ed in caso di lesioni causate sulla superficie parietale da cadute accidentali si restava in attesa del passaggio di abili artigiani specializzati a sanare le fratture di piatti e recipienti mediante il filo di ferro dolce fatto passare attraverso due o più buchi laterali realizzati con uno speciale trapano azionato con i piedi. Oh tempora, oh mores – vien fatto spontaneamente di esclamare! Se per qualsiasi motivo il recipiente di ceramica rustica non poteva essere sanato, allora si doveva provvedere a riacquistarne uno nuovo nel giorno di mercato o nelle fiere che avevano luogo nel santuario più vicino.

Molti trufi ed orci venivano acquistati per devozione dai pellegrini abruzzesi nelle fiere che accompagnavano i periodi di festa della Madonna di Loreto, specie nella ricorrenza della Traslazione della Casa Santa a dicembre. Ed i pellegrinaggi verso Loreto avvenivano anche via mare, come ci informa puntualmente fra’ Serafino Razzi nei suoi “Viaggi in Abruzzo”.

In data 4 settembre dell’anno 1577, il dotto Domenicano assiste nel porto di Vieste al naufragio di una nave di pellegrini diretti a Loreto e che doveva far scalo a Pescara per imbarcarne degli altri.

La circostanza che la voce trufo  o trùfele non sia registrata nel Saggio di uno studio sul dialetto abruzzese di G. Pansa (1885) e nemmeno nei Vocabolari dialettali pubblicati successivamente ed inerenti a varie aree interne dell’Abruzzo (solo nel Glossario minimo delle parole dialettali atessane di E. Rucci, apparso nel 2007, si rinviene infatti la parola trùfele, ma nel senso di “grosso ceppo per sedersi, oppure di grosso deretano), lascia insorgere il sospetto che il trufo sia originario dell’area picena-anconetana e come “modello di fiasca” si sia  trasmesso successivamente attraverso contatti di natura diversa (non ultimo quello legato ai pellegrinaggi al Santuario della Madonna di Loreto) al mondo agro-pastorale abruzzese e quindi pugliese, ma solo nella fascia adriatica, il che spiegherebbe il fatto che il tipico recipiente sia sconosciuto nell’Abruzzo interno, al di fuori del caso isolato di Serra Monacesca, in precedenza citato.

Argomento affascinante è dunque quello relativo al trufo e che ha attirato anche l’attenzione del grande studioso anconetano Giovanni Crocioni nella sua Bibliografia delle tradizioni popolari marchigiane (Firenze 1958). Ci piace pertanto concludere queste note, certamente non esaustive, ricordando un breve componimento popolare contenuto nel saggio di G. Crocioni La gente marchigiana nelle sue tradizioni e dedicato all’umile ma prezioso trufo:

                               “La padroncina vien con la canestra,

                                 ce porta la pietanza e la minestra.

                                 In testa la canestra e il trufo in mano,

                                 la canestra glie fa da parasole,

                                 gli occhi neri lucenti, un altro sole”.




NOTE ETNOGRAFICHE SULLE VESTITURE DELL’ABRUZZO CITERIORE ED ULTERIORE

[Pubblicato in: AA. VV. Costumi diversi di alcune popolazioni de’ Reali Domini di qua del Faro “Centro Studi Panfilo Serafini, Sulmona 1994.]

di Franco Cercone

Il tema iconografico delle Vestiture del Regno di Napoli, da trasferire sulle porcellane prodotte nella Real Fabbrica “Ferdinandea” a Napoli, rappresenta una operazione culturale ed economica di prima qualità a firma del marchese Domenico Venuti, assai influente a corte ed ascoltato particolarmente da Ferdinando IV. Il re, in tale circostanza, tutto appare, come vuole uno stantio cliché storiografico, fuorché il monarca indolente ed insensibile nei confronti dell’arte, come dimostra l’incarico affidato nel 1778 dal sovrano a Philip Hackert di ritrarre i Porti del Regno di Napoli, una serie di veri e propri capolavori, purtroppo incompiuta, la cui idea era scaturita probabilmente dalla conoscenza delle tele

di J. Vernet, che in Francia aveva ricevuto un medesimo incarico anni prima da parte di Luigi XV.

Siamo nel 1782 e su “regal determinazione” di Ferdinando IV, a tal riguardo stimolato da Domenico Venuti, Intendente della Real Fabbrica di Porcellana, viene indetto un concorso da svolgersi nella stessa Fabbrica al fine di scegliere due pittori da inviare nelle varie Province del Regno a ritrarre le fogge di vestire più caratteristiche e di rilevante effetto cromatico.

Le modalità stabilite per l’esecuzione dell’artistica “tenzone” si rivestono di colore prettamente partenopeo. Gli artisti concorrenti devono infatti ritrarre a tempera una Luciana, cioè una giovane donna del quartiere di Santa Lucia in Napoli, colta nel suo caratteristico abito festivo da riprodursi di fronte ed a tergo.

Il compito di formulare la graduatoria, diremmo oggi, fu assunto dallo stesso Ferdinando IV, che proclama vincitori artisti Saverio Della Gatta (sostituito poco dopo da Antonio Berotti), ed Alessandro D’Anna.

Dopo una prima indagine sul campo fatta nel 1783 in Terra di Lavoro, la missione dei due artisti viene interrotta per due anni e mezzo circa ed alla ripresa dei lavori troviamo al posto del D’Anna il giovane pittore Stefano Santucci, che dunque insieme ad Antonio Berotti continua l’avventuroso viaggio attraverso le Provincie del Regno di Napoli.

Il compito preciso affidato ai due artisti itineranti è quello di ritrarre le fogge di vestire più caratteristiche, da utilizzare come affascinante documento etnografico nella decorazione delle porcellane prodotte nella Real Fabbrica Ferdinandea.

Va ricordato a tal riguardo che malgrado i pesi daziari, la concorrenza delle ceramiche inglesi, pur nella loro fredda e stereotipata decorazione, era molto forte a Napoli, ed i servizi erano particolarmente ricercati dall’agiata borghesia e dalla stessa nobiltà.

Donde la necessità di un rinnovamento cromatico delle porcellane avvertito dallo stesso Pietro Fabris, il quale – ironia della sorte – aveva dato alle stampe nel 1773 la famosa Raccolta di vari vestimenti ed arti del Regno di Napoli con la supervisione di Sir William Hamilton, personaggio di spicco negli ambienti culturali partenopei e nella stessa Corte.

Il compito di Berotti e Santucci non è facile, anche se si può immaginare che i due artisti chiedessero continuamente informazioni sui paesi cui dirigersi a cavallo, non mancando anche di recarsi nelle località dove si svolgevano fiere o feste particolari, in modo da poter osservare direttamente le fogge di vestire del luogo e del contado.

Già nel «Vojage pittoresque on Description des Royaumes de Naple et de Sicile» (Parigi 1781-86), opera pregna di esotismo preromantico, l’Abate R. de Saint Non sottolinea che i costumi popolari dei dintorni di Napoli “sont aussi variés que le language”, una “varietà” che investe essenzialmente l’abito femminile, perché – aggiunge l’Autore – sono le donne che hanno “dans la manière de se vêtir quelque particularité qui les distingue”.

Questa realtà non era sfuggita ai due “regi disegnatori” allorché nella loro prima missione in Terra di Lavoro inviano a Napoli i primi disegni.

Il Venuti infatti, nel presentarli a Ferdinando IV, viene rampognato dal re il quale raccomanda che nelle raffigurazioni devono essere riprodotte, accanto a quelle femminili, anche le fogge di vestire maschili. I due artisti diventano così testimoni inconsapevoli di un fenomeno latente nel regno di Napoli, la omologazione cioè del vestito maschile, che per quanto concerne l’Abruzzo può essere confermata da L. Dorotea, che riferendosi al costume di Castel di Sangro afferma: “L’abito degli uomini non merita alcuna riflessione, essendo lo stesso nella maggior parte degli Abruzzi”.

Le cause del fenomeno vanno ricercate nella struttura economica del regno, che determina continui spostamenti dell’uomo nell’attività transumante ed in una miriade di lavori stagionali che incidono sulla identità del costume tradizionale maschile, con la perdita di ogni riferimento alle località di origine, come dimostrano anche ex-voto pittorici nei nostri Santuari.

L’ attività manifatturiera è infatti vivace ed alle Fiere di Foggia, Lanciano, Montorio, ecc. si può acquistare di tutto in fatto di “abbigliamento” maschile, comprese le note giamberche (giacche) confezionate con panno ruvido prodotto dalle gualchiere regnicole.

Al contrario l’abito femminile, in tutte le parti che lo compongono, conserva fedelmente i tratti delle fogge tradizionali. È la donna infatti che resta in paese, che coltiva i campi ed accudisce i figli, che si improvvisa – come scrive A. Macdonell – muratore e ciabattina, provvedendo alla raccolta della legna nel bosco come le “bestie da soma” del Patini e che nei momenti di pausa riesce a trovare il tempo per tessere al telaio indumenti da indossare nel giorno di festa.

Sono appunto quelli ritratti a Pietransieri, Pescocostanzo, Collelongo e Gioia dei Marsi da Berotti e Santucci, ma più tardi anche da Michela De Vito e Luiggi (sic) Del Giudice, forse al corrente dei “regali intendimenti” del sovrano. Al Del Giudice infatti si deve il dipinto a tempera dal titolo Uomo del Paese di Casoli (Ch), in cui il personaggio, quasi in ossequio al volere del monarca, è raffigurato di fronte e di spalle in abbigliamento festivo ed indossato per l’occasione.

Vestiti per un giorno di festa, dunque. Ma come va intesa la festa, in particolar modo nella realtà dei tre Abruzzi?

La festa, sottolinea A. Di Nola, nella società arcaica e tradizionale abruzzese, va osservata “come principale occasione rituale nella quale si esprime la religiosità rurale”. Festa, festività, festivo, sono termini che per noi evocano un periodo di esultanza, di liberazione, di divertimento vissuto in connessione con talune ricorrenze di carattere civile o religioso.

Nella realtà abruzzese – e non solo in essa – la festa è collegata invece a specifiche fasi del ciclo coltivatorio o allevatorio; è festa il 17 gennaio, ricorrenza di S. Antonio Abate che ha preservato dalla morìa il bestiame da cortile, è festa il pellegrinaggio, che nel mese di maggio assume il valore di un ex voto per scongiurare le incertezze che incombono sul raccolto; è festa a giugno e a settembre, mesi che segnano rispettivamente il ritorno e la partenza del lavoratore stagionale e che non a caso coincidono con la maggior parte delle festività patronali.

È festa la domenica ma anche nel giorno di mercato, momento aggregante e “culturale” per il mondo rurale. Il vestito tradizionale “festivo” viene così a coincidere, nel mentre lo si indossa, con un particolare momento del ciclo dell’anno e diventa in molte occasioni il simbolo della liberazione dalle cariche angoscianti e dalle tensioni, un segno del malessere storico che ha modo di emergere soprattutto nei pellegrinaggi, nei quali, sottolinea ancora il Di Nola, “l’esplosività festosa del gruppo quasi nasconde, sotto il paradiso cromatico delle fogge di vestire, i rischi di cancellazione della propria presenza storica”.

Il vestito tradizionale, in tutta la sua bellezza, viene così a nascondere una attesa: la soluzione dei mali economici ed esistenziali.




CRISI DI IDENTITÀ E NATIVISMO

Aspetti delle tradizioni popolari nella provincia di Pescara

[Pubblicato in “Pescara e la sua Provincia; ambiente, cultura e società”, Vol. II. Vecchio Faggio Edizioni, Chieti 1996.]

di Franco Cercone

Nella prima settimana di agosto del ’94 le cronache regionali dei quotidiani hanno commentato con toni non privi di perplessità i dati ISTAT relativi al Movimento demografico nella provincia di Pescara per l’anno 1993. Il fatto significativo emerso dall’indagine è che dal 1991 al 1993 ben duemila abitanti hanno abbandonato la Citta del D’Annunzio ed un articolo in particolare commentava il sorprendente fenomeno con un titolo abbastanza significativo: Fuga dalla Città fantasma.

Si è registrato dunque un lento e forse graduale spopolamento di Pescara ed è difficile prevedere – dubbio questo non privo di fondate preoccupazioni – quali ceti sociali verranno ad occupare gli spazi che, in base a leggi statistiche e demografiche ovunque sperimentate, non resteranno a lungo abbandonati.

I felici collegamenti ferroviari ed autostradali hanno contribuito certamente nell’arco di un secolo a dilatare senza soluzione di continuità un tessuto urbano che ha fagocitato “cellule” caratterizzate fino agli anni Cinquanta circa da una propria identità socio-culturale. Il fenomeno ha contribuito così alla formazione di quella immensa ed indifferenziata “megalopoli padano-adriatica” mirabilmente descritta da F. Ciafaloni [Una morte in una città. Milano 1992].

Tuttavia questo gigante, questa specie di Moloc cananeo che sembrava inarrestabile nella sua insaziabile fagocitosi ambientale, comincia oggi a lanciare segnali di stanchezza. La crisi economica, la disoccupazione, le difficoltà insorgenti per reperire alloggi pur in un quadro allucinante di voluptas fabricandi, il conseguente degrado urbano e paesaggistico, violenza, usura, droga, e non solo nei degradati quartieri periferici, sono componenti che devono aver esercitato un certo peso nella decisione presa da molte persone di abbandonare la “città fantasma” e di trasferirsi nell’entroterra regionale, soprattutto nei paesi d’origine.

Giova ricordare infatti che in un passato certamente non lontano Pescara ha rappresentato una sorta di Eldorado – e non solo per i piccoli centri della sua provincia – verso il quale si è mosso un costante flusso migratorio. Come sottolineava G. Bolino, per un complesso di fattori come lo scarso reddito dei terreni, il diminuito provento delle industrie connesso al bosco, il deperimento dell’attività armentizia ecc. “la storia moderna dell’Abruzzo si chiama emigrazione”. Emigrazione anche interna, dall’entroterra desolato verso la fascia costiera; dove il turismo, la frenetica attività edilizia ed il commercio offrivano maggiori possibilità di lavoro.[1]

Tuttavia il tessuto demografico, una volta estesosi fuori di ogni misura, ha dettato qui come altrove il suo epitaffio.

Ed ora, come sembra, si inizia a fuggire dalla Città adriatica, dove la vita è diventata “piatta e talvolta disumana” come sottolinea un nostro informatore, il Sig. Angelo Di Camillo, originario di Alfedena.

Egli ha venduto casa a Pescara e si è trasferito a Sulmona, malgrado che il figlio frequenti la facoltà di architettura alla D’Annunzio.

Il racconto che ha fatto dei furti subiti, delle installazioni d’allarme e delle porte che tutto sono apparse fuorché “di sicurezza”, per tacer infine – a suo giudizio – degli innumerevoli extracomunitari appostati in Città ad ogni angolo e semaforo, ci aiuta a comprendere, dal suo punto di vista, perché abbia preso la decisione di viaggiare in treno per raggiungere quotidianamente il posto di lavoro a Pescara.

Fra quelle duemila persone che hanno lasciato Pescara il nostro informatore non è stato forse l’unico ad aver avvertito la disintegrazione dei propri modelli comportamentali, riferibili ad una peasant life o – se si preferisce – ad una vita a misura d’uomo, i cui ritmi sono scomparsi nei grandi agglomerati urbani.

È proprio questa, come hanno sottolineato negli ultimi tempi diversi studiosi, l’insopprimibile esigenza emersa dalle ceneri del consumismo e dalla omologazione comportamentale determinata dai mass media. Fattori che hanno distrutto il senso del “protagonismo” e del “vissuto quotidiano”, nonché le scansioni sacre e profane del tempo.

Si tenta di colmare il vuoto culturale e psicologico che ne è derivato attraverso la ricerca di una identità e quindi di valori cui ancorarsi, nonché attraverso processi, da Ida Magli chiamati di “autodeterminazione”.

Il fenomeno del recupero spontaneo dei tratti caratteristici delle proprie radici e quindi della propria storia, sfocia nella riscoperta, come sottolinea il Lanternari, del “folklore indigeno e tradizionale” [Folklore e dinamica culturale, Napoli 1976] e non pone lo studioso di fronte a problemi storiografici o antropologico-culturali.

Il demologo infatti può operare su un duplice piano d’indagine.

Quando proietta le proprie ricerche sul piano diacronico e analizza nell’ambito dei nessi che si instaurano fra struttura economica e sovrastruttura ideologica le funzioni svolte da determinati temi culturali, egli apporta significativi contributi alla storia delle comunità, al pari della linguistica.

La demologia non deve apparire pertanto, per dirla alla Gramsci, “pittoresca”, poiché “il folklore vuol essere essenzialmente una scienza storica: storica nel senso specifico, in quanto cerca di far luce sul passato, riflesso nell’oggi” [G.B. Bronzini, Folklore e cultura tradizionale, Bari 1972].

Le vicende dei gruppi sociali appartenenti oggi amministrativamente alla provincia di Pescara emergono dunque qui, come altrove, anche dai fatti culturali legati al ciclo dell’uomo e della vita di ogni singola comunità, fatti che – fintanto che le fonti ce lo permettono – costituiscono per la loro natura etnografica una vera e propria “storia corale” che normalmente non coincide con lo sterile elenco dei feudatari che si sono succeduti nel tempo nell’utile possesso dei vari centri del Pescarese.[2]

Questa metodologia “nel fare storia” era stata d’altro canto già discussa dal De Martino che scriveva: “Senza dubbio, per una storiografia che si limiti ai grandi fenomeni di vertice, il materiale folklorico è destinato a restare praticamente fuori dell’orizzonte valutativo come minuteria trascurabile”[3].

Il folklore dunque, insieme allo studio del dialetto locale, rappresenta un aspetto importante della storia delle comunità disseminate nella Val Pescara o sui rilievi montuosi provinciali, adagiati alle falde della Maiella e del Gran Sasso.

Prima di dare uno sguardo all’attuale panorama etnografico è opportuno volgere gli occhi anche al passato e nel modo in cui le fonti etnografiche – sempre scarse comunque per una scienza che fonda le sue basi soprattutto sulla trasmissione orale dei fatti culturali – ci permettono di “ficcar lo viso a fondo” in un ambiente, come scrive il Cirese, “in cui esistevano uomini, pur se pastori e contadini, là dove in precedenza non si erano viste che bestie o quasi”[4].

Acquistano così rilevanza alcune osservazioni di fra’ Serafino Razzi contenute nel suo noto Viaggio in Abruzzo (per es. quella relativa all’ antica attività della produzione delle “madie” a Farindola), le monografie storiche del Castagna con notizie etnografiche di alcuni Centri del Pescarese[5], gli Usi e costumi abruzzesi del De Nino ed altri saggi del folklorista peligno (per es. Il Messia d’ Abruzzo), alcuni studi del Pansa e del Finamore ed altre monografie specifiche concernenti determinate località ed apparse negli ultimi decenni[6].

Non vanno dimenticati tuttavia gli scritti di carattere etnografico concernenti quello straordinario borgo marinaro che diventerà nell’arco di un secolo l’odierna Pescara. Le leggende e superstizioni dei marinai pescaresi, come quelle legate per es. al tabù della pesca nella notte tra il primo ed il due novembre, oppure alla mitica barca di Caronte[7], formano uno straordinario “unicum” con le tradizioni del villaggio cresciuto all’ombra della fortezza di Carlo V e che risentono talvolta delle costumanze in uso presso altri Paesi europei e diffuse dalle guarnigioni che di volta in volta si succedevano, nel quadro di mutate situazioni politiche, al governo del Forte.

É questo per es. il caso della singolare tauromachia, di chiara origine spagnola, descritta da Remy D’Hauteroche[8]. Costui, giovane ufficiale francese in servizio nell’estate del 1806 alla fortezza di Pescara, assiste alla lotta fra un toro ed un branco di feroci mastini che si svolge proprio nel centro della Pescara dell’epoca e sottolinea che tale manifestazione era organizzata in occasione di tutte le feste che si celebravano nel borgo marinaro: “Point de fetes sans cet amusement”.

Il D’Hauteroche descrive anche il noto gioco della ruzzola, tuttora praticato in alcuni paesi abruzzesi, che si svolgeva a Pescara mediante forme di pecorino cosi secche da non poter essere grattugiate sui

maccheroni[9].

Queste feste popolari dovevano costituire un momento di distrazione date le misere condizioni degli abitanti del borgo, caratterizzato, come scriverà alcuni decenni dopo K. Craven nelle sue Excursions in the Abruzzi [Sulmona 1981], dall’aspetto “più desolato della povertà della sua popolazione”, la quale, secondo l’A., ammontava a circa 400 anime, cui si aggiungevano i circa 200 uomini della guarnigione.

I periodici di varia cultura in precedenza menzionati e pubblicati da circa cinquant’anni nella stessa Pescara attirano la nostra attenzione per una particolarità non priva di significato. I titoli di molti articoli di natura folklorica che in essi appaiono nel decennio 1970-80, quali per es. “Tradizioni che scompaiono”, “Leggende che sfioriscono”, “Una festa tradizionale scomparsa” ecc. già denotano con evidenza la frantumazione del mosaico, culturale tradizionale, determinata dai radicali mutamenti socio-economici che si registrano nel Pescarese. Anche le manifestazioni di religiosità popolare risentono di questa profonda trasformazione. A differenza di altre aree regionali, molti rituali magico-religiosi non hanno germinato nuove funzioni, svanendo cosi sull’orizzonte culturale provinciale.

La pur debole persistenza di un antico cerimoniale galattogeno, destinato ai bovini e registrato a S. Eufemia a Maiella costituisce un esempio illuminante se messo a confronto con il rituale galattogeno che ha luogo a Castelvecchio Subequo alla fonte di Sant’Agata[10]. Qui infatti non si svolgono più abluzioni votive per aumentare il latte nel seno materno, come avveniva un tempo a Sant’Eufemia, data la diffusa introduzione degli omogeneizzati, bensì per scongiurare quelle terribili affezioni che sono appunto i tumori. All’arricchimento di questa nuova funzione da parte dell’acqua di Sant’Agata si deve però la sopravvivenza di tale interessante cerimoniale apotropaico, altrimenti destinato a scomparire dal patrimonio culturale tradizionale, e non solo “subalterno”.

Questa mancanza di autorigenerazione ed incapacità da parte di temi e modelli culturali a esprimere nuove funzioni – pur nei rapporti sempre mutevoli fra struttura economica ed ideologia – sono alla base, a nostro avviso, della morte della cultura tradizionale ed il problema, angosciante per lo studioso, non è quello della impossibilità di accertare, come scrive il Di Nola[11], “un ipotetico e sostanzialmente inesistente modello originale”, quanto quello di dover constatare che un tema culturale sia morto senza eredi.

Questo Sunset Boulevard è stato imboccato da molte feste tradizionali e calendariali, come quelle di S. Giovanni Battista a Pescosansonesco e di San Zopito a Loreto Aprutino, che offrono pochi valori

sopravviventi rispetto a modelli e “varianti” rigorosamente accertati nel corso di più di un secolo.

Se si osserva in prospettiva tutto il territorio provinciale, secondo la nota tecnica del Pacichelli “a volo d’uccello”, si recepisce l’immagine di un volatile il cui corpo è costituito dalla Val Pescara e le ali dalle aree collinari e pedemontane che si estendono da un lato alle falde del Gran Sasso e dall’altro a quelle della Maiella.

Al pari della fascia costiera, gli insediamenti commerciali ed industriali hanno interessato per la presenza delle infrastrutture stradali e ferroviarie solo il fondovalle attraversato dal Pescara. È proprio in questo territorio che emerge in modo vistoso la perdita del senso dell’ethnos ed una deculturazione proiettata verso orizzonti senza speranza. Lo stesso “Museo delle Genti d’Abruzzo”, sorto grazie all’azione illuminata di un benemerito gruppo di studiosi pescaresi, non ha costituito, come ci sembra, occasione di riflessione ed è rimasto, per dirla alla De Saussure, “parole” e non “langue”. Soprattutto per le giovani generazioni cui il messaggio del “Museo” è diretto, per tacer poi delle grandi responsabilità degli operatori scolastici e delle istituzioni educative, cui l’Unesco l’anno scorso aveva pur raccomandato che la storia delle tradizioni popolari e dei dialetti fosse inserita come materia curricolare in tutte le scuole di ogni ordine e grado.

Diverso ci sembra invece il discorso da farsi sui centri pedemontani della Provincia, la cui vita culturale appare rischiarata da alcuni decenni dall’opera di ignoti studiosi locali o da gruppi la cui azione è diretta al recupero spontaneo di cultura orale e materiale, frugando in quella meravigliosa biblioteca ambulante che è la memoria dei vecchi.

Questa tendenza, ormai consolidata, avviene sotto la spinta di esigenze nativistiche, intese a riaffermare i tratti tradizionali del gruppo sociale assunti a simbolo di identità socio-culturale.

La riaffermazione di valori di una peasant life ancora percettibile, tende da un lato a costituire un argine ai processi di omologazione comportamentale, assai vistosi nella indistinta megalopoli costiera e nella Val Pescara, e dall’altro a rivalutare alcuni segni distintivi di ciascun ethnos legati in verità più al ciclo dell’anno che dell’uomo.

Il “Nativismo” dunque, come ha sottolineato il Lanternari, si manifesta con un “vistoso ritorno ad espressioni di vita tradizionale, legate ad una concezione del mondo contadino, alla vecchia religiosità popolare, sia di tipo cristiano-cattolica che di tipo precristiano e magico” [Folklore… cit.].

Il Nativismo è anche riscoperta delle proprie radici, della propria diversità culturale. A Pescara, come abbiamo avuto modo di constatare, si manifesta anche nel desiderio di reinserirsi, pur se per un solo giorno nella settimana, nel tessuto sociale del proprio paese d’origine, in ritmi di vita più lenti e più “umani” nei quali i rapporti vengono costantemente instaurati mediante contatti “fisici” con vicini di casa ed amici d’infanzia, al contrario degli abituali contatti che avvengono in città per lo più con il telefono. In tal senso hanno potere rasserenante anche certe manifestazioni massificate come “Presepi viventi” o “Scene della Natività” ovunque proliferate nel pescarese, talvolta anche con cattivo gusto, e che in certe località, come per es. a Moscufo, vengono etichettate come “grande tradizione locale”.

Resta il grande problema del “valore” da attribuire ai temi culturali appartenenti al ciclo della vita e dell’uomo, i quali, privi ormai delle funzioni che svolgevano nell’ambito di una ben precisa struttura

economica, si sono trasformati in rappresentazioni spettacolari o in “sopravvivenze” imbevute di scarsi significati, almeno sotto il profilo demologico o antropologico-culturale.

Tale realtà, a nostro avviso, può essere superata alla luce di una duplice considerazione. Innanzitutto queste sopravvivenze facilitano una nuova coesione del gruppo sociale, quel “sentimento del noi”, analizzato da W.G. Sumner [Folkwais, New York 1940] dal quale scaturisce un processo di autoidentificazione rispetto a forze omologanti “esterne” e perciò alienanti. In secondo luogo il ritorno alle tradizioni dell’ethnos di appartenenza favorisce un riavvicinamento alle proprie radici ed una sorta di inculturazione nei confronti delle giovani generazioni, che mostrano talvolta un desiderio intenso di comprensione verso quel “mondo” che ha preceduto gli attuali rapporti socio-economici, senza ricevere tuttavia adeguate risposte. Perché comunque, come ha osservato efficacemente il Bernardi, “i lamenti degli anziani troppo legati agli antichi usi, gli atteggiamenti di quelli che Orazio chiamava laudatores temporis acti, per i quali solo il passato è buono… offrono una fonte feconda di

comparazione per misurare ciò che non appartiene più alla cultura viva e diventa valore o etnema del passato”[12].

Vogliamo concludere queste brevi note segnalando all’attenzione dei lettori un eccezionale capitolo di “ricerca d’identità” scritto a Pescara, in modo orale, dagli abitanti di via San Michele. Si tratta di un episodio sconosciuto di riaffermazione dei valori tradizionali abruzzesi che coinvolge un gruppo composto da persone originarie di diverse località e magistralmente coordinate dal Sig. Mario Falcucci. In pratica tutti gli abitanti di questa piccola via diventano interpreti di temi o episodi scenici legati alla cultura regionale, concernenti per es. la Natività, le tentazioni di S. Antonio Abate, i fuochi di San Giovanni, la preparazione delle “Virtù” nella ricorrenza del 1° maggio e via dicendo.

Emerge in tutti gli abitanti della strada il desiderio di riaffermare la loro “abruzzesità” interpretando come “soggetti di storia”, pagine di cultura tradizionale che coinvolgono tutto il gruppo, sottratto, per molti giorni all’anno, alla sottomissione psicologica dei mass media e soprattutto della televisione.

Anche l’interessante esperienza degli abitanti di via San Michele, a Pescara, che rivivono da protagonisti alcuni episodi salienti delle feste calendariali, può essere inquadrata nelle esigenze nativistiche, emergenti in modo vistoso nei centri della Provincia che presentano un minor tasso di deculturazione. Esigenze, come ha scritto il Lombardi Satriani, che “testimoniano la volontà di fare storia” nell’ambito di un particolare clima festivo, quello appunto della peasant life [Mazzacane- Lombardi Satriani, Perché le feste Roma 1974].

La riscoperta di queste “feste” non assume pertanto il valore di una reviviscenza dei miti che sono dietro l’occasione festiva ma diventa invece, come ha sottolineato A. Di Nola, “il recupero di una identità perdutasi nell’alveare del cemento armato dei grandi centri urbani”.

Insomma, per dirla alla Cesare Pavese, “un paese ci vuole”.


[1] G. Bolino, La spopolazione dell’Abruzzo, Lanciano 1973. Si cfr. anche sul problema R. Almagià, Osservazioni sul fenomeno della diminuizione della popolazione in alcune parti dell’Abruzzo, in “Atti del I Congresso Geografico Italiano”, vol. lll, Roma 1950; U. Leone, Pescara L’Aquila e dintorni in “Nord e Sud”, mensile diretto da F. Compagna, n° 127, Napoli 1970; R. Colapietra, Pescara 1860-1960, Pescara 1980.

[2] Cfr. al riguardo AA.VV., Centri storici della Val Pescara, a cura di G. Chiarizia, Regione Abruzzo 1990, prefazione di E. Guidoni.

[3] E. De Martino, Folklore e storiografia religiosa, in “Cultura e Scuola”, n°1, ott. 1961. Si veda inoltre sullo stesso argomento E. De Martino, Naturalismo e storicismo nell’Etnologia, Bari 1941; C. Prandi, Religione e classi subalterne, Roma 1977.

[4] A. M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo 1973. Tralasciamo in tale sede cenni al D’Annunzio folklorista, per la cui bibliografia si veda F. Nicolosi, Le novelle pescaresi di G. D’Annunzio, in “Abruzzo. Rivista dell’Istituto di studi abruzzesi”, genn.1985-dic.1990, e G. Crocioni, Problemi fondamentali del folklore. Con due lezioni su “Il folklore e il D’Annunzio”, Bologna 1928.

[5] Cfr. P. Castagna, Città S. Angelo, Elice, Moscufo, Loreto Aprutino, Pianella, Rosciano, Villa Badessa, Spoltore, ne “Il Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato”, a cura di F. Cirelli, vol. IV, Napoli 1853. Limitatamente agli aspetti etnografici di tali località, cfr. anche la collana dal titolo Le Città d’Abruzzo, Lanciano, Soc. Bibliografica Abruzzese, 1925.

[6] Vanno soprattutto ricordate: E. Nobilio, Vita tradizionale dei contadini abruzzesi nel territorio di Penne, Firenze 1962; Loreto Aprutino. Le immagini, la storia, a cura di P. De Antonìs, R. Minore e A. Moccia, Pescara 1982; U. Jori, Gemme d’Abruzzo Moscufo. Storia, arte, folklore territorio, Pescara 1971; S. Jovenitti, Tocco Casauria attraverso i secoli. Storia, leggende, tradizioni, Sulmona 1960; A. Ninni, Il Comune di Alanno, Pescara 1960; V. Morelli, Memorie storiche di Pianella, Varese 1981. Vanno ricordati anche i contributi di carattere folklorico apparsi in importanti periodici quali “Abruzzo. Rivista dell’Istituto di Studi Abruzzesi”, “Rivista Abruzzese”, “Abruzzo Oggi”, “Attraverso l’Abruzzo” ecc. Una menzione particolare merita il periodico ASTRA, oggi non più pubblicato, ai cui benemeriti collaboratori, per lo più noti studiosi pescaresi, si deve l’istituzione del “Museo delle Genti d’Abruzzo”.

[7] Cfr. al riguardo V. Lanternari, La grande festa, Bari 1976. L’A. sottolinea che molte tradizioni relative ai pescatori di Pescara sono contenute in una tesi di laurea dal titolo: Usi, tradizioni e costumi dei pescatori di Pescara discussa da A. Albertini nell’anno accademico 1949/50. In occasione del VII Congresso Nazionale delle Tradizioni Popolari, svoltosi a Chieti dal 4 all’8 sett. 1957, Paolo Toschi, relatore della tesi auspicò che fosse pubblicata, data l’importanza delle notizie in essa contenute. Per quanto ci risulta sembra che l’invito del Toschi, di nuovo espresso nel saggio Pagine Abruzzesi (L’Aquila 1970), non sia stato raccolto.

[8] Del brano esistono due traduzioni, la prima a cura di M.C. Nicolai (Loreto Aprutino 1989) e la seconda da noi pubblicata in “Abruzzo Cronache”, 1990. Che la cruenta lotta fra toro e mastini sia costumanza di origine spagnola si evince dalla testimonianza del domenicano Bartolomeo Las Casas (1474-1566), missionario nelle Antille e difensore dei diritti degli Indios. Cfr. al riguardo A. Schneider, Las Casas vor Karl V, Frankfurt am Main 1990.

[9] Queste pagine di “vita pescarese” sono contenute nell’opera di R. D’Hauteroche pubblicata postuma con il titolo La vie militaire en Italie sous le Premier Empire (1806-1809), Saint Etienne 1894. Sono state anche riprodotte negli “Atti del Terzo Convegno sui Viaggiatori Europei negli Abruzzi e Molise”, Teramo 1975. C’è da augurarsi che veda al più presto la luce un volume dal titolo “Pescara negli scritti dei Viaggiatori Europei del XVIII e XIX secolo”.

[10] Dell’argomento ci siamo interessati nel convegno di studi su “La valle dell’Orte”, Le tradizioni popolari nella valle dell’Orte in “Quaderni di Abruzzo”, n° 14, Chieti 1993; Il culto di Sant’Agata a Castelvecchio Subequo, Sulmona, 1988.

[11] A. Di Nola, La festa di Cocullo tra mutazioni e sacralità, in “Rivista Abruzzese”, n° 2, Lanciano 1986.

[12] B. B. Bernardi, Uomo, cultura, società. Introduzione agli studi etno-antropologici, Milano 1974. Cfr. anche B. Malinowski, The dynamics of Culture Change, Londra 1945; A.M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo 1973.




IL CULTO DI S. AMICO IN ABRUZZO E MOLISE

Santi ed anacoreti Benedettini domatori di lupi. Il Culto di S. Amico a Cocullo e S. Pietro Avellana

[Pubblicazioni in “Rassegna Culturale del Centro Abruzzo” Ed. Qualevita, Torre dei Nolfi 2006; “La Gazzetta della Valle del Sagittario”, Villalago 2001; “Rivista Abruzzese”, N 3-4 Lanciano 2009]

di Franco Cercone

Fra le chiese esistenti a Cocullo e menzionate nella Bolla Corografica di Clemente III (ll88) ne troviamo una dedicata a Sant’Amico, vissuto fra la seconda metà dell’XI ed i primi decenni del XII secolo. Secondo fonti benedettine egli sarebbe morto infatti nel 1123 nel monastero di San Pietro Avellana, fondato intorno agli anni 1023-1025 da San Domenico di Cocullo, della cui opera Amico può essere considerato un fedele prosecutore[1].

Del nostro S. Amico si è occupato recentemente il Chiocchio in un interessante lavoro dal titolo I serpari di Cocullo[2], nel quale l’A. parla anche di un affresco esistente nella chiesa della Madonna delle Grazie a Cocullo e di particolare interesse agiografico.

Il sacro edificio dedicato alla Vergine si presenta oggi modificato rispetto ad “un impianto più antico risalente al XIII secolo”[3] e nell’interno, a navata unica, si possono ammirare affreschi del XVI secolo nonché un Trittico raffigurante ai due lati S. Antonio da Padova e S. Maria Maddalena con al centro Sant’Amico.

Quest’ultimo è chiamato in alcune fonti cassinesi Ramibonensis, forse dal nome di un’Abbazia (Arabona o Rambona) che sorgeva nel Piceno, area geografica che sembra aver dato i natali al santo anacoreta. L’annalista cassinese Berardo si chiede infatti: “Cur vero Ramibonensis a Pietro Damiani appelletur, divinare non licet, nisi forte Arabonensis seu Arambonensis legendum est” [4].

Insomma, per mutuare una felice espressione del Chiocchio, il nostro Sant’Amico è “una figura affascinante e un pochino misteriosa…; in una chiesa di Rambona è effigiato con attrezzi agricoli ed in un’altra stampa trasporta legna…Nella chiesa della Madonna delle Grazie è raffigurato invece con l’ascia sulle spalle”[5], come in un affresco del ‘400 che si ammira appunto nel Monastero di Sant’Amico a L’Aquila e che secondo F. Giustizia sarebbe un “simbolo eloquente del disboscamento monacale nell’altomedioevo”[6], attività nell’ambito della quale non è agevole cogliere la concezione di boschi e foreste come immagine di “solitudo e di horrendum desertum”, dato che la presenza delle selve, dono secondo San Francesco di Dio agli uomini, costituiva una condicio  fondamentale e pertanto ideale per la fondazione di cenobi da parte dei Benedettini ed altri Ordini monastici.  

Se le vicende biografiche di S. Amico sono caratterizzate dalla massima incertezza, non altrettanto si può dire degli aspetti iconografici con cui è stato rappresentato e tramandato ai posteri sulla base di leggende agiografiche[7].

La vita di S. Amico, scritta verso la fine dell’800 dal parroco Frazzini di S. Pietro Avellana, può essere definita un compendio di tali leggende e fra esse la più notevole, per i riflessi esercitati sotto il profilo iconografico, è quella che attribuisce al Santo il potere di rendere mansueti i lupi.
L’episodio agiografico è così narrato dal Frazzini: “In seguito, ridottosi Amico nel monastero di S. Pietro Avellana, per umiltà volle un giorno recarsi con una mula in un bosco vicino, per caricarla di legna, di cui si aveva bisogno nel monastero. Mentre legnava, un lupo di straordinaria grandezza, avventatosi sulla povera bestia, in men che si dica la uccise e pareva che volesse sfamarsene, allorché alla vista di S. Amico, che moveva a quella volta, si cacciò a precipitosa fuga giù per quei burroni… S. Amico chiamato a sé il carnivoro animale, se lo vide venire tutto umile ai suoi piedi. Allora lo rimproverò del danno commesso, e gli fece precetto di portare in pena, la legna al monastero. Il lupo accettò, facendo un certo atto di riverenza, ed infatti, dimentico della naturale ferocia, si lasciò caricare e condurre da S. Amico al monastero. A memoria di quel fatto, da antichissimo tempo si dipinge Amico con a fianco un lupo carico di legna” [ivi, p. 29].

Nell’affresco della chiesa di Santa Maria delle Grazie, a Cocullo, S. Amico è raffigurato invece con un’accetta da legna sulle spalle, che richiama semanticamente l’attività svolta dal Santo nel monastero di San Pietro Avellana.

Più poetica appare tuttavia la versione popolare, trasmessasi oralmente di generazione in generazione e dalla quale si apprende che nella suddivisione del lavoro i confratelli del piccolo cenobio avevano assegnato a Sant’Amico il compito di recarsi ogni giorno a tagliare la legna in un bosco sito nei pressi di San Pietro Avellana. Fedele compagna delle sue diuturne fatiche era una mula adibita al trasporto della legna ed alla quale il Santo eremita era particolarmente affezionato. A tal punto che S. Amico – narra un’altra leggenda agiografica – trovandosi a legnare nel solito bosco, volle dissetare la paziente mula e rivolti gli occhi al cielo, conficcò il suo bastone nella terra e dal buco scaturì subito una sorgente freschissima d’acqua. In ricordo di tale miracolo sia la sorgente che il bosco furono chiamati in seguito di S. Amico.

Avvenne un giorno che mentre il Santo monaco era intento a spaccare la legna nel bosco, un feroce lupo divorasse la povera mula lasciata incustodita a pascolare. Alla vista di sì immane misfatto S. Amico, al lupo accorso mansueto ad un suo cenno, tenne questo breve sermone: “Io capisco che l’hai fatto per fame, ma come faccio io a trasportare la legna? Perciò ti dico che da oggi in poi e per tutto il tempo che Dio ti darà da vivere, tu svolgerai il lavoro che faceva la mia buona mula”. Detto questo S. Amico legò la sella della mula sulla groppa del lupo, vi sistemò la legna tagliata e fece ritorno a San Pietro Avellana, fra il generale stupore della gente, meravigliata nel vedere un lupo pazientemente adibito ad un lavoro svolto di norma da asini e muli. Non mancarono inoltre persone, come si racconta a San Pietro Avellana, che ignare dell’accaduto presero addirittura “per pazzo” il buon Sant’Amico.

Va osservato che la matrice di questo racconto sembra costituita da un noto episodio agiografico, quello cioè dell’asino di San Guglielmo, che fu divorato, secondo una leggenda, da un lupo mentre fervevano i lavori per la costruzione del celebre santuario della Madonna di Montevergine, fondato com’è noto nel 1119 e dunque molto tempo dopo la morte di S. Amico, la quale, secondo l’attenta ricostruzione del Settefrati (ivi, p. 102), sarebbe avvenuta “ancor prima dell’anno 1069”.  Il lupo “fu poi reso mansueto dal Santo e ridotto all’obbedienza, tanto da prendere il posto dell’asino nel trasporto dei materiali da costruzione”[8].

Questa sacra leggenda, adattata alle varie realtà locali, deve essersi diffusa assai presto in tutti i cenobi benedettini dipendenti da Cassino o da San Vincenzo al Volturno, ma con varianti di grande interesse demologico concernenti l’atavica negatività del lupo.

Alla luce di tali racconti non è infatti solo il lupo ad attentare alla vita dei bambini lasciati incustoditi dai genitori – come per es. nel noto episodio di San Domenico di Cocullo che si rappresenta a Pretoro – ma anche il lupo mannaro, che specie presso i ceti rurali suscitava non pochi timori ed angosce ancestrali. Così una sacra leggenda raccolta dal De Nino narra come a San Rainero, vivendo a Bagno, località presso L’Aquila, venisse a mancare l’acqua mentre era intento “a fabbricare una chiesa”. Pertanto egli chiese ad una donna che passava col bambino in braccio: “Fammi la carità, va alla fontana per una conca d’acqua, se no non posso continuare la fabbrica”.

La donna lascia momentaneamente incustodito il bambino e va ad attingere l’acqua. Ma “in quel mentre – prosegue il racconto – passa il lupo mannaro e si ruba il bambino”. San Rainero però, prontamente accorso alle grida della donna, fece tintinnare una campanella che portava con sé e recitando il seguente scongiuro: “Nchu ju tocche de la mia campana nen ce pozzene lupemenare, né serpente velenose e né acque in furiose”, rese mansueto il lupo mannaro, che riportò sano e salvo il bimbo alla madre[9].

Ricordato che il tema del lupo che restituisce il bimbo alla madre si rinviene anche in un racconto agiografico relativo a San Franco d’Assergi[10], occorre notare come alcuni “poteri” di San Rainero (quelli antiofidico e antitempestario) evidenziati nello scongiuro appaiano mutuati da San Domenico di Cocullo, cui è estraneo peraltro un patronato contro i lupi mannari, uno “status” che nelle leggende e superstizioni d’Abruzzo e Molise si acquisisce dai bambini fin dalla nascita, se questa avviene durante la notte o “a mezzanotte in punto” di Natale[11], tempo fatale anche per la nascita delle bambine, destinate a diventare “streghe”[12].

Ma al di là dei meri episodi agiografici, arricchiti dalla splendida fantasia popolare, va rilevata comunque la diffusione del culto di Sant’Amico non solo nel medio corso del Sangro -e principalmente a San Pietro Avellana, dove riposerebbero secondo alcune fonti le sue spoglie- ma anche in area peligna e nell’Aquilano. Ne fanno fede alcuni affreschi, come quelli esistenti nel monastero di S. Amico a L’Aquila, nella chiesa cinquecentesca di S. Francesco a Carapelle Calvisio ed in quella rurale dell’Icona Pastora di Amatrice, sub anno 1494, a riprova della diffusione del culto anche in Alta Sabina e nel Piceno. A Sulmona in particolare fu eretta in suo onore nel XIII secolo una chiesetta accanto a quella di San Panfilo. Inoltre una porta cittadina, attigua al piccolo tempio, era denominata Porta S. Amici e risultando diruta a seguito di terremoti, fu inglobata poi da Porta S. Panfilo[13].

Quale testimonianza della diffusione del culto di S. Amico nel Piceno va citato un episodio riferito da fra’ Serafino Razzi, il quale, partito in data 17 giugno 1575 dal castello di Quintodecimo, distante 15 miglia da Ascoli, pervenne, dopo aver superato altissime montagne, “lungo la riva del Tronto e ci fu da uno del paese mostrata una pietra, detta la Pietra di S. Amico, sopra della quale dicono che detto Santo giunse, cioè saltò dall’alta montagna che sta sopra di lei, in cui egli facea penitenza e ci si veggono ancora le vestigie e i piedi”[14]. Il Carderi riferisce in nota, sulla base di documenti tratti dalla “Biblioteca Sanctorum” (primo, 1600-700), che S. Amico di San Pietro Avellana, sul Sangro, nacque tra il 920 e 930 presso Camerino e visse per tre anni presso “una spelonca del monte Torano dell’Aquila, ma in diocesi di Ascoli” poi all’età di 90 anni si ritirò nel Monastero di S. Pietro Avellana, “dove trascorse gli ultimi anni isolato in una cella alla maniera dei reclusi”. Nessun cenno dunque si fa nella Biblioteca Sanctorum dell’episodio del lupo reso mansueto, che fu aggiunto molti secoli dopo nella Prima vita del Santo, come sottolinea a ragione il Settefrati.

Sant’Amico e S. Domenico di Cocullo, per tacer di S. Guglielmo, Sant’Eustorgio, S. Francesco d’Assisi e S. Franco d’Assergi, benedettino quest’ultimo vissuto nella seconda metà del XII secolo, si presentano dunque come dominatori della natura bruta, la quale nelle società agropastorali abruzzesi ed appenniniche in genere, viene a coincidere non solo con l’ambiente ostile, ma anche con alcuni animali che vi dimorano. Con alcune differenze tuttavia decisamente sostanziali. L’orso, per esempio, animale soprattutto erbivoro, non costituisce un pericolo grave come il lupo, che non attenta solo alla vita dell’uomo, di cui ha comunque paura, ma soprattutto a quella degli animali indispensabili al suo lavoro e sostentamento, come appunto gli equini ed ovini. Tale rilievo è valido inoltre anche per gli ofidi, poiché oltre a quelli velenosi, come le vipere, pericolosi per la vita dell’uomo, ve ne sono altri, per es. le cosiddette ‘mpastoravacche, che sono capaci come è noto di sottrarre latte alle poppe delle mucche che pascolano. 

Sicché mentre la leggenda di S. Domenico di Cocullo[15], come quella di S. Rainero, è costituita da una mera inventio, forse dei monaci cassinesi, in cui l’uomo è sostituito necessariamente da un bimbo indifeso, non altrettanto si può dire di quella relativa a S. Guglielmo e S. Amico, che riflette invece una situazione reale ed assai temuta dal mondo agropastorale[16]. Così le immagini rassicuranti del lupo, reso mansueto, rivelano il superamento dello “stato di natura” della “fiera”, la quale, grazie all’intervento mediatorio ed indispensabile dei monaci benedettini,viene inserita come animale da trasporto nell’economia del gruppo e dunque in uno “stato di cultura”.

A San Pietro Avellana la chiesa di S. Amico, che forma un unico plesso con la parrocchia dedicata ai SS. Pietro e Paolo, sembra antecedente alla data del 1585 contenuta in un concio infisso sulla facciata ed indicante forse l’anno di uno dei tanti restauri cui il tempio è stato in passato sottoposto. Nell’interno della chiesa, a navata unica, si ammirano due affreschi, forse tardo seicenteschi, raffiguranti i due più noti miracoli di S. Amico: la restituzione della vista ad un servo del conte Borrello, che recava al suo padrone delle trote acquistate a San Vincenzo al Volturno[17],  ed il lupo reso mansueto da S. Amico e recante addosso la legna. Una statua di recente fattura e conservata in una nicchia della parete di destra, raffigura lo stesso santo con a fianco il lupo che trasporta la legna. Un’altra statua di S. Amico, rappresentato “con la barba”, fu in un certo senso “ripudiata” dai fedeli di San Pietro Avellana, i quali ritengono tuttora che si tratti dell’immagine di San Domenico di Cocullo, fondatore del locale monastero.

Emergono così straordinari elementi comuni negli episodi agiografici relativi a molti santi benedettini, vissuti nella prima metà del seco XI. Questa caratteristica, che colpisce subito l’attenzione dello studioso, lascia supporre, come si è detto, una matrice comune che si è evoluta e diversificata a contatto con le singole realtà locali. I “registi” di questa agiografia leggendaria sono sempre loro: i Benedettini, che vivono nei cenobi sperduti in gole impervie o al limite di folti boschi, ma sempre vicini – a differenza di altri ordini religiosi – alle comunità rurali di cui hanno saputo interpretare i bisogni specie nella fase di passaggio dalle “ville e casali” a quella dell’incastellamento.

Alla base dei racconti agiografici v’è tuttavia il lupo. Simbolo di un terrore ancestrale ed irrazionale, alimentato dalla favolistica e dagli scrittori di fiabe, il lupo è stato in realtà un animale oggetto di caccia spietata da parte dell’uomo, che ha saputo sfruttare nelle vesti di luparo un atavico timore radicato soprattutto nella Weltanschauung dei ceti agro-pastorali. Andando in giro per casolari di campagna e per stazzi con il lupo morto legato sulla groppa di un asino o di un mulo, il luparo, ben fiero del suo macabro trofeo, riceveva gran copia di beni alimentari e nell’estate del 1956 noi stessi ne siamo stati testimoni. Un cacciatore di Cansano, tal Rocco De Santis, raccolse in questua più di un quintale di formaggio e salumi donati dai pastori di Cansano e Pettorano sul Gizio quale ricompensa per un lupo da lui ucciso in contrada Vertoli, sita fra Cansano e Pescocostanzo[18].

Gli episodi agiografici di San Guglielmo e Sant’Amico lasciano supporre che esistano casi analoghi di cui sono protagonisti altri santi, e non solo benedettini, che hanno operato in aree diverse da quella abruzzese-molisana. Nella cappella del Palazzo Majer, a Fossacesia, si ammira per es. un quadro che raffigura forse San Vincenzo Ferreri con accanto un lupo che lo segue mansueto. Probabilmente questo Domenicano spagnolo, titolare – e non solo in Abruzzo – del singolare patronato contro gli animali danneggiatori delle campagne, soprattutto bruchi e cavallette, è stato il protagonista di un episodio leggendario in parte analogo a quello di S. Amico, che non siamo riusciti tuttavia ad individuare, pur frugando fra i suoi numerosi testi agiografici.

Il culto di Santo Stefano “del lupo” a Carovilli e Manoppello.

Un particolare aspetto del patronato antirabbico è offerto dal culto professato a Carovilli, paese della provincia di Isernia, ed un tempo anche a Manoppello (Pescara), ad un altro Santo non Benedettino, ma appartenente all’Ordine dei Celestini fondato da fra’ Pietro dal Morrone.

Si tratta di Santo Stefanodetto appunto “del lupo”, che alcune fonti chiesastiche qualificano come Beato ma che comunque va annoverato fra i Santi domatori di fiere.

Il beato Stefano è personaggio storico. Di lui il Ricchiuti pubblicò nella prima metà del secolo scorso notizie agiografiche che, derivate da quelle formatesi nel corso dei primi decenni del XVII secolo attorno alla figura di San Domenico di Cocullo, assumono notevole importanza proprio per il loro aspetto leggendario[19].

Secondo il Ricchiuti, Stefano “fondò nel 1149 il monastero sotto il titolo di San Pietro Apostolo, detto San Pietro di Vallebona”, nei pressi di Manoppello, e di tale località fu anticamente anche protettore[20]. Dal Pansa, che ha pubblicato L’antico regesto del monastero di Vallebona, si apprende invece che la fondazione della chiesa e del monastero appartenuti dal 1285 ai Celestini di S. Spirito a Maiella, “avvenne per opera di Boemondo, conte di Manoppello”. Inoltre sulla base dei manoscritti dell’abate Zanotto[21], risulta che “il monastero in seguito si appellò con diversi titoli. Da San Pietro di Vallebona, titolo di fondazione, passò a chiamarsi Santa Maria di Vallebona…In un altro istrumento del 1576 ed in alcuni privilegi della stessa epoca, si trova cambiato il nome in quello di Santo Stefano di Vallebona[22], quel Santo appunto che in tale sede interessa e che assume in seguito l’appellativo “del lupo” secondo una leggenda agiografica così riassunta dal Ricchiuti: “Stefano vien detto del lupo. Avvenne che un giorno in Manoppello si vide girare un lupo che faceva vittima della sua rabbia tutti coloro che incontrava, destando il massimo terrore in quel pacifico paese. In sì grave pericolo i Manoppellesi ricorsero a S. Stefano e lo scongiurarono a liberarli da tanto male. Stefano, mosso a pietà dalle lagrime dei suoi Manoppellesi, elevò lo sguardo al cielo e dopo breve orazione, con un segno di croce, ammansì la belva feroce che, legata, condusse presso di sé per parecchio tempo. Per tale miracolo Stefano venne detto del lupo e con questo animale egli, dopo la morte, venne dipinto ed esposto alla pubblica venerazione” [S. Ricchiuti, cit., p. 21].

L’episodio, leggendario al pari di quello di S. Amico, dovette ben presto diffondersi in tutti i cenobi celestini e se ne coglie un’eco nel fatto che il monaco Carl Ruther, artista di origine polacca vissuto nel XVII secolo e facente parte della comunità celestina di Collemaggio, ci ha lasciato fra le numerose tele conservate oggi nel Museo Nazionale di L’Aquila (Sala Carl Ruther) un dipinto raffigurante Santo Stefano che regge al guinzaglio il famoso lupo affetto da rabbia e reso innocuo dal Santo benedicente. La tela presenta in basso un cartiglio con la seguente scritta:

B.(eatus) STEPHANUS  E  VALLEBONA  MIRA  MOR^^U (m)  SUAVITATE  EX MANSUEFACTO LUPO

HOMINES  AD DEUM ALLEXIT EIUSQ.(ue) CORPUS IN DIE DEDICAT (ionis) ECCLESIAE S. SPIRITUS

MAGELLA (e) MAGNO POPULOR. (um) CONCURSU (ad) VENERANDUM EXPONITUR

[Beato Stefano da Vallebona, di meravigliosa santità di costumi; a causa del lupo ammansito

attrasse gli uomini a Dio ed il suo corpo nel giorno della dedicazione della Chiesa di S. Spirito a Maiella

viene esposto alla venerazione con grande concorso di genti][23].

Come si è visto, il Pansa scrive che il monastero di Manoppello, sub titulo di Santa Maria di Vallebona, “si ritrova cambiato in un istrumento del 1576 in quello di Santo Stefano di Vallebona, ma il Beato compare tuttavia citato per la prima volta nel Digestum dello Zanotto in un documento del 1208, e dunque di molto anteriore, in cui vengono invocati oltre alla Beata Vergine e San Pietro Principis anche Santo Stefano Confessore, protettori in vari periodi del cenobio, all’epoca, benedettino.

Di Santo Stefano in particolare nulla si dice circa il suo luogo d’origine, anche se una “tradizione ininterrotta ed altri documenti” non citati lo vogliono nato a Carovilli (Isernia), come sostiene appunto il Ricchiuti nell’opuscolo citato, “tra il 1099 ed il 1118”.

È utile ricordare che di tali notizie nebulose non si rinvengono tracce nel Regesto dello                  Zanotto, dal quale apprendiamo che “nel 1591, essendo già diruti chiesa e monastero di Vallebona, il corpo di Santo Stefano, che vi si venerava, fu solennemente trasportato e riposto nella chiesa di S. Spirito a Maiella”[24].

Ma non finiscono qui le “disavventure” dei resti mortali del Beato (o Santo) Stefano del lupo.

Informa sempre il Pansa, sulla base di documenti trascritti dallo Zanotto, che nel 1645 all’immagine “antichissima” di un Crocifisso, affrescato su uno dei muri della chiesa diruta di Vallebona e salvatosi dall’ingiuria degli agenti atmosferici, furono attribuiti portentosi miracoli che richiamarono “una moltitudine di popolo dalle terre convicine e da quelle lontane”.

Sicché grazie anche alle numerose “oblazioni ed elemosine”, l’Università di Manoppello diede inizio al restauro del monastero e della chiesa e qui “nel 1646 il corpo di Santo Stefano fu di nuovo trasportato”.

Ma i monaci celestini, scrive il Pansa sulla base di documenti contenuti nello Zanotto, non vi vollero più restare ed è probabile che per tal motivo i resti del Santo furono trasferiti negli anni seguenti nella chiesa parrocchiale di Roccamorice, dove restarono fino al 1807.  Il 29 settembre di tale anno le spoglie di S. Stefano “del lupo” furono riportate a Carovilli e collocate nell’artistico altare di marmo policromo del XVIII secolo, che tuttora si ammira nella navata sinistra della chiesa parrocchiale di Carovilli, e dedicato appunto al Beato Stefano[25].

Il Ricchiuti riporta nel citato volumetto sul culto di Santo Stefano “del lupo” una strofa, precisamente la quarta, tratta da un canto devozionale in latino – e pertanto di origine colta e chiesastica – che “ab immemorabili” si cantava nella chiesa madre di Carovilli.

Don Mario Fangio, parroco di tale località, ha riproposto l’intero canto con il titolo di Responsorium [26]  che manca tuttavia di una versione dialettale locale e non può essere ascritto alla tipologia delle Orazioni. La terza e quarta strofa, trascritte qui di seguito, sono corredate della necessaria versione in italiano ad opera di Ilio Di Iorio.

III Strofa:   In oneratas frugibus  nostras difendit segetes  a strage dira grandinis ortos depellens turbines   [Difende i nostri campi Carichi di biade, dal terribile danno della grandine, respingendo le insorte tempeste]

Come si vede questi versi accennano ai primigeni patronati di San Domenico di Cocullo, il quale secondo le Vitae coeve del discepolo Giovanni e del Monaco Alberico di Montecassino possedeva, oltre a quello antifebbrile, un patronato antitempestario, dunque contro le piogge e soprattutto contro la grandine devastatrice dei raccolti e particolarmente temuta ancora oggi dai ceti rurali.

Ma vediamo la IV Strofa:

        Is lupi morsus rabidi, non dibiae necis nuncios, ut saepe experti novimus veneno prorsus exuit. [Egli in verità priva del veleno i morsi del lupo affetto da rabbia, forieri di morte sicura, come sappiamo avendolo spesso sperimentato]

Qui viene menzionato un patronato antirabbico, posseduto da S. Stefano, da ritenersi decisamente singolare, perché non esercitato come nel culto di S. Domenico di Cocullo, contro il morso dei cani, ma addirittura contro quello dei lupi affetti da rabbia, i quali aggiungono questa ulteriore negatività al pericolo reale rappresentato per il gregge nelle società agro-pastorali appenniniche.

Vanno sottolineati inoltre in questo particolare episodio di religiosità popolare i tentativi della gerarchia ecclesiastica locale di ricondurre i patronati di Santo Stefano “del lupo” nell’ambito di generici e non precisati “mali dell’anima e del corpo”, come si legge appunto nella citata Novena, che contrastano con la precisa richiesta di protezione “dal terremoto”, come indicata nel succitato Responsorium ed esercitata soprattutto nell’Italia Centrale da Sant’Emidio.

Come ha ben evidenziato Giuseppe Profeta, cui si deve l’importante passo in avanti compiuto in campo storico-antropologico, nella conoscenza della dinamica di formazione del culto di S. Domenico di Cocullo[27], l’acquisizione del patronato antirabbico è precedente a quello antiofidico e di conseguenza ogni influenza marsa, presupposta nella formazione iniziale del culto, diventa del tutto inconsistente[28].

Circa il periodo storico in cui S. Domenico si arricchisce dei nuovi e singolari patronati antirabbico ed antiofidico, occorre partire da una precisa data di riferimento: la visita pastorale compiuta a Cocullo nel 1629 dal Vescovo di Valva e Sulmona Francesco Cavalieri e conseguente relazione “ad Limina” trasmessa a Roma nello stesso anno alla Sacra Congregazione dei Riti.

In essa il vescovo Cavalieri comunica che a Cocullo “vi è la chiesa di S. Egidio et S. Domenico con un dente di questo Santo, dove concorrono quelli che sono morsi da cani rabbiosi”.

Il primo ventennio del XVII secolo appare pertanto decisivo per la formazione del culto, tutto incentrato sulla presenza a Cocullo del sacro dente, donato secondo una leggenda agiografica da S. Domenico ai nativi di Cocullo e menzionato per la prima volta dal vescovo di Valva Del Pezzo nella visita pastorale fatta il 21 aprile 1594 a Cocullo[29].

Giuseppe Profeta evidenzia la funzione del sacro dente, cioè il dente buono che costituisce una difesa contro i denti cattivi del mondo animale, quali appunto i denti dei cani affetti da rabbia e i denti dei rettili velenosi. È proprio questa dicotomia, “buono – cattivo”, messa in evidenza negli ambienti benedettini, che viene recepita dal clero di Cocullo, il quale comprende bene l’affaire legato al sacro dente.

Ora, fra le leggende agiografiche registrate nei libretti devozionali, va ricordata quella contenuta nella fondamentale Vita di San Domenico da Foligno (Foligno 1645), perché in essa l’Autore, L. Iacobilli, scrive come fosse “fama che il Santo liberasse gli habitatori (di Cocullo) da un feroce lupo che gli soleva andar divorando”e guarisse le persone morse “da cani rabbiosi o da serpenti”, introducendo così accanto al primigenio patronato antirabbico quelli antiofidico e antilupesco.

Il lupo è assunto qui solo come uno dei simboli del negativo esistenziale, in quanto attenta alla vita dell’uomo ed a quella degli animali che coadiuvano con lui, come nel caso di S. Amico, alle diuturne e faticose attività lavorative. È con il Febonio, autore delle note Historiae Marsorum, pubblicate postume nel 1687, che il lupo diventa “rabbioso” in una leggenda agiografica da ritenersi fondamentale e così riassunta dallo storico marsicano: allorché S. Domenico fa il suo ingresso a Cocullo, “gli va incontro piangendo una gran turba che inseguiva un lupo rabbioso, che aveva rubato un bambino e si dirigeva verso la vicina selva. Il Santo, commosso dalle lacrime dei genitori, chiamò la rabbiosa bestia e, in nome di Dio, le ordinò di lasciare la preda; immantinente il lupo, dimentico della sua ferinità, restituì il piccolo ai genitori senza danno”[30].

L’episodio del lupo affetto da rabbia è riferito anche dallo storico sulmonese E. De Mattheis[31], nell’opera tuttora allo stato di manoscritto e dal titolo Memorie storiche de’ Peligni divise in tre libri ecc., composta nel decennio 1660-1670. In tale periodo il De Mattheis ricopriva la carica di “Pubblico Archiviario” di Sulmona ed ebbe perciò “tutto l’agio – come scrive il Pansa – di studiare le antiche scritture per corredarne le sue Historiae Peligne[32].

Questa precisazione non è di poco conto, dato che alcuni studiosi attribuiscono al De Mattheis la prima notizia della leggenda del lupo rabbioso, che appartiene invece di diritto al Febonio.

È da ritenersi che la leggenda intorno al lupo rabbioso risalga agli inizi del XVII secolo oppure allo stesso periodo 1640-1645, quando cioè cominciarono a registrarsi a Vallebona i primi “portentosi miracoli” operati dal Crocefisso affrescato nella chiesa. Ma a creare la leggenda di Santo Stefano “del lupo” non furono questa volta gli ambienti benedettini bensì quelli celestini, i quali ispirandosi ai patronati di San Domenico di Cocullo, ormai “codificati”, ampliarono l’unico aspetto tralasciato dal clero di Villalago e Cocullo: la rabbia del lupo, la cui leggenda di fondazione, come si è detto, è riferita per la prima volta dal Febonio.

È possibile anche ipotizzare i motivi per cui il lupo rabbioso non abbia costituito un tema sviluppatosi nell’ambito della agiografia leggendaria di San Domenico. Il lupo infatti, poiché attenta alla vita del gregge, degli equini e delle stesse persone (soprattutto bambini), non reclamava nella Weltanschauung dei ceti agro-pastorali segnali di ulteriore negatività.

La leggenda di Santo Stefano del lupo ci pare pertanto il tassello che mancava alla ricostruzione di quell’affascinante mosaico che è appunto la storia devozionale di San Domenico di Cocullo e dei Santi benedettini domatori di lupi.  


[1] Per la leggenda di fondazione del monastero di San Pietro Avellana e per le incerte fonti storiche benedettine relative a questo cenobio cfr. G. Profeta, Un culto pastorale sull’Appennino contro i morsi di lupi, serpenti e cani rabbiosi. Inchiesta sul culto popolare di S. Domenico di Cocullo, Pescara 1988; G. Celidonio, La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. II, Casalbordino 1910.

[2] A cura dell’Associazione Abruzzese di Roma,1986.       

[3] Cfr. Cocullo. Il paese dei serpari, Corfinio, Amalthea Ediz.,2000; N. Chiocchio I Serpari di Cocullo cit.

[4] Cfr. S. Frazzini, Vita di Santo Amico eremita e monaco cassinese, Isernia 1807; ristampa anastatica S. Pietro Avellana 1990, a cura del “Museo di tradizioni popolari e del costume d’epoca” e dell’Archeoclub “Volana”.

[5] Cfr. N. Chiocchio, cit. Non poche perplessità suscita il toponimo Arambona. Ci viene in aiuto a tal proposito P. Settefrati, il quale in un recente lavoro dal titolo La prima Vita scritta di S. Amico di S. Pietro Avellana dal Codice 34 dell’Archivio di Montecassino (Roma 2004), elimina non pochi dubbi sulla vita del Santo, nato presso Camerino (Mc) in loco Arabona, Abbazia presso Montemilone. Negli Acta Sanctorum (mese di novembre) si legge però che presso il Comune di Pollenza (Mc) sorge l’Abbazia di Rambona, una volta chiamata Arabona, il che spiegherebbe perché San Pietro Damiani chiama il nostro S. Amico Ramibonensis. La prima vita di S. Amico, scoperta dal Settefrati, è un manoscritto conservato nell’Archivio di Montecassino ed ha di notevole che in esso compare per la prima volta “il miracolo del lupo”, il quale – sottolinea a ragione il Settefrati – “sembra essere stato aggiunto nella sequenza narrativa successivamente”. Malgrado le indicazioni, comunque contrastanti, offerte dalle diverse Vite, le date di nascita e di morte di S. Amico restano assai incerte.

[6] F. Giustizia, Prolegomeni e frammenti di Storia di un territorio. Clima ambiente vegetale, metrologia e cultura della sopravvivenza all’ombra del Gran Sasso d’Italia dall’epoca recente al medioevo, L’Aquila 2005.

[7] Nell’opuscolo citato il Frazzini scrive che S. Amico addirittura chiese e ottenne, forse mentre era nel Piceno, “di percorrere apostolicamente la Contea di Valva travagliata da grande carestia”. Nell’episodio leggendario si coglie forse l’eco della diffusione del culto del santo, assai venerato -come vedremo- a Sulmona.

[8] G. Ranisio, Il lupo mannaro nella tradizione demologia abruzzese. In L’incantesimo del lupo. Viaggio nell’immaginario folklorico, a cura di A. Gandolfi, Ediz. Ecoesse, Roccamontepiano (Ch.) 2001. Sulla genesi della leggenda cfr. A. D’Amato, Reliquie di sacre rappresentazioni nell’Irpinia, in “Il Folklore Italiano”, diretto da R. Corso, n° III, 1927-28.

[9] Cfr. A. De Nino, Usi e costumi abruzzesi, vol. IV, “Sacre Leggende”, Firenze 1882: San Rainero (o Raniero) proteggeva anche dai “dolori di capo”. Cfr. G. Pansa, Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, vol. I, Sulmona 1924.

[10] Cfr. G. Pansa, Miti, leggende ecc., vol. I; sulla figura di San Franco, vedasi il fondamentale saggio di A. Clementi, L’organizzazione demica del Gran Sasso nel Medioevo, L’Aquila 1991.

[11] Sulla genesi delle credenze relative al “Lupo mannaro”, cfr. G. Ortalli, Lupi, genti, culture, uomo e ambiente nel Medioevo, Torino 1977; G. Ranisio, op. cit. e relativa bibliografia; C. Corvino, Lo sguardo del lupo, Napoli 2003; A. Gandolfi, Le Storie di sangue nella tradizione orale abruzzese, Quaderno n. 22 del “Museo delle Genti d’Abruzzo”, Pescara 1994. Per tali superstizioni nella Marsica cfr. Q. Lucarelli, Biabbà. Storia di una cultura subalterna, vol. II, a cura di T. Lucarelli e F. Cardarelli, Centro Studi Marsicani, Avezzano 2003. Leggende sul lupo mannaro sono riportate da E. Canziani in Attraverso gli Appennini e le Terre degli Abruzzi, Roma 1979.

[12] Cfr. a tal riguardo F. Cercone, La strega e il mietitore nelle credenze natalizie peligne; in “Abruzzo Oggi”, Anno II, n° 4, Pescara 1978; G. Finamore, Tradizioni Popolari Abruzzesi, rist. Forni Ed. Bologna.

[13] Cfr. G. Pansa, Di un antico rituale membranaceo della chiesa Cattedrale di Sulmona e di alcune ricerche storiche sulla topografia di questa città nei tempi di mezzo, Sulmona 1891. Attiguo alla chiesa esisteva anche il “Cimitero” di S. Amico. Al Santo era dedicato inoltre un altare nella chiesa dell’Annunziata.

[14] Cfr. fra’ Serafino Razzi, Viaggi in Abruzzo, a cura di B. Carderi, L’Aquila 1968.

[15] “Secondo la leggenda popolare -scrive il Pansa- San Domenico Abate nel passaggio che fece per Cocullo incontrò una lupa, la quale recava nella bocca un pargoletto, unico figliuolo di una povera vedova che, disperandosi, correva appresso alla fiera. Alle invocazioni della madre, San Domenico si commosse e ordinò alla lupa di lasciar tosto la sua preda. Quella docilmente obbedì e depose a terra il bambino…”; cfr. G. Pansa, Miti, leggende ecc., vol. I. Va notato che dell’episodio del lupo non v’è traccia nella Vita di San Domenico scritta dal suo discepolo Giovanni, la nota Vita Johannis contenuta nel I° vol. degli Analecta Bollandiana. La prima citazione dell’episodio leggendario si rinviene nell’opera Historiae Marsorum del Febonio, pubblicata a Napoli nel 1678.

[16] Su queste fondamentali tematiche confronta G. Profeta, Un culto pastorale sull’Appennino ecc., op. cit.; idem, Lupari, incantatori di serpenti e Santi guaritori, L’Aquila 1995; id., Il serpente sull’altare. Ecologia e demopsicologia di un culto; A. Di Nola, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino 1976; E. Giancristofaro Tradizioni popolari d’Abruzzo, prefazione A. Di Nola, Roma 1995.

[17] Le trote, tramutate in serpi, costituiscono come è noto un episodio agiografico di S. Domenico di Cocullo. La perdita della vista, da parte del servo del conte Borrello avvenne mentre attraversava il Volturno. Per ulteriori notizie sull’episodio leggendario cfr. P. Settefrati, op. cit.

[18] Su tale argomento cfr. le opere: U. D’Andrea, Notizie relative a cattura ed uccisione di lupi in provincia di L’Aquila tra gli anni 1810-1823 e 1877-1924. Casamari 1976; id.: Cattura ed uccisione di lupi ed orsi in provincia di Chieti durante i secoli passati, Casamari 1988; G. Profeta, Il serpente sull’altare, L’Aquila 1998.

[19] Giova ricordare -come ha ben messo in evidenza G. Profeta, cui si deve un notevole passo in avanti nel campo delle conoscenze sulla dinamica di formazione del culto- che San Domenico di Cocullo, detentore inizialmente soltanto di un patronato antifebbrile ed antitempestario, si arricchisce prima di un potere antirabbico -come risulta dalla Visita Pastorale compiuta dal vescovo di Valva Francesco Cavalieri nel 1629- e solo successivamente (anno 1645) di quello antiofidico. Cfr. soprattutto di G. Profeta, Lupari, incantatori di serpenti ecc., op. cit.; id., Un culto pastorale sull’Appennino ecc., op. cit.; A. Di Nola, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, II Edizione, Torino 2001.

[20] Cfr. S. Ricchiuti, Brevi cenni intorno alla vita ed al culto di S. Stefano da Carovilli, monaco benedettino, Agnone1923. Secondo una tradizione non suffragata da precise testimonianze storiche, il beato Stefano sarebbe nato a Carovilli agli inizi del sc. XII.

[21] Il Regesto dello Zanotto, (citato spesso da Giovanni Pansa, che ne era proprietario), è stato di recente pubblicato a cura della Deputazione Abruzzese di Storia Patria.

[22] Cfr. G. Pansa, L’antico Regesto del monastero di Vallebona (1149- 1383), in “Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte”, n° 8, Casalbordino 1899.

[23] La versione italiana riportata è a cura di Ilio Di Iorio, cui va il nostro ringraziamento

[24] G. Pansa, op. cit. Secondo alcuni storici Santo Stefano “del lupo” non fu altro che il Beato fra’ Stefano de Calvellis, discepolo di fra’ Pietro dal Morrone. Scrive per es. il Fiocca in merito a tale vexata quaestio: “Noto in primis che in fondo gli storici di San Pietro Celestino, nell’indicare tra i seguaci del Santo anche fra’ Stefano di Calvelli, non hanno avuto tutti i torti a tradurre Calvelli  in Carovilli e che, probabilmente, Santo Stefano del lupo, protettore di Carovilli, non sia altro che il Beato Stefano de Calvellis ordinis Coelestinorum , citato dagli storici e dipinto accanto a Celestino V nei quadri della Badia di Sulmona”; cfr. G. Fiocca , Carovilli. Per lumi sparsi, Isernia 1985.  Il Fangio ribadisce invece senza però addurre documenti probanti che Santo Stefano del lupo “non è in alcun modo da confondere con Stefano de Calvelli, vissuto un secolo dopo”. La situazione in cui versa attualmente la Badia di Santo Spirito a Sulmona, adibita fino ad alcuni decenni fa a carcere, rende problematico un riscontro della tesi sostenuta dal Fiocca e comunque la quaestio appare di secondaria importanza rispetto all’episodio creatosi attorno al singolare patronato che fa di Stefano un altro Santo benedettino domatore di lupi.

[25] Cfr. Novena a Santo Stefano “del lupo”, monaco benedettino di Carovilli, a cura di D. Mario Fangio, Isernia, tip. Minichetti-Guglielmi, senza anno di edizione (1987?).

[26] Cfr. Novena a Santo Stefano “del lupo”, ecc., op. cit.

[27] Cfr. G. Profeta, Un culto pastorale sull’Appennino Edizione rinnovata ed ampliata Pescara 1993; id., Lupari, incantatori di serpenti ecc., op. cit.

[28] La tesi dell’ascendenza marsa sulla formazione del culto di S. Domenico fu sostenuta soprattutto da G. Pansa in uno studio apparso in più puntate sui periodici “Luci Sannite” (1938) ed “Attraverso l’Abruzzo” (1957), dal titolo Un capitolo di psicologia popolare. L’ordalia totemica dei Marsi e il Santuario di S. Domenico di Cocullo. Lo studio è stato di nuovo pubblicato in G. Pansa, Miti, leggende, superstizioni. Scritti inediti e rari, a cura di F. Cercone, Japadre Ed., L’Aquila 1979.

[29] Cfr. al riguardo R. Colapietra, Zelo di pastori e protervia di greggi in Diocesi di Sulmona (1573-1629) in “Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria”, Annata LXXV (1985), L’Aquila 1986.

[30] M. Febonio, Historiae Marsorum Libri tres, una cum eorundem episcoporum catalogo ecc., Napoli 1678; G. Profeta, Il serpente sull’altare ecc., op. cit.; A. Di Nola, Gli aspetti magico-religiosi ecc., op. cit.; L. Iacobilli, Vita di S. Domenico da Foligno, Abbate dell’Ordine di San Benedetto, Fondatore di diece monasterij dell’istesso Ordine in Italia, e Protettore di Sora e Arpino, Foligno 1645.

[31] E. De Mattheis, Memorie storiche dei Peligni, a cura di E. Mattiocco e G. Papponetti, DASP L’Aquila 2006.

[32] Cfr. G. Pansa, Emilio De Mattheis, l’Opera sua e i cronisti sulmonese, in “Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte”, n° 2, Lanciano 1897.




LA CORSA DI PASQUA

[Pubblicato in “D’Abruzzo”, A. VII, n° 25, Ortona (CH), 1994.]

di Franco Cercone

Sulmona è famosa non solo per aver dato i natali ad Ovidio Nasone, oppure per i suoi insuperabili confetti, ma anche per la Madonna che scappa in Piazza, sacra rappresentazione che si svolge la mattina di Pasqua e che rappresenta l’epilogo solenne di un complesso ed articolato rituale drammatico gestito dalle confraternite della Trinità e di Santa Maria di Loreto.

Tutto inizia il Giovedì Santo a sera e prosegue il venerdì con la processione di Cristo morto e il sabato con la mesta cerimonia del trasporto della Madonna in lutto alla chiesa di San Filippo.

Le origini della confraternita della Trinità a cui aderirono i casati cittadini più prestigiosi, come i Mazara, i Sanità, i Corvi, appaiono strettamente legate alla Congrega dei nobili, istituita dai Gesuiti alla fine del Seicento; questa mantenne inalterato il carattere egemone almeno fino all’Unità d’Italia,

quando la nobiltà cittadina scoprì le nuove vie politico-amministrative da seguire lasciando l’atavica

eredità a forze sociali emergenti nella classe artigianale e imprenditoriale.

Il sodalizio di Santa Maria di Loreto sembra invece presentare origini diverse alle quali bisogna rifarsi per tentare di comprenderne il costume di gruppo. Il borgo che si forma attorno a Santa Maria

della Tomba, al di fuori della cinta muraria di cui la città si munisce agli inizi del Trecento, raccoglie

non solo nuclei familiari appartenenti a strati sociali non egemoni, ma anche forenses dei castelli vicini attratti dalle possibilità di lavoro offerte dai nuovi mezzi tecnici per il dissodamento dei terreni e per la tessitura.

Tra il nucleo storico urbano e i nuovi borghi extramoenia, si instaura una comprensibile diffidenza che sembra coinvolgere anche il clero delle chiese qualificate de fore, rispetto al Capitolo e mette in

atto una serie di procedure cerimoniali spesso contrapposte.

Oggi i compiti delle due confraternite sono ben distinti: quella della Trinità esegue la processione del Cristo Morto e quella della Madonna di Loreto la Madonna che scappa in piazza. Inoltre, a ricordo forse di più complesse manifestazioni religiose dei tempi passati, la confraternita di Santa Maria di Loreto esegue nel pomeriggio del Venerdì Santo anche una processione che, pur svolgendosi entro uno spazio cittadino limitato, non di rado ha ingenerato nei turisti, che per l’occasione affollano Sulmona, l’impressione che si tratti della ormai famosa processione della Trinità.

Ma il punto centrale della manifestazione vive e si consuma nella mattina di Pasqua. L’orgoglio di appartenere al sodalizio della Madonna di Loreto, al quale spetta il compito di provvedere alla rappresentazione di Pasqua, è un sentimento che si scopre da bambini nel lungo e costante apprendistato fatto di rispetto ed ammirazione per i confrati adulti.

Nel grandioso scenario di Piazza Garibaldi, a cui fa da cornice una folla impressionante di spettatori provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa, si avverte la sensazione di trovarsi in mezzo al teatro più bello del mondo.

Non è dettata solo da una curiosità turistica per uno spettacolo singolare, la presenza che spinge i sulmonesi ad assiepare i lati della piazza e le arcate dell’acquedotto medioevale. Per tutti, ogni anno, l’evento rappresenta il segno tangibile del tempo che, in una logica che supera gli angusti confini del quotidiano, rinasce e ritorna nuovo e perfetto. Una percepibile emozione è sospesa tra un lato e l ‘altro della piazza: l’attesa collettiva si consumerà solo nell’attimo della corsa.

Verso mezzogiorno, terminata la messa solenne nella chiesa di Santa Maria della Tomba, la scorta d’onore spalanca l’antico portone della trecentesca chiesa della Tomba da cui esce la processione delle statue che si snoda con in testa il gonfalone della Confraternita di Santa Maria di Loreto.

I portatori della Confraternita di Santa Maria di Loreto infatti aprono il corteo con la statua di Cristo Salvatore a cui fanno seguito quelle di San Pietro e San Giovanni; l’imponente apparato processionale della Confraternita della Madonna di Loreto dà avvio dunque alla prima parte della rappresentazione; i confratelli in abito di gala, con il caratteristico mozzetto di seta verde, reggono i ceri votivi nel passaggio sotto l’acquedotto medioevale, i giovani portatori di torce votive, entro la perfetta cornice ogivale, sono una immagine che richiama alla memoria la suggestione di situazioni festive e mitiche, oltre la scansione definita del tempo.

Una immagine che ogni anno si ripete sempre uguale a sé stessa e sempre nuova.

Alcuni confrati, con il caratteristico mozzetto verde, sorreggono la statua del Cristo risorto, altri quelle di San Giovanni e San Pietro, le uniche rimaste di un ben più numeroso gruppo di personaggi che animavano un tempo la sacra rappresentazione. Scriveva infatti il De Nino, nella seconda metà del secolo scorso: “Verso le dieci del mattino, esce la processione dalla chiesa di Santa Maria della Tomba. Si vede una filatessa di statue: San Pietro apostolo, San Giovanni Battista, San Giuseppe d’Arimatea, San Pier Celestino, San Tommaso, San Nicodemo, San Giovanni Evangelista, Sant’Andrea pescatore e altri; e poi statue di femmine: Sant’Anna, Santa Maria Maddalena, Maria Salome, Maria Cleofe. Da ultimo la statua di Gesù risorto. E la Madonna? La Madonna si è nascosta in una casa in fondo alla piazza”

Mentre in prossimità dell’acquedotto medioevale la statua del Cristo risorto si ferma, quelle di San Pietro e San Giovanni, ciascuna portata da quattro confratelli lauretani, proseguono verso la chiesa seicentesca di San Filippo Neri, dove la sera del Sabato Santo, con una mesta quanto toccante cerimonia, la Confraternita di Santa Maria di Loreto ha accompagnato la statua della Madonna vestita a lutto. Le statue si fermano sul sagrato. Si reca per primo San Giovanni ad annunciare alla Madonna che Cristo è risorto, ma il portale resta chiuso. Il secondo tentativo è compiuto allora da San Pietro, ma con lo stesso risultato, poiché per i fedeli egli è na ‘nzegne fauzóne (un po’falso), con evidente allusione all’episodio del Vangelo in cui Gesù predice a Pietro: prima che il gallo canti mi rinnegheraitre volte.

È notevole in tale circostanza l’atteggiamento negativo che traspare dal volto di molti fedeli nei confronti del Principe degli Apostoli. Sradicata dal contesto evangelico, l’immagine di San Pietro si carica di segni umani e, secondo precisi schemi antropologici, viene inserito, come molti altri santi, in un quadro religioso contadino, decisamente collegato ai problemi più corposi e concreti della vita quotidiana.

Fallito il tentativo di San Pietro, tocca ancora a San Giovanni annunciare alla Madonna che Gesù è risorto. La Madre, questa volta, non può non credere all’apostolo prediletto dal Figlio: un brusio intenso si alza così dalla folla, mentre pian piano si apre il portale della chiesa di San Filippo.

Per qualche attimo la Vergine, fra il silenzio più assoluto della folla assiepata in piazza, sosta sulla

soglia e il portale assume l’aspetto di una singolare cornice di un quadro in cui spicca il colore nero

del manto che Lei indossa.

Seguita a distanza da San Pietro e San Giovanni, che hanno ormai esaurito il loro compito, la Madre

si incammina lentamente verso la parte opposta della piazza, dove è in attesa il Cristo risorto.

A una distanza stabilita, e corrispondente all’incirca alla metà dell’intero percorso, i portatori sollevano la statua, segno questo che la Madonna ha riconosciuto il Figlio, e danno vita ad una frenetica corsa. Fra un assordante sparo di mortaretti il mantello nero cade e la Madonna riappare nella consueta veste verde.

Sulla mano destra, al posto del fazzoletto bianco che fa parte del corredo da lutto, la Madre regge una rosa rossa, sbocciata quasi d’incanto durante la corsa. Nello stesso istante in cui Le viene fatto cadere il mantello nero, grazie a una cordicella nascosta all’interno della statua, si liberano nell’aria dodici Colombi sistemati in precedenza sotto il piedistallo con accorgimenti circondati dal più assoluto segreto. Dalla direzione che essi prendono, i fedeli traggono auspici per l’annata agricola: sarà eccellente se i colombi, appena liberati, puntano in alto, mentre sono ritenuti segni nefasti il volo radente e l’eventualità che alla Madonna non cada bene il velo.

Non minore attenzione viene rivolta ad episodi di cui si rende protagonista la Madonna stessa. Durante la processione di Pasqua nel 1980, la statua della Madonna corse il rischio di rovinare di fronte al palazzo dell’Annunziata. Non pochi interpretarono l’incidente come malaugurio, tanto più che esso era stato preceduto da altri segnali negativi, come per esempio il manto non caduto bene durante la corsa. Furono fatti allora presagi infausti per il 1980, confermati purtroppo dal terribile terremoto che a novembre di quell’anno, colpì il Meridione.

Più grave apparve l’incidente accaduto nell’edizione della Pasqua del 1987 allorché, durante la corsa, la statua della Madonna si inclinò indietro, a causa di una stanga sfuggita dalle mani di un anziano lauretano. L’episodio gettò nel più amaro sconforto l’enorme folla che assisteva in piazza Garibaldi alla sacra rappresentazione. Gli eventi sociali e politici verificatisi dal 1987 in poi, generalmente positivi su scala mondiale, hanno affievolito per fortuna questa suggestione così radicata nel popolo sulmonese.

Appena ultimata la corsa la Madre può riabbracciare il Figlio creduto morto. Si forma così una grande

processione a cui partecipano le Autorità cittadine e religiose, nonché le confraternite della Madonna

di Loreto e della Trinità, che per l’occasione sfilano insieme in un rinnovato clima di concordia e di pace.

[La manifestazione si svolge a mezzogiorno della domenica di Pasqua in Piazza del mercato. A chi volesse seguire la manifestazione nelle sue varie fasi si consiglia di attendere l’uscita della processione da Santa Maria della tomba. Chi invece predilige una visione della fase conclusiva è opportuno che si sistemi per tempo dalle parti dell’acquedotto medioevale.]

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LA DEVOZIONE FASTOSA

[Pubblicato in MISERERE, Menabò Edizioni, Ortona (Ch),1997]

I – Confraternite, conflitti sociali e schemi processionali.

La Madonna che scappa in piazza a Sulmona non rappresenta un tema isolato, ma l’epilogo solenne e spettacolare, da un punto di vista demologico, di una sacra rappresentazione che inizia il Giovedì Santo a sera, prosegue il Venerdì con la Processione del Cristo Morto, gestita dalla Confraternita della Trinità, ed è conclusa la mattina di Pasqua dalla corsa della Madonna, organizzata dalla Confraternita di Santa Maria di Loreto.

La prima confraternita ha sede nella chiesa omonima sita in Corso Ovidio, mentre la seconda in quella medievale di Santa Maria della Tomba. Sembra che la Confraternita della Trinità abbia ereditato il patrimonio spirituale di due fra i più antichi pii sodalizi cittadini fondati da laici, cioè L’Ordine de’Continenti  e quello dei Compenitenti.

I rappresentanti di quest’ultimo, gestores confraternitatis Compenitentiae, intervengono in data 10 marzo 1320 all’atto di fondazione della chiesa dell’Annunziata. Compito dei confrati trinitari era quello di promuovere beneficenza ed assistenza ospedaliera a favore di viandanti e pellegrini che trovavano ricovero nell’Ospedale della SS. Annunziata, sorto nel XV sec. accanto all’omonima chiesa, e soprattutto dei forestieri che per motivi di commercio sostavano a Sulmona.

Però esse non furono le più antiche. Altre associazioni le precedettero. Prima che si realizzasse la grandiosa costruzione dell’ospedale dell’Annunziata esistevano infatti a Sulmona altri senodochi, il più antico dei quali sembra essere quello aggregato alla chiesa di S. Giacomo della Forma, sorta nel 1177. I frati che stipulano l’atto di fondazione di tale chiesa con il vescovo Odorisio sono ospedalieri, frates crucem portantes, appartenenti appunto all’Ordine degli Ospedalieri di S. Giovanni Gerosolimitano. Le cause della proliferazione di tali ospedali sono lucidamente posti dal Cognasso in relazione con gli eventi della prima crociata e con la fondazione dell’ordine dell’ospedale di San Giovanni a Gerusalemme: “La crociata – scrive il Cognasso – determinò un’attività ospedaliera quale prima non si era avuta. I pellegrini affluiscono, sono poveri, sono ricchi. L’ospedale di S. Giovanni assicura a tutti un rifugio contro le intemperie…L’ospedale era logicamente il ritrovo non solo di ammalati, ma di pellegrini ben capaci di portare le armi e di combattere”. In occidente incominciano le donazioni da parte di pellegrini reduci da Gerusalemme e che ringraziano per la ospitalità goduta. Non a caso questi ospedali retti dai Gerosolimitani sorgono anche lungo la direttrice appenninica: i pauperes milites Christi (milites non solo in senso religioso) sono da considerarsi infatti come avanguardia di quel movimento di traffici fra il centro-nord ed il sud della Penisola, che fiorirà nel XIV secolo.

Non sono poche le fonti da cui si evince un frequente passaggio di crociati lungo quell’arteria che sarà chiamata in seguito “la via degli Abruzzi” e di cui un punto fermo di riferimento era proprio Sulmona. A parte alcune leggende araldiche, come per es. quella che si riferisce allo stemma di Navelli, è di una certa importanza la notizia del Romanelli, secondo cui nel 1194 numerose schiere di crociati, accampati alla foce del Sangro in attesa di imbarcarsi, lasciarono tracce di saccheggi e disordini.

Ora, si deve proprio ai crociati la diffusione di omelie drammatiche bizantine, incentrate sugli ultimi episodi della vita di Cristo (Christòs pàschon), che essi non poco dovevano ravvivare con la descrizione del Santo sepolcro e con episodi fantastici, come il preteso rinvenimento della Santa Lancia e di altre reliquie legate alla Passione di Cristo. (Le prime notizie sulle sacre reliquie sono contenute nell’opera manoscritta dello storico sulmonese Emilio De Matteis, sec. XVII, dal titolo Memorie Storiche dei Peligni).

Anche Sulmona vanta il possesso di alcune di queste reliquie ed è assai probabile che la loro leggenda sia sorta, come altrove, proprio nel corso del XIII secolo, (periodo a cui risale il culto per la Corona reliquario delle Sacre Spine, conservata nella Cattedrale di Namur e la Sacra Corona di Boemia, che custodisce altre spine appartenute alla corona di Cristo; soprattutto in Abruzzo tale culto appare assai intenso: L’Aquila, Lanciano e Vasto vantano il possesso di simili reliquie e di altre reliquie conservate a Sulmona, nell’Altare Maggiore di S. Panfilo, fra cui un chiodo della croce di Cristo, si parla in un documento del 1238).

Si tratta della Cinta della Madonna, della spugna con cui fu offerto a Cristo in croce l’aceto, e soprattutto di una Sacra Spina che sarebbe stata staccata dalla corona del Salvatore. Quest’ultima si venerava a Sulmona nella chiesa di S. Agostino (XIII sec.) e dopo la sua distruzione in seguito al terremoto del 1706, fu trasferita nella cattedrale di S. Panfilo.

Va rilevato come il culto della Sacra Spina si sia protratto fino agli inizi del nostro secolo. Si legge infatti in una notificazione del vescovo di Valva e Sulmona, Patroni, datata 30 aprile 1904, ed indirizzata al clero cittadino: “Domani 1° maggio, festa della Santa Spina, molta gente affluisce alla Cattedrale per confessarsi…”. Il Lupinetti poi ricorda che tutte le comitive dei pellegrini dirette a Pratola Peligna la prima domenica di maggio per la festa della Madonna della Libera e transitanti per Sulmona, si fermavano alla Cattedrale di S. Panfilo per adorare la Sacra Spina.Anche la folklorista inglese Estella Canziani, soggiornando a L’Aquila nel 1914, ne descrive l’esposizione da parte del vescovo alla Basilica di S. Maria di Collemaggio, nella ricorrenza dell’incoronazione di papa Celestino V.

Il vescovo Tiberi, che resse la Diocesi di Valva e Sulmona dal 1515 al 1829, giurò e sottoscrisse insieme al Capitolo di “aver osservato con meraviglioso stupore e veduto ocularmente nel giorno di venerdì santo, sull’ora di sesta, l’ammirabile fioritura della Sacra Spina di Nostro Signore Gesù Cristo, che fra le insigni reliquie si venera in questa Sacrosanta Basilica”.

Portate in processione nella Settimana santa ed esposte all’adorazione dei fedeli, tali reliquie dovevano tenere non poco in fermento soprattutto i ceti popolari, incrementando così quella “febbre mistica” che è da considerarsi come cornice ideale per il sorgere di pii sodalizi laicali, la cui attività se espletata preminentemente nel campo assistenziale, non escludeva anche quello culturale, con l’allestimento di spettacoli di soggetto sacro.

D’altro canto è proprio questo clima spirituale che sarà ereditato e potenziato da fra’ Pietro del Morrone, diventato nell’agosto del 1294 Celestino V, cui si deve l’istituzione di quei “rampolli nobilissimi delle fratellanze per laici”.

Si diceva in precedenza, che la sacra rappresentazione scaturisce dal dramma liturgico medievale, di

soggetto sacro: “Il mutamento, per il quale il Dramma liturgico, nato già dal canto alterno e dal cerimoniale ecclesiastico, fece capo a quella nuova forma, che designeremo di preferenza col nome italiano di Sacra Rappresentazione, fu anch’esso fenomeno naturale e quasi necessario”.

Un momento importante nella storia del dramma liturgico è costituito dalla sostituzione del latino con

il volgare, il cui uso, nella rappresentazione sacra, “comunque incominciato e affermatosi, ebbe una

portata immensa. La poesia drammatica usciva dal chiuso del presbiterio e dall’aula scolastica, per irrompere nella piazza.”

Ora, uno dei più importanti frammenti di dramma liturgico, risalente alla metà del XIV sec, è noto come Officium quarti militis ed è conservato presso l’archivio della Cattedrale di Sulmona. La conoscenza dell’Officium si deve a due insigni storici sulmonesi: N. F. Faraglia, che lo scoprì nell’archivio suddetto e G. Pansa, che lo pubblicò appena avutane notizia dal Faraglia.

Monumento mirabile della vita religiosa e culturale sulmonese agli albori dell’Umanesimo, l’Officium ci mostra la parte recitata da quattro soldati. Ma poiché nel gruppo emerge il ruolo svolto da uno di essi e precisamente il quarto, il frammento del dramma viene designato appunto Officium quarti militis. In esso appare anche un personaggio di nome Tristainus. A costui vengono attribuite molte qualità appartenenti all’eroe omonimo descritto nel poema di Gottfried von Strassburg ed il De Bartholomaeis, mentre resta “stupito di ritrovare qui un nome celeberrimo”, ritiene che “la trovata non poteva venire in mente se non ad alcuno che vivesse in un ambiente saturo di letteratura cavalleresca, particolarmente bretone”.

Se, dunque, la parte del quarto soldato risulta nel frammento sulmonese di ben 136 versi, si può immaginare quanto esteso dovesse essere il dramma intero ed il numero degli attori che davano vita ai personaggi del ciclo della Passione. Il fenomeno del resto è europeo. Otto Mann ci dice per es. che “un’antica rappresentazione redatta a Francoforte intorno al 1350, si svolgeva in due giorni ed in un’altra eseguita verso il 1500 nella città di Alsfeld, comparivano 172 personaggi e risultava composta da più di 8000 versi.”

Precisato allora sull’insegnamento del Toschi, che per dramma liturgico debba intendersi ogni “rappresentazione medioevale di soggetto sacro composta in latino”, si pone la domanda se le odierne sacre rappresentazioni, e soprattutto quelle che si svolgono nella settimana di Pasqua, siano da considerarsi come viventi reliquie del primo e quindi se vi siano nel nostro caso dei rapporti fra l’Officium quarti militis e la rappresentazione della Madonna che scappa in piazza.

Al riguardo notiamo subito con il D’Ancona che “non sempre è agevole il riconoscere se queste fogge locali abbiano la loro origine in usi liturgici od in veri e propri spettacoli drammatici. Anzi le rappresentazioni mute appartengono a età più tarda e per più di un indizio, rammentano i tempi della dominazione spagnuola e dell’Inquisizione”.

Ed è proprio a questa considerazione del D’Ancona che si ispira la nostra ricerca, tanto più che, come è stato autorevolmente affermato, “di vere e proprie rappresentazioni sacre non si raccoglie a Napoli alcuna traccia fino alla metà del Quattrocento”.

Con la visita ai Sepolcri, compiuta nella tarda serata del Giovedì santo, si entra nel vivo delle manifestazioni religiose della Settimana Santa. Una sottile atmosfera di raccoglimento pervade tutta la Città, mentre fedeli d’ogni ceto e tendenza politica rivivono un rituale antichissimo arricchitosi negli ultimi tempi di significativi valori umani. Per i Sulmonesi che vivono lontano, il Giovedì Santo rappresenta infatti un importante appuntamento, fissato tacitamente l’anno precedente, per il recupero dell’identità culturale assicurato dal reinserimento, pur temporaneo, nel tessuto della storia e delle tradizioni della propria terra.

La visita alle varie chiese è designata con l’espressione “fare i Sepolcri”, assai comune del resto in tutto il Meridione ed altrove. Lo spazio sacro destinato a rappresentare simbolicamente il S. Sepolcro è delimitato da ceri accesi, lampade e vasi in cui vengono fatti germogliare nei giorni precedenti semi di cereali. [A Pacentro si attribuiscono a tali germogli poteri apotropaici, essi vengono posti anche sulle viti e sugli olivi, importanti per l’economia locale; a Raiano tale funzione protettiva è affidata ai rami d’ulivo benedetti nella Domenica delle Palme.]  

Ancora agli inizi del nostro secolo, l’espressione fare i sepolcri designava anche l’allestimento di una serie di scene o quadri interpretati da attori scelti fra i parrocchiani ed ispirati ad episodi della Passione di Cristo. Apprendiamo al riguardo dal De Nino che “nella Settimana santa, a Pescocostanzo si fanno i sepolcri. In una di quelle sacre rappresentazioni i giudei intorno a Cristo sono uomini vestiti alla medioevale, con corazze, elmi, gladii e picche. Il Venerdì santo poi, nel mentre che si porta via dal Sepolcro il Sacramento, gli occhi del pubblico sono tutti profani: tutti guardano ai Farisei che a un dato segno cadono e muoiono”. Ancora il De Nino ci informa che i sepolcri venivano ripetuti in tale forma a Scanno durante la Processione del Corpus Domini per rappresentare scene del Vecchio e Nuovo Testamento; mentre il Tollis (Pacentro.1979) riferisce che a Pacentro si svolgeva “fino a qualche tempo fa” la scena sacra della resurrezione di Lazzaro, che avveniva però nel giorno di Pasqua dopo il rientro della processione. “Ad Introdacqua – scrive il Susi – nel quadro delle usanze ricorrenti nella Settimana Santa, occupano il primo posto le figure montate su cartone o su legno, rappresentanti scene o personaggi della Passione di Cristo”. Il Finamore precisa anche “Il Sepolcro è rappresentazione scenica di atto della Passione che si fa nelle principali chiese del luogo” 

A tali rappresentazioni accenna il vescovo Bonaventura Martinelli nel Sinodo da lui celebrato a Sulmona nel 1715 e le cui risoluzioni furono pubblicate a Roma due anni dopo: “Repraesentationes virorum ante Sepulchrum adstantium ubi Sanctissima Eucharistia feria quinta in Coena Domini in memoriam Passionis ejus reponitur, omnino prohibemus Sub poena suspensionis a Parocho, ab Actoribus vero excommunicationis illico incurrendae.”.

Mentre dunque da un lato l’importante documento attesta nella stessa Sulmona del XVIII secolo la tradizione dei S. Sepolcri, nell’accezione in precedenza riferita di scene ispirate a Passione di Cristo, dall’altro si apprende da esso la proibizione imposta sulla scia forse delle disposizioni scaturite dal Concilio di Trento che vietavano ad attori di impersonare le figure di Cristo, della Madonna e di altri santi, sostituiti in seguito da statue. E questo particolare risulterà rilevante anche per la Madonna che scappa in piazza. Le statue – secondo direttive stabilite da Urbano VIII nelle sue Constitutiones – dovevano comunque corrispondere a determinati requisiti e suscitare senso di commozione grazie alla loro eccellente fattura artistica. Al riguardo è interessante ciò che prescrive il vescovo di Valva e Sulmona, Tobia Patroni, nella visita pastorale da lui compiuta il 20 luglio 1872 a Villalago: “Resti interdetta la statua di S. Pietro, che deforme com’è, non ispira affatto devozione”

Le scene disegnate su cartone ed ancora in uso ad Introdacqua rappresentano le lontane eredi di quelle pergamene in cui venivano miniate, specie a Montecassino, episodi della Passione e della Resurrezione di Cristo, ispirate, anche sotto il profilo artistico, all’iconografia bizantina.

Questi quadri devozionali sono attestati un po’ ovunque nel Meridione e per Napoli il Mayer segnala nel secolo scorso l’usanza di erigere nelle chiese “grandi pitture con scenari, che rappresentano la tomba del Salvatore”.

Individuare le cause che determinano l’affievolimento di questa particolare forma di devozione popolare non è agevole. Lentamente caddero in disuso, lasciando però traccia di sé nell’allestimento scenografico delle sacre rappresentazioni. Probabilmente le pitture su cartone non dovevano suscitare quei sentimenti di immedesimazione e forte emotività che sono assicurati invece dalle manifestazioni con statue o con attori. Illuminante al riguardo è un episodio riferito dal D’Ancona, secondo il quale durante la rappresentazione della Passione a Montechiaro d’Asti, “i manigoldi – che dovevano accompagnare Cristo al Calvario – pigliavano sul serio la loro parte e s’infervoravano in essa…menarono con tanto ardore le mani… che il povero Cristo, deposto il cilicio, si mise in letto e si trovò pesto in così bel modo da ispirare qualche timore che non si potesse più rialzare”.

II – La processione del Venerdì Santo a Sulmona

L’animazione che si avverte durante il giorno di Venerdì Santo a Sulmona, invasa ormai da turisti provenienti dalle località limitrofe, scompare quasi d’incanto all’imbrunire, allorché dalla chiesa della

Trinità comincia a snodarsi la Processione del Cristo Morto, gestita dall’omonima Confraternita.

La Città, priva nel suo centro storico di ogni segno che rammenti la civiltà delle macchine, riacquista in parte il fascino del tempo passato e si trasforma in un teatro degno di rappresentare il dramma più grande della storia dell’umanità.

Dallo sguardo commosso delle persone anziane si avverte una intensa partecipazione ad un evento rivissuto psicologicamente anche in chiave terrena.

I confratelli della Trinità indossano una tunica rossa, simile a quella della Confraternita dei Pellegrini e Convalescenti fondata a Roma nel 1548 da S. Filippo Neri, e sfilano disposti secondo uno schema codificato che può essere riassunto nel modo seguente: banda, due Mazzieri, fila orizzontale di sette portatori di lampioni (o fanali), quadrato formato da quattro portatori di lampioni, tre Dignitari (simbolo della Trinità) con al centro il caratteristico Tronco (croce processionale, cilindrica, coperta di velluto rosso e ornata da tralci d’argento, vuota all’interno, risalente alla metà del XVIII secolo), altro quadrato formato da quattro portatori di lampioni, fila orizzontale di sette portatori di lampioni, fila di portatori di lampioni lungo i due margini della strada, coro, parroco officiante, altra fila di portatori di lampioni lungo i due margini della strada, statua del Cristo Morto condotta da quattro trinitari, affiancati da altri quattro per il cambio, fila orizzontale di quattro fanali, statua della Madonna Addolorata condotta da quattro trinitari, affiancati da altri quattro per il cambio, seguono altri Dignitari e Confratelli trinitari.

Un cenno a parte merita il cosiddetto Capo dei Sagrestani d’Onore, vero regista dell’imponente processione, da cui dipende tutta la manifestazione. Egli è coadiuvato in tale circostanza da due Capi

Processionieri. È tradizione inoltre che i quattro trinitari che escono dalla chiesa della Trinità con la statua del Cristo Morto, rientrino a processione ultimata con la Statua della Madonna e di conseguenza i portatori iniziali di quest’ultima, con la statua del Cristo Morto. I portatori delle statue del Cristo Morto e della Madonna sono dunque 16, divisi in due gruppi di 8 ciascuno. Essi vengono estratti a sorte nei giorni precedenti insieme ai tre confratelli che portano il Tronco, ai Mazzieri, ai due Capi Processionieri ed al Capo dei Sagrestani d’Onore. [Dei mazzieri, 5 in tutto, 4 sono estratti a sorte, uno è assegnato liberamente dall’Amministrazione della Confraternita.

Fino ad un tempo recente il trasporto dei fanali veniva assegnato mediante asta ai migliori offerenti, mentre oggi la Confraternita della Trinità offre una ricompensa ai fedeli che svolgono volontariamente tale compito.

Interessante è la figura formata dai trinitari nel tratto compreso fra le due file orizzontali dei sette portatori di lampioni, al centro delle quali procede appunto il Tronco, figura corrispondente a due T (Trinità) disposte in senso contrario. Si tratta probabilmente di norme codificate da un vecchio cerimoniale di cui si è perso, col trascorrere del tempo, il vero significato. Allorché perviene all’altezza della chiesa di S. Maria della Tomba, la processione riceve l’omaggio delle Autorità cittadine che ne seguono l’itinerario fino al suo rientro alla chiesa della Trinità, secondo un Cerimoniale che l’Amministrazione Comunale ha iniziato ad osservare dal 1962.

Allorché comincia a snodarsi dalla chiesa della Trinità, la processione imbocca via Ercole Ciofano (direzione Ovest), poi si dirige verso la Cattedrale di S. Panfilo (direzione Nord) e quindi punta in direzione di Porta Napoli (direzione Sud) dopo essere passata per Piazza Garibaldi (direzione Est).

La specificazione del percorso mediante i quattro punti cardinali contribuisce a chiarire una tipica struttura di tali manifestazioni religiose nonché “il significato propiziatorio del segno di croce, che in questo caso viene tracciato sul terreno dalla stessa comunità in processione”.

Questo rituale, che costituisce una proiezione delle processioni delle rogazioni, “si svolge solitamente

lungo i due assi ortogonali nord-sud ed est-ovest, segnati da quattro croci: la processione segna così una croce orientata sul terreno e la benedizione si svolge alle quattro direzioni dello spazio riprendendo un antichissimo rituale di orientamento sacro, cardodecumenico”. [Circa il periodo dello svolgimento delle rogazioni, sono interessanti i seguenti documenti dell’Archivio Vescovile Sulmona, Miscellanea 1900-1910, Primo documento: “Curia vescovile Sulmona, 23 maggio 1908 oggetto: Rogazioni (ore 9 a.m.). Molto rev. Di Signori. Nei giorni 25, 26, 27 c. m. ricorrendo le Rogazioni dette Minori, a differenza di quella di S. Marco chiamata Maggiore, si adempiranno le prescritte processioni. I due cleri interverranno con le loro insegne corali ecc. Nicolaus Jezzoni Episcopus”; Secondo documento: “Curia vescovile Sulmona, 1 maggio 1910. Molto Rev. di Signori. Nei giorni 2, 3 4 c.n1. ricorrendo le Rogazioni dette Minori, si adempiranno le prescritte i processioni muovendo dalla I Nostra Cattedrale Basilica di S. Panfilo, alle ore 9 a. rn. ecc. Nicolaus Jezzoni Episcopus”].

Il coro, che in base ai documenti fotografici esistenti si presenta oggi con un numero maggiore di cantori rispetto al periodo compreso fra le due guerre mondiali, procede come i confratelli trinitari nella tipica tunica rossa, strusciando i piedi con un passo ritmico ed ondulato, donde la denominazione di struscio data al caratteristico incedere. Ciò non costituisce tuttavia una particolarità esclusiva del coro sulmonese trattandosi di un tema una volta assai diffuso nel Meridione e nei paesi cristiani dell’area mediterranea. [A Napoli o struscio indica oggi il semplice passeggio lungo le vie centrali nel giorno di Giovedì santo in occasione della visita ai Sepolcri; in Grecia lo struscio è il passo del corteo ondeggiante che “segue la bara drappeggiata rappresentante Cristo Morto”. Cfr. G. Torselli Feste nel mondo Roma 1972]

Lo struscio è un movimento che imita, anche sonoramente, il faticoso procedere di una persona con le catene ai piedi, un atto di mortificazione e penitenziale che oggi viene solo mimato, ma che in passato dev’essere stato tutt’altro che simbolico. Avveniva, infatti che “chi si metteva in fila nelle processioni del Venerdì Santo, vi partecipava anche direttamente attraverso le sofferenze cui sottoponeva la propria persona”

Il coro canta un bellissimo Miserere composto nel 1913 dal maestro-concertatore Federico Barcone,

nato a Sulmona nel 1862, ed eseguito per la prima volta nella data suddetta dalla banda municipale cittadina diretta dal maestro Gavina. La sua esecuzione si svolge continuamente, senza pause, lungo le strade percorse dalla processione e si avvale dell’accompagnamento di alcuni elementi della banda musicale, che esegue una suggestiva marcia funebre composta dal maestro sulmonese Vella.

Allorché la processione perviene a Piazza Garibaldi, avviene un simbolico scambio di consegne tra i membri della Confraternita della Trinità e quelli della Madonna di Loreto.

Le statue del Cristo morto e della Madonna, come anche il Tronco, vengono cedute infatti per tradizione dai trinitari ai colleghi lauretani in prossimità della zona nota come i tre archi (cioè quel settore dell’Acquedotto Medievale situato di fronte a Largo Faraglia), luogo che funge da vero e proprio limite di “competenza territoriale” fra le due Confraternite, dato che quella della Madonna di Loreto ha sede appunto nella chiesa di S. Maria della Tomba, sita non lungi dai suddetti archi.

Oltrepassata quest’ultima, la processione, dopo aver ricevuto l’omaggio delle Autorità cittadine, imbocca via Panfilo Serafini ed a Porta Napoli ripiega, attraverso Corso Ovidio, in direzione della chiesa della Trinità. All’altezza di Piazza Minzoni i lauretani riconsegnano “l’Arsenale della devozione”, cioè statue e Tronco, ai colleghi trinitari che portano a termine la processione. Va notato che tale consuetudine risale a tempi relativamente recenti. Infatti, dato il prolungarsi dei piati, le due congregazioni laicali furono invitate nel 1932, in occasione del Congresso Eucaristico Missionario Abruzzese svoltosi a Sulmona, a ricercare un accordo ed a “dare un buon esempio” al folto pubblico dei congressi, prescindendo dalla questione dell’anteriorità storica delle due Confraternite, che esplodeva appunto in simili circostanze a proposito del diritto di precedenza durante le processioni. Ed allora si arrivò alla conclusione che nelle processioni le due Confraternite potessero unirsi procedendo insieme, ciascuna conservando comunque la propria identità.

Quelle della Trinità e della Madonna di Loreto sono oggi le uniche superstiti di un maggior numero di Confraternite che, ancora alla metà dell’800, ammontavano a sei. I piati fra tali confraternite esplodevano soprattutto in occasione delle processioni e concernevano il cosiddetto “diritto di precedenza”. Di essi venivano investite le autorità civili e religiose e la particolare giurisprudenza che ne risultava appare ricca soprattutto nel XVIII sec. Si tratta di controversie che animano i pii sodalizi di tutto il Regno di Napoli ed erano causa di “gravi disordini”. La natura di questi piati esplosivi nel XVII sec., nella società meridionale, è stata acutamente messa in evidenza dal Lalli che scrive “La vita cittadina si esprime attraverso organismi religiosi che non hanno più la semplice funzione spirituale del Medioevo. La presenza nelle processioni, o meglio il posto che si occupa … indica anche il peso che si ha nella vita sociale”.  

La processione, fino a tale periodo (1932), entrava nella chiesa di S. Chiara per permettere alle suore di clausura l’adorazione delle statue della Madonna e del Cristo morto.

Durante la sosta, mentre un seminarista faceva il discorso sulla Passione di Gesù, i portatori delle statue rinfrancavano le forze con laute bevute, dopo di che il sacro corteo riprendeva il suo percorso.

Questo particolare del vino merita un cenno di approfondimento. Nel Sinodo indetto da Mons. Martinelli e celebrato nella Cattedrale di S. Panfilo nel 1715, il vescovo proibisce severamente l’usanza popolare, causa di “perturbationis, risus, lasciviae”, relativa all’allestimento di “fontes nempe artificiales”, dalle quali sgorgavano da alcune acqua e da altre vino. Tali fontane venivano preparate lungo le strade cittadine in cui sfilavano le processioni al fine di rinfrancare le forze dei “processionem comitantes”

Si arguisce pertanto dalle rampogne del vescovo che le soste avvenivano di preferenza alle fonti artificiali da cui sgorgava il vino, con tutte le conseguenze facili da immaginare, tanto più che forti libagioni avvenivano anche prima che uscissero le processioni. “Commessationes ac compotationes tam in actu, quam ante Processionem arceantur omnino sub poenis arbitrio nostro infligendis, maxime vero Sodales Confratriarum sacco induti caveant, ne divagentur per loca, cauponas ingrediantur…” (Synodus Diocesana…, Roma 1717.).

A quale rango appartenessero moltissimi esponenti della Confraternita della Trinità, che appare strettamente collegata alla Congrega dei Nobili, istituita dai Gesuiti allorché questi si insediano verso la fine del ‘600 in Città, si apprende da un capitolo dell’opera dello storico sulmonese F. Sardi de Letto, La Città di Sulmona (1979 Sulmona).

Si tratta di nomi prestigiosi di casati cittadini come i Mazara, i Sanità, i Corvi ecc., alcuni dei quali appaiono già protagonisti della vita economica e politica nella Sulmona medievale.

In stretto rapporto con il vescovo ed il Capitolo, essi vantano numerosi appoggi da parte dell’Arciconfraternita della SS. Trinità di Roma, di cardinali legati all’ambiente dei Corsini, del papa Clemente XII e della famiglia Borghese. Grazie a queste conoscenze, essa ottiene nel 1749 il regio assenso di Carlo III e l’elevazione del titolo ad “Arciconfraternita”.

Questo carattere egemone del sodalizio subisce alterazioni all’indomani dell’unità d’Italia quando, in un clima prettamente gattopardiano, la nobiltà scopre le nuove vie politico-amministrative da seguire, suggerite dalle mutate condizioni storiche, lasciando così l’atavica eredità alle nuove forze sociali cittadine che emergevano per lo più nel settore artigianale ed imprenditoriale.

La Confraternita di S. Maria di Loreto sembra invece presentare origini diverse ed è al suo passato che occorre guardare per tentare di comprenderne il “costume di gruppo”. Il borgo formatosi attorno alla chiesa di S. Maria della Tomba (fine sec. XII), al di fuori della nuova cinta muraria di cui la Città si munisce agli inizi del Trecento, raccoglie non solo nuclei familiari appartenenti certamente a strati sociali non egemoni, (è significativo che anche in seguito i palazzi più rappresentativi cittadini sorgano nell’ambito della prima cerchia muraria), ma anche forenses di castelli vicini, che l’esplosione demografica, nella seconda metà del XIII secolo, spinge soprattutto in pianura, grazie alle possibilità di lavoro offerte dai nuovi mezzi tecnici per il dissodamento dei terreni e per la tessitura. Importanti notizie sono contenute al riguardo nell’opera del Sardi de Letto. Apprendiamo in tal modo che la Processione del Venerdì Santo, costituisce una acquisizione da parte della Confraternita della Trinità soltanto a partire dal 1860, in quanto prima essa era “retaggio della Congrega dei Nobili, eretta nella chiesa dei Gesuiti.”

Inoltre, dopo aver ricordato che “la statua del Cristo morto, non l’attuale, era conservata nella cappella

di Palazzo Sardi”, il Sardi de Letto ci dice che la Confraternita della Trinità eseguiva dal 1729 la processione del Cristo Risorto, ma “fino alla Fontana del Vecchio, per non entrare nella zona di pertinenza della Confraternita di S. Maria di Loreto.”

“I lauretani d’altro canto gestivano, come si apprende da un documento del 1753, la processione solenne nel giorno di Pasqua, col concorso di moltissima gente, sempre con sparo de’ mortari ed accompagnamento de’ Musici, e per lo più quasi ogni anno la processione di Cristo Morto, il Giovedì Santo”, ostacolata però, per evidenti motivi concorrenziali, dai “fratelli trinitari”.

Ogni processione aderiva a schemi ben precisi, in modo da evitare sconfinamenti nei quartieri cittadini di pertinenza dell’uno o dell’altro pio sodalizio. Era inevitabile però che nelle cerimonie religiose in cui le due confraternite sfilavano accanto agli altri pii sodalizi cittadini, riaffiorassero gli antichi rancori e ciò dava origine ad interminabili piati e disordini.

Così, nel 1752, la vita della Città fu sconvolta da violente liti esplose fra trinitari e lauretani per il noto diritto di precedenza in occasione della processione delle Rogazioni.

Tale stato di tensione fra le confraternite dovette protrarsi anche negli anni successivi, poiché ad esso si riferisce, come riteniamo, il seguente “Real Dispaccio” da Napoli, che evidentemente era stata investita della questione dal vescovo Filippo Paini: “La Maestà del Re nostro Signore, avendo comprovato coll’esperienza, che le processioni, se queste si fanno di giorno dopo pranzo, invece di riuscire di onore a Dio, e de’ Santi, ed esser motivo di pietà vera e soda religione, siano occasione piuttosto di rissa, scandali, ed altri disordini, che disonorano la religione medesima, con suo Real Dispaccio del diece del corrente decembre per Regal Segreteria di Stato e dell’Ecclesiastico, comunicatoci per mezzo dell’Ill.mo Signor Preside Provinciale, ha risoluto, che le processioni tutte si debbano far di mattina, e non mai il giorno dopo pranzo. Nel partecipare alle SS.VV. questo Sovrano Real comando, che passaranno alla notizia del clero secolare, e regolare, e delle Confraternite tutte, Loro incarichiamo nel Regal nome ad invigilare per l’esatta puntuale osservanza, perché altrimenti, locche (sic) non crediamo giammai, ne saranno responsabili alla M. S., ed a noi, che provederemo severamente contro i trasgressori. Con registrarsi la presente da ciascun Parroco nel solito Libro degl’Editti, nel mentre di tanto ricompromettendoci della di loro prontezza, ci raffirmiamo Da Sulmone (sic) li 26 febbraio 1768. Filippo Vescovo di Valva e Sulmona” (Libro Editti Vescovili. Biblioteca Diocesana Sulmona).

Questo era il clima in cui si svolgevano, non più di pomeriggio e non sappiamo fino a quale periodo, le processioni a Sulmona. Da quanto si apprende dai documenti citati in precedenza, quelle pasquali

hanno subito notevoli modifiche nel corso degli ultimi due secoli e degna d’attenzione appare la notizia, secondo cui anche la Confraternita di S. Maria di Loreto eseguiva, di Giovedì Santo, una processione del Cristo Morto, ma “quasi ogni anno”.

Il che denota forse la preferenza accordata dai Lauretani a quella di Pasqua, eseguita con grande pompa, fra spari di mortaretti ed “accompagnamento di Musici”.

Oggi i compiti delle due Confraternite sono ben distinti, in quanto la Trinità esegue la processione del Cristo morto e quella di Loreto la Madonna che scappa in piazza, nella mattina di Pasqua.

Pure, a ricordo forse delle più complesse manifestazioni religiose dei tempi passati, la Confraternita di S. Maria di Loreto esegue nel pomeriggio di Venerdì Santo una processione che si svolge entro uno spazio cittadino limitato.

Con le ultime note del Miserere, che accompagna il rientro della processione, si spegne lentamente il fervore religioso che ha animato per tutto il giorno la Città e da questo momento non si pensa ad altro che alla manifestazione della domenica di Pasqua.

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LA SACRALITÀ DELLE FAVE NELL’AGIOGRAFIA POPOLARE ABRUZZESE

[Pubblicato in Rivista Abruzzese, anno XLIX – n. 3, Lanciano 1996]

di Franco Cercone

Premessa

La presente ricerca è scaturita da una osservazione apparentemente irrilevante: nell’agiografia popolare abruzzese (ma, forse, anche in quella di altre Regioni, soprattutto meridionali) si narra di determinati
Santi che inseguiti da uomini perfidi ed animati da intenzioni poco rassicuranti, riescono a sfuggire ai loro persecutori operando una miracolosa fioritura delle fave proprio mentre un contadino è intento a seminare questo legume.

Come è noto la semina avviene di norma a novembre o febbraio, ma tali riferimenti temporali non emergono dai racconti agiografici di cui avremo modo di esaminare in seguito la struttura narrativa.

Sia negli episodi agiografici che in alcuni rituali monastici cluniacensi, le fave assumono il valore di una manna elargita dal cielo per sfamare i ceti rurali e più poveri. Sicché i campi di fave vengono benedetti o dalla Madonna o da vari Santi, che agiscono spesso sotto le spoglie di umili frati. Il legume acquista pertanto la dimensione di un cibo sacrale che sovverte la concezione del mondo classico, il quale considerava la fava un legume inferico e perciò collegato al culto delle divinità
chtonie e dei morti.

Quali sono stati i fattori sociali e religiosi che hanno mutato radicalmente una simile concezione?

E appunto quello che ci siamo chiesti e che tentiamo di chiarire in seguito, pur alla luce di una documentazione certamente non esaustiva.

Un legume inferico

Come è noto il primo precetto della Scuola Pitagorica recita: Astieniti dalle fave. A tal riguardo B. Russel sottolinea che “la peccaminosità del mangiar fave” deriva da “primitive concezioni del tabù, assai diffuse nel mondo mediterraneo del VII-VI sec. a.C.”[1], in quanto la fava era ritenuta un legume inferico.

Il suo fiore, scrive il Beitl, macchiato di nero, “galt als Symbol des Todes”, equivaleva cioè a simbolo della morte e pertanto la degustazione delle fave era vietata ai sacerdoti egizi ed ai Pitagorici[2]. Si tratta
dunque di un frutto che appartiene – sottolinea ancora il Beitl – agli chthonischen Geistern, alle divinità chtonie[3].

Secondo Giovanni Lydo, filosofo neoplatonico vissuto nella prima metà del V secolo a Bisanzio, “le fave masticate ed esposte al sole acquistano sapore ed odore di sangue umano”[4] ed il legume possiede, alla luce di tali concezioni, “un valore carneo che lo fa rientrare tra quei cibi che contengono una psuké”[5] e pertanto – sostiene Plutarco – le fave sono considerate “come alcune parti del corpo, cuore e cervello”[6].

La fava, dunque, possiede un’anima perché “l’acqua nella quale si pone un infuso di fave si tinge di rosso come se fosse colorata di sangue”[7], sangue attinto dal legume (ed in ciò consiste la sua singolare capacità rispetto ad altre piante) con le proprie radici dal sottosuolo e dunque dal regno dei morti, per cui l’impiego delle fave era tassativamente vietato nei rituali orfico-pitagorici.

In un noto passo della Storia Naturale (XVIII, 118) Plinio sintetizza infine i motivi per cui a Roma si avesse del legume una concezione negativa, sostenendo che nelle fave risiedessero le anime dei morti.

Il rapporto della fava con il culto dei morti emerge tuttavia in modo terrificante nei Fasti [V, vv. 429-40] e propriamente nel passo in cui Ovidio parla delle feste dei Parentales e delle Feralia, nonché dei misteriosi rituali che si svolgevano dal 13 al 21 febbraio nel mondo romano.

Su tali rituali Giuseppino Mincione ha scritto un lucido saggio che utilizzeremo ampiamente nel paragrafo seguente.

Fave e Lémures

“Con la descrizione – esordisce G. Mincione – dell’apparizione delle ombre dei morti, dette Lémures, Ovidio (Fasti, V, 429-40) si immette nell’ambito della vita soprannaturale”[8]. Secondo il Poeta sulmonese due periodi dell’anno sono consacrati al culto dei defunti, il mese di febbraio e quello di maggio.

Più antica è la celebrazione dei morti a maggio, perché quando l’anno era più breve, cioè prima della riforma di Numa che aggiunse al calendario i mesi di gennaio e febbraio, era il mese di maggio quello in cui avvenivano le onoranze ai defunti, con sacrifici espiatori alle tombe degli avi.

In seguito alla riforma di Numa, febbraio fu scelto come mese per le onoranze ai morti e non a caso T. Varrone sostiene che la parola febbraio deriva da una voce sabina che significa purificazione[9].

Ma nonostante tale radicale riforma, nel mese di maggio fu conservata la consuetudine di placare le Lémures, cioè le ombre dei morti, poiché – sottolinea il Pastorino – ambigua è la concezione delle anime dei morti, che ora sono chiamate manes, i buoni, ora temuti sotto forma di spettri col nome di Lémures o Larve[10]. Infatti, il Bloch completa il quadro sottolineando che “il morto è la fonte più pericolosa di contaminazione e una famiglia in lutto, familia funesta, deve lasciarsi imporre tutti i riti e le purificazioni indispensabili per cessare di essere lorda e contagiosa. Inoltre, il culto reso ai morti corrisponde non solo a un naturale rispetto, ma anche a una precauzione difensiva. Il defunto
insoddisfatto, infatti, può diventare un essere temibile e pericoloso”[11].

Le cerimonie per pacificare le anime degli antenati morti erano dettate, sostiene Ovidio, dalla situazione dei tempi. Correva voce, infatti, che a causa delle lunghe guerre, soprattutto quella Sociale, erano stati trascurati gli onori ai defunti. Le anime degli avi uscivano spesso dai sepolcri e si racconta “che per le vie di Roma e per le campagne spaziose ululassero spiriti pallidi, vane larve”[12].

In particolare, si credeva a Roma che ciò avvenisse nell’ultimo giorno dei Parentales, il 21 febbraio, chiamato feralia. Tale termine secondo Varrone deriva da Inferi e ferre, perché durante tali feste vigeva l’usanza di portare vivande alle tombe degli avi, ai quali erano dovuti appunto i sacrifici funebri per placare le loro anime.

Le cerimonie per pacificare quest’ultime avvenivano però anche nel mese di maggio, e precisamente nei giorni 9, 11 e 13 maggio, tre giorni non consecutivi e dispari dice Ovidio, intercalati da altri non festivi: Sono queste, dunque, le tre feste del mese né sono congiunte tra loro da giorno alcuno[13].

Le modalità con cui si svolgevano nei suddetti giorni di maggio i rituali in onore delle Lémures, o ombre dei morti, ci sono state tramandate da Ovidio in un passo dei Fasti [V, vv. 429-44] che riportiamo nella versione di G. Mincione. “Appena è mezzanotte e col silenzio si concilia il sonno, e voi, cani e variopinti uccelli, avete taciuto, chi è memore dell’antico rito ed è timorato degli dèi si leva dal letto, senza avere calzari ai piedi, e dà segnali con le dita congiunte, cioè tenendo uniti il pollice
e il medio, perché un’ombra leggera non venga incontro a lui se non fa rumore. E quando ha lavato e purificato le mani nell’acqua di fonte, si gira e prima mette in bocca delle fave nere e stando voltato le getta e dice: Io getto queste fave e con esse redimo me ed i miei. Dice ciò nove volte senza girarsi a guardare: si crede che l’ombra le raccolga e segna lui alle spalle senza che nessuno la veda. Di nuovo si bagna nell’acqua e fa risuonare i bronzi di Témesa e prega che l’ombra esca dalla sua casa.
Quando egli ha detto nove volte: ‘oh paterni mani, uscite!’, si volta a guardare e crede che il rito sia compiuto con purezza”[14].

Abbiamo riportato in corsivo le parole fave nere e nove volte contenute nei versi dei Fasti perché in un altro passo dell’opera [II, 576] Ovidio ci parla di una vecchia maga che mette in bocca sette fave nere
mentre compie sacrifici a Tacita, dea del Silenzio. Il nero, per dirla brevemente con il Beitl, “è il colore dei dèmoni, degli spettri sotto forma di animali (orso nero, gatto nero ecc.) e del diavolo”[15] nonché di molti oggetti che entrano a far parte di rituali magico-satanici.

Sicché da simbolo della morte il color nero diventa la morte stessa e nel nostro caso “le fabae sembrano rappresentare i Lémures stessi”[16].

Rilevante appare inoltre la circostanza che il pater familias, cioè colui che compie il rito nel passo Ovidiano, ripeta nove volte la formula libero me ed i miei avi con queste fave, segno questo, nota G. Mincione, che egli metteva in bocca nove fave per il masticamento rituale e le estraeva una alla volta nel ripetere la formula con le spalle voltate rispetto alla tomba dell’avo[17].

Ma, come si è detto in precedenza, Ovidio ci informa che i giorni dedicati nel mese di maggio ai riti in onore dei Lémures erano tre, e precisamente il 9, 11 e il 13 maggio. Poiché, secondo Plinio, il ciclo di fioritura delle fave si esaurisce il 9 maggio[18], si può dedurre a ragione, come ha sottolineato la Chirassi, “che il 9 maggio fosse anche il giorno centrale dei Lemuria, la nota festa del ritorno delle anime dei morti”[19] e pertanto il numero 9 viene a costituire l’elemento centrale ed unificatore dei terrificanti rituali.

Un legume ambiguo.

II periodo più antico del culto dei morti, connesso ad un terrore ancestrale[20], era denominato dunque Lemuria, spiriti insoddisfatti detti anche Lèmuri o Larve ed assai temibili, che tornavano sulla terra per
tormentare i vivi e perciò venivano pacificati nei giorni 9, 11 e 13 del mese.

Il momento culminante e misterioso del rituale, che aveva luogo a mezzanotte, era costituito come si è visto dalla masticazione di fave nere da parte del celebrante che, restando con le spalle voltate rispetto alla tomba dell’avo, ripeteva per nove volte la frase: “Io getto queste fave e con esse redimo me ed i miei avi”. Ed ogni volta gettava una fava masticata.

I motivi della masticazione appaiono evidenti. Le fave infatti (e qui bisogna intendere quelle secche), infuse nell’acqua, tingono quest’ultima di rosso rendendola simile al sangue, fenomeno dunque attivato anche dalla saliva. È da ritenersi pertanto che l’offerente, gettando le fave sulla tomba, era convinto di rigenerare il defunto con il sangue, sicché – come sottolinea la Chirassi – le fabae sembravano rappresentare i Lémures stessi[21].

Accanto alle notizie che testimoniano la centralità del legume nei rituali dei Parentales, e dei Lemuria, emergono tuttavia altre informazioni dal mondo classico che mal si conciliano con la visione inferica delle fave e del loro rapporto con il culto dei morti.

V’è innanzitutto un aspetto di carattere sanitario, se non igienico, che non sappiamo quanto abbia influito sulla negatività del legume sotto il profilo cultuale e religioso. È probabile, infatti, che sul divieto di cibarsi di fave, condensato nell’imperativo pitagorico “Astieniti dalle fave”, abbiano esercitato un decisivo influsso esigenze alimentari ben precise, in quanto la fava, mangiata fresca ed in grande quantità, fermenta nell’apparato digerente provocando seri disturbi allo stomaco, patologia
questa nota appunto come favismo. Inoltre, ci dice Plinto, le fave sono causa di offuscamento delle capacità sensoriali, di insonnia o di sogni cattivi[22], per cui Cicerone sottolinea che quo in somnis certiora videamus… faba Pytagorei utique abstinere, quasi vero eo cibo mens non venter infletur[23].

Vi sono inoltre ulteriori informazioni agronomiche contenute nei trattati De re rustica (Varrone, Columella, ecc.) le quali attestano che le fave erano particolarmente apprezzate dai ceti umili per il loro potere nutritivo, per cui Cicerone poteva affermare al riguardo che in rationem necessitas versa est. Questa “ambiguità” di cui è portatore il legume nel mondo romano rappresenta la proiezione di una duplice Weltanschauung, ciascuna delle quali appartiene a due strati sociali contrapposti, e riassumibile nei precetti a) Astieniti dalle fave e b) inter legumina faba, con accentuata valenza paremiologica. Sicché mentre per gli ambienti colti e letterari la fava costituisce un elemento fondamentale per i rituali chtonii o nella celebrazione dei Lemuria, per i ceti rurali e umili essa, come sostiene Plinio [Storia Naturale, XVIII, 119], “rappresenta un elemento più rustico, riservato ad una economia più
povera, specie quando erano in uso altri cereali”.

Ebbene, questa dicotomia, almeno alla luce dei documenti in nostro possesso, non si rinviene più nelle fonti storico-letterarie altomedievali ed alla sua eliminazione deve aver contribuito – non sappiamo in quale misura – anche la graduale diffusione del Cristianesimo, che ha cancellato ogni traccia di “inferico” nel legume, sovvertendo così completamente la concezione classica. Anzi, nelle prime comunità monastiche, le fave sono ritenute non solo di grande importanza per l’alimentazione, ma acquistano una patina di sacralità come se si trattasse di un dono elargito dal cielo.

Il rituale della “benedictio fabarum novarum”.

“I legumi – scrive il Montanari – costituivano fin dall’alto medioevo un fattore essenziale del regime alimentare di tutti gli strati sociali. Si trattava di fagioli, piselli, ceci, lenticchie, ma soprattutto della fava, di gran lunga il più diffuso e consumato, specialmente (ma non solo) fra i ceti popolari”[24].

In particolare, le fave secche venivano macinate e con la farina si confezionava appunto il “pane di fava”.

“La fava – sottolinea il Montanari – rappresentava un valore alimentare fondamentale, oggi totalmente perduto. Basti rilevare nei testi monastici… la centralità anche rituale di un avvenimento come la benedizione delle fave nuove[25]. Sia le Consuetudines Fructuarienses[26] che le Consuetudini di Ulrico, entrambe modellate all’esperienza cluniacense, ci offrono infatti un modello di ritualità legato al consumo delle fave che inizia dal momento della raccolta delle fabae novae benedicendo.

Dopo la raccolta e bollitura delle fave, il monaco “le benedice stando su un gradino davanti alla mensa, con il libro in mano e la stola al collo. Data la benedizione, il medesimo depone il libro in fondo alla tavola e prende in mano la scutella; facendo il giro del refettorio, porge ad ogni fratello presente un pugno di fave. Ricevendolo, ciascuno bacia la mano del sacerdote sicut ad hostias[27].

Le fave costituivano dunque l’elemento nutritivo di molte comunità monastiche, elargito anche ai pauperes che attendevano fuori il refettorio oppure ai pellegrini oltre il muro di cinta del convento.

Le Consuetudinì di Ulrico forniscono nell’XI secolo minuziose indicazioni sulla cottura delle fave in convento e sugli “utensili che non devono mai mancare in cucina”. Fra questi sono annoverati il caldarium per le fave, la cuppa per conservarle quando sono semicotte ed il cucchiaio ad fabas.

Era considerato quasi un sacrilegio l’uso di tali utensili per la cottura di altri cibi. Inoltre, le Antiquiores Consuetudines Cluniacensis Monasterii di Ulrico “non omettono di precisare che esclusivamente la cottura delle fave e quella degli ortaggi sono affidate personalmente ai monaci. Tutto il resto – anche gli altri legumi ed anche le fave stesse, quando sono fresche – non viene cucinato dai fratelli in
coquina regulari,
ma dai servi in alia coquina[28].

La preziosità e la ritualità cui si ricollega non concerne qui la fava fresca, facilmente reperibile durante il periodo di tempo della sua maturazione sui campi, bensì la fava secca, che religiosamente conservata
rappresentava nell’alimentazione monastica alto-medievale e soprattutto nei mesi invernali l’alimento base di molti pulmentaria, di quei piatti unici cioè a base di fave (o di altri legumi) ed altre sostanze.

Come ha evidenziato il Duby, vi è una continuità “pratica” fra le scelte alimentari della Regola Benedettina e l’alimentazione povera delle aree di tradizione romana, che coincidono essenzialmente con la regione mediterranea, la quale si aspettava innanzitutto dalla terra “cereali panificabili, vino e fave, e infine olio”[29].

Tuttavia, come “alimentazione dei poveri”, l’umile ma sostanziosa faba proietta la sua importanza oltre i confini del medioevo e si conferma vitale mezzo di sostentamento grazie al quale gruppi sociali pur diversificati vengono sottratti in periodi di guerra, carestia ed altre calamità naturali, alla morte per fame.

La faba dopo il medioevo e nella narrativa popolare

L’importanza della fava nell’alimentazione è attestata dopo il periodo medievale anche da fonti letterarie. “Io cenerò poche cose – scrive per es. il Machiavelli – ma tutte sustanzevole. In prima una insalata di cipolle cotte; di poi una mistura di fave e spezierie”[30]. Tuttavia è nella narrativa popolare in cui sono depositate le testimonianze più significative sul nostro legume, preposto, se non destinato, a lenire il morso della fame che da sempre ha attanagliato lo stomaco della povera gente.

È significativo in special modo un aneddoto popolare assai noto a Vasto e dintorni, riferitomi da un informatore residente in questa bella città adriatica. Si narra che un contadino sia accorso al Palazzo
Davalos per informare il suo Signore che alcuni miseri viandanti erano penetrati in uno dei terreni del marchese, coltivato a fave, ed avidamente si cibavano del fresco legume. Al che il Davalos (non sappiamo chi dell’illustre casato) rispose di “lasciar stare”, perché evidentemente essi erano molto affamati. Più tardi il contadino accorse di nuovo al palazzo, per riferire al suo Signore che gli stessi viandanti continuavano a mangiar fave ma senza le bucce. Il Davalos allora ordinò che fossero cacciati dal proprio terreno perché ormai erano sazi[31].

Collegati al culto di San Camillo de Lellis risultano interessanti sia un racconto popolare, assai noto a Bucchianico, che un miracolo contenuto negli atti del processo di beatificazione del Santo, pubblicati a Roma nel 1681[32]. Si narra che a Bucchianico, durante un periodo di carestia, la gente del luogo stremata dalla fame chiese aiuto a San Camillo, appena tornato da Roma. Il Santo invitò pertanto la popolazione (lu’ pòpele) a recarsi a mangiar fave in un terreno di sua proprietà che, a causa del gran numero delle persone accorse, fu in breve tempo devastato. Il mezzadro corse subito da “Padre Camillo” riferendo che le fave erano ormai finite e la gente, nel penetrare impetuosa nel podere, aveva devastato anche il recinto (la fratte) eretto con perizia dal mezzadro stesso. Al che San Camillo, preoccupato solo della gran fame dei nativi del luogo, disse al suo mezzadro: “Sai cosa devi fare? Il recinto sfascialo tutto!”. Nel processo di beatificazione di San Camillo, un teste, tal Geronimo Roncio di Bucchianico, dichiara quanto segue: “Nell’anno 1612, di marzo, io seminai nella vigna delli Padri di questa Terra… tre coppe in circa di queste fave… e perché nel mese di maggio seguente fu una gran carestia di grano, e li poveri di questo luogo pativano estremamente, occorse che il Padre Camillo venne qua, e vedendo tanta miseria e bisogno… diede a tutti licenzia, che andassero a mangiare le fave alla vigna delli suoi Padri a San Biaso. E perché molti di quelli erano molestati dal gabellotto per fargli pagare la pena per il danno che facevano alla detta vigna in cogliere le dette fave, il detto Padre Camillo, sapendo questo, mandò me a chiamare detto gabellotto… (al quale ordinò) che non molestasse i poveri che andavano a cogliere le dette fave…”. Il teste racconta poi che malgrado i poveri avessero mangiato tante fave, dal terreno si raccolsero 14 tomoli di fave secche, miracolo questo che da tutti fu attribuito a San Camillo.

Pan di fava e pan di frumento.

Nei periodi caratterizzati da abbondanza e migliori condizioni economiche, la fava assurge a simbolo di differenziazione sociale o di contrasto fra la popolazione del contado e quella di città.

Ce ne offre un esempio l’opera di G. C. Croce, dal titolo appunto Contrasto del pane di formento e quello di fava per la precedenza, pubblicata a Bologna nel 1617 per i tipi di Bartolomeo Cochi. Afferma infatti il pane di formento:

“Che sei venuto a fare in questo sito,

o pan di fava, ché fra i contadini

non vai, u’ sei amato e riverito?

Non ti vergogni a stare in ‘sti confini,

dove non sei gradito né prezzato,

come cibo contrario ai cittadini?

E però io ti torno a replicare
che tu torni di fuora tra i villani,
perché in luogo civil non sei da stare”[33].

Nel contrasto fra i due pani è adombrata, nota il Camporesi, “l’alterigia del cittadino nelle relazioni con il villano, resa ancor più acre e pungente dalla carestia che la città addebitava alla malizia delle genti
del contado; e l’entrata in città del pane di fava significava anche l’intrusione del contado e la dipendenza dell’economia cittadina dall’economia rurale: la degradazione del primato urbano vista e sentita attraverso l’impoverimento della tavola”[34]. Il mondo rurale ha rintuzzato tuttavia queste accuse in vari modi e soprattutto facendo ricorso alla paremiologia. Proverbi come farsi beffa delle fave, oppure – come scrive il Parabosco – il cielo manda le fave a chi non ha denti[35],  stanno a significare che “l’intrusione” del pan di fava in città è stata provvidenziale, perché nei periodi di carestia l’umile legume ha costituito un’ancora di salvezza per tutti i ceti sociali.

La fava nell’economia abruzzese.

La fava dunque, sia bollita per minestre che macinata per confezionare pani, ha rappresentato fino a tempi tutto sommato recenti non solo una grande risorsa per le “genti del contado”, ma anche un surrogato del frumento nei periodi di carestia, come appunto quella del 1764, a seguito della quale, scrive il Palma, “si propagò tra i nostri contadini l’uso di seminar il gran turco”[36] e la polenta di mais diventa così in Abruzzo – alquanto in ritardo rispetto ad altre regioni settentrionali – “l’alimento fondamentale e quasi esclusivo, che subentra a quello tradizionale assicurato in precedenza da altri cereali minori”[37], dato che la patata, dopo aver superato numerose diffidenze, si diffonderà in
Abruzzo a partire dal primo decennio dell’800, come dimostrano sia la statistica murattiana che un opuscolo a stampa del 1817 pubblicato a cura della “Reale Società Economica di Aquila”, di cui ci occuperemo prossimamente nella Rivista Abruzzese[38]. Tali diffidenze erano collegate non solo a difficoltà coltivatorie, dipendenti in collina e media montagna soprattutto dalla pioggia, ma scaturivano anche dalla diffusa convinzione che le fave possedessero proprietà nutritive eccellenti e superiori alle patate ed al granturco. Il consumo del mais, infatti, fenomeno osservato anche dal Goethe nel suo Italienische Reise, sarà accompagnato sottolinea E. Sereni [ivi, p. 233], “fin quasi ai tempi nostri da
quel terribile morbo quale è la pellagra”.

Non a caso osserva al riguardo il De Nino (siamo nel 1879): “Quando l’alimentazione delle nostre popolazioni era anche a base di fave, si aveva più salute e si campava di più. Ma a’ dì d’oggi, le fave sono pei carcerati! Sono per la povera gente”[39].

Ma se le fave costituivano uno degli alimenti base della “povera gente”, come precisa appunto il De Nino, a quanto ammontava in media la produzione annua di tale legume in Abruzzo? Una significativa indicazione ci viene offerta da Giuseppe Del Re nella prefazione ad un volumetto dal titolo “Calendario per l’anno bisestile 1820. Il IV del Regno di Ferdinando I”[40]. Nel redigere il quadro statistico della produzione agricola nelle Tre Provincia d’Abruzzo, il Del Re specifica [p. 133] che “alla stagione più o meno piovosa si raccolgono nei Tre Abruzzi: 280.000 tomola di fava; 24.000 tomola di ceci; 6.000 tomola di lenticchie; 50.000 tomola di fagiuoli”.

Si tratta di dati, dunque, che non reclamano alcun commento e confermano che le fave, in conseguenza del loro ampio uso nell’alimentazione quotidiana dei ceti rurali, occupavano il primo posto nella produzione dei legumi m Abruzzo. Premesso che la situazione non doveva essere, come riteniamo, diversa di molto nelle altre Province del regno di Napoli, ci sembra opportuno precisare che i dati riportati per l’Abruzzo daDel Re si riferiscono a varietà di fagioli diffusesi dopo la scoperta
dell’America, in quanto fino alla line del XV secolo “il vecchio mondo non aveva conosciuto che il fagiolo dell’occhio, del genere Dolichos”[41] .

La Costa di maggio e le ‘virtù’.

Il teste di Bucchianico ascoltato nel processo di beatificazione di San Camillo de Lellis riferisce, come si è visto, che nel mese di maggio del 1612 si verificò “una gran carestia di grano”, sicché il Santo diede ordine che i poveri del luogo si sfamassero con le fave seminate in un terreno vignato di proprietà dei Camilliani[42]. Anche se non esplicitamente chiarito nel verbale, il teste intendeva dire che erano finite le scorte di grano dell’anno precedente, al pari degli altri legumi, ed a causa delle forti gelate registratesi nella la primavera del 1612 i raccolti di verdure ed ortaggi andarono largamente distrutti.

Si trattava comunque di crisi cicliche causate dal gran freddo o dall’assenza di piogge nel periodo primaverile. Scrive per es. il Di Pietro che “se furono infauste a Solmona i rammentati anni 1647 e 1648, il seguente non fu men terribile; quasi nell’intiero Abruzzo soffrivasi un intiera, ed estrema carestia, onde il grano vendevasi fino a carlini trenta la coppa, ed in altri luoghi a maggior prezzo; i patimenti, che recarono siffatte penurie produssero in detta Città, e ne’convicini Paesi, una fierissima mortalità…”[43].

Le carestie esplodevano per lo più in tempo primaverile, rendendo drammatica l’esistenza dei contadini, un ceto sociale che cosi viene descritto dal Longano: “Generalmente i contadini sono fittuari annuali ed
è in arbitrio de’ proprietari di espellerli dà loro territorio… A molti manca la terra, o la sementa, o gli instromenti, o la salute, o lo stesso vitto”[44].

Al contadino, dunque, a questo “Erede” in senso Patiniano, si prospettava il problema dell’alimentazione nel primo periodo di maggio, caratterizzato dal quasi letale esaurimento delle scorte dell’annata agricola precedente e dall’assenza sui campi dei prodotti del nuovo ciclo coltivatorio. Questo periodo, angosciante, era tristemente noto nel mondo rurale come “costa di maggio”, il cui ricordo incute ancora oggi timore ai nostri vecchi per i numerosi decessi che causava.

Nel consultare il Liber Mortuorum conservato nella parrocchia di Collelongo, il Cianciusi riporta un elenco di persone morte in questa località della Marsica durante la carestia del 1764 ed i cui nominativi
sono preceduti dalla lugubre annotazione del parroco: fame interfectus, fame repente confecta ecc. Commenta l’A. al riguardo: “Morti di fame, sembra impossibile. E tutti alla costa di maggio!”[45].

Si trattava di una crisi ciclica determinata da una particolare condizione climatica che si manifesta tuttora nella fascia abruzzese-molisana ad aprile, un mese spesso assai freddo e caratterizzato anche a basse quote da abbondanti precipitazioni nevose e gelate. Tale situazione è riassunta da molti proverbi popolari abruzzesi, di cui riportiamo alcuni esempi in lingua: a) Chi non ha la legna d’aprile, fa una brutta fine; b) D’aprile, chi ebbe il fuoco campò, chi ebbe il pane morì. Essi sono sintetizzati efficacemente dal Longano allorché l’abate illuminista afferma che in Molise “Lo foco è in aprile più importante de lo pane”, mentre per l’area abruzzese il Fiordigigli sottolinea che il noto detto “Prima di Natale nè freddo, né fame; dopo Natale, freddo e fame” è scaturito dall’intenso freddo che si registra da sempre ad aprile nelle nostre contrade[46]. E proprio per salutare l’arrivo del primo mese caldo, era assai diffusa in Abruzzo l’usanza di cantare il maggio dietro le porte il primo del mese, atteso – come ci ricorda il Goethe nel famoso sonetto Komm, lieber Mai – con ansia e trepidazione[47].

Avviene dunque di frequente, fenomeno ancora oggi riscontrabile in Abruzzo, che a causa delle primavere assai fredde i legumi presentano un ritardo stagionale assai notevole per quanto concerne la loro maturazione e che comunque il primo di essi a fare la sua comparsa sui campi, anche perché più resistente alle intemperie, sia proprio l’umile fava, il primo dono della terra elargito agli uomini, un modo di manifestarsi della Provvidenza nella natura, donde la Benedictio fabarum novarum codificata nei rituali liturgici monastici e l’offerta di fave ai ceti più umili, particolarmente colpiti dalle carestie e costantemente minacciati dalla costa di maggio. Come ha notato efficacemente G. Di Menna, “se come si suol dire i fagioli sono la carne dei poveri, nelle colline abruzzesi le fave secche e fresche sono i legumi che salvano dalle carestie e dalla fame. Le stagioni propizie erano l’estate e l’autunno, in cui abbondavano la frutta e i raccolti, mentre decisamente infausti l’inverno e la primavera; ancora oggi nella tradizione orale contadina la costa di maggio – nel senso di difficoltà – è metafora di crisi alimentare, scarseggiando in questo mese le provviste e i prodotti dei campi”[48].

All’approssimarsi della costa di maggio ben poche manciate di granaglie e legumi giacevano infatti nel fondo dei sacchi afflosciati, immagine plastica di uno stato d’animo sull’orlo della disperazione. Per la
preparazione delle minestre costituenti l’unico pasto per la numerosa famiglia, venivano utilizzate necessariamente diverse qualità di legumi superstiti, bolliti e conditi con strutto. Granaglie e legumi, designati genericamente in Abruzzo granati e totemàje, venivano chiamati a Cittaducale e dintorni vertuti[49] e con il termine virtù sono sopravvissuti per indicare oggi un tipico piatto di legumi misti preparati per la ricorrenza del 1° maggio non solo nel Teramano ma anche in altre aree abruzzesi, soprattutto nella Valle dell’Aventino. Non mancano tuttavia testimonianze al riguardo in altre regioni meridionali[50].

Dell’antico e drammatico significato collegato al periodo di crisi della costa di maggio, le virtù hanno perso ogni traccia e soprattutto nel Teramano le allegre conviviali del 1° maggio, evidentemente non solo a base di legumi, acquistano il valore di aggregazione sociale e di celebrazione della Festa del Lavoro. Va segnalata una informazione del Prof. Italo Merlino, di Taranta Peligna, il quale ci ha riferito che in questo centro della Valle dell’Aventino le virtù, preparate dalle famiglie benestanti del luogo, venivano offerte ai poveri, a conferma della stessa usanza vigente a Torricella Peligna e di cui ci ha lasciato una precisa testimonianza il Finamore, con la differenza tuttavia che qui i legumi assumevano la designazione di granati.

Fave, Santi e Madonne

Non è un qualsiasi legume, dunque, che recita un ruolo importante nei racconti agiografici popolari, non i fagioli, le cicerchie, i ceci oppure le gustose lenticchie, per un piatto delle quali Esaù rinunciò al diritto di primogenitura, bensì è la fava, il legume benedetto dai Santi e dalla Madonna.

Il modello che predomina nei racconti popolari e nelle sacre leggende di cui sono protagonisti alcuni Santi che operano una fioritura precoce e perciò miracolosa delle fave, sembra scaturito nell’area abruzzese-molisana da un episodio registrato dal De Nino e relativo alla Madonna.

La Vergine, scrive il folklorista peligno, essendo inseguita dai Farisei, decide d’accordo con San Giuseppe di abbandonare le vie maestre, ormai insicure, e di fuggire per le campagne. Dopo aver maledetto un campo di lupini (“Non possiate mai saziare nessuno!”) perché secchi, rumorosi al passaggio della Sacra Famiglia e pertanto capaci di indicarne la direzione della fuga, la Madonna e San Giuseppe “entrarono in un campo dove si seminavano le fave. La Madonna benedisse il campo e andò via. I Farisei passarono vicino ai termini di quel campo, e domandarono ai contadini: – Fosse passata una donna col bambino e anche un vecchierello? – Risposero: – Ci son passati, sissignore. – E
quando? – Quando seminavamo queste fave. I Farisei, vedendo che le fave erano fiorite, tornarono indietro”[51]

Questa sacra leggenda si rinviene anche nella struttura narrativa di altri racconti popolari, di natura agiografica, relativi ad alcuni Santi.

San Domenico di Cocullo, narra uno di tali racconti, era inseguito dai cacciatori di un “paesello alpestre”, decisi ad ucciderlo. Nel fuggire egli passò per Prato Cardoso, località situata tra Cocullo e Villalago, mentre un contadino seminava nei pressi le fave. “Se chiedono di me – disse il santo monaco al contadino – rispondi che mi hai visto passare al momento della semina delle fave”. E così avvenne, ma il buon uomo non si era accorto, nell’informare i malvagi cacciatori, che le fave erano cresciute come per incanto”[52].

Significativo è anche l’intervento di alcuni santi in favore di contadini, sia se a costoro siano state rubate le fave (come nell’episodio registrato dalDe Nino in una non precisata località abruzzese)[53], sia se l’intervento stesso è finalizzato alla crescita delle fave fuori stagione.

Una contadina di Roccascalegna (Ch), sede di un antico santuario eretto a San Pancrazio[54], ci ha riferito la seguente leggenda. Un uomo di Roccascalegna doveva recarsi alla grande fiera del Primo Maggio che ha luogo a Casoli. Nel passare davanti al Santuario di San Pancrazio, egli incontrò un frate che gli consigliò di non andare alla fiera, ma di seminare le fave, perché grande era la penuria di cibo in quel momento.

Il pio contadino, pur restando meravigliato per il singolare consiglio, decise di non andare alla fiera e si recò invece a seminare le fave in un suo piccolo podere, ben consapevole che il legume era prossimo
alla maturazione, a giudicare almeno dai pochi campi in cui la semina aveva dato i suoi frutti.

La sua incredulità ebbe tuttavia breve durata, perché in pochi giorni le fave fiorirono e ad onore di quell’ umile frate che non era altro se non San Pancrazio, il quale in tal  modo assicurò la grascia per tutto l’anno alla famiglia del devoto contadino.

L’offerta devozionale delle fave

La sacralità conferisce alla fava anche un valore apotropaico, allorché il legume viene offerto e mangiato in particolari festività che cadenzano il ciclo dell’anno, come quelle di San Nicola di Bari (6 dicembre) e Sant’Antonio Abate (17 gennaio), con valenza simile a quella dei pani votivi.

Il rito della lessatura e distribuzione delle fave si svolge con particolare solennità a Pollutri nella ricorrenza di San Nicola ed ha costituito l’argomento di una delle più interessanti puntate televisive delle Storie del Silenzio, curate per l’emittente TVQ da Emiliano Giancristofaro. Allo stesso studioso si devono inoltre decisivi contribuii apparsi sull’argomento nella “Rivista Abruzzese”[55].

Un’area abruzzese caratterizzata dall’intenso culto per Sant’Antonio Abate è costituita com’è noto dalla Marsica. In occasione della ricorrenza del 17 gennaio a Luco dei Marsi viene distribuita una minestra di fave, consuetudine questa – come ci informa A. Melchiorre – che risale al 1652[56].

A Villavallelonga la cottura delle fave avviene nella vigilia della festa, cioè il 16 gennaio. I legumi (la favata) vengono fatti bollire come a Pollutri in grossi caldai di rame e distribuiti il giorno dopo
per devozione agli abitami del paese. In una nota inchiesta, E. Giancristofaro ha evidenziato come in questo centro della Marsica si confezionino caratteristiche corone di fave che, benedette in chiesa,
vengono poi infilate al collo dei bambini in chiara funzione protettiva. La corona di fave, che simboleggia “la crascia”, si conservava a Villavallelonga in casa per passarla – come ha dichiarato un contadino del luogo intervistato dal Giancristofaro – sulla mucca e sull’asino quando stavano male”, cioè quando tali animali “avevano il mal di pancia”[57]. L’usanza fa parte di un quadro comportamentale che potremmo definire codificato, per cui nelle società rurali ogni rituale preposto a propiziare salute e benessere delle persone si proietta anche verso gli animali che svolgono una funzione importante per l’economia del luogo.

Il ritorno dei Lémures

Vi sono – e non solo in Abruzzo – alcune costumanze, anche di carattere alimentare, che lasciano supporre come alcuni rituali chtonii o legati al culto dei morti nel mondo classico, non siano mai caduti in disuso e siano invece pervenuti fino a noi filtrati soprattutto dai mutamenti operati dal calendario liturgico chiesastico, i quali hanno proiettato al 2 novembre alcuni aspetti legati al culto dei Lémures nel mese di maggio.

Dal Dizionario etimologico dei termini dialettali di Atessa, redatto nel 1815 dal sacerdote Tommaso Bartoletti e per quanto ci risulta ancora allo stato di manoscritto, si apprende che in questa località vigeva l’usanza di “darsi la fava nel dì due novembre, giorno della Commemorazione dei defunti”[58].

In molte regioni si confezionano ancora oggi per tale ricorrenza dei tipici dolci chiamati Fave dei morti, mentre confetti a forma di fava, ottenuti con pasta di mandorla colorata, erano prodotti a Sulmona dalle aziende del settore ancora all’indomani del secondo conflitto mondiale.

Poiché sono ancora vive oggi nei nostri paesi, come ad Anversa degli Abruzzi ed a Raiano, le credenze relative al ritorno dei morti ed alla processione che, come si ritiene, i defunti svolgerebbero nella notte del 2 novembre, v’è da supporre che la coltura e la distribuzione delle fave come “cibo dei morti” fosse assai diffusa in tale ricorrenza, anche se al di fuori di alcune notizie contenute negli “Usi e Costumi Abruzzesi” del De Nino non ci sono state tramandate precise testimonianze al riguardo.

Certamente quest’ultimo aspetto merita di essere approfondito dagli studiosi in possesso di ulteriori notizie al riguardo, anche se esse non esauriscono la complessa tematica della sacralità del legume.

Non è stato analizzato per es. in tale sede l’uso delle fave (perché non altri legumi?) nelle deliberazioni comunali soprattutto nel periodo rinascimentale (fava nera per l’assenso e bianca per il dissenso) e che
trova la sua massima espressione nell’istituto della “Balia delle 6 fave”, mediante la quale la Signoria di Firenze aveva facoltà di prendere alcune decisioni con l’approvazione dei soli due terzi del Collegio, cioè 6 voti e dunque 6 fave. Inoltre alcuni documenti del XVIII secolo ci parlano dell’usanza, soprattutto da parte dei parroci dei piccoli paesi, di servirsi per il conteggio dei giorni e dei mesi di una zucca essiccata e riempita di tante fave quanti erano i giorni dell’anno e non di normali almanacchi o lunari, da essi considerati “opera del diavolo”, circostanza questa che era all’origine di clamorosi errori di calcolo e di cui parleremo in uno dei prossimi numeri della “Rivista Abruzzese”.

Ritornando ora alla sacralità delle fave nell’agiografia popolare abruzzese, va detto che seppure non esaustivi, le testimonianze ed i documenti analizzati ci permettono di affermare, nel concludere il nostro singolare argomento, che l’umile fava ha saputo riscattare la negatività cui il mondo classico l’aveva condannata, sottraendo alla morte per fame – per essere il primo legume stagionale – non pochi diseredati durante le carestie o quel terribile e ciclico periodo noto tristemente come costa di maggio. In tal modo la fava perde la sua naturale qualità di semplice legume per diventare, anche a livello sovrastrutturale, un dono della Provvidenza elargito agli uomini e benedetto da Santi e Madonne.


[1] B. russel, Storia della filosofia occidentale, vol. I, p. 60, Bologna 1971. Scrive la Chirassi che “il luogo di origine della coltivazione delle fave sembra essere stato il Nord Africa o la zona caspica…, nella varietà nota come vicia faba. Cfr. Ida
chirassi, Elementi di culture precereali nei miti e riti greci,p. 39, Roma 1968.

[2] R. beitl, Handwörterbuch der deutschen Volkskunde, s.v., Bohne, Stoccarda, 1974

[3] R. beitl., ivi.

[4] G. lydo, De Mensibus, IV. 41, a cura di F. Semi, Venezia 1965.

[5] I. CHIRASSI, ivi, p. 42.

[6] plutarco, Moralia, 635.

[7] G. LYDO, ivi.

[8] Cfr. G. mincione, Un antico rito magico nei Fasti di Ovidio. in “Ricerche e studi su Ovidio”, p. 75 sgg., Penne 1983.

[9] “Februm Sabini purgamentum et id in sacris nostris verbum”. Cfr. T. varrone, De lingua latina, a cura di F. Semi, VI, 13, Venezia 1965.

[10] A. pastorino, La religione romana, p. 86, Torino 1973.

[11] R. bloch, La religione romana, in “Storia delle Religioni”, a cura di Henri – Charles Pulch, vol. III, p. 187, Bari 1976.

[12] Fasti, II, vv. 553-554; traduzione a cura di F. Bernini, Bologna 1968.

[13] Fasti, V. vv. 491-92. Trad. a cura di F. Bernini, Bologna 1968. Secondo Plinio i numeri dispari “sono in tutto e per tutto più efficaci”. Cfr. Storia Naturale, XXVIII, 23, vol. IV, Ediz. Einaudi, Torino 1986.

[14] G. mincione, op. cit., p. 85.

[15] R. beitl, op. cit., s. v. Schvarz.

[16] I. chirassi, op. cit., p. 43.

[17] G. mincione, ivi,p. 93.

[18] plinio, Storia Naturale, XVIII, 53.

[19] I. chirassi, op. cit., p. 53.

[20] G. mincione, ivi. p. 83.

[21] I. chirassi, op. cit., p. 43 sgg.

[22] Storia Naturale, XVIII, 118.

[23] cicerone, De divinatione, II, 58, 119.

[24] M. montanari, Alimentazione e cultura nel medio evo, p. 83, Bari 1988.

[25] M. montanari, ivi, p. 83.

[26] Cfr. G. penco, Le “Consuetudines Fructuarienses” in “Monasteri in Alta Italia dopo le invasioni saracene e magiare (sec. X-XII)”, p. 139 sgg., Torino 1966.

[27] M. montanari, ivi, p. 83.

[28] M. MONTANARI, ivi, p. 85.

[29] Cfr. M. duby, Le origini dell’economia europea. Guerrieri e contadini nel Medioevo, p. 23 sgg., Bari 1975.

[30] N. machiavelli, Lettere, p. 212, Milano 1961.

[31] Sig. Paolo Del Casale, commerciante di Vasto, che in tale sede ringrazio vivamente. Tale aneddoto ci ricorda un altro episodio. Al porto di Vasto, Fra’ Serafino Razzi poté osservare che in un grande battello commerciale un gruppo di mozzi “sedendo a una bassa tavola, con silenzio mangiarono biscotto con fave col guscio in più piatti… e come la maggior parte di loro haveano i mestolini di legno per meglio raccorre dette fave…”. Cfr. S. razzi, Viaggi in Abruzzo, p. 241, L’Aquila 1968, a cura di B. Carderi.

[32] Cfr. G. DI Menna-S. Sulpizio, Le feste contadine. Eredità storica e continuità a Bucchianico, p. 68 sgg., Francavilla al Mare 1988.

[33] P. camporesi, Il Paese della fame, p. 192, Bologna 1985.

[34] P. camporesi, ivi, p. 192.

[35] G. parabosco, I diporti, V, 20, Venezia 1550; ristampa anastatica Venezia 1982.

[36] N. palma, Storia ecclesiastica e civile della Regione più settentrionale del Regno di Napoli ecc., oggi Città di Teramo e Diocesi aprutina, vol. III, p. 221, Teramo 1833. Nell’area peligna la coltivazione del granturco risale addirittura al primo decennio dell’800. Panfilo Serafini scriveva infatti nella nota Monografia di Sulmona apparsa nel 1853 ne “II Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato”, che “il grano turco si coltiva da un 40 anni a questa parte”. Cfr. anche G. coppola, Il mais in Lombardia, p. 146, Bologna 1979.

[37] E. sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, p. 231, Bari 1989.

[38] Va notato tuttavia che il giurista Pasquale Liberatore fin dal 1806 auspicava per la prov. di Chieti la coltivazione “de’ tartufi americani, detti volgarmente patate”, invece del granturco, che nel chietino, secondo l’A., aveva sostituito altri cereali da “70 anni”. A conti fatti, dunque, dagli anni 1736-1737. Si tratta senz’altro di una notizia sorprendente che non siamo stati in grado di verificare ed in forte contrasto con quanto affermato dal Palma e dal Serafini (cfr. nota 12). Cfr. P. liberatore, Pensieri civili, economici, sul miglioramento della Provincia di Chieti, ecc., vol I. p. 18, Napoli 1806.

[39] A. de nino, Usi abruzzesi, vol. I, p. 118. Firenze 1879.

[40] Stampato a Napoli nel 1820, con una cartina degli Abruzzi.

[41] E. sereni, ivi, p 230 sgg.

[42] Le vigne coltivate anche a fave rispondevano alla necessità di arricchire il terreno di azoto, contenuto nel legume.

[43] I. Di pietro, Memorie Istoriche della Città di Solmona, p. 347, Napoli 1804.

[44] F. longano, Viaggio per lo Contado del Molise, Napoli 1788, p. 60 della ristampa a cura di R. Lalli, Isernia 1980.

[45] W. cianciusi, Collelongo. Abruzzo Ulteriore II, p. 151, Teramo 1972, Per una diversa interpretazione dell’espressione costa di maggio, da ricollegarsi alle “giornate più lunghe” ed alla “maggior fatica annuale” cui era sottoposto all’inizio di maggio il mondo rurale per i lavori sui campi, cfr. E. giancristofaro, Totemajje. Viaggio nella
cultura popolare abruzzese,
p. 222. Lanciano 1978.

[46] G. fiordigigli, Dal Gran Sasso alla Maiella, p. 47, Teramo 1989.

[47] Cfr. A. de NINO, Usi Abruzzesi, vol. 1, op. cit., p. 171. E. giancri.stofaro, La Pagliaretta di Atessa, in “Rivista Abruzzese”, n. 4, 1989, p. 289 sgg.

[48] G. Di menna, Le abitudini alimentari alla fine del ‘500, in AA, VV., “Cucina d’Abruzzo. Appunti per una storia della cultura alimentare”, p. 14, Bucchianico 1995, Id., A. de cecco, Cultura alimentare tra Settecento e Ottocento nell’Abruzzo Collinare, p. 19 sgg. Alle carestie si aggiungevano spesso calamità naturali. Nel Teramano, nel maggio del 1547, le piogge continue e violente – scrive l’Antinori – travolsero tutti i mulini e non potendosi macinare, “si patì di pane molti giorni, ed alcuni ebbero necessità di ricorrere a minestre di fave fresche o secche…”, cfr. A. L. antinori, Annali d’Abruzzo, ed. anast., vol. XIX, p. 284, Bologna 1972. T. ashby ricorda che nella festa di San Domenico di Cocullo (1909) poche serpi potettero essere gettate sulla statua poiché nei primi giorni di maggio in paese e nei dintorni c’erano stati 30 cm. di neve.

[49] Cfr. M. javicoli, Tradizioni popolari abruzzesi. Cibi di rito, in “L’Abruzzo”, n. 2. 1929. A Torino di Sangro, ci informa il Priori, nove tipi di legumi e granaglie venivano cotti in un recipiente di coccio chiamato “la pignate de lu prime de magge”. Cfr. D. priori, Folklore abruzzese (Torino di Sangro), p. 101, Lanciano 1964. Questi tipici piatti composti da diversi legumi vengono preparati in Abruzzo anche in occasione della festa di S. Antonio Abate ed assumono la denominazione di granati o cecigranati con funzione apotropaica e propiziatoria.

[50] In molti centri del Cilento. “il primo maggio si cucina nelle famiglie legate alla tradizione la cuccia, costituita da ogni sorta di legumi e granaglie bollite, la quale viene distribuita anche ai poveri per assicurare un buon raccolto… Inoltre, si crede che questo cibo protegga dagli assalti dei moscerini d’estate… A Buonabitacolo la preparazione avviene per strada, davanti a un grosso fuoco, con grano e legumi raccolti in tutte le case e poi distribuita al paese, con la raccomandazione di mangiarne perché difendeva dai noiosi insetti. … A Casalbuono, quando è pronta la cuccia, si radunano i bambini in cerchio e la donna più anziana del vicinato, prima di distribuirla ai presenti, ne lancia qualche mestolo in aria, facendo un segno di croce”. Cfr. A. tortorella, A l’us andicu. Le tradizioni nel vallo di Diano, p. 211, Salerno 1982. L’autore ci informa che “la cuccia” si prepara in molti paesi della Calabria il 6 dicembre per la lesta di San Nicola di Bari.

[51] A. De NINO, Usi e costumi abruzzesi. vol. IV, p. 36 sgg., Firenze 1887. Sulla maledizione dei lupini vedasi anche G. Finamore, Quando Cristo andava per il mondo, in “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, vol. IV, p. 472, Palermo 1885. Queste leggende popolari del Finamore su Cristo, Apostoli e Santi sono state di recente ripubblicate a cura di M. C. Nicolai per i tipi dell’Ed. Polla, Cerchio 1992.

[52] Cfr. A. D’ANTONIO, Villalago, Storia, leggenda, usi, costumi, p. 139, Pescara 1976. G. CELIDONIO, Monistero di S. Pietro in lago, p. 6. Casalbordino 1910. Circa il “paesello alpestre” precisa il Celidonio (ivi) che “gli scrittori non lo nominano, ma era Castrovalva. i cui abitanti anche oggi si bollano col nomignolo di persèguitasanti”.

[53] Cfr. A. DE NINO, Tradizioni popolari abruzzesi. Scritti inediti e rari.  a cura di B. Mosca, vol. I, pp. 308-309. L’Aquila 1970.

[54] Sig.ra Cianci Maria, contadina, di anni 50. Di questa sacra leggenda e dell’esistenza di un Santuario dedicato a San Pancrazio siamo venuti a conoscenza dopo la pubblicazione del nostro lavoro dal titolo Il culto di S. Pancrazio a Carapelle, in “Homines de Carapellae. Storia e Archeologia della Baronia di Carapelle”, Bullettino DASP, Studi e Testi, n. 10, p. 125 sgg., L’Aquila 1988.

[55] Ricordiamo soprattutto, di E. GIANCRISTOFARO, Le tavolette devozionali, in “Rivista Abruzzese”, n. 2, 1991, p. 115 sgg., contenente una ricca bibliografia sull’argomento.

[56] Cfr. A. MELCHIORRE, Tradizioni popolari della Marsica, p. 6.5 sgg., Roma 1984.

[57] E. GIANCRISTOFARO, La Panarda in “Rivista Abruzzese”, n. 2, 1993, p. 125. Vedasi al riguardo anche A. DI NOLA, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, p. 187 sgg., ‘Torino 1976; L. palozzi, Storia di Villavallelonga, p. 211 sgg., Roma 1982.

[58] Cfr. E. GIANCRISTOFARO, Ancora  tracce del verde Giorgio in Abruzzo, in “Rivista Abruzzese”, n. 4, 1989, p. 292.




A CIASCUNO IL SUO

L’Officium Quarti Militis nel carteggio A. De Nino – V. De Bartholomaeis. [Pubblicato in “La Gazzetta Peligna” (Periodico di cultura, politica, economia, attualità) Anno III, N. 5, Maggio 1987. Sulmona Pg. 3.]

di Franco Cercone

L’esistenza di un pur piccolo carteggio tra A. De Nino e V. De Bartholomaeis, sfuggita all’attenzione di B. Mosca, si evince dalla lettura di un importante quanto poco conosciuto saggio dello storico di Carapelle Calvisio, apparso con il titolo di Ricerche Abruzzesi nel “Bollettino dell’Istituto Storico Italiano”. Il saggio in questione, in cui sono descritti codici, pergamene e sermoni semidrammatici giacenti presso gli archivi di alcuni conventi abruzzesi, fu pubblicato nel 1889, ma nella breve dedica al Presidente dell’Istituto è apposta la data “novembre 1888” e pertanto la corrispondenza fra i due studiosi risale probabilmente agli anni 1887-89, quelli appunto che vedono il De Bartholomaeis (è lui stesso a dircelo) impegnato in indagini intraprese “da pochi mesi nella regione abruzzese”. Così si legge per es. a pag. 118 delle Ricerche: “Il mio dotto amico, Prof Antonio De Nino, comunicandomi una trascrizione del poema “De Passione Domini`…” ecc. Maggior rilievo assume tuttavia quanto scrive l’A. a pag. 161 a proposito di un “documento rinvenuto tempo fa nell’Archivio Capitolare di Sulmona, scritto sul rovescio di due pergamene ricucite all’uopo insieme nella fine del XIV o nel principio del XV secolo”, precisando che l’indice dell’Archivio dava la seguente indicazione: “Fascicolo 47, n.9. Due antichi instrumenti, de’ quali uno non può leggersi per l’ingiuria de’ tempi, e l’altro come segue: a…1331 Istrumento di vendita fatta da Ant.a moglie di Nicola d’Amicozzo di Sulmona a favore di Nardo di Pallia di Pettorano, degente in detta Città, di un pezzo di terra in dominio di Sulmona, in loco detto le Caminate. Dentro vi sono alcuni antichi responsorii seu versi per la passione di Giesu Cristo”. 

Aggiunge il De Bartholomaeis: “Ora, questi responsori sono un dramma bello e buono, e avanti ogni altra cosa, eccoli tali e quali, con la sola avvertenza che metto in colonna i versi che il testo reca di seguito a modo di prosa” Ed in nota: “Per ricerche in quell’archivio e comunicazioni non so come ringraziare a dovere il Prof. Antonio De Nino e il gentilissimo mons. Araneo, vicario in quella curia”.

Il “dramma bello e buono” di cui il De Bartholomaeis pubblica il testo, non è altro che l’Officium Quarti Militis, cioè lo ricordiamo brevemente, la parte recitata dal “quarto soldato” in un dramma liturgico di notevole ampiezza sulla passione di Cristo ed assai importante per la storia del teatro, anche se nel frammento appare più consistente la parte sostenuta non dal “Quarto” ma da tutti e quattro i soldati (nel dramma: Omnes). Va sottolineato però che l’Officium era già stato pubblicato due anni prima (1887) da G. Pansa in Noterelle di varia erudizione ed il De Nino (piccolo “giallo”, questo episodio) doveva esserne sicuramente al corrente, dati gli ottimi rapporti che lo legavano in tale periodo al ‘giovane’ Pansa (non di rado si leggono nelle Noterelle espressioni come “il mio carissimo amico, Prof Antonio De Nino” oppure “il mio dotto amico Prof. Antonio De Nino” a riprova dell’amicizia regnante tra i due studiosi peligni). Sicché vien spontaneo chiedersi come mai il De Nino non abbia comunicato tale notizia al De Bartholomaeis, oppure, se ciò è avvenuto, come mai quest’ultimo non ne abbia fatto cenno nelle sue Ricerche. Non è da escludere l’ipotesi che il De Nino volesse sottoporre ad ulteriore lettura il testo dell’Officium giovandosi della perizia di mons. Araneo, dato che il Pansa stesso aveva cercato come afferma nelle sue Noterelle di «supplire alla meglio›› le parole illeggibili nella pergamena, che si presentava “consumata” dal tempo. In più di un punto, infatti, alcune parole delle due “versioni” dell’Officium (quella del De Nino e quella del Pansa) non coincidono, compresa la data di una delle due pergamene ‘cucite insieme’, poiché l’altra era illeggibile “per l’ingiuria de’ tempi”: 1331 (De Nino e quindi il De Bartholomaeis); 1341 (Pansa). In un articolo apparso ne “La Gazzetta Peligna” (n. 5,1986) e dal titolo “Il Congedo del Quarto Soldato” l’amico S. Sticca afferma invece che “l’intera composizione appariva trascritta sul rovescio di due pergamene, contenenti rispettivamente istrumenti notarili del 1331 e del 1350”, ma non sappiamo da quale fonte egli tragga quest’ultima data, cioè 1350, non riportata nelle due “versioni” del Pansa e del De Nino (forse dall’ Inguanez?). I due, infatti, insieme al Faraglia ed all’Araneo, vanno annoverati tra i pochi studiosi che hanno avuto la possibilità di osservare con i propri occhi le pergamene conservate un tempo nell’Archivio di San Panfilo e le cui ultime notizie (quelle in nostro possesso, ovviamente) risalgono ad un biglietto postale datato “Carapelle, 12, V,1900” e nel quale il De Bartholomaeis ringrazia tra l’altro il Pansa per le “nitide immagini del Quarto Soldato”.

Va ricordato tuttavia che sulle tracce dell’ Officium si era messo nel 1972, ma senza risultati, il compianto Angelo M. Scalzitti che intendeva corredare il terzo o il quarto volume della “Storia di Sulmona” di F. Sardi de Letto di alcune fotografie riproducenti passi del frammento di dramma liturgico (il Sardi de Letto si chiede se la data della pergamena sia 1551 o 1351 e sostiene che il De Bartholomaeis “osservò e studiò nell’archivio di San Panfilo”  l’Officium Quarti Militis, ma ciò come si è visto, non risponde a verità). Nell’articolo citato lo Sticca afferma inoltre che l’Officium poteva essere consultato “fino a qualche anno fa” nell’archivio capitolare di S. Panfilo ed allega al testo, incautamente, fotografie riproducenti due passi del frammento di dramma e tratti non sappiamo da quale pubblicazione. Del resto, lo Sticca ci aveva già dato in precedenza un saggio sull’arte di fotografare fotografie.

Nell’opuscolo dal titolo Sulmona e il teatro medievale abruzzese (1980), egli riproduce infatti con lo stesso sistema un passo dell’Officium pubblicato dal De Bartholomaeis, ritiene ancora conservato presso l’archivio capitolare il frammento di dramma ed ignora, sempre alla data del 1980, che l’Officium fosse stato pubblicato per primo dal Pansa, particolare questo che ha appreso (ma si è ben guardato dal dirlo) negli anni successivi leggendo il mio saggio “La Madonna che scappa in piazza a Sulmona” ed in cui ha rilevato due “errori”. Scrivevamo appunto che nell’Officium era noto il nome del “Quarto Soldato”, Trystainus, che presenta “qualità appartenenti all’eroe omonimo descritto nel poema di Gottfried von Strassburg”.

Sul primo di essi lo Sticca ha ragione. Trystainus (scherzi della memoria) non è infatti il nome del Quarto soldato (forse si chiamava Ciccillo o Pampanùccio, ma non lo sappiamo). Circa il secondo “errore” lo Sticca nota che “le qualità principali di Tristano, a livello letterario, erano già state descritte nel Tristan dell’anglonormanno Thomas, nel Tristan et Iseut di Béroul e nel Tristan di Filhart von Oberge, opere… che precedono di parecchi decenni il Tristan und Isolte di Gottfried von Strassburg…”. Non si comprende cosa abbia a che fare qui la mia affermazione con la precisazione dello Sticca, il quale ha dimenticato (ma ne discuterò con lui in tedesco alla prima occasione) che nella concezione del suo Tristan, Gottfried “si stacca decisamente dalla tradizione”, come sottolinea il Grunanger in un fondamentale studio sull’argomento che gli consigliamo di leggere.

Comunque, ciò che appare grave (questo sì che è un errore!) è che lo Sticca cita nel suo opuscolo Sulmona e il teatro medievale abruzzese una frase delle “Ricerche Abruzzesi” del De Bartholomaeis senza aver mai letto questo importante saggio dello storico di Carapelle. Avrebbe appreso cosi che fu il De Nino ad inviare al De Bartholomaeis la trascrizione dell’Officium e non il Pansa, ed avrebbe altresì ponderato meglio la questione relativa alla provenienza dell’Officium, che costituirà comunque oggetto di un nostro prossimo intervento sulle pagine de “La Gazzetta Peligna”.

Al Pansa va riconosciuto dunque il merito di aver pubblicato per primo il testo dell’ Officium nelle sue Noterelle, egli sottolinea come “dovesse al Faraglia, occupato in quel tempo nell’Archivio di S. Panfilo a trascrivere antichi documenti, confluiti poi nel Codice Diplomatico Sulmonese”, la notizia di questo “raro ed importante frammento” in cui è segnato “quel periodo di transizione che dall’antica rappresentazione liturgica passa ad una forma drammatica più pura, più larga e di un carattere evidentemente teatrale”, nonché “uno stadio di avanzamento nella completa emancipazione dalle forme rituali chiesastiche”.  Il che non giustifica la frettolosa affermazione dello Sticca, secondo cui il Pansa non ha individuato “il valore drammatico del documento”.  De hoc satis.

Comunque, al Pansa spetta solo il merito della prima pubblicazione dell’Officium ma non la sua divulgazione presso autorevoli cultori di Storia del teatro, poiché la conoscenza delle Noterelle rimase circoscritta a pochi studiosi sulmonesi dell’epoca e non a caso questa raccolta di scritti “di varia erudizione” non fu recensita né sul Bollettino DASP, né sulla “Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti”.

L’Officium Quarti Militis fa pertanto il suo ingresso ufficiale nell’orizzonte della Storia del teatro con le Ricerche Abruzzesi del De Bartholomaeis (1889) e nella trascrizione effettuata dall’infaticabile De Nino. Tale orizzonte si allarga poi allorché, come apprendiamo dallo Sticca, “lo Young, nel 1933, basandosi sull’edizione testuale dell’Officium Quarti Militis redatta dal De Bartholomaeis, rese disponibile al mondo anglosassone il testo drammatico di Sulmona”, nella trascrizione giova ripeterlo fatta dal De Nino e con la “variante” sottolineata dallo stesso De Bartholomaeis (“metto in colonna i versi che il testo reca di seguito a mo’ di prosa”).

D’altro canto, il Pansa viene a conoscenza delle Ricerche Abruzzesi nel 1889, nell’anno stesso cioè in cui tale lavoro fu pubblicato. Ciò risulta dal carteggio dei due studiosi che ho potuto consultare circa dieci anni fa, allorché lo riordinai su commissione di Donna Clara Pittoni-Pansa. In due lettere datate 1889 e recanti il timbro postale di Carapelle Calvisio (il loro testo, data la delicatezza degli argomenti, è al vaglio del caro amico Giuseppe Papponetti, cui le ho donate) scrive tra l’altro il De Bartholomaeis al Pansa (data. 23.7 1889): “Preg.mo Amico. Eccovi le “Ricerche” delle quali mi aspetto un giudizio spassionato…”.  Nella seconda lettera (data: 2.8.1889) si legge ancora: “Preg.mo Amico. Vi spedii, or sono pochi giorni, con le mie Ricerche, una cartolina con cui vi pregavo volermi risparmiare un viaggio…ecc.” (affiora sempre nel carteggio con il Pansa la “non predisposizione” del De Bartholomaeis ad intraprendere viaggi e ciò spiega come egli affidasse spesso ad altri studiosi il compito di trascrivere documenti).

Ed il “giudizio spassionato” richiesto dal De Bartholomaeis fu dato abbastanza presto dal Pansa, che

si occupò nel 1890 delle “Ricerche Abruzzesi” sul Bollettino DASP (Punt. III), mostrando di aver assorbito bene il “colpo mancino” del De Nino, poiché nella recensione egli non informa affatto il De Bartholomaeis di aver pubblicato per primo, nel 1887, il frammento del dramma liturgico.

Qualche rilievo critico affiora tuttavia in più di un punto ed in particolare il Pansa fa notare allo storico

di Carapelle che “non gli era forse mestiere di arrischiare l’ipotesi, comunque giustificata, di un’importazione per opera de’ Celestini della drammatica liturgica in Sulmona, giacché questa città ne’suoi ricchi Archivi si rivela fin dal sec. XIV tutt’altro che chiusa in una valle appenninica, isolata dagli scambi commerciali e intellettuali” (le parole in grassetto sono tratte da un passo delle Ricerche del De Bartholomaeis). Dal quale giudizio si evince che non c’era proprio bisogno, come fa lo Sticca,

di ricorrere ai “recenti studi di E. Mattiocco e G. Papponetti” per dimostrare la vitalità culturale di Sulmona nei secoli XIV e XV (una sviolinata, questa, che avrà irritato, come ritengo, gli stessi amici Mattiocco e Papponetti) ma bastava leggere un po’ le opere del Faraglia, del De Nino e del Pansa (quest’ultimo anche sulla notorietà di Tristano, nel medioevo, presso i ceti umili abruzzesi) per rendersi conto di come il De Bartholomaeis fosse in errore.




LE TRADIZIONI POPOLARI NELLA VALLE DELL’ORTE

[Pubblicato in La Valle dell’Orte. Ambiente, cultura e società, “Quaderni di Abruzzo. Collana di Studi Abruzzesi” diretta da E. Paratore e Marcello Di Giovanni. N° 14 Chieti, Vecchio Faggio Edizioni, 1992; pp.389-394.]

di Franco Cercone

Se diamo uno sguardo agli Usi e costumi abruzzesi di Antonio De Nino[1] ed in genere a tutta la produzione demologica del folklorista peligno, notiamo subito che dei centri della Valle dell’Orte si parla in poche occasioni e la maggior parte delle citazioni, come anche nel Finamore, riguardano Caramanico, annoverata fra i centri abruzzesi in cui ancora radicate appaiono le credenze relative al potere curativo ed apotropaico in genere dei cosiddetti carboni di San Lorenzo[2].

Le motivazioni di questo mancato interesse più che nella particolare posizione geografica della valle dell’Orte e nella sua viabilità, certamente non agevole nel secolo scorso, risiedono probabilmente nella circostanza che i nostri maggiori folkloristi, di fronte al grande patrimonio etnografico regionale da registrare, sono stati indotti necessariamente ad operare delle scelte, influenzate talvolta dagli insistenti appelli che provenivano in tal senso dal Pitrè.

L’assenza di particolareggiate descrizioni lascia supporre inoltre che si tratti di notizie raccolte di riflesso e prive di quella freschezza che caratterizzano invece le indagini condotte direttamente sul campo.

Una eccezione è costituita forse dalla singolare costumanza in vigore un tempo a Roccacaramanico, paese più noto con il nome di “Rocchetta”, che è diventato nell’immediato dopoguerra il simbolo di quello spopolamento che ha afflitto l’Abruzzo montano.

La costumanza in questione è descritta dal De Nino nel secondo volume dei suoi Usi e costumi. Si tratta di una sacra rappresentazione del Venerdì Santo che possiamo così sintetizzare: dodici farisei, indossanti tuniche di color verde, danno il cambio con cadenza di un’ora ad altri dodici farisei, indossanti tuniche rosse, che fanno la guardia al sepolcro di Cristo, allestito nella chiesa parrocchiale. L’avvicendamento dei ‘verdi’ e dei ‘rossi’ avviene fino al momento della Resurrezione, con la scena dell’impiccagione di Giuda ad un grosso ramo di quercia sistemato vicino l’altare. Al “Gloria in excelsis” i ‘rossi’ cadevano per terra morti e secondo un copione codificato dovevano lasciare il posto ai ‘verdi’ che facevano irruzione in chiesa. Ciò non sempre accadeva e come abbiamo appreso dal Sig. De Iulio Remo, originario di Roccacaramanico e residente da circa 40 anni a Sulmona, fra i due gruppi volavano talvolta pugni e calci. Sicché, non di rado, qualcuno dei ‘rossi’ o dei ‘verdi’, restava talmente pesto a terra da ingenerare il fondato timore che non potesse più rialzarsi per le percosse ricevute non si sa bene da quale dei due gruppi contendenti.

Il mosaico demologico della Valle dell’Orte ci è pervenuto in tal modo frammentario e la mancanza di spinte culturali, anche a livello del cosiddetto fenomeno “nativistico”, ha contribuito a rendere labile ogni ricordo del patrimonio etnografico locale.

Le difficoltà oggettive che si riscontrano nel reperire i tasselli necessari alla ricostruzione di un particolare mosaico, quello del ciclo dell’anno e della vita, non costituiscono tuttavia un impedimento per lo studioso che voglia scrivere una pagina di storia delle comunità della valle dell’Orte, attraverso una seria indagine di carattere folklorico.

Nel corso delle indagini effettuate sul campo è emerso infatti un tema culturale le cui radici sprofondano in epoche lontane. Si tratta di una prassi cultuale legata alla sacralità delle acque e che richiama devoti provenienti dall’Abruzzo e dalle regioni limitrofe.

Per comprenderne meglio l’importanza e la continuità, occorre partire dal fondamentale contributo dato alla storia di Caramanico, e quindi della valle dell’Orte, da una recente indagine linguistica di Marcello de Giovanni, che ha relegato una volta per sempre al mondo delle amene curiosità, la pretesa e purtroppo diffusa derivazione del toponimo Caramanico dal fantomatico monaco Caro [3]. Si tratta invece di un antroponimo franco, Caremannus, che si presenta come ha ben evidenziato il de Giovanni con il suffisso -icus, dunque Caremannicus o anche Caramannicus, e che assume un valore prettamente prediale.

L’antroponimo Caramannus conferma verso l’anno 800 in tutto il territorio teatino e quindi anche nella valle dell’Orte, la presenza di gruppi ex genere Francorum, qui stanziati probabilmente al seguito di missi regi durante l’azione diretta a ricacciare oltre il Sangro e quindi verso sud i Longobardi del principato di Benevento [4]. Il predominio politico-militare franco, se modifica la struttura politica e sociale preesistente, con la sottomissione dei Longobardi ridotti talvolta a servi della gleba ed alle dipendenze anche di monasteri benedettini [5], non produce tuttavia vistosi mutamenti su quel tipo di civiltà definita dal Giammarco “longobardo abruzzese” [6]. E ciò perché, come ha sottolineato il Dumézil, Longobardi e Franchi sono depositari della medesima Weltanschauung germanica per quanto concerne la concezione animistica della natura ed in particolare della sacralità delle acque [7]. Ma la dominazione longobarda ha inciso più a fondo di quella franca ed i toponimi longobardi, nota il Colapietra, sono infatti abbastanza diffusi per motivi militari ed amministrativi [8].

Sicché dopo la conversione al Cristianesimo, il precedente Pantheon acquatico longobardo viene a proiettarsi tutto nella figura di San Michele Arcangelo, o Sant’Angelo, al quale, secondo una tradizione consolidatasi in Italia nei secoli V e VI ad opera soprattutto di ordini religiosi bizantini, “era stato assegnato da Dio l’intervento miracoloso sulle acque, che mediante la sua protezione venivano purificate e difese dal male” [9]. La toponomastica abruzzese e meridionale in genere si arricchisce così di grotte, colli, monti e chiese rupestri, come appunto quella di Caramanico, dedicati al Santo guerriero e testimoniano la presenza fattiva presso di noi di tali popolazioni di stirpe germanica.

Si può dunque ritenere che le acque salutari della valle dell’Orte abbiano fatto sempre parte dell’economia quotidiana di tutti i gruppi sociali che si sono succeduti storicamente in quest’area della Maiella, anche se ai Longobardi, qui attestati in modo capillare soprattutto dal cartario casauriense e dalla toponomastica relativa a Sant’Angelo, va probabilmente riconosciuto il merito di aver codificato la protezione nei confronti delle acque sorgive e proprio in tm settore vitale in cui la religione cristiana non era stata in grado di sostituire le divinità protettrici pagane.

Forse è il frate domenicano Serafino Razzi, noto predicatore del XVI secolo, che ci dà la prima testimonianza del potere curativo delle acque di Caramanico, durante il suo soggiorno nella cittadina nella primavera del 1576. Egli apprende infatti da un frate del convento di San Tommaso che le persone affette da rogna, all’epoca una vera e propria piaga sociale, si recavano alla sorgente La zolfanaia per bere l’acqua che sgorga dalle Grotte di Santa Croce e guarire così da tale terribile malattia [10]. Non v’è nel Razzi alcun cenno della sorgente oggi assai nota con la designazione di Pisciarello, segno evidente che le proprietà di tale acqua non erano ancora note al suo pur dotto informatore, che viveva nel convento di Caramanico. Ma ciò non può meravigliare. Una sorgente infatti “entra nella dimensione sacrale in quanto manifesta una forza guaritrice e costituisce un punto di riferimento, dotata di sicurezza, indispensabile alla psicoeconomia del gruppo” [11], altrimenti, diremmo con Rudolf Otto, essa rientra nel novero delle acque profane.

Il numero delle fonti e delle sorgenti nella valle dell’Orte era certamente superiore a quello odierno e una spia si coglie al riguardo non solo dalla testimonianza del Razzi, allorché sottolinea: “vedemmo nel viaggio, e passammo molti rivi d’acque, et uno fra gli altri detto la Zolfanaia”, ma anche da una sacra leggenda, riferitaci dal nostro informatore, che sa di blasone popolare, perché da sempre, tra paesi limitrofi come appunto Sant’Eufemia e Caramanico, sono esistiti attriti e divergenze.

Secondo gli abitanti di Sant’Eufemia, San Giovanni Battista soleva ripetere che Caramanico galleggiava sulle acque, posta com’è fra l’Orte e l’Orfento, e per tal motivo avrebbe fatto “una brutta fine”. La Madonna però, che aveva attraversato con la Casa Santa di Nazareth tutto l’Adriatico, da Tersatto a Loreto, e che perciò di acque se ne intendeva, ribadiva che Ella non l’avrebbe mai permesso e non a caso, ha sottolineato il mio informatore, la disastrosa frana che ha sconvolto di recente la strada congiungente i due paesi, si è fermata proprio nei pressi dell’antica chiesa dedicata alla Madonna di Loreto e sita alle porte di Caramanico [12].

L’aspetto terapeutico di alcune sorgenti di Caramanico e della valle dell’Orte viene integrato da un singolare potere galattogeno attribuito alla fonte di Sant’Eufemia, che sorge a circa 300 metri dall’omonimo centro, un tempo tutto occupato nella pastorizia transumante, come ricorda appunto il Razzi [13]. Il culto stesso di S. Eufemia sarebbe stato trapiantato in paese, di cui è protettore S. Bartolomeo, dai pastori calabresi che, d’estate, conducevano le loro greggia ai pascoli della Maiella[14]. Non sappiamo come Santa Eufemia, che aveva subito nel 303 il martirio del rogo in Calcedonia (la

Scena è ricordata in una nota pala del Mantegna conservata nel Museo Nazionale di Napoli) sia diventata, a detta del mio informatore, Santa Eufemia della Calabria, e soprattutto non sappiamo come la Santa abbia acquisito l’importante protettorato galattogeno. Il dato più interessante è costituito comunque dalla continuità del culto fino ai nostri giorni, perché ancora oggi le donne d’Abruzzo si recano a questa fonte per attingere l’acqua che fa aumentare il latte al seno materno ed eliminare addirittura la sterilità. Il mio informatore riferisce anche che le abluzioni, necessariamente segrete, di tale acqua al seno, ha il potere, come l’acqua di S. Scolastica e di S. Agata, di scongiurare quel terribile male che è appunto il tumore.

Il latte del seno materno costituisce ancora oggi un bene insostituibile, sicché possiamo immaginare come esso dovesse essere prezioso in passato, quando era difficile reperire nei ceti umili una nutrice e non esistevano i surrogati offerti dalla medicina moderna. La condizione della donna era qui come altrove disperata: poiché i mariti passavano la maggior parte dell’anno in Puglia, a lei spettava il compito di accudire i figli, lavorare i campi e di recarsi a legnare sui monti, dai quali tornavano nelle condizioni che sono state fissate mirabilmente dal Patini nel notissimo quadro dal titolo “Bestie da soma”.

La fonte di Sant’Eufemia, sulla quale troneggiava sempre in passato una piccola statua, risultante, a causa dei frequenti furti votivi, di fattezze antiche continuamente diverse, rientra pertanto nel quadro delle cosiddette fonti lattaie, ma offre nello stesso tempo una variante di notevole interesse demologico. Ancora oggi, infatti, i pastori, e non solo quelli locali, ricorrono all’acqua di tale sorgente che viene somministrata devotamente alle mucche, al fine di far loro aumentare il latte. Si tratta di una pratica votiva che non è dato riscontrare nel culto di Sant’Agata o Santa Scolastica, anch’esse note per il loro protettorato galattogeno. Questa pratica votiva è certamente antichissima e si è tramandata di generazione in generazione presso i gruppi sociali che si sono succeduti storicamente lungo le aspre balze dell’Orte. Pratica antica ed anche diffusa, perché essa è ricordata persino in una preghiera dell’Avesta-Yasna che fissa l’equiparazione dell’acqua salutare al latte: Alle acque – esordisce il sacerdote orante – offriamo intanto questo sacrificio, all’acqua della rugiada, dei torrenti, della pioggia, delle sorgenti. Veniamo a rendervi onore o acque che penetrate ogni cosa, o liquido che ti spandi in tutto il corpo dell’uomo, noi ti invochiamo o latte [15].

Sicché mentre le fonti minerali e le terme di varia natura mantengono la loro forza con il suffragio di affermazioni scientifiche e spesso asettiche, le fonti dotate tradizionalmente di poteri curativi assolvono a funzioni che sono psico-liberatorie e coinvolgono nel loro potere galattogeno e rassicurante ogni aspetto dell’economia del gruppo. La sorgente acquista in tal modo anche un valore sacrale, che manca alla moderna industria delle acque minerali.

Le acque della valle dall’Orte ci offrono così una importante pagina che può essere ancora oggi letta contemporaneamente in modo sincronico e diacronico. In una fase della odierna civiltà che segni il passaggio dalla antica sacralità delle acque alla dissacrazione delle acque, come dimostrano appunto i dissesti idrogeologici dei nostri tempi, le acque dell’Orte offrono il destro per stilare una pagina di storia che finora non era stata ancora scritta e ci ricordano un capitolo di quell’importante poema epico che è appunto la storia delle genti d’Abruzzo.


[1] Si tratta come è noto di sei volumi pubblicati in un arco di tempo compreso tra il 1879 ed il 1897 a Firenze per i tipi dell’editore G. Barbera. Ad essi vanno aggiunti altri due volumi, comprendenti scritti inediti e rari del De Nino, pubblicati

a cura di B. Mosca con il titolo di Tradizioni popolari abruzzesi (L’Aquila 1972). Di un certo interesse risulta sotto il profilo storico-artistico il saggio del De Nino dal titolo Escursione artistica nel bacino dell’Orte, “Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti”, fasc. IX e X, Teramo 1896. Altrettanto scarne appaiono le notizie di carattere archeologico e relative ai centri dell’Orte. Cfr. A. DE NINO, Indice delle scoperte archeologiche comunicate alla R. Accademia dei Lincei, edite nelle ‘Notizie degli Scavi’, Sulmona 1906, sec. edizione.

[2] Cfr. A. DE NINO, Usi Abruzzesi, vol. I, p. 58, Firenze 1879; G. PANSA, Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, vol.I, p. 204 sgg., Sulmona 1924. Dal Finamore si apprende una interessante notizia a proposito dei carboni del ceppo di Natale, che venivano conservati e riaccesi quando nascevano i bachi da seta, al fine di “farli crescere forti ed immuni da malattie”; cfr. G. FINAMORE, Credenze, usi e costumi abruzzesi, in “Archivio delle tradizioni popolari”, a cura di P. Pitrè, vol. IX, p. 155, Palermo 1890.

[3] M. DE GIOVANNI, Tracce franche nella Valle dell’Orte: il toponimo Caramanico, in Abruzzo. Rivista dell’Istituto di Studi Abruzzesi, genn. 1985-dicembe 1990 p.419 sgg., Chieti 1990. Il volume raccoglie una serie di scritti offerti ad Ettore Paratore ottuagenario.

[4] Cfr. M. DE GIOVANNI, ivi, p. 430.

[5] Cfr. al riguardo G. CELIDONIO, La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. III, p. 143, Casalbordino 1911; AA.VV., Homines de Carapellas. Storia e archeologia della Baronia di Carapelle, Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, L’Aquila 1988; Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, a cura di V. FEDERICI, vol. I, p. 194 sgg., Roma 1925.

[6] E. GIAMMARCO, Storia della cultura e della letteratura abruzzese, Roma 1969.

[7] G. DUMEZIL, Les dieux des Germains, p. 70 sgg., Parigi, Hachette, 1959.

[8] R. COLAPIETRA, Abruzzo. Un profilo storico, p. 42, Lanciano 1977.

[9] V. DINI, Il potere delle antiche madri. Fecondità e culti delle acque nella cultura subalterna toscana, p. 133, Torino 1980.

[10] S. RAZZI, Viaggi in Abruzzo a cura di B. Carderi, p. 116, L’Aquila 1968.

[11] V. DINI, op. cit., p. 11.

[12] Secondo l’Alberico tale chiesa, per voto della famiglia Salerni, sarebbe stata edificata nel 1611. Essa è tuttavia più antica ed è citata dal Razzi che la visitò nel 1576. Cfr. R. ALBERICO, Caramanico Terme. Guida storico-turistica, p. 32, Pescara 1962; S. RAZZI, op. cit., p. 117. La Madonna della tradizione riferita è tuttavia l’Assunta, venerata nella chiesa di S. Maria Maggiore.

[13] S. RAZZI, op. cit., p. 119.

[14] Sulla presenza, poco nota, dei pastori transumanti calabresi in Abruzzo, cfr. W KADEN, Wandertage in Italien, p. 349 sgg., Stoccarda 1874.

[15] V. DINI, op. cit., p. 13.




TRE LETTERE INEDITE di G. Finamore a G. Pansa

[Pubblicato in “Rivista Abruzzese” A. XXVI, N.2, 1973 Lanciano, pp.119-122]

di Franco Cercone

Devo alla cortesia della signora Clara Pittoni-Pansa, figlia dell’illustre Sulmonese, la possibilità di pubblicare tre lettere inedite del Finamore a Giovanni Pansa, tratte da un ricco carteggio con insigni personaggi, quali B. Croce, A. D’Ancona, F. Novati, G. Mazzantinti, G. Cocchiara, R. Corso ed altri, che sarebbe stato sicuramente pubblicato dal Pansa se la morte non lo avesse colpito improvvisamente nel 1929. Infatti, sulla cartella che custodisce tale voluminoso carteggio, G. Pansa aveva scritto di proprio pugno: “Da conservare: contiene lettere di illustri e sommi uomini”.

La prima delle tre lettere del Finamore, è datata Gessopalena, 12-7-1885, località dove 1’illustre folklorista si trovava “per le faccende della stagione”, sbrigate le quali si riprometteva di compiere ulteriori ricerche per la sua “raccolta di canti, già ordinata e quasi pronta per la stampa” [1].

La nuova pubblicazione che G. Pansa promette di inviargli è probabilmente il “Saggio di uno studio sul dialetto abruzzese”, edito da R. Carabba nel 1885, poiché l’unico altro scritto del Pansa relativo allo stesso anno, «Carlo V a Napoli», era già apparso ne “La Domenica Letteraria” [2].

La seconda lettera è datata Lanciano, 6-2-l886 e parla delle difficoltà incontrate con l’editore Clausen di Palermo, il quale, stampando un numero limitatissimo di opere, non permette al Finamore di poter inviare ai suoi amici e collaboratori delle copie in omaggio. Pertanto, spera che G. Pansa non mediti “rappresaglia” e lo prega di “continuare a volergli bene”.

La terza lettera è datata Lanciano, 21-1-1899 ed è forse la più interessante. In essa Finamore ringrazia G. Pansa per l’invio dello scritto “La leggenda macabra in Abruzzo” e si congratula per il successo della “Rassegna abruzzese” (rivista diretta da G. Pansa e P. Piccirilli), che tanto onora l’Abruzzo. Ricorda anche all’amico che sulle «Romantische Forschungen» [3], prosegue la pubblicazione dei “Proverbi abruzzesi” che “non senza fatica” ha raccolto per 30 anni ed aggiunge: “Quanto a me, sono entrato in una fase di quiete che, forse, non avrà termine. Sfiduciato dall’esito delle ultime prove, non sogno nemmeno ad altri tentativi…”.

Fra le “ultime prove” che gli hanno procurato non poca amarezza, deve includersi anche 1’aspra polemica avuta con F. Novati, direttore del “Giornale storico della letteratura italiana” in merito ai rapporti letterari tra l’ alta e la bassa Italia durante il periodo delle origini …”, svoltasi proprio sulle pagine della “Rassegna abruzzese” [4]. Ma, a ben guardare, lo stato di sfiducia che spinge il Finamore a ripiegarsi in se stesso, sembra trascendere i motivi occasionali che l’hanno generato e la “fase di quiete, che, forse, non avrà termine”, nasconde ragioni ben più profonde che investono il futuro della scienza del folklore agli inizi del XX secolo. Se la seconda metà dell’800 è caratterizzata da frenetiche indagini dirette alla raccolta di leggende, costumanze, canti e proverbi, già verso la fine del secolo stesso, sotto la spinta del positivismo sociale, che tende sempre più ad accentuare il concetto romantico della storia come manifestazione progressiva dell’Infinito, si afferma l’ esigenza di studi paralleli e comparati capaci di apportare unità alle molteplici manifestazioni dei fatti sociali, poiché “La cultura o civiltà, presa nell’ ampio senso etnografico del termine, è quel complesso che include insieme conoscenza, credenze, arte, morale,  tradizione, e qualsiasi altra capacità o abitudine acquisita dall’uomo come membro della società” [5]. Ora, pur distinguendosi “per il rigore del metodo che risponde alle esigenze della critica più severa”[6], manca al Finamore la conoscenza profonda di discipline come l’archeologia, la storia delle religioni[7], la numismatica ecc., senza le quali è impossibile pervenire a una comprensione unitaria dei fatti sociali. Le stesse monete, per esempio, “rappresentano un mezzo per mostrare, come da nessun altro documento è possibile, filiazioni e rapporti di popoli e città, e per darci contezza di leggende e credenze caratteristiche di regioni e razze” [8].  A tal riguardo G. Pansa afferma inequivocabilmente che “la numismatica occupa un posto assai importante nella soluzione dei problemi che oggi si agitano intorno alla origine, alle vicende e alle trasmigrazioni dei popoli antichi” [9].

In questo nuovo clima di valutazione e comparazione, in cui l’etnologo, o, se si preferisce, l’antropologo, si sente cittadino dello spazio e del tempo, “un passo innanzi si fa con G. Pansa. Se lo studioso di Lanciano [Finamore] si ferma di tratto in tratto a rilevare ‘quanto di comune abbia la tradizione del popolo abruzzese con quella di altri popoli della Penisola’, quello di Sulmona [Pansa] va oltre. Inserita la tradizione nel grande quadro delle analoghe tradizioni conosciute in Italia, in Europa e talvolta in Asia e Africa, nel mondo antico e nel mondo contemporaneo, egli passa all’ esame dei dati che determinano la differenza. Mediante questo lavoro, arriva a stabilire, da una parte l’origine o la natura magica o mistica di un uso, di una cerimonia, di una leggenda; e dall’ altra a scoprire o mettere in evidenza i caratteri indigeni o esotici di tali manifestazioni popolari” [10].

Ora questi limiti del Finamore che sono, per limitarci all’Abruzzo, anche propri del De Nino, rivelano a ben riflettere una carenza di scuola che impedisce di “orientarsi nella società a chi non abbia ricevuto dalla scienza degli schemi che lo guidino” [11].

Ben diverso è invece l’ambiente di formazione del Pansa. Il collegio «La Quercia» a Firenze, dove il Sulmonese dal 1883 al 1886 studiò legge [12], era diretto dai Barnabiti, che annoveravano tra le loro file valenti umanisti, storici e numismatici in continuo contatto con insigni studiosi, come l’archeologo romano Giovambattista De Rossi, Bruzza, Bellucci e lo stesso Antinescu.  E’ proprio qui che G. Pansa, mentre si forgia autorevolmente nelle singole discipline, apprende il metodo della unità nel molteplice, per cui «attraverso il suo rigore dialettico e la sua mirabile umanità di cultura, il folklore diventa filologia, archeologia, etnografia: scienza e arte insieme» [13].

Evidentemente a uomini come il De Nino e Finamore studiosi isolati e colti all’improvviso dall’appello del Pitrè e De Gubernatis per la raccolta di tutto ciò che fosse ancora presente nella tradizione del popolo abruzzese, non si poteva chiedere di più. Ma ciò non diminuisce affatto il loro

merito e la loro importanza: senza l’opera di questi due studiosi il ricco patrimonio del folklore regionale sarebbe andato irrimediabilmente perduto.

Sei lettere inedite di G. Pansa a G. Finamore.

[Pubblicato in “Rivista Abruzzese” A.XLV, N 4, 1992 Lanciano, pp. 281-286.]

Molti anni fa ebbi l’occasione di pubblicare sulla “Rivista Abruzzese” (n. 2, 1973) tre lettere inedite di G. Finamore a G. Pansa. In quel periodo avevo riordinato la Biblioteca Pansa (su incarico della figlia dell’illustre sulmonese) e soprattutto il fitto carteggio dello studioso con altri letterati italiani e stranieri. Ignoro dove si trovino oggi le altre missive del Finamore al Pansa, dopo l’acquisto della biblioteca da parte della Provincia di Pescara.

Grazie al “fiuto folkloristico” di M. Concetta Nicolai sono in grado ora di sottoporre all’attenzione dei lettori 6 lettere inedite di G. Pansa a G. Finamore. La Nicolai le ha scovate presso l’Archivio Storico del Museo Nazionale delle Arti e delle Tradizioni Popolari a Roma e poiché coprono un arco di tempo ragguardevole (1889-1918), esse ci dicono che la corrispondenza intercorsa fra i due studiosi deve essere stata copiosa e non limitata solo alle 20 lettere giacenti un tempo presso la biblioteca Pansa di Sulmona.

Ma v’è di più. La Nicolai infatti ha individuato nel suddetto “Archivio Storico” anche alcune lettere del Köhler al Finamore ed esse saranno pubblicate sulla “Rivista Abruzzese” appena decifrate, data la grafia quasi illeggibile del mitologo tedesco. Viene spontaneo chiedersi come mai le 6 lettere del Pansa al Finamore siano finite al Museo delle Arti e delle Tradizioni Popolari di Roma insieme a quelle del Köhler. I rapporti fra i tre sembrano infatti intrecciarsi, poiché in una lettera lo studioso tedesco ci informa di aver inviato al Finamore la versione italiana di un noto canto popolare albanese, cioè La leggenda di Parentina, di cui marginalmente si era interessato anche il Pansa. Di ciò si parlerà tuttavia in occasione della pubblicazione delle lettere del Köhler al Finamore.

Le 6 lettere che appaiono ora sulla “Rivista Abruzzese” costituiscono un ulteriore contributo diretto a focalizzare la complessa personalità del Pansa, di cui ho curato il volume Miti, leggende e superstizioni. Scritti inediti e rari (apparso in una nota Collana diretta da G. Profeta), il saggio Due

discorsi inediti di G. Pansa (Bullettino DASP, 1979) e soprattutto l’indice cronologico degli scritti apparso con il titolo Giovanni Pansa. Vita ed opere, sul Bullettino DASP (an. 1973), dove per mero errore di registrazione è stato omesso il noto lavoro Saggio di uno studio sul dialetto abruzzese (Lanciano 1885), dedicato “All’egregio amico Prof. Antonio De Nino, cultore dotto e solerte delle patrie memorie”.

Circa il contenuto delle 6 lettere che si riportano nel loro testo integrale, bisogna ammettere che esse non apportano contributi innovativi alla conoscenza dei rapporti intercorsi fra il Pansa ed il Finamore, improntati sempre ad una grande stima ed ammirazione. Si può affermare oggi che in un primo momento il Pansa subisce l’influsso del De Nino, come dimostra la dedica apposta al “Saggio” sul dialetto abruzzese in precedenza citato. Siamo nel 1885 ed il Pansa è appena ventenne. Quattro anni dopo, cioè nel 1889, questo giudizio risulta completamente mutato nella prima delle 6 lettere in questione. Il Pansa scrive infatti al Finamore (29-1- 1889) con malcelata allusione al De Nino: “Non mi private dei vostri bei scritti, perché siete dei pochi, anzi l’unico che qui in Abruzzo, letterariamente parlando, faccia qualcosa di serio e di pensato e che rifugga dalle frivolezze cui sono soliti a cascare altri”. Inutile sottolineare che il giudizio del Pansa, mai mutato in seguito, è apparso agli studiosi alquanto frettoloso e contraddittorio. Ma esaminiamo il contenuto della lettera datata 16 marzo 1892, che contiene un particolare gustoso e consono ai nostri tempi. Il Pansa aspira alla nomina di professore di storia “nei Licei del Regno”.  Il D’Ovidio, amico del Finamore, è colui che dovrà vagliare le pubblicazioni del Pansa, che chiede pertanto all’amico lancianese una raccomandazione dalla quale, comunque, non sortirono effetti. Nelle lettere del gennaio ed aprile 1907 il Pansa esprime dei giudizi su alcune monete che il Finamore gli ha inviato in visione e che risultano sotto il profilo numismatico di nessun valore. Si può immaginare pertanto la delusione del Finamore!

Nel testo delle 6 lettere che qui appresso si riportano interamente [14] appaiono di frequente riferimenti a scritti sia del Pansa che del Finamore. Per un loro riscontro si può consultare sia il mio lavoro in precedenza citato, cioè Giovanni Pansa. Vita ed opere, che la “Bibliografia delle principali opere di Gennaro Finamore”, appendice al volume di scritti inediti del Finamore dal titolo: Kryptadia. Racconti erotici, indovinelli, proverbi e canti popolari abruzzesi, a cura di M. Concetta Nicolai (Chieti 1987).


[1] Si tratta dell’opera Tradizioni popolari abruzzesi. Canti, voll. 2, pubblicata infatti l’anno dopo, 1886, per i tipi di R. Carabba.

[2] Anno V, n. 26, Roma, 1885.

[3] Edita, insieme all’ altra rivista “Quellen und Forschungen” dal R. Ist. Prussiano di Roma.

[4] Anno I, num. 3, pagg. 280 e segg.; anno II, n. 4, pag. 103 e segg.

[5] E. B. Tylor, Primitive Culture, pag. 1, in “Storia della sociologia moderna” di G. Duncan Mitchell, pag. 78, Mondadori 1971.

[6] R. Corso, G. Pansa folklorista, datt. presso la Biblioteca Pansa, Sulmona.

[7] Importante, al riguardo, è il carteggio di G. Pansa con lo storico francese Salomon Reinach, autore fra 1’altro di “Orpheus. Histoire gènèrale des Religions” e di “Cultes, mytes et religions”, opere che G. Pansa cita spesso nei suoi scritti.

[8] F. P. Tinozzi, G. Pansa numismatico, R. Università di Napoli, 1929. Datt. presso la Biblioteca Pansa, Sulmona.

[9] G. Pansa, L’influsso della colonizzazione siculo-illirica nella monetazione pesante dell’Umbria e del Piceno, p. 1, Milano, 1914, L. F Cogliati Editore.

[10] R. Corso, op. cit.

[11] M. Horkheimer-Th. W. Adorno, Soziologische Exkurse, 4. Band, pag.167, Frankfurt am Main, 1956.

[12] Nello stesso collegio aveva frequentato anche Ginnasio e Liceo.

[13] A. Corvi, G. Pansa. L’uomo, datt. Presso la Bibl. Pansa, Sulmona.

[14] [n.d.r.: Il testo delle 6 lettere è riportato integralmente in Appendice su “Rivista Abruzzese”. Qui sono riprodotte, in foto, alcune lettere]




ZAFFERANO. L’ORO D’ABRUZZO

[Articolo apparso su Il Gambero Rosso (n. 39, 1990 Roma). Pubblicato anche in Franco Cercone: Articoli. Contributi. Spunti. Edizioni Nuova Gutemberg, Lanciano 2021]

Un piccolo fiore violaceo, con al centro tre lunghi fili di color rosso fuoco: il suo nome è croco o zafferano [dall’arabo za’fa-ranj]. La leggenda, tramandata da Ovidio nel­le metamorfosi [IV, 283], narra come il giovane Croco, innamorato della ninfa Smilace, ven­ne trasformato in fiore di zafferano. In realtà questa pianta, originaria dell’Asia centrale, attecchì in molti paesi dell’area Mediterra­nea, e trovò il suo habitat ideale in Italia, in particolare lungo gli altipiani dell’Abruzzo, a Navelli e nella Conca di Sulmona.

E, a detta degli esperti, lo zafferano abruzze­se è il migliore del mondo, di gran lunga supe­riore a quelli prodotti nella penisola iberica o in Turchia, che attualmente   monopolizzano   il mercato mondiale per via del prezzo più competitivo.  Oggi   l’offerta   di zafferano sui mercati mondiali è assorbita pressoché totalmente dal settore gastronomico, ma fino alle soglie dell’età contem­poranea gli impieghi di questa spezia erano ben più vari. Oltre che nell’arte culinaria, infat­ti veniva utilizzata nella preparazione dei profumi, nella farmacopea, e soprattutto nella pre­parazione dei colori e nella tintura di stoffe pregiate. E qui conviene introdurre qualche cenno storico sullo zafferano d’Abruzzo, e sul ruolo cardine che ebbe in passato nell’economia della zona.

Epi­centri storici della coltivazione dello zafferano abruzzese sono la Piana di Navelli e la Conca di Sulmona, distanti tra loro 35 chilometri e geograficamente situate lungo una direttrice nota nel Medioevo come “la via degli Abruzzi”, annoverata tra i gran­di itinerari commerciali, cultu­rali e militari dell’Italia trecente­sca. La via degli Abruzzi, che congiungeva Firenze con Napo­li    attraverso l’Umbria, Rieti, L’Aquila, Sulmona, l’Altopiano delle Cinque Miglia, Castel di Sangro, Venafro e Caserta, era nota in epoca medievale anche come la via della lana, delle stoffe, della seta e soprattutto dello zafferano, assai richiesto sulle piazze europee.  

Di tali scambi commerciali si coglie ampia eco negli Statuti Civitatis Aquilae [sec. XIV], negli Statuti della Bargliva di Sulmona e in numerosi istrumenti della prima metà del XIV secolo conservati negli Archivi di Stato de L’Aquila e di Sul­mona. Il documento più antico relativo al commercio dello zafferano è un diploma di re Ro­berto (D’Angiò), datato marzo 1317, che attesta la condi­zione di privilegio fiscale della quale godevano i mercanti aquilani.

Nel 1343 un diploma emanato dalla regina Gio­vanna I D’Angiò decretò il raddoppio del prezzo all’ingrosso di seta cruda e zafferano, con tutta probabilità in relazione all’aumento della doman­da sui mercati europei.  Si può dare un’idea dell’importanza e del volume degli scambi commerciali che ruotavano attorno alla prezio­sa spezia citando un documento del 17 settembre 1395, conservato presso l’Archivio di Stato di Sulmona. È la prova testimoniale che tal Onofrio di Carnizio, mercante sulmonese, aveva consegnato a ser Jacobello di Giorgio, mercante veneziano, “due fardelli di croco del peso di 200 libbre”, cioè l’equivalente di circa 70 chilogrammi di prodotto: una quantità enorme, se si considera che il raccolto totale per il 1989 nella Piana di Navelli è stato di 80 chilogrammi.

Lo zafferano veniva acquistato per lo più da mercanti veneziani, inviato verso i porti abruzzesi dell’Adriatico e spedito via mare nel­la città di San Marco, principale piazza europea di smistamento del prodotto. Da Venezia, la spezia prendeva in gran parte la via delle Fian­dre, dove era particolarmente richiesta per i suoi impieghi nella tintura della seta e nella pit­tura a tempera, tecnica questa che esigeva co­lori minerali e vegetali, a differenza di quella “a fresco”, per la quale occorrevano colori a base di calce.

Parte dello zafferano finiva ovviamen­te nelle cucine della ricca borghesia europea e delle case regnanti: gli antichi trattati ci tra­mandano molte ricette che ne prevedono l’im­piego. Al contrario, non è ipotizzarle il suo uso nell’alimentazione di sussistenza dei contadini produttori, i quali lo adoperavano per colorare la pasta solo in occasione di determinate ricor­renze. La spezia costituiva una delle poche ri­sorse per entrare in possesso di denaro liquido, indispensabile all’acquisto di sementi e attrezzi agricoli o di altri beni di consumo.

Non a caso nella cucina popolare, soprattutto meridionale, è stato tramandato un solo piatto con largo uso di zafferano, cioè la scapéce [pezzi di pesce razza macerati in botte di legno con aceto e odori vari]. Una curiosità: ancora nel XIX secolo, come leggiamo nel IV volume degli Usi e Costumi Abruzzesi di A. De Nino, “l’applicazione in loco di zafferano in fili” era considerata un efficace analgesico per i dolori mestruali. Nel corso dei secoli la destinazione e gli usi del croco non hanno subito mutamenti sostanziali.

È intorno alla seconda metà del­l’Ottocento, con l’avvento dei colori sintetici, che la situazione cambia radicalmente: dei tra­dizionali impieghi di questa preziosa spezia permane prevalentemente quello gastronomi­co. La domanda sul mercato viene cosi in gran parte a cadere, mentre aumenta la concorren­za di prodotti analoghi, dal basso costo ma dalla qualità decisamente inferiore. Inevitabile conseguenza è stata la decadenza – se non ad­dirittura l’abbandono, come è avvenuto nella Conca di Sulmona – di coltivazioni un tempo fiorentissime. Fortunatamente, in questi ultimi anni si sta assistendo ad una “rinascita” dello zafferano d’Abruzzo: a Sulmona, in particolare, la coltivazione della spezia è ripresa su iniziati­va di alcuni giovani agronomi, decisi a recupe­rare quella che era stata una delle principali ri­sorse del territorio.

Vale la pena a questopunto accennare, sia pure in sintesi, al ciclo di produzione di questa straordinaria pianta dai fioriviolacei. Il Crocus satìvus richiede innanzi tutto un particolare ter­reno, di originealluvionale, drenato e dunque filtrante, perché i bulbi, estremamente sensibili al ristagno idrico, tenderebbero altrimenti a marcire. I limiti altimetrici per l’impianto delle coltivazioni oscillano tra i 350 e gli 800 metri, sicché il rispetto di queste condizioni assicura quella che oggi viene definita una produzione DOC, riconoscimento per il quale i produttori abruzzesi si stanno battendo da tempo. I bulbi vengono annualmente spiantati, selezionati e messi a dimora nella prima decade di settem­bre, in filari semplici oppure a file binate o ter­nate. Dopo appena un mese comincia la fiori­tura. Da ogni bulbo sbocciano più fiori di colore violaceo, i quali in condizioni climatiche otti­mali possono raggiungere il numero di undici. La raccolta comincia all’incirca alla metà di ot­tobre per terminare entro la prima decade di novembre. La tecnica atavica consiste nel separare delicatamente dal resto del fiore gli stig­mi, carichi della preziosa polvere gialla, e farli essiccare con vari metodi vicino a una fonte di calore. Quest’anno, nella piana di Navelli sono stati raccolti circa 80 chilogrammi di prodotto finito, mentre le risorte piantagioni sulmonesi ne hanno resi appena due chilogrammi, desti­nati ad aumentare nel corso dei prossimi anni. Un mondo di molteplici interessi sta quindi nuovamente ruotando intorno all’ oro giallo d’Abruzzo.

Franco Cercone




SULMONA NEGLI SCRITTI DEI VIAGGIATORI TEDESCHI DEL XVIII E XIX SECOLO

[Introduzione al testo Sulmona negli scritti dei viaggiatori tedeschi del XVIII e XIX secolo, di Franco Cercone. Sulmona, Centro Studi P. Serafini, 1985. pgg.68. Il volume è corredato da IX Tavole.]

Introduzione.

In occasione del “Terzo Convegno sui Viaggiatori Europei negli Abruzzi e Molise”, svoltosi a Teramo nel settembre del 1974[1] , il Prof. Lehmann-Brockhaus, direttore della Biblioteca Hertiana di Roma, svolse una importante relazione dal titolo: Gli stranieri negli Abruzzi e nel Molise durante il 700-800[2], grazie alla quale mi è stato possibile ricostruire nelle linee essenziali un particolare capitolo di storia patria, la descrizione cioè della Città di Ovidio e della Conca Peligna contenuta nei resoconti di colti viaggiatori tedeschi del XVIII e XIX secolo. Sulla scia delle indicazioni bibliografiche del Lehmann-Brockhaus non è stato difficile richiedere alla Städtische Bibliothek di Monaco le fotocopie dei testi da tradurre e che ora vengono sottoposti in versione italiana all’attenzione dei lettori [n.d.r.: i testi tradotti dall’A. sono presenti nel volume da cui è tratta l’Introduzione].

Dagli Atti del Convegno teramano emerge subito un dato di fatto sorprendente e cioè che i viaggiatori tedeschi che hanno soggiornato a Sulmona nell’Ottocento sovrastano di molto per numero quelli provenienti da altri Paesi europei e tale circostanza, da ritenersi non casuale, reclama pertanto qualche riflessione.

Va rilevato innanzitutto che fin dal Medioevo il poeta Ovidio e di riflesso la sua terra natia hanno esercitato in Germania, e non solo in ambienti letterari [3], un costante fascino che è diventato irresistibile allorché, dopo il declino degli Svevi, fu difficile per le popolazioni del Reno cancellare i

ricordi che legavano Sulmona a questa sfortunata dinastia.

Già verso il 1210 Albrecht von Halberstadt aveva tradotto le Metamorfosi, mentre Heinrich von Morungen, vissuto nella prima metà del XIII secolo, si era ispirato agli Amores per la composizione di alcune liriche amorose.

Ma la testimonianza più significativa della popolarità di cui godeva il Poeta peligno presso corti, università e persino Klöster di ogni comunità religiosa, è data da quel prezioso documento di vita medievale che è appunto la raccolta dei Carmina Burana, composti per lo più come sottolinea il Müller in una recente edizione di tali canti, da Vaganten, Goliarden, Kleriker che avevano individuato proprio in Ovidio il loro “grosses Vorbild”, cioè il loro grande modello [4].

L’introduzione dell’arte della stampa accelera ovviamente la conoscenza delle opere ovidiane e proprio a Colonia, città di antica tradizione romana, fa la sua apparizione nell’ultimo decennio del XVI secolo la prima veduta di Sulmona. Si tratta come è noto di una incisione curata da G. Braun e F. Hogenberg in cui è ben evidenziata la didascalia Sulmo Ovidii Patria [5], mutuata forse dal famoso emistichio “Sulmo mihi Patria est”, le cui lettere iniziali (S.M.P.E.) fanno bella mostra di sé sullo stemma cittadino.

Nel XVII secolo vanno particolarmente annoverati fra i viaggiatori quei giovani nobili o borghesi i quali secondo una usanza che si diffonde rapidamente in tutta l’Europa e che in Germania fu chiamata Kavalierstour, incominciarono ad effettuare dei viaggi premio a coronamento degli studi fatti, soprattutto nel settore umanistico. È riuscito a qualcuno di essi di raggiungere la Patria di Ovidio?

È difficile rispondere ad una tale domanda. Va ricordato, comunque, che un viaggiatore ante litteram può essere considerato quel magister Gualterius de Alemania, che scolpisce nel 1412 il sepolcro Caldora nell’Abazia Morronese.

Allo stato attuale della documentazione in nostro possesso, si può dire che solo nei primi decenni del sec. XVIII si registra a Sulmona la presenza di un colto Wanderer, cioè quell’Adam Ebert cui si deve una notizia, non priva di qualche interesse, sulla ubicazione della statua di Ovidio che si ammira oggi nel cortile del Palazzo dell’Annunziata.

Ebbene, il percorso compiuto dall’Ebert assume grande importanza proprio perché viene a spezzare lo schema rigido del Kavalierstour, il quale non ammetteva, una volta pervenuti a Roma ed a Napoli, di effettuare delle deviazioni dall’itinerario tirrenico verso l’interno della Penisola. Ciò era determinato dalle incognite e dai pericoli incombenti su una area geografica che veniva a coincidere, all’incirca, con le attuali estensioni territoriali dell’Abruzzo e del Molise.

Si può affermare pertanto che fino al completamento della linea ferroviaria Roma-Sulmona, inaugurata nel luglio 1888, sono stati pochi i viaggiatori che, partiti dalla Germania, sono riusciti superando non lievi difficoltà a specchiarsi nelle acque, un tempo limpide, del Gizio e del Vella e tali difficoltà vengono individuate dagli studiosi, sulla base dei resoconti degli stessi viaggiatori stranieri, nella mancanza di una adeguata rete viaria nel regno di Napoli e nel pericolo costituito, soprattutto lungo la dorsale appenninica, dal brigantaggio. Così “l’Abruzzo – sottolinea il Russi – benché sia una regione del regno borbonico e confinante con il Lazio, resta tagliato fuori non solo dagli itinerari turistici di chi attraversa in lungo la Penisola, ma anche dai programmi di chi, soggiornando nella capitale napoletana o nella città del papa, è solito muoversi per conoscere altri luoghi” [6] .

Di conseguenza la posta internazionale sfiora l’Abruzzo e “soltanto alla fine dell’epoca asburgica, nell’anno 1734, nasce il progetto di creare una via postale che avrebbe dovuto legare il regno di Napoli con l’Austria per via d’acqua da Pescara a Fiume. Ma la successiva perdita del Regno di Napoli non permise la realizzazione di questo progetto” [7]. Esso fu ripreso com’è noto (limitatamente al tratto Castel di Sangro-Sulmona) nell’ultimo ventennio del ‘700 da Andrea Pigonati ma la “real strada di fabbrica” sarà portata a termine solo nel secolo successivo, assumendo nel tratto Roccapia-Pettorano il nome di via Napoleonica che tuttora conserva [8].

Nell’ambito del citato Convegno sui Viaggiatori Europei sono state tuttavia acutamente messe in luce, da parte di alcuni relatori, le cause effettive della mancata realizzazione, nel settore nord-orientale del regno di Napoli, di una efficiente rete stradale, dovute ad un preciso disegno politico-militare dell’amministrazione borbonica. Il Russi, per es., pone in grande evidenza (ivi, p. 71) come in una Memoria sulla frontiera nord-orientale del regno di Napoli, redatta dal giovane Pisacane che prestava servizio militare nella fortezza di Civitella del Tronto, sia ancora ravvisabile la funzione strategica del territorio abruzzese in cui  “centomila uomini in armi fanno testa a duecentomila invasori”, mentre il Clemente ha sottolineato come “L’isolamento degli Abruzzi non è questione risolubile nella indicazione del dato naturale e viario: è invece una circostanza che proietta tali premesse in una linea politica che fa dei nostri territori, per lunghissimi periodi, quasi una terra bruciata, una zona di cuscinetto strategico” [9].

Circa il problema del brigantaggio, il Colapietra ha puntualizzato come, almeno all’indomani dell’Unità d’Italia,  l’Abruzzo costituisse “la regione in cui le due componenti principali del brigantaggio, la politica legittimistica borbonica e la sociale contadina autonoma, si intersecano più strettamente”[10] , mentre per il secolo precedente, come ritengo, la circostanza che gli agguati fossero più frequenti sugli altopiani o lungo i  tratturi, in aree dunque vitali per l’industria ovina, sembrerebbe escludere ogni aspetto di sovversione politica in tale fenomeno, da cui vanno sottratte quelle azioni di mero banditismo che si intensificano con veri e propri “attacchi alla diligenza” sulla Napoleonica subito dopo il suo completamento [11].

Non pochi sono i paesi abruzzesi ritenuti, nei resoconti dei viaggiatori stranieri, “sede ideale per i briganti”, sicché ora è Roccapia, ora Villalago o Castel di Sangro – ma l’elenco non si esaurisce certamente qui – a fregiarsi di tale triste ed indesiderata nomea che, ingigantita fuori misura in Europa, finisce in ultimo per coinvolgere tutto l’Abruzzo, considerato in Germania, ancora nel 1911, «terra di briganti» [12].

E quando alcune voci, come il Frommel ed il Kaden, si levarono per ricondurre il fenomeno ad aspetti più obiettivi e realistici, la nostra Regione ben poco guadagnerà da un quadro non più dipinto a tinte fosche. Per il Kaden, ad esempio, come vedremo in seguito, l’Abruzzese “odia il ladro e stima il brigante”, mentre per il Frommel le popolazioni delle nostre montagne conservano una fisionomia “da masnadieri”. Va osservato ai fini di una migliore comprensione della genesi di tali pregiudizi, che anche negli scritti dei viaggiatori tedeschi della seconda metà dell’800 affiora una Weltanschauung che è ancora tipicamente romantica. Nella concezione del “wandern” (letteralmente: peregrinare), donde i titoli di molti libri di viaggio (Wandertage, giorni di peregrinazione; Wanderjahre, anni di peregrinazione) predomina il desiderio di evadere dal proprio ambiente, di errare senza meta stabilita

per cancellare ogni sensazione di noia, tuffandosi soprattutto nel luccicante paesaggio meridionale visto come proiezione di un particolare stato d’animo e di tale paesaggio fanno parte il brigante ed il pastore, che regnano incontrastati sui monti aspri e solitari dell’Appennino e ne diventano ben presto i simboli. Rare volte tuttavia è dato leggere in queste pagine elegiache dedicate all’Abruzzo una parola di condanna sulle misere condizioni in cui versavano le popolazioni dei nostri paesi. Nessuna reazione provocano nel Lear, sempre attento però all’ospitalità “dovuta” nei suoi confronti da parte dei ricchi signori della Marsica o dell’area peligna, le parole della vecchia mendicante di Villalago, che confida al viaggiatore inglese: “Siamo qui senza denaro, senza pane, senza panni, senza speranza, senza niente”.  Per il Lear, infatti, l’Abruzzo rappresenta comunque “il quadro di una serena attività pastorale” e proprio mentre il Kaden annotava sul suo taccuino le impressioni suscitategli dal superbo paesaggio che da Pettorano si schiude verso la Conca Peligna ed il Gran Sasso, ben diversi “appunti” prendeva in questa località Filippo Destephanis, per la sua Memoria da inviare a sua maestà, il re di

Napoli, ed in cui si sostiene la necessità – siamo nel 1859 – di trasformare in campi coltivati la parte del tratturo che si snodava ai piedi del paese, dato che, denuncia il Destephanis, “esuberando le braccia, sono obbligati gli infelici Pettoranesi andar raminghi l’inverno, o nell’Agro Romano, o a Terra di Lavoro, o alle Puglie, imitando gli armenti, pervero anche in Calabria, dove guadambiando il vitto gli uomini, riportano poche monete alla famiglia, che per lo più a stenti ha tirato l’invernata…”[13].

Tornando ora ai viaggiatori tedeschi, occorre ricordare che meritano una particolare menzione quegli studiosi i cui interessi restano legati, come per es. il Mommsen, all’archeologia ed all’epigrafia, oppure ad altri campi artistici, come appunto Heinrich Schulz ed Heinrich Dressel. Dello Schulz apparve postuma l’opera dal titolo: Denkmäler der Kunst des Mittelalters in Unteritalien (Monumenti artistici del Medioevo nell’Italia Meridionale), Dresda 1860, voll. 3, il secondo dei quali è dedicato ai monumenti dell’Abruzzo e del Molise.

Il Dressel invece, che era nato a Roma nel 1845, collaborò al Corpus inscriptionum latinarum del Mommsen e secondo il Lehmann-Brockhaus, particolare degno di nota, “riconobbe per primo che negli oggetti dell’oreficeria il punzone SUL era una abbreviazione del nome della Città di Sulmona”[14].

Nel 1840 vide la luce a Monaco di Baviera l’opera di Ernst Förster: Handbuch für Reisende in Italien (“Manuale per viaggiatori in Italia”) In essa le località italiane, importanti sotto il profilo storico e artistico, appaiono in ordine alfabetico ma nessuna menzione si fa di Sulmona e di altri centri abruzzesi, anche se il Lehmann-Brockhaus rileva che in tale Manuale “gli Abruzzi e il Molise sono descritti nel capitolo Da Ancona a Napoli, nel quale si parla di Teramo, L’Aquila, Atri, Sulmona, Isernia, Venafro” [15]. Sicuramente le descrizioni in questione sono contenute in un’altra ristampa del volume, che ha avuto ben otto edizioni. Il Manuale del Förster si distingue decisamente, per la mole delle notizie fornite, dalle pur famose Guide dell’editore Karl Baedecker, morto a Coblenza nel 1859, e relative a molti Paesi europei. L’opera del Baedecker fu portata avanti dal figlio Federico che nel 1861 curò probabilmente il primo volume dedicato all’Italia centrale e di cui si hanno anche versioni in inglese ed in francese.

Queste Guide divennero ben presto ovunque note grazie alla loro praticità. Esse furono inoltre continuamente ampliate con ulteriori edizioni apparse nell’ultimo ventennio dell’800 e la velocità di tali aggiornamenti fu resa possibile soprattutto dallo sviluppo della rete ferroviaria, che diventava nella nostra Penisola sempre più fitta e permetteva quindi di raggiungere in breve tempo Regioni fino ad allora poco conosciute, come appunto la nostra.

Soprattutto in conseguenza dell’inaugurazione della linea ferroviaria Roma-Sulmona, avvenuta il 28 luglio 1888 [16], l’Abruzzo faceva dunque il suo ingresso ufficiale nel cuore dell’Europa centrale. E ciò si verificava, a mio avviso, in un particolare momento delle scelte politiche operate dal giovane regno d’Italia, che proprio nel 1887 aveva rinnovato la Triplice Alleanza con Austria e Germania.

Sicché gli studiosi di lingua tedesca si trovano in questi anni in una particolare condizione psicologica che li spinge a privilegiare, come meta del loro wandern, piuttosto “l’amica Italia” che altri Paesi e questo stato d’animo emerge chiaramente, come si vedrà in seguito, negli scritti di alcuni autori che non solo tessono elogi alla Dreibund (Triplice Alleanza) ma si compiacciono anche, come fa per es. il Kaden, del diffuso spirito antifrancese che serpeggia a Sulmona ed in altre città d’Abruzzo.

Dopo questo breve ma necessario prologo entrano in scena gli Autori che per aver visitato e descritto Sulmona sono quelli che più direttamente interessano. I loro scritti appaiono nella presente raccolta in ordine cronologico e sono preceduti da brevi notizie biografiche desunte dal fondamentale lavoro del Lehmann-Brockhaus, più volte citato.

Tra i primi viaggiatori del Settecento che visitano Sulmona e l’Abruzzo va annoverato il giureconsulto Adam Ebert, nato a Francoforte sull’Oder nel 1653 ed ivi morto nel 1735. Sotto lo pseudonimo di Aulus Apronius egli pubblicò a Villa Franca, nel 1723, il resoconto di un suo viaggio in vari Paesi d’Europa di cui non mi è stato possibile avere dalla Biblioteca di Monaco la fotocopia del frontespizio; e ciò al fine di accertare l’esattezza del titolo, che si presenta alquanto diverso in un noto Saggio del D’Ancona e nella relazione del Lehmann-Brockhaus [17]. L’Ebert dedica una sola pagina a Sulmona ma essa, come si vedrà, non risulta priva di qualche interesse.

Altrettanto spazio occupa la Città d’Ovidio nell’opera di Carl Frommel (1789-1863) dal titolo Pittoreskes Italien (“Italia pittoresca”), pubblicata a Lipsia nel 1840. L’Autore, che era direttore di una importante galleria d’arte di Karlsruhe, fa delle acute osservazioni sul fenomeno del brigantaggio in Abruzzo ma si dimostra talvolta impreciso nella descrizione dei luoghi visitati (per es. pone Sulmona “sulle rive del Sora”!).

Del grande storico Ferdinando Gregorovius (1821-1891) ho ritenuto opportuno riportare alcune belle pagine, relative a Corfinio e Sulmona, che sono contenute nel 2° dei 5 volumi dell’opera Wanderjahre in Italien, pubblicata a Lipsia nel 1876 e che nella traduzione italiana ora appare con il titolo di “Anni di peregrinazione in Italia” ora con quello di “Passeggiate per l’Italia”, come appunto nell’edizione curata da M. Corsi e pubblicata a Roma nel 1907.  Le pagine in questione come si è detto, sono tratte dal 2° volume e precisamente dal VII capitolo dal titolo Eine Pfingstwoche in den Abruzzen (“Una settimana di Pentecoste in Abruzzo”), recentemente riproposto all’attenzione degli studiosi in forma anastatica dall’Ed. Polla di Avezzano.

Al Gregorovius fa seguito la personalità forse più interessante tra gli Autori tedeschi che visitano Sulmona nel corso dell’Ottocento, cioè Woldemar Kaden, colto viaggiatore nato a Dresda nel 1838 e morto a Monaco di Baviera nel 1909. Le pagine che dedica a Pettorano e Sulmona sono contenute

nel suo volume dal titolo Wandertage in Italien (“Passeggiate in Italia”), pubblicato a Stoccarda nel 1874 per i tipi degli Editori Meyer & Zeller’s.

Grande conoscitore di opere latine, soprattutto di Virgilio, Ovidio, Orazio (e di conseguenza del buon vino peligno) [18], il Kaden ci offre una affascinante descrizione notturna della Città d’Ovidio, non priva di alcuni documenti di rilevante interesse etnografico (il volume manca però di disegni ed illustrazioni). Insieme a C. Stieler ed E. Paulus, che lo avevano accompagnato nelle sue peregrinazioni nel Mezzogiorno d’Italia, il Kaden pubblicò, probabilmente nel 1875, un altro volume di cui conosciamo una versione in italiano ed un’altra in inglese. La prima, con il titolo: Italia. Viaggio pittoresco dall’Alpi all’Etna, vide la luce nel 1876 per i tipi della Casa Editrice Treves, Milano, ed è arricchita da ben 73 tavole fuori testo, firmate e datate quasi tutte 1874, anno dunque che si riferisce al primo viaggio in Italia. La seconda invece ha per titolo: Italy from the Alpes to mount Etna e fu pubblicata a Londra nel 1887 dagli Editori Chapman & Hall.

Il “Viaggio pittoresco” di Stieler, Paulus e Kaden riscosse un buon successo. come è confermato dalle numerose edizioni del volume, che è corredato, come si è detto, di magnifiche incisioni. In quella del 1876, apprendiamo dal Marino, vanno notati “sei disegni del Kaden: ragazzo abruzzese, ragazza abruzzese, rovine d’Amiterno (S. Vittorino), la Valle del Sangro, una via negli Abruzzi, Gran Sasso d’Italia” [19].

Nell’edizione del volume che ho potuto consultare, la terza, pubblicata nel 1885 a Milano sempre dalla Casa Editrice Treves (e da essa sono tratte le pagine che si riferiscono a Sulmona), la bellissima incisione dal titolo Ragazza abruzzese, datata 1874, è firmata invece chiaramente: Keller, un artista dunque che deve aver partecipato insieme al Kaden, Paulus e Stieler all’avventuroso viaggio nel meridione della Penisola [20], mentre l’altra dal titolo Ragazzo abruzzese è opera del Kaden.

Al Kaden segue Eberhard Gothein, professore di economia politica a Bonn ed Heidelberg, strenuo difensore della Kulturgeschichte, cioè della necessità di considerare la storia come “storia della civiltà” e della cultura dei popoli. Per i tipi dell’editore Kölbner di Breslau egli pubblicò nel 1866 l’opera: Die Kulturentwicklung Sud-Italiens in Einzeldarstellungen (“Lo sviluppo della civiltà del Sud Italia in monografie”), che ebbe successivamente, pur nella diversità degli argomenti trattati, ulteriori edizioni. In quella del 1886 troviamo un capitolo dal titolo: Die Heimath Ovid’s (“La Patria di Ovidio”), in cui lo storico tedesco, profondo conoscitore dell’Italia, ci dà una vivace descrizione di miti e leggende fiorite dal medio evo in poi intorno alla figura del Poeta degli Amores e pertanto il Gothein va considerato come un precursore di tale genere d’indagini, che saranno, come è noto, completate da lavori analoghi del Ciampoli, De Nino e Pansa [21].

Noi non sappiamo come il Gothein [22] sia approdato a Sulmona, poiché la linea ferroviaria collegante Roma con la Città d’Ovidio sarà inaugurata nel 1888, cioè alcuni anni dopo il suo viaggio in Abruzzo. L’utilizzazione della carrozza ha permesso tuttavia allo studioso tedesco di poter trattenere più a lungo lo sguardo sul paesaggio peligno, dove, sottolinea egli, “ogni coltivazione dei campi si trasforma in giardinaggio”.

Quasi una descrizione “a volo d’uccello” è invece quella che fa dallo scompartimento del treno G. Vom Rath, professore di economia all’Università di Bonn. Il viaggio da Rimini a Pescara e da qui per l’Aquila e Rieti via Sulmona risale alla primavera del 1881. L’A. prima parla brevemente di Popoli e poi ci dà con efficaci pennellate cromatiche una bella visione di quel grandioso “anfiteatro naturale” che è appunto la Conca Peligna.

L’opera del Vom Rath, in due volumi, ha per titolo: Durch Italien und Griechenland nach dem Heiligen Land. Reisebriefe (“Attraverso l’Italia e la Grecia verso la Terra Santa. Lettere di viaggio”, Heidelberg 1882; seconda edizione: 1888).

L’ultimo brano tradotto, Vier Wochen in den Abruzzen: Sulmona (“Quattro settimane in Abruzzo: Sulmona”), apparve il 15 settembre 1895 sul quotidiano di Colonia “Kölnische Volkszeitung und Handelsblatt” senza la firma degli Autori che, come si evince agevolmente dal testo, erano comunque due sacerdoti impegnati nella trascrizione di bolle corografiche ed altri antichi documenti giacenti presso gli archivi di alcune cattedrali abruzzesi. Ed è proprio tale lavoro che i due studiosi compiono a Sulmona presso l’archivio di San Panfilo, “gentilmente” messo a loro disposizione dal vescovo di quel tempo, Tobia Patroni.

Si tratta comunque dei professori M. Klinkenborg e L. Schiapparelli entrambi di nazionalità tedesca, di cui il Pansa parla nella “Rassegna Abruzzese” nel recensire una nota opera del Kehr. Sottolinea infatti lo storico sulmonese: “Pochi dotti stranieri visitarono l’Abruzzo e i suoi monumenti per ricavarne profitto e pochissimi si occuparono dei suoi preziosi archivi e fecero tesoro delle carte che vi si conservavano. Gli archivi abruzzesi, sui quali versa la memoria che prendo in esame, sono stati esplorati dai dott. M. Klinkenborg e L. Schiapparelli delegati per l’Italia. Più fortunate furono le ricerche condotte a Sulmona, specialmente nell’archivio della Cattedrale, in cui vennero trascritte dagli originali dieci bolle comprese nel periodo da Innocenzo II (1138) a Celestino III (1196)” [23].

Si chiude così il sipario su questa rassegna dedicata a colte personalità tedesche che nei secoli XVIII e XIX hanno soggiornato a Sulmona e descritto la Città di Ovidio. Premesso che una tale ricerca è auspicabile anche per i viaggiatori francesi ed inglesi (quest’ultimi non rappresentati, certamente, solo dal Lear o dal Kraven), occorre spendere qualche parola sulla versione italiana dei testi in lingua tedesca. Rendere in italiano efficacemente alcuni periodi, specie quelli scaturiti dalla fantasia del Kaden, non è stata impresa facile e talvolta la sterile traduzione letterale è stata sacrificata in onore della freschezza ed immediatezza delle immagini.

In molti punti, inoltre, i testi si prestavano a ripetuti commenti, ma questi sono stati omessi e ridotti all’essenziale per non interrompere ed appesantire la lettura con una serie di note.

Mi piace sottolineare, nel concludere questa presentazione, che in epoche in cui non esistevano macchine fotografiche, i viaggiatori europei hanno saputo lo stesso ritrarre con i loro resoconti momenti di vita che appartengono alla storia della nostra Sulmona, la quale ha acquisito da tempo e non solo recentemente (come sembrano indicare le scritte di alcuni segnali turistici) il diritto a fregiarsi del titolo di Città d’Europa.


[1] Gli Atti del Convegno sono stati pubblicati a Teramo nel 1975 a cura del “Centro Ricerche Storiche Abruzzo Teramano” In seguito saranno citati con la sigla ACVE.

[2] In ACVE. cit., pp. 15-48. Poco utili sono risultate ai fini della presente ricerca le opere di A. D’Ancona, Saggio di una bibliografa ragionata dei viaggi e delle descrizioni d’Italia e dei costumi italiani in lingue straniere (Città di Castello 1889) e di L. Tresoldi, Viaggiatori tedeschi in Italia. 1452-1870, (Roma 1975), che presentano lacune soprattutto nella parte relativa ai viaggiatori dell’Ottocento.

[3]Anche il Lehmann-Brockhaus sottolinea (ivi, p. 27) che “i tedeschi erano i visitatori più frequenti degli Abruzzi”. Fra i viaggiatori inglesi vanno particolarmente ricordati il Lear ed il Craven, cui si devono importanti testimonianze su Sulmona e l’area peligna raccolte durante le loro escursioni nell’Abruzzo della prima metà dell’800. Di E. Lear cfr.:  Illustrated Excursions in Italy, London 1846; la parte relativa all’Abruzzo, Viaggio illustralo nei Tre Abruzzi è stata pubblicata a Sulmona per i tipi della Labor e nella traduzione di B. Di Benedetto-Avallone. Di K. Craven cfr.: Excursions in the Abruzzi and northern Provinces of Naples, London 1837; i due volumi del Craven sono stati tradotti da I. Di Iorio e pubblicati nel 1979 e 1982 a Sulmona per i tipi della Libreria Editrice Di Cioccio con il titolo: Viaggio attraverso gli Abruzzi e le province settentrionali del Regno napoletano. Va ricordato che del primo volume esiste un’altra edizione a cura di D. Lepore e R. Cincione, Escursioni negli Abruzzi (Sulmona, Tip. Labor, 1981) e che alcuni brani tratti dai due volumi del Craven erano già apparsi in versione italiana ne “Il Giomale Enciclopedico Napoletano”, an. I, vol. IV, Napoli 1840. Fra i viaggiatori francesi va menzionato soprattutto A. Valery, autore di un’opera dal titolo: Voyages Historiques et littéraires en Italie pendans les années 1826, 1827 et 1828. Ou l’Indicateur Italien, voll. 3, Bruxelles 1835.

[4]Cfr. Carmina Burana, a cura di R. Clemencic e U. Müller, p. 194 sgg., Monaco di Baviera, Heimeran Ed., 1979. Già nel 1482 aveva visto la luce ad Augsburg con commento di J Hartlieb l’opera Ars Amatoria. Das Buch Ovídij von der liebe zu erwerben, mentre a cura di G. Bersmann apparve nel 1582 a Lipsia la prima edizione completa delle opere ovidiane (seconda edizione, cum notis variorum, Francoforte 1601), seguita da quella di N. Heinsius (Leyden, 1629, voll. 3), che riscosse buon successo editoriale. Singole opere di Ovidio o commenti alle stesse si registrano con frequenza a partire dal XVII secolo in poi.

[5] Cfr. E. Mattiocco, Vedute prospettiche della Città di Sulmona dal XVI secolo all’Unità d’Italia, p. 13, Sulmona 1980.

[6] L. Russi, Viaggiatori europei nell’Abruzzo dell’Ottocento, in ACVE, cit., p. 70.

[7] O. Lehmann-Brockhaus, in ACVE, cit., p. 15. Di itinerari postali, detti camini, si hanno notizia per l’Abruzzo dopo il 1777 Cfr. al riguardo A. Di Vittorio, Gli Austriaci e il Regno di Napoli. 1707-1734. Ideologia e politica di sviluppo, p. 385 sgg., Napoli 1783.

[8]Cfr A. Pigonati, La parte di strada degli Abruzzi da Castel di Sangro a Sulmona, Napoli 1783. I lavori per la realizzazione della strada da Roccapia a Pettorano erano iniziati nel 1789. Cfr. C. Ulisse De Salis Marschlins, Viaggio attraverso l’Abruzzo (1789), rist. anast. dell’edizione italiana, Trani 1906, a cura dello «Studio Bibliografico A. Polla», Avezzano, senza data. L’A. sottolinea che «le due province dell’Abruzzo fanno parte delle regioni più inesplorate del Regno di Napoli; e viene ciò attribuito tanto al pericolo dei briganti, quanto alla mancanza di una via maestra, diretta, attraverso le due province».

[9]V. Clemente, L’Istituto Archeologico Germanico di Roma ed i corrispondenti abruzzesi (1829-1838), spunti sulla scoperta romantica degli Abruzzi, in ACVE, p. 195. Di diverso avviso è il Di Vittorio (op. cit., p. 376), per il quale «le carenze del sistema stradale del Regno dipendevano da difficoltà finanziarie».

[10]R. Colapietra, Abruzzo. Un profilo storico, p. 157, Lanciano 1977; cfr. anche di R. Colapietra l’introduzione al volume di G. Morelli, Il brigante Giulio Pezzola del Borghetto e il suo Memoriale (1598-1673), Roma 1982. L’opera del Morelli risulta indispensabile per la ricca bibliografia sull’argomento “brigantaggio” nel secolo diciassettesimo.

[11]L’ipotesi sembra suffragata dai resoconti degli stessi viaggiatori stranieri in cui si sottolineano l’audacia dei briganti e la loro pericolosità nei confronti degli inermi viandanti soprattutto sul Piano delle Cinque Miglia ed a Forca Caruso. Cfr. C. Ulisse De Salis-Marschlins, op. cit. p. 84 e F. Gregorovius, Wandersjahre in Italien, vol. II, cap. VII, p.417, Lipsia 1876 (per l’edizione italiana vedi oltre).

[12] Cfr A. Steinitzer, Aus dem unbekannten Italien, p. 193, München, Piper & Co. Verlag, 1911. Il capitolo XIII del volume, dal titolo Drei Wochen in den Abruzzen (“Tre settimane in Abruzzo”), da me tradotto, è stato  pubblicato a Sulmona nel 1977 per i tipi de «La Moderna».

[13]Cfr. F. Cercone, Pastorizia ed Agricoltura a Pettorano sul Gizio in un drammatico documento di Filippo Destephanis, in “Rivista Abruzzese”, n. 1, 1985, p. 41 sgg., Lanciano 1985. Sul rapporto di parentela tra Filippo e Pietro Destephanis cfr. V. Orsini in “Quaderni della Biblioteca Diocesana di Sulmona”, p. 5, Sulmona 1985.

[14] Cfr. O. Lehmann-Brockhaus, in ACVE, cit., p. 30. Come è noto, la prima importante opera sull’oreficeria abruzzese, dal titolo: Die mittelalterliche Goldschmiedekunst in den Abruzzen, si deve a Leopold Gmelin e vide la luce a puntate nel 1890 in una rivista edita a Monaco di Baviera. Di essa si ha una traduzione italiana: L’oreficeria medioevale negli Abruzzi, traduzione di G. Crugnola, pubblicata nei fascicoli 4, 6, 7 ed 8 della “Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti”, Teramo 1891 e per estratto: Teramo, Tip. del Corriere Abruzzese, 1891, pp. 80. Va ricordato che nella traduzione di L.F. de Magistris era apparsa a puntate sullo stesso periodico (l897: fasc. VI, pp. 270-75; fasc. IX, pp. 417-25) una “Memoria” di K. Hassert dal titolo: Gli Abruzzi («Die Abruzzen»). L’Autore, docente di geografia all’Università di Lipsia, visitò l’Abruzzo nel 1895 e fra i tipici prodotti regionali menziona particolarmente “le confetture di Sulmona”.

[15] Cfr. O. Lehmann-Brockhaus, in ACVE, cit., p. 28.

[16]Fra tre anni [1988] ricorrerà dunque il centenario dell’inaugurazione di tale linea ferroviaria ed è auspicabile che in una eventuale pubblicazione diretta a ricordare l’importante evento trovi posto anche una raccolta di giudizi ed impressioni dei primi viaggiatori stranieri che la utilizzarono per raggiungere Sulmona.

[17]Nel Lehmann-Brockhaus (ivi, p. 31), il titolo del volume è riportato nel modo seguente: Adam E. Ebert, “Auli Apronii Reisebeschreibung von Villa Franca… durch Teutschland, Holland und Braband… ferner nach Turin, gantz Italien, Rom, Neapolis”;  nel D’Ancona invece (op. cit. p. 53) esso appare più completo, ma tale circostanza non ne implica necessariamente l’esattezza:  Aulus Apronius Reisebeschreibung von Villafranca, durch Deutschland, Holland, England, Frankreích, Spanien and Italien, Francfurt zur Oder, 1723, 1728; (quest’ultima data si riferisce probabilmente alla seconda edizione del libro di viaggio). È da ritenersi tuttavia che il titolo esatto dell’opera sia quello riportato da Lucia Tresoldi, op. cit., pp. 35-36, la quale ritiene erroneamente che il viaggio dell’Ebert risalga agli anni 1679-80. Cfr. anche O. Lehmann-Brockhaus, in ACVE, cit., p. 30.

[18]Nel frontespizio delle sue Passeggiate il Kaden riporta i seguenti versi tratti da una non ben individuata Ode di Orazio e che pertanto ho tradotto alla lettera: «Portate amici, vino ed unguenti, ed un grazioso bocciolo di rosa che troppo rapidamente sfiorisce, giacché, gioventù, fortuna ed il nero tessuto delle Tre Parche ce lo permettono ancora».

[19]Cfr A. Marino, Bibliografia dei viaggi e delle descrizioni d’Abruzzo in Lingue straniere, in ACVE, cit. pp. 297-98.

[20]Nella terza edizione del Viaggio pittoresco (1885), vi sono anche incisioni di Edmund Kaneldt, datate: Rom, 1875. È probabile allora che anche quest’ultimo facesse parte del “gruppo” di tali instancabili viaggiatori.

 

[21]Cfr.: D. Ciampoli, La leggenda d’Ovidio in Sulmona, in “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, diretto da G. Pitrè, vol. IV,1885 (l’articolo era stato tuttavia pubblicato in precedenza ne “La vita italiana. Rivista contemporanea, n. 19, Torino 1880; A. De Nino, Ovidio nella tradizione popolare di Sulmona, Casalbordino 1886 (nuova ristampa a cura di B. Mosca, L’Aquila, Japadre Ed. 1972); G. Pansa, Ovidio nel Medioevo e nella tradizione popolare, Sulmona 1924. Un ampio saggio sulle leggende popolari fiorite nell’area peligna intorno ad Ovidio si deve ad Ettore Paratore ed è apparso con il titolo: Le tradizioni popolari abruzzesi su Ovidio alla luce delle nuove esperienze, nel volume degli “Atti del VII congresso Nazionale delle Tradizioni Popolari (Chieti 4-8 sett. 1957)”, Firenze 1959.  Nel trattare gli studiosi che si sono occupati dell’argomento, il Paratore ricorda anche il Gothein.

[22]Una edizione italiana del citato volume dello storico tedesco, è apparsa nel 1915 a cura del Persico con il titolo, alquanto discutibile, di: Il Rinascimento nell’Italia Meridionale.

 

[23] Cfr. G. Pansa, P. Kehr. Papsturkunden in Apulien. Papsturkunden in den Abruzzen und am Monte Gargano (Aus den Nachrichten der K. Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen. Philosophisch-historische Klasse, Heft 3), in “Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte”, n. 5-6, p. 303 sgg., Casalbordino 1898. Vedasi anche A. Matino, in ACVE, cit., p. 301.




GLI «EDITTI» DI MONS. PIETRO ANTONIO CORSIGNANI

Vescovo della diocesi di Valva e Sulmona (1738 – 1751)

di Franco Cercone

[Pubblicato in Atti del Convegno di Studio “Pietro Antonio Corsignani nel terzo centenario della nascita (1686-1986)” – Celano 8-9 nov. 1986, Deputazione Abruzzese di Storia Patria.  Japadre editore, L’Aquila 1987.]

Ho avuto recentemente la possibilità di acquistare un volume manoscritto la cui importanza è sfuggita al rigattiere venditore. Oltre a diverse Notificazioni, Circolari ed Avvisi il volume in questione contiene anche la copia di alcuni Editti emanati dai vari vescovi della Diocesi di Valva e Sulmona nel corso del XVIII secolo e tra questi ben sei sono di Mons. Pietro Antonio Corsignani, che resse la Diocesi dal 1738 al 1751.

I titoli (o gli «argomenti») degli Editti sono i seguenti e vengono riportati in ordine cronologico:[1]

1) Editto de l’Investigati, 29 ottobre 1738;

2) Editto sulla prima “clerical tonsura” e sugli “ordini minori”, 2 marzo 1740;

3) Editto sull’Elemosina, 30 gennaio 1742;

4) Editto sulla vita et onestà de’ chierici, 30 agosto 1744;

5) Editto “de li giuochi”, 26 settembre 1744;

6) Editto sulla applicazione de’ le “limosine”, 30 ottobre 1744.

In qualche punto i testi manoscritti non sono chiari a causa di larghe macchie di umidità o d’inchiostro e rivelano anche errori di trascrizione da parte del parroco titolare della chiesa (difficile da individuare) da cui proviene il prezioso volume.

Sarà compito di altri studiosi quello di mettere in luce la personalità del Corsignani come storico e come “pastore di anime”. Va sottolineato comunque che la figura del vescovo, nato a Celano il 13 gennaio 1686, si evince in parte dal volume di A. Chiaverini dal titolo La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. VIII, (p. 157 segg., Sulmona 1980), in cui è posta in evidenza «la cultura umanistica» dell’autore della Reggia Marsicana. Questi Editti ci aiutano soprattutto a chiarire l’azione episcopale del Corsignani che si preannuncia già all’inizio dell’editto «de li Investigati»: “Sovvenuti – scrive egli – per disposizione dell’Altissimo alla residenza di questa nostra Diocesi di Valva e Solmona, desideramo per quanto si stendono le nostre debolezze… pascere il numeroso gregge, alla nostra cura commesso, con pascoli saluberrimi de’ Divini Sagramenti…”.

Gli Editti rappresentano i documenti più importanti della vita di una Diocesi e la loro emanazione è susseguente per lo più alla violazione di norme etico-religiose in vari modi accertata dal vescovo. Tramite il cosiddetto corsore episcopale, che raggiungeva a cavallo i vari paesi della diocesi, essi venivano portati a conoscenza dei singoli parroci i quali, come si apprende dalle disposizioni finali, erano tenuti ad affiggerli nelle sagrestie oppure ne’ luoghi soliti, in modo che la popolazione ne venisse comunque a conoscenza.

Il parroco era tenuto a redigere una copia dell’editto nell’apposito Libro de li Editti, da mostrarsi al vescovo in occasione delle visite pastorali effettuate in vari periodi nei paesi della diocesi.

Come strumento coercitivo affidato all’autorità del vescovo, l’editto è diretto spesso a far rientrare il «gregge dei pastori d’anime» – così viene definito il clero – nella giusta via tracciata dalle leggi della Chiesa, dai dettami evangelici ed anche dalle indicazioni contenute nei Sinodi indetti dagli stessi vescovi e pertanto esso rappresenta uno specchio fedele della religiosità della diocesi in un determinato periodo storico. L’editto, infatti, costituisce pur sempre una reazione dell’autorità episcopale alla trasgressione, da parte del clero, di precise disposizioni, norme comportamentali e chiesastiche.

Alla luce degli Editti emanati da Mons. Corsignani e finora inediti, si avverte infatti un disorientamento morale del clero assai sorprendente e notevole nella Diocesi di Valva e Sulmona, già denunciato per altro dal suo predecessore Matteo Odierna, i cui editti sono richiamati spesso per ricordare ai trasgressori le pesanti pene previste e comprendenti anche la scomunica ed il carcere.

Ma evidentemente tali sanzioni e minacce non avevano raggiunto l’effetto voluto e sia i chierici che gli ecclesiastici continuavano a giuocare pubblicamente alle carte, alla morra ed alla ruzzola, ad indossare vesti indecorose per un ministro del culto, a speculare sull’elemosine e sulle offerte dei fedeli in chiesa e via dicendo. Singolare appare poi il divieto di Mons. Corsignani, rivolto al clero diocesano, di celebrare funzioni religiose in onore di San Gennaro e San Crispino, «officii – sottolinea il vescovo – che quantunque conceduti a qualche Diocesi del Regno, non vi è stata concessione però

in questa nostra Diocesi».

Questo mosaico sullo stato morale del clero è arricchito da ulteriori tasselli che proiettano sconcertanti ombre sulla diocesi peligna nella metà del XVIII secolo.

Di un processo contro un frate «specializzato» nella ricerca dei tesori, ho dato notizia nella «Rivista Abruzzese» [n° 3-4, Lanciano 1979, p. 148 sgg. Processo per magia nella Sulmona del XVIII sec]. Esso si concluse a Sulmona nel 1726 con la condanna alla galera “in perpetuo” dell’intrepido frate, cui, tra l’altro, il vescovo Matteo Odierna fece somministrare “salutari punizioni corporali”. In un altro processo coevo, che mi riprometto di pubblicare il più presto possibile, un prete viene condannato lo stesso alla galera in perpetuo per aver consigliato ad un cittadino di Corfinio di stuprare una vergine affinché potesse guarire dalla lue.

È contro un tale decadimento dei costumi del clero che si esplica l’azione di Mons. Corsignani ed i suoi Editti, che sottopongo al vaglio degli studiosi, ci aiutano a valutare la sua complessa personalità.


[1] [N.d.r.: Gli Editti completi sono pubblicati in “Pietro Antonio Corsignani … ecc.” op. cit., con trascrizione e note dell’A., qui sono rappresentati nelle tre foto jpg allegate all’articolo]