IL CULTO DI SANT’ERASMO in territorio di Acciano …

un capitolo sconosciuto di religiosità popolare abruzzese

[Articolo pubblicato in Rivista Abruzzese, Anno XLIII, n°3-4, Lanciano 1990, pp. 231-235.]

Nella desolata area montuosa situata tra la piana di Navelli ed il medio corso dell’Aterno, s’erge un brullo massiccio, il monte Offermo, che con i suoi 1303 m. di altitudine funge da spartiacque fra il territorio di Caporciano e Bominaco e quello delle frazioni appartenenti al Comune di Acciano, cioè Succiano, Beffi, S. Lorenzo e Roccapreturo.

In quest’area geografica e propriamente alle pendici sud-orientali del monte Offermo, sorge un piccolo santuario dedicato a S. Erasmo vescovo e martire, che è meta nella prima domenica di giugno di numerosi fedeli provenienti da tutti i centri della media valle dell’Aterno e della piana di Navelli. La chiesetta, ascrivibile alla tipologia della ecclesia ruralis e sorta probabilmente come ex voto, presenta elementi architettonici che permettono di farne risalire la costruzione alla seconda metà del ‘500.

In un’altra zona del monte Offermo, in direzione nord-ovest e quindi opposta a quella dove è situato il piccolo santuario, vi sono altri due toponimi legati al culto erasmiano e cioè i calmi di S. Erasmo e la cunetta (o cunicella) di S. Erasmo, mentre lo stesso oronimo Offermo sembra indicare una ulteriore testimonianza del culto professato al santo martire, in quanto il nome Erasmus si rinviene in lingua mediolatina alterato in Ermus e Fermus (Fermo) nonché in Elmas (Elmo) e può pertanto aver contribuito alla designazione oronimica dell’Offermo.

Se la nostra supposizione fosse esatta, tutto il massiccio dell’Offermo designerebbe dunque un’area geografica sacrale posta sotto la protezione del vescovo martire, di cui si hanno scarse ed incerte notizie storiche. Infatti, sia il “Martyrologium romanum” che gli “Acta Sanctorum” ci presentano tre santi di nome Erasmo: il Confessore, il Martire di Antiochia ed il Vescovo di Formia, città di cui è patrono e dove all’epoca di Diocleziano subì, secondo una tradizione consolidata, un crudele martirio, l’esportazione cioè delle viscere mediante un argano a manovella. Un noto quadro del Poussin, conservato nella Pinacoteca del Vaticano, mostra appunto il martirio di S. Erasmo mediante l’argano, sicché tale attrezzo è diventato un attributo delle raffigurazioni antiche e moderne del vescovo martire, come il pane per S. Nicola di Bari, il maialetto per S. Antonio Abate e via dicendo.

Il martirio per estrazione delle viscere ha conferito a S. Erasmo patronati corrispondenti, come quello sui dolori del ventre, sulle coliche e sulle malattie dell’intestino. Molti santi diventano infatti protettori degli stessi organi che nel loro corpo subirono il martirio e ne causarono la morte: così S. Lucia protegge gli occhi e la vista, Sant’Agata, cui furono recisi i seni, protegge il petto da carenze di latte o dai tumori (si confronti per tale patronato il culto di S. Agata a Castelvecchio Subequo e Montenerodomo). Come si è detto, l’area geografica consacrata al culto di S. Erasmo coincide con il territorio di Acciano, che comprende le frazioni di Succiano, Beffi, S. Lorenzo e Roccapreturo. A S. Lorenzo, nella chiesa sub eodem titulo, si ammira una bella tela seicentesca che raffigura la terribile tortura cui fu sottoposto il santo.

L’ignoto artista, che probabilmente conosceva l’opera del Poussin, ha saputo ricostruire efficacemente l’atmosfera drammatica del martirio: i carnefici hanno strappato a S. Erasmo i paramenti da vescovo che giacciono per terra; e mentre alcuni lo sorreggono con forza disteso su una panca, altri gli estraggono gli intestini avvolti ad un argano a manovella. A Beffi (chiesa di S. Michele Arcangelo) e Succiano (chiesa di S. Giovanni Battista), si conservano due statue, lignea la prima e di gesso la seconda, che raffigurano invece S. Erasmo in veste da vescovo, con mitra e pastorale, senza l’attributo dell’argano. Queste due statue sono involontarie protagoniste di una singolare contesa, in quanto le due frazioni di Succiano e Beffi ne rivendicano ciascuna l’autenticità, sottolineando in tal modo la priorità del culto, con piati che esplodono proprio in occasione della festa, cioè nella prima domenica di giugno.

L’episodio conferma dunque un aspetto caratteristico della religiosità popolare, in quanto i devoti sogliono attribuire poteri miracolosi solo alle immagini ‘originarie’ e perciò più antiche di santi e madonne, venerate in quel particolare spazio sacro che è il santuario e dove solitamente si manifesta il portentoso.

Due sono pertanto le processioni organizzate separatamente nel dies natalis di S. Erasmo: la prima parte da Succiano e la seconda da Beffi. In prossimità del santuario agreste si originano talvolta forti contrasti per il diritto di precedenza, che ricordano quelli che si verificano fra le varie confraternite fondate in una medesima città. Comunque, devoti e pellegrini intervistati, non residenti né a Beffi e né a Succiano, sono stati concordi nel riconoscere che Succiano è il vero epicentro del culto ed è proprio in questa frazione che essi accorrono numerosi nella prima domenica di giugno (il dies natalis del santo cade però il 2 giugno) per rendere omaggio a S. Erasmo.

Già nelle prime ore del mattino la chiesa di S. Giovanni a Succiano è gremita di pellegrini provenienti da tutti i centri limitrofi. La statua del santo, che poggia sopra un pesante baldacchino, è costellata di catenine, collane, anelli d’oro offerti come ex voto al santo, dalla cui mano destra pende un nastro rosso sul quale si appuntano offerte in denaro. Dollari USA e canadesi testimoniano la preesistenza del culto presso comunità originarie di questi luoghi e trapiantatesi in America. Verso le sette di mattina lo sparo assordante dei mortaretti annuncia l’inizio della festa; si forma quindi una processione che lentamente imbocca il ripido sentiero che conduce al santuario, sito in una zona brulla e montagnosa, molto distante da Succiano.

In testa al corteo sfilano tre alti stendardi; il primo di S. Antonio da Padova (bianco), il secondo di S. Erasmo (rosso) ed il terzo della Madonna di Loreto (azzurro). Seguono quindi la banda e la statua di S. Erasmo. Il sentiero è ripido, impervio e faticoso. Dai circa 700 m. di Succiano si sale fino a 1.165 m., l’altitudine cioè in cui è situato il piccolo santuario; sicché coloro che portano la statua ricevono di tanto in tanto il cambio e riprendono fiato. Dopo circa un’ora di cammino la banda si stacca dal corteo ed imbocca un sentiero più breve che porta alla chiesetta, in modo da accogliere con musica i pellegrini al loro arrivo. Il corteo continua frattanto la sua faticosa marcia e compie la prima sosta alla cosiddetta cunicella o cunetta di S. Erasmo, cioè una edicola votiva in pietra dalla quale si può osservare lontano in basso l’abitato di Succiano.

Secondo la tradizione S. Erasmo avrebbe sostato nei pressi di questa edicola durante il suo peregrinare in Abruzzo, notizia questa non sorretta da documenti storici perché non risulta da alcuna fonte la presenza del santo nelle nostre contrade. Nell’interno della cunicella, forse alterazione dialettale indicante “piccola icona”, sono visibili tracce di un affresco raffigurante un tempo, con ogni probabilità, lo stesso S. Erasmo, di cui non esistono, in questa località, riferimenti relativi ad “impronte miracolose”.

Ricevuta la benedizione del sacerdote officiante, il corteo dei pellegrini riprende il suo cammino e passando per i “calmi di S. Erasmo” perviene infine alla solitaria chiesetta, addossata alla quale è stato costruito, in epoca successiva alla sua edificazione, un locale adibito a ricovero per i pastori sorpresi da tempeste atmosferiche, particolare questo degno di nota e sul quale tomeremo in seguito.

L’interno della chiesetta presenta una volta a botte ed un altare in pietra incassato in una nicchia. Sulla parte alta della medesima parete sono visibili tracce di un affresco deturpato dall’umidità. Alcune iscrizioni votive, effettuate sull’affresco con punte di chiodi o con temperini e risalenti anche alla prima metà del secolo scorso, attestano la presenza costante dei devoti nel piccolo santuario, le loro speranze, le loro angosce o la gioia per le grazie ricevute. L’affresco raffigura S. Erasmo con paramenti da vescovo, manto rosso, mitra e pastorale; con un braccio sollevato sembra additare una Madonna col Bambino, dipinta in alto sulla sua destra.

Ai piedi del santo, su uno sfondo azzurro cupo, si nota un gruppo di case sovrastate da una torre, forse una delle caratteristiche torri medievali di Beffi o Roccapreturo, supposizione che, se esatta, potrebbe costituire un indizio sull’origine del devoto che ha commissionato l’affresco, in epoca forse immediatamente successiva a quella dell’erezione del piccolo santuario.

Alla fine della funzione religiosa il sacerdote benedice i pani di S. Erasmo ed il vino offerti separatamente dalle “deputazioni” di Succiano e di Beffi.

Verso mezzogiorno il corteo si ricompone per far ritorno a Succiano.

Altrettanto fa l’altro corteo venuto da Beffi. Le due statue, riposte nelle rispettive chiese, restano esposte per tutto il pomeriggio all’adorazione dei fedeli. I pani benedetti nel piccolo santuario vengono donati a parenti ed amici che per qualsiasi motivo non hanno preso parte al pellegrinaggio in montagna. Anche una semplice mollica di questo pane preserva lo stomaco da una vasta gamma di malattie. Il pane di S. Erasmo si aggiunge così alla lunga lista dei pani sacrali ed apotropaici che esercitano il loro potere soprattutto se mangiati nel “dies natalis” del santo da cui prendono nome, il “tempo sacro” appunto della religiosità popolare.

Tutta l’area geografica compresa tra le pendici occidentali del monte Offermo ed il medio corso dell’Aterno, fiume che secondo l’umanistica Guido da Montopoli era chiamato anticamente Aperno per la grande presenza di cinghiali (Aper), sembra così consacrata a S. Erasmo. Il toponimo Acciano, menzionato nell’8l6 dal “Chronicon Vulturnensis” come possedimento del monastero benedettino di S. Pietro in Trite, compare nelle forme Azano e Anzano, mentre le sue attuali frazioni di Beffi, Succiano, Roccapreturo e S. Lorenzo sono attestate in documenti redatti in epoche diverse. Questo territorio attraversato dall’Aterno faceva parte della Diocesi di Valva e Sulmona, ma più tardi, con la Costituzione di Papa Martino V del 1426, fu assegnato alla Diocesi aquilana. I toponimi che in tale sede interessano appaiono alla Costituzione nelle forme di Roche de preturo (Roccapreturo), Aczani

(Acciano) e Beffiy (Beffi). Non sono citate dunque le altre due frazioni di Acciano, cioè Succiano e S. Lorenzo. In quest’ultima località, tuttavia, la chiesa sub eodem titulo presenta nella parte posteriore materiale riutilizzato per il suo ampliamento e di evidente stile romanico, sicché il borgo deve essersi formato successivamente attorno alla primitiva chiesetta. La Bolla corografica di Clemente III (1188), menziona per Beffi le chiese di S. Savino, S. Pietro e S. Maria; per Roccapreturo le chiese di S. Cecilia, S. Giovanni e S. Pelino; per Acciano le chiese di S. Pietro, S. Petronilla e S. Lorenzo.

Nessuna notizia ci hanno tramandato dunque i documenti più antichi, relativi a chiese esistenti in territorio di Acciano e consacrate al culto di S. Erasmo. Lo stesso Calendario valvense, affrescato nel XIII secolo nella chiesa di S. Pellegrino nella vicina Bominaco, non contiene alcun riferimento in merito al vescovo martire di Formia ed avvalora l’ipotesi che il culto stesso sia stato introdotto in territorio di Succiano nel corso del XVI secolo e registra la massima diffusione in concomitanza con l’erezione del santuario campestre di Succiano.

Va sottolineato che il culto di S. Erasmo doveva essere presente anche ad Introdacqua, nei pressi di Sulmona. Gaetano Susi, nella sua opera Introdacqua nella storia e nel folklore (Sulmona, 1970, pp. 311-12), ci dice infatti che in una “Memoria” del 1714 si parla delle chiese campestri esistenti in territorio di Introdacqua e fra queste ve ne era una dedicata a S. Erasmo, “divenuto poi Ermo per facilità di pronuncia, come il cognome locale D’Erasmo diventò D’Eramo”. Dell’esistenza di questa chiesetta fa tuttora fede una grotta di S. Erasmo sita in loco, ai piedi della Plaja, e ricordata anche dalla Canziani nella sua nota opera Attraverso gli Appennini e le Terre degli Abruzzi (Londra 1928).

Come si diceva in precedenza, S. Erasmo, per il particolare martirio subìto, l’asportazione cioè delle viscere mediante un argano, esercita un patronato nei confronti di tutte le malattie viscerali e dello stomaco. Il Wörterbuch der deutschen Volkskunde (s.v Erasmus), sottolinea tuttavia che l’attributo dell’argano, che appare in molti dipinti raffiguranti il santo (per es. nel quadro conservato nella frazione di S. Lorenzo) “stammt aus seiner westeuropäischen Geltung als Patron der Schiffer”, deriva cioè dal suo patronato, diffuso nell’Europa occidentale, nei confronti dei marinai, essendo il verricello a mano un attrezzo indispensabile per il sollevamento delle merci da caricare sulle navi. Pertanto con il termine Erasmuswickel (gomitolo di S. Erasmo), i marinai indicavano l’argano con la fune aggomitolata, espressione che ben proìettava l’idea del martirio subito dal vescovo di Formia.

Il nome Erasmo si trasforma inoltre in lingua mediolatina in Ermo ed Elmo; e proprio con l’espressione “fuochi di S. Elmo”, i marinai indicavano quelle manifestazioni luminose di elettricità atmosferica, assumenti la forma di un velo incandescente, che apparivano di notte sull’estremità degli alberi delle navi, ed anche su aste metalliche, preposte a vari usi, in campagna o montagna. Ed è proprio questo il secondo patronato esercitato da S. Erasmo nell’area di Acciano. Specialmente nelle notti tempestose il fuoco di S. Erasmo fa ritrovare la via smarrita agli atterriti viandanti che lo invocano. I “miracoli” avvenuti in tal senso per intercessione del santo sono numerosissimi, come hanno riferito i miei informatori. Così una volta un uomo di Succiano, vagando per la notte alla ricerca della giusta strada da seguire per far ritorno in paese, scorse un lumicino che gli fu da guida fino alla chiesetta campestre di S. Erasmo, dove poté trovare riparo. In un’altra occasione, una intera banda musicale si era persa per queste montagne e poté ritrovare la strada seguendo “il lumicino di S. Erasmo”.  Una “strada” intesa anche in senso metaforico, per cui anche il malato di mente, il disoccupato ed in genere gli ‘indecisi’, cioè coloro che non sanno ‘quale strada scegliere’ nella vita, ricorrono al vescovo martire e ne implorano l’aiuto.

S. Erasmo, dunque, sembra decisamente esercitare patronati che sono, oggi, di grande attualità.

Franco Cercone




LA “VATTUTE DE CAPE D’ANNE” A CANSANO

… e residui della “festa degli innocenti” in abruzzo

[Pubblicato in “Rivista Abruzzese” Anno XXXIV N. 1 – 1981 Lanciano pg 81-83.]

Una notizia riferita da Emiliano Giancristofaro (“Totemaje” pg. 133, Lanciano 1979) ed uno scambio di idee avuto sullo stesso argomento con Alfonso Di Nola, mi hanno stimolato ad approfondire l’indagine su una costumanza ancora viva a Cansano (Aq.)[1] e di cui io stesso sono stato anche protagonista negli anni della mia adolescenza.

La sua semplice descrizione è stata accompagnata da alcune osservazioni di carattere antropologico che, è meglio dirlo subito, non hanno alcuna pretesa di essere esaurienti. Esse al contrario vanno integrate ed intese come prima fase di una ricerca, tendente ad individuare le funzioni che soprattutto in passato l’usanza svolgeva nell’ambito di una piccola comunità agro-pastorale, come appunto Cansano.

La mattina del primo gennaio, spentosi l’eco degli ultimi canti di questua iniziati da gruppi di giovani fin dalle prime ombre serali di S. Silvestro, molti ragazzi di Cansano si recano a sorprendere nel sonno parenti anziani, svegliati bruscamente a suon di “bastonate” ed al canto della seguente filastrocca:

Te vatte ‘n cape d’anne, te vatte tutte gli anne

lasse gli vizie viecchie e piglie chigli nuove!

Le bastonate ovviamente sono leggere, anche perché di solito si impugna una “bacchetta o canna” di piccole dimensioni. La persona svegliata, lungi dal protestare, mette mano al portafoglio e, come si dice in gergo, “sgancia il complimento”.

Ancora vent’anni fa circa gli anziani del luogo chiedevano nella serata di S. Silvestro ai loro giovani congiunti di recarsi nella mattina del primo gennaio a svegliarli nel modo descritto. Un mio parente, ancora vivente, mi rimproverò addirittura perché non mi ero recato a bastonarlo.

La stessa bastonatura simbolica, come vedremo fra breve, è effettuata da bambini nei confronti di persone adulte nella Germania meridionale ed in Austria nella mattinata del 28 dicembre, festa degli Innocenti, in cui si commemora appunto la nota strage eseguita su ordine di Erode.

Sembra quindi che il rito sia slittato da noi dal 28 dicembre al primo gennaio, assumendo valori lustrali in concomitanza dell’inizio dell’anno nuovo. La circostanza poi che siano bambini o ragazzi a compiere la ‘bastonatura’, viventi in uno stato di grazia e di innocenza, attribuisce al rito anche una funzione di “magia simpatica”, per cui questo loro status si trasmette anche nelle persone anziane, in una specie di clima di Festum fatuorum in cui i valori sembrano sovvertiti e chi di solito durante l’anno bastona (cioè l’anziano) subisce in tale giorno bastonature.

D’altro canto sembra emergere un altro tassello di quel complesso mosaico che sono appunto le cosiddette “culture di colpa“, in quanto attraverso la finzione dell’espiazione fisica, necessaria per raggiungere uno stato di grazia e di pienezza vitale, si realizza anche una fittizia ridistribuzione della ricchezza, assicurata psicologicamente dall’elargizione di denaro a colui che compie la bastonatura ed appartenente ad un ceto economicamente inferiore.

Il quadro finora descritto offre tuttavia la possibilità di scorgere ulteriori contenuti, che prima di poter apparire sul proscenio delle scienze demologiche reclamano indagini più profonde e sicuri riscontri.

Docteur Cabanès, nella sua opera Les indiscretíons del’Historie (Vol. I, Paris Albin Michel, 1907), segnalatami al riguardo da Alfonso Di Nola, afferma che:

“de même que les processions de Flagellants, la fête des Innocents… ètait 1’occasion d’assez grossières plaisanteries. Presque partout on allait, ce jour-la, surprendre les paresseux dans leur lit, et on leur donnait le fouet. Cette cérémonie s’appellait bailler les innocens, donner les innocens, en un mot innocenter” (D. Cabanès, ivi, p. 166).

Più oltre lo stesso scrittore afferma che nell’ Alfabeto dell’Autore francese, che si trova alla fine delle opere di Rabelais, si fa menzione di un certo “Monseigneur du Ridan”, soprannominato “le fouetter”, che torna da lontano “pour fouetter” una signora di cui si era invaghito (ivi, pp. 167-68). Su questo importante particolare tornerò più avanti.

Come si è detto, la stessa festa è nota nel mondo tedesco con il nome di Unschuldíge-Kinder Tag, cioè la festa degli Innocenti.

Il “Woerterbuch der deutschen Volkskunde”[2]  precisa sotto tale voce che traduco in italiano:

 “Più che in Germania, questo giorno costituisce una festa della gioventù nei Paesi Bassi. In alcune nostre Regioni, come in Svevia, è un giorno in cui si fanno regali. Nella Germania meridionale ed in Austria, dove tale festa è assai popolare, essa è per i bambini Pfeffertag. Con rami verdi, bacchette o piccoli pali, essi percuotono gli adulti ripetendo un ritornello in cui viene chiesto del denaro come riscatto (Loesegeld), cioè come liberazione dalle bastonature (e anche dallo stato di non-innocenza):

Ecco, sono arrivato con la mia verde frusta,

con il mio fresco coraggio. Ti piace il Pfeffertag?

Pfeffer significa letteralmente pepe, ma qui il sostantivo è in relazione con il verbo pfeffern, percuotere con la Labensrute, cioè con la verga della vita, dove Rute significa anche, e ciò è molto significativo, pene.

Sub voce Lebensrute , specifica inoltre l’ Handwoerterbuch der deutschen Volkskunden: “Questa espressione (cioè Lebensrute ) fu coniata dal mitologo Wilhlelm Mannhardt in riferimento ai verdi ramoscelli che apportano crescita, fortuna, fertilità, forza e salute. Nelle credenze religiose e negli usi di alcune feste (Natale, Anno Nuovo, Carnevale, Pasqua, Pentecoste, periodo del raccolto e delle sagre) è assai comune l’usanza di percuotere soprattutto donne e ragazze con bacchette di betulla, nocciuolo, ginepro” [3].

Uno dei verbi, se non il principale, con cui si indica in tedesco tale azione, è appunto pfeffern, letteralmente “pepare”, usato evidentemente in senso figurato nel seguente ritornello:

“Ich pfeffere euere junge Frau        (Io percuoto la vostra giovane signora),

ich weiss, si hat das Pfeffern gern;  (io so che a lei piace essere percossa);

ich pfeffere sie aus Herzensgrund,   (io la percuoto con tutto il cuore),

Gott halte die junge Frau gesund”[4]   (Dio protegga la giovane signora).

Tornando allora a ciò che afferma Docteur Cabanès si è visto come il Sig. du Ridan torni da lontano per “fouetter”, cioè percuotere la signora di cui egli si era invaghito; ma forse era desiderio della stessa donna quello di essere percossa, (ed a ciò allude chiaramente il ritornello sopra riferito) per sentirsi in una specie di stato di grazia e pienezza vitale, come dice lo stesso Mannhardt.

La parola Rute infatti, che forma il sostantivo composto ‘Lebensrute’, creato dal Mannhardt, significa verga e pene; in quest’ultimo senso si usa in Abruzzo ed altrove il termine significativo: “mazza”.

Tutto lascia supporre allora, per tornare al rito di Capodanno a Cansano, che il bastone con cui si percuote simbolicamente le persone anziane non sia altro che il mezzo con cui si estrinseca un atto di magia simpatica, diretto ad augurare lunga vita con qualcosa che sia simbolo della vita e sostituito da

una mazza di legno per affinità strutturali.

Solo così si spiega a mio avviso il vivo desiderio dei vecchi e delle donne di essere “battuti” in modo da proiettarsi in uno stato di pienezza vitale nell’incerto futuro della vita.

Certamente ci troviamo di fronte a tematiche complesse, che impongono la necessità di svolgere indagini più profonde sul ruolo che gli organi sessuali hanno svolto in riti e culti preposti alla fertilità, pur nella loro vasta trasfigurazione simbolica subita attraverso i secoli soprattutto in seguito all’azione interdittoria del cattolicesimo.

Per tale motivo questo breve studio non può considerarsi affatto esauriente ed esige ulteriori riscontri ed approfondimenti. Se però è riuscito ad attirare l’attenzione di altri autorevoli studiosi, stimolati da tale circostanza ad intense e più feconde indagini, esso ha raggiunto lo scopo che si era prefisso.

Franco Cercone


[1] Per quanto concerne l’area peligna, l’usanza in questione vigeva fino a qualche tempo fa a Pettorano ed Ateleta, dove veniva cantato lo stesso ritornello di Cansano.

[2]  Stuttgard, A. Kroener Verlag, 1974. Cfr anche Handwoerterbuch des deutschen Aberglaubens, vol. VI, 1572, pubbl. a cura di E. Hoffmann-Krayer ed Hans Baechtold-Staeubli; Berlino 1942.

[3] Ivi, p. 503, sgg. Le percosse fatte oggi a Carnevale con manganelli di plastica costituiscono a mio avviso un residuo di quelle “bastonature simboliche” derivanti dai culti di cui parla il Mannhardt.

[4]  Woerterbuch ecc., s. v  “Pfeffertag”.




I MAIALI DI S. ANTONIO ABATE E LE MUCCHE DI S. FRANCESCO D’ASSISI

[Articolo pubblicato in “Rivista Abruzzese”, Anno XLVI, n° 2, Lanciano (Ch.) 1993, p. 161]

di Franco Cercone

Nel 1889 vede la luce a Città di Castello per i tipi di S. Lapi l’opera di A. D’Ancona “L’Italia alla fine del secolo XVI. Giornale del viaggio di Michele Montaigne in Italia nel 1580 e 1581”. Essa contiene un’Appendice di estremo interes­se, dal titolo “Saggio di una bibliografia ragionata dei viaggi e delle descrizioni d’Italia e dei costumi italiani in lingue straniere”.

Risultando di ben 142 pagine, il Saggio può a ragione essere considerato “un’opera nell’opera” e si deve esse­re grati all’Editore M. Tonini di Ravenna che l’ha riproposto di recente in for­ma anastatica all’attenzione degli studiosi. Esso è strutturato nel modo seguen­te. I viaggiatori stranieri sono elencati in ordine alfabetico. I titoli dei loro reso­conti o, se si preferisce, dei loro “libri di viaggio” sono riportati con il titolo originario, cui segue una specie di “regesto” nel quale il D’Ancona inserisce di tanto in tanto alcuni tratti dalle stesse opere e ritenuti di particolare interesse. Dell’opera altresì sono riportati i titoli in altre lingue quando esse risultano tra­dotte dalla lingua originaria.

Fatta questa necessaria premessa, introduciamo subito il discorso sul viag­gio compiuto in Italia dal Kotzebue, scrittore tedesco nato nel 1761 e morto nel 1819. Le impressioni del Reise, risalente al 1803, sono riassunte nell’opera regi­strata dal D’Ancona nel seguente modo:

Kotzebue von August, Erinnerungen von einer Reise ans Liefland nach Rom und Neapel, Berlin 1805; traduzione france­se a cura di J. Pixérécpout: Souvenirs d’un vojage en Livonie, a Rome et à Naples, faisant suite aux Souvenirs de Paris, Paris, Barba Ed., voll. 4, 1806.

Sottoli­nea il D’Ancona che la descrizione di Napoli fatta dal Kotzebue offre alcuni par­ticolari curiosi fra cui il seguente: “Oltre alle mucche vengono lasciati liberi in città anche molti vitelli. Quest’ultimi appartengono ai Francescani, i quali, al pari degli altri monaci mendicanti, si fanno non solo nutrire dal buon popolo il loro bestiame, ma affidano alla gente anche la custodia degli animali.

A tal fine è sufficiente legare in testa al vitello una piccola placca quadrata, sulla quale c’è impressa l’immagine di S. Francesco. Muniti di questo “passaporto” essi vanno ovunque, mangiano ciò che trovano e dormono dove vogliono, senza che nessu­no frapponga ostacoli. Anzi, quando uno di questi vitelli entra per caso in un palazzo e vi passa la notte, il padrone di casa considera ciò come un segno di buon augurio”.

Non sfugge al lettore la singolare coincidenza fra il privilegio concesso agli Antoniani per i maiali di sant’antonio e quello attestato a Napoli dal Kotzebue ai Francescani. I “vitelli di S. Francesco” circolavano dunque liberamente per la capitale del regno e sul far della notte venivano custoditi dai signori partenopei nei loro pa­lazzi e rimessi in libertà la mattina dopo. Sarebbe interessante accertare se la costumanza (ma forse sarebbe meglio parlare di “rituale”) fosse diffusa in quel tempo in tutte le località in cui erano presenti i Francescani.

Certo è che il culto di S. Francesco d’Assisi non ha registrato un particolare fervore presso i ceti umili e se ne intuisce il motivo. Come ho sottolineato in un articolo apparso sul­la “Rivista Abruzzese” (n. 2, 1983) Francesco, il Santo della povertà e della rinunzia ai beni materiali, si presenta latore di un messaggio che scarse possibili­tà aveva di essere recepito dai ceti umili e soprattutto dai contadini, bisognosi invece di “divinità” preposte alla soluzione di corposi ed angoscianti problemi quotidiani, fra i quali, oggi, va annoverato anche quello della disoccupazione. Per questo motivo, come vuole una credenza assai diffusa a Castelvecchio Sube­quo, sognare San Francesco porta sfortuna.




UNA PICCOLA CAPPELLA ED UN GRANDE PATRONATO

Appunti sul culto di san Cristoforo in Abruzzo

[Articolo Pubblicato in “Rivista Abruzzese”, Anno XLIV, n° 2, Lanciano (Ch.)1991, pp.122-125.]

di Franco Cercone

(La cappella è quella dedicata a San Cristoforo, successivamente ampliata per realizzare il Santuario della Madonna della Portella che sorge sulla sommità di un colle nei pressi di Rivisondoli).

In molti paesi degli Abruzzi – scrive il De Nino – si vede dipinta su qualche muro di chiesa la colossale figura di S. Cristoforo[1]. Oltre a quello di Acciano, menzionato dal De Nino, vanno ricordati soprattutto il San Cristoforo affrescato da Andrea Delitio nel 1473 sulla facciata laterale di Santa Maria Maggiore a Guardiagrele e l’altro, opera forse degli allievi del Delitio, che si ammira nella chiesa di Santa Maria Matrice ad Introdacqua. Non v’era persona, sottolinea il Susi nella sua monografia storica su Introdacqua, che non si recasse a rendere omaggio a San Cristoforo prima di avviarsi sui campi o di mettersi in viaggio, poiché si credeva che non sarebbe morto chi nel mattino avesse posato lo sguardo su una immagine del Santo. Per questo motivo si soleva dipingere San Cristoforo in grandi dimensioni all’ingresso delle chiese, anche se a lui non dedicate, o alle porte delle città, in modo da poter essere visto anche da lontano, donde i versi che talvolta affiancavano le immagini:

“Cristophore, sanctae virtutes sunt tibi tantae.
Qui tè mane vident, nocturno tempore rident.
Cristophore, Sancti specimen, quicumque tuetur
ista nempe die non morte mala morietur”[2].

La figura di San Cristoforo, diventato negli ultimi tempi patrono degli automobilisti, è avvolta nella leggenda. Dotato, secondo una tradizione pervenuta fino ai nostri giorni, di forza erculea e di enorme statura, manifestava il suo grande amore per il prossimo mediante una singolare attività, quella
cioè di trasportare sulle sue spalle le persone che dovevano guadare corsi d’acqua. E poiché, sempre secondo la leggenda, un giorno gli capitò di portare alla riva opposta di un fiume un fanciullo di nome Gesù, San Cristoforo assunse il nome con cui è stato tramandato ai posteri.

Il culto di San Cristoforo proviene dall’area medio-orientale e sembra che la prima chiesa a lui dedicata sia stata eretta nel 772 a Sindelhausen, in Germania. Il Beitl sottolinea “die grosse Bedeutung der Pilgerstrassen für die Ausbreitung der Cristophlegende”[3], cioè la grande importanza degli
itinerari dei pellegrinaggi per la diffusione della leggenda di San Cristoforo, il cui culto si diffonde intensamente non solo nella regione delle Alpi ed in genere in tutte le zone montuose, proprio per essere protettore dei viandanti, ma anche nelle aree lacustri e fluviali, poiché “la devozione popolare attribuiva al santo la capacità di contenere le piene di un fiume e di consentire senza pericoli il guado di un corso d’acqua. Pertanto sulle rive era frequente l’erezione di edicole votive in onore di San Cristoforo”[4].
Va sottolineato in tale sede che San Cristoforo, nella tradizione popolare abruzzese, protegge genericamente il viandante, esercita cioè un patronato per così dire in itinere, mentre chi ha smarrito la via di casa, si rivolge in genere a S. Erasmo, di cui ci siamo occupati nell’ultimo numero
della “Rivista Abruzzese”(anno 1990).

Queste note introduttive ci aiutano a comprendere meglio l’importanza di un lavoro di Marcello Romito, dal titolo II Santuario romitorio di Santa Maria della Portella nel Piano delle Cinquemiglia (Rivisondoli 1990), corredato di una prefazione di D. Fucinese.

Il Santuario di S. Maria di Costantinopoli, meglio conosciuto come quello della Madonna di Portella, sorge in territorio di Rivisondoli sulla sommità di un colle, dai cui declivi comincia ad estendersi in direzione di Roccapia il Piano delle Cinquemiglia. Fino ad alcuni decenni fa la strada nazionale
proveniente da Roccaraso passava proprio davanti al Santuario. La costruzione di una galleria sotto il colle della Portella ha agevolato la sicurezza del traffico in questo tratto di strada, molto pericoloso per la viabilità, ed ha restituito nello stesso tempo alla chiesetta un po’ di quella quiete che ha costituito da secoli la cornice del suo fascino. Va ricordato che di Santa Maria della Portella esiste un bellissimo acquerello contenuto nel libro di viaggio di A. macdonell, In the Abruzzi” (Londra 1908), che ci mostra come era il Santuario agli inizi del nostro secolo, costellato cioè di edicole rappresentanti le “stazioni” della Via Crucis. Ed era proprio una via crucis in passato, la strada che da Castel di Sangro si dirigeva a Sulmona attraverso il Piano delle Cinquemiglia. Scomparsi i torrioni fatti erigere da Carlo V, uno ogni miglio, a difesa dei viandanti sorpresi sul Piano dalle tempeste atmosferiche[5], il Santuario della Madonna di Portella costituiva l’ultimo punto di riferimento per coloro che d’inverno si accingevano ad attraversare la terribile e desolata pianura in direzione di Roccavallescura, cioè l’odierna Roccapia[6]. Va ricordato, come narra Paolo Giovio, che sul Piano perirono nel 1528 a causa di una bufera di neve ben 300 fanti veneziani della “Lega Santissima”, diretti a Napoli. Non pochi viandanti, prima di attraversare il Piano delle Cinquemiglia, facevano testamento e si intuisce perciò la loro angoscia allorché, lasciato l’eremo della Madonna di Portella, si mettevano in cammino verso
l’ignoto.

A Marcello Romito – e rientriamo in argomento – va attribuito il merito di una vera e propria scoperta. Il Santuario della Madonna di Portella costituisce infatti l’ampliamento di una preesistente cappella dedicata a San Cristoforo, documentata dal 1442 al 1572, di cui si era persa lentamente la
memoria. È sopravvissuto però fino ai nostri giorni un toponimo, il Piano di San Cristoforo, sito nei pressi del Santuario, che ha rappresentato la premessa per tutte le ricerche, in definitiva fruttuose, dell’Autore.

Dopo aver sottolineato che nei pressi del Santuario della Madonna di Portella si snodava il tratturo Celano-Foggia, il Romito ricorda “un’antica credenza pastorale, secondo la quale non sarebbe morto in quel giorno il pastore che fosse riuscito a vedere una immagine di San Cristoforo. Da cui le ricorrenti raffigurazioni del Santo in chiesette ed edicole che scandivano il cammino lungo i tratturi”. In realtà, come si è visto in precedenza, il patronato di San Cristoforo è molto più vasto e non si esercita solo sui pastori, ma su tutti i Wanderer, a qualunque titolo questi siano in cammino. Nel culto professato a Rivisondoli confluiscono tutti gli aspetti devozionali ricordati, perché si attribuiva al santo la capacità di consentire, senza pericoli, il guado del Piano di San Cristoforo, situato come si è detto nei pressi dell’antica chiesetta a lui dedicata e che era coperto costantemente da acque ristagnanti. Le difficoltà che questo piano acquitrinoso creava ai rivisondolesi che si recavano a legnare nei boschi limitrofi erano intense ed ancora evidenti nella seconda metà del secolo scorso. Opportunamente il Romito ricorda a proposito un episodio legato alle vicende dell’Unità d’Italia. Il 21 ottobre 1860, diretto all’incontro con Garibaldi a Teano, passò qui proveniente da Sulmona Vittorio Emanuele II. “Vi era gran folla di popolo – scrive Romito – assiepata ai lati della strada, quando d’un tratto dalla calca si libera una giovane donna… che implora il re di porre rimedio ai disagi dei nativi col voler disporre la costruzione di quel tratto di strada necessario a superare l’acquitrino… Di lì a qualche tempo la strada venne effettivamente realizzata”.

Il protettorato esercitato da San Cristoforo sulle acque si evince anche, a giudizio del Romito, dalla “tradizione, antichissima e di chiara origine pagana, con evidente significato lustrale, del passalacqua, che tuttora si svolge sul colle della Portella, il lunedì di Pasqua”. Non è questa la spiegazione
della “scampagnata” del Lunedì in Albis, che solo in alcune aree abruzzesi è nota con l’espressione “passar l’acqua” e non sempre implica l’attraversamento di un corso d’acqua. Ma su questa interessante tradizione popolare, non “di origine pagana”, contiamo di tornare appena possibile sulle pagine della “Rivista Abruzzese”. Quel che conta è comprendere perché San Cristoforo sia annoverato fra i numi indigeti delle nostre contrade. “I meschini abruzzesi – scriveva nella prima metà dell’800 il notaio Filippo Destephanis di Pettorano – sono obbligati andar raminghi l’inverno o nell’Agro Romano, o a Terra di Lavoro, o alle Puglie, imitando gli armenti, pervero anche in Calabria”. Non erano solo i pastori ed i pescatori a mettersi in cammino, per terra o per mare, ma carbonai, scalpellini, ferrai, calcaròli, arcari e via dicendo, per tacer poi di altre maestranze specializzate nei mestieri più strani ed inimmaginabili, come per es. i vielestriéri (balestrieri) di Villalago, specializzati nell’arte di bonificare i terreni dai topi che danneggiavano le colture cerealicole. Da sempre l’Abruzzese è stato dunque “viandante”, un ewiger Wanderer inquieto ed insoddisfatto, che conserva il marchio indelebile del wandern impressogli dal lento ed inesorabile trascorrere del tempo. E tale resterà, finché il sole brillerà sulle sciagure umane.


[1] A. De nino, Tradizioni popolari abruzzesi, a cura di B. Mosca, vol. I, p. 211; L’Aquila 1970.

[2] G. Susi, Introdacqua nella Storia e nella Tradizione, p. 303: Sulmona 1970.

[3] Cfr. Wörterbuch der deutschen Volksunde, a cura di R. Beitl, s.v. Cristophorus, Stutgart 1974.

[4] V. Dini, II potere delle antiche madri, pp. 126 sgg., Torino 1970. L’A. fa una analisi completa di tutti i patronati di S. Cristoforo, chiamato anche “il santo della lame, colui che riesce a risolvere l’ansia alimentare delle popolazioni colpite dalle carestie e dal cronico pauperismo”.

[5] Una efficace descrizione dei “fenomeni del Piano” si trova nella nota opera di G. liberatore, Ragionamento Topografico-Istorico-Fisico-Ietro sul Piano delle Cinquemiglia”, Napoli 1789, ed in A. pigonati, l.a parte di strada degli Apruzzi da Castel di Sangro a Sulmona”, Napoli 1783. Tra il Pigonati ed il Liberatore sorse un’aspra polemica sulla scelta del tracciato della strada da costruirsi da Castel di Sangro a Sulmona. Contro la tesi del Liberatore, il quale riteneva che l’arteria dovesse passare per Pescocostanzo e Bosco di S. Antonio, prevalse il progetto del Pigonati, che prevedeva appunto la costruzione della Real Strada di Fabbrica lungo il Piano delle Cinquemiglia. L’arteria tu completata durante il legno di G. Murat, donde la designazione di Via Napoleonica che essa in un tratto ha conservato fino ai nostri giorni.

[6] Nel periodo medievale il Piano delle Cinquemiglia costituiva il tratto cruciale della Via degli Abruzzi, arteria annoverata “tra i grandi itinerari commerciali, diplomatici, culturali e militari dell’Italia trecentesca”, Cfr. F. sabatini, La Regione degli Altopiani Maggiori d’Abruzzo. Roccaraso-Pescocostanzo, p. 68; Roccaraso 1960.




A PROPOSITO DEL CULTO DI SAN MICHELE ARCANGELO

di Franco Cercone

[Articolo pubblicato in “Orizzonti Angolani”, Giornale quindicinale, Anno X, n° 5 e 6, Terza pagina, Città Sant’Angelo maggio-giugno 1989]

Una lettera inviata da un gruppo di lettori al Direttore del periodico “Orizzonti Angolani” (gennaio-febbraio 1989) sul culto di S. Michele Arcangelo in Città S. Angelo, Montesilvano ed “altri centri del Pescarese”, suscita alcune riflessioni su un periodo di storia, quello appunto relativo alla dominazione longobarda, che ha lasciato impronte significative in Abruzzo sia sulla toponomastica che sulla religiosità popolare.

Va subito notato, come sottolinea F. Sabatini, che “la mancanza di indagini regionali approfondite non ha permesso di valutare, finora, la consistenza e il numero degli insediamenti longobardi in Abruzzo”, creatisi in seguito all’invasione dell’Umbria da parte di Faroaldo, fondatore del ducato di Spoleto. Sono note poi le vicende che portarono al consolidamento in Abruzzo degli insediamenti stessi, Fare” ad opera di Ariolfo e Zottone. A quest’ultimo si deve tra l’altro l’impresa che portò alla conquista del Sannio ed alla formazione dell’altro potente ducato di Benevento.

La cerniera fra i due ducati di Spoleto e Benevento era costituita dalla valle del Sangro e, dagli scarsi documenti coevi, non sempre risulta chiara l’appartenenza ad uno oppure all’altro ducato delle terre comprese fra la riva sinistra del Sangro ed il fiume Pescara, a nord del quale si estendeva comunque il dominio del ducato spoletino.

È noto come in data 8 maggio dell’anno 663 si svolgesse nei pressi di Siponto, l’odierna Manfredonia, una battaglia navale tra Longobardi e Saraceni e come quest’ultimi restassero sconfitti grazie all’apparizione, ad un duce longobardo, dell’immagine di S. Michele Arcangelo in una grotta sita proprio sul promontorio garganico ed antistante allo specchio d’acqua in cui si svolse lo scontro.

Sulla scia di tale episodio, i Longobardi, ormai convertiti al Cristianesimo, dedicarono grotte e monti al Santo “Guerriero” che ben rappresentava i valori della stirpe germanica, e particolarmente ricca appare l’area abruzzese di toponimi dedicati all’Arcangelo (ben presto alterato in “Sant’Angelo”) in conseguenza di presenze di chiese o grotte dedicate a San Michele. Famosa per il culto popolare è la grotta sita nelle vicinanze di Civitella del Tronto, meta fino al secondo dopoguerra di spettacolari pellegrinaggi.

Dopo l’episodio di Siponto, in precedenza ricordato, si diffuse tra le popolazioni di stirpe longobarda insediate nel centro della Penisola la pia consuetudine di effettuare, almeno una volta l’anno, pellegrinaggi alla grotta-santuario del Gargano e (particolarità questa davvero rilevante) anche l’usanza di intitolare a Sant’Angelo tutte le grotte che si rinvenivano durante il viaggio di ritorno.

Quelle che sono sopravvissute nell’attuale toponomastica abruzzese sono all’incirca una decina, come ricorda il Toschi, ma in origine erano numerosissime e di esse si è persa memoria perché non legate

a fiere e mercati che si svolgevano, in concomitanza dell’8 maggio, in un qualsiasi centro posto non molto distante dalla stessa grotta. La festa di S. Michele Arcangelo veniva a cadere infatti in un momento critico dell’attività coltivatoria ed in Abruzzo è molto noto il detto secondo cui “se a S. Michele piove, ogni coppa ne fa nove”.

Ora, mettere in rapporto l’origine del toponimo Città S. Angelo con la vestina Angulum è del tutto improprio, nel senso che Sant’Angelo non costituisce alterazione da Angulum (“terra fortificata sporgente a forma triangolare”, Livio, XXI, 7,5), ma rappresenta invece un toponimo di chiara origine longobarda, scaturito dalla presenza in loco di una grotta dedicata a San Michele Arcangelo probabilmente fin dal VI secolo e da una chiesa sorta contemporaneamente o successivamente sub eodem titulo.

Va corretta pertanto l’affermazione del gruppo dei lettori angolani, secondo cui “il culto di S. Michele Arcangelo (…) si ritrova anche lungo la vallata del Pescara”, nel senso che, come chiarisce il Sabatini, tale culto “ebbe una penetrazione capillare in Abruzzo” e si rinviene pertanto un po’ovunque nella nostra Regione.

Ma va soprattutto corretta l’altra affermazione, secondo cui S. Michele Arcangelo era il “protettore di quelle persone cui erano affidate le greggi”, cioè dei pastori transumanti.

La transumanza infatti, fenomeno già ricordato da Varrone nel De Re rustica, presuppone che due aree geografiche, la montuosa e quella pianeggiante, facciano parte di uno stesso sistema politico, condizione, questa, che dopo la caduta dell’impero romano riaffiora nel centro-meridione solo a partire dalla dominazione normanna. La diffusione del culto di S. Angelo nell’area abruzzese ed altrove è precedente pertanto alla ripresa dell’attività della transumanza verso il Mille e non si deve ai pastori ma agli stessi Longobardi stanziati in Abruzzo. Sarà invece grande merito dei pastori transumanti quello di diffondere, nella nostra regione (a partire dal XII secolo) il culto per il loro Santo protettore, cioè San Nicola di Bari. Ed è quanto si evince appunto dalle prime Bolle Corografiche del XII secolo.




IL SACRO TERRORE DELL’ACQUA

Radici storiche e antropologiche del culto di san Giorgio a Grosio.

[Pubblicato in “Il Graffito”, mensile di informazione e cultura a cura della Biblioteca Civica di Grosio, Anno III, n° 6, Grosio (So.) Giugno 1988.]

Le ricerche condotte nell’ultimo ventennio dagli Istituti Universitari di Antropologia Culturale e Storia delle Religioni nel campo, in parte ancora inesplorato, della religiosità popolare, sono risultate estremamente proficue grazie ai nuovi metodi di indagine usati dallo strutturalismo – soprattutto dal Levi-Strauss – nelle società cosiddette «primitive» o, meglio, di interesse etnologico.

È emerso così che il «fatto demologico›› non appare più un episodio isolato e proprio di un particolare gruppo sociale, ma si inserisce in una tipica struttura o modello comportamentale da cui è possibile enucleare leggi universali. Ed una di queste leggi evidenzia il principio secondo cui il culto per un determinato Santo non è mai casuale, ma costituisce la proiezione di bisogni protettivi propri di una comunità sociale, esposta a rischi esistenziali costanti ed incombenti sia sulle persone fisiche che sui beni. Si pensi per esempio al culto di S. Antonio Abate per l’importanza che il maiale rivestiva nell’economia della famiglia contadina italiana oppure a quello di S. Giuseppe, tipica proiezione del culto per il padre, nelle aree geografiche a forte emigrazione stagionale.

Si assiste in ogni cultura ad una affannosa ricerca di protezione e di sicurezza attraverso un ordinato ed efficiente simbolismo che possa dare risposte al negativo esistenziale.

DRAGHI

Il timore delle forze negative, presenti in ogni elemento e in particolare nell’acqua, reclama il controllo di tale elemento ed il suo aggiogamento, specie quando si tratta di corsi d’acqua che improvvisamente possono uscire dal loro alveo per distruggere case e raccolti o travolgere uomini e animali.

E il rischio esistenziale cui sono soggette le società lacustri o fluviali le quali assistono impotenti allo scatenarsi delle forze della natura, allo straripamento dei fiumi, al formarsi di vaste paludi, rese insicure dalla malaria e dalla massiccia presenza di bisce acquatiche o serpi ivi trascinate dalla piena delle acque.

ln base ad un principio, ormai codificato, di proiezione del teriomorfismo agli elementi fisici e naturali (cfr. Malinowsky), le spire dei fiumi, il loro snodarsi flessuoso o contorto, il loro sparire a tratti in profondi meandri ed il loro riapparire all’improvviso in superficie, portano ben presto l’uomo ad identificare il fiume con giganteschi serpenti o mitici dragoni.

«Lo straripamento dei fiumi, nota il Pansa, le paludi mefitiche, i siti lacustri infetti da malaria, sono fenomeni naturali che il Medioevo impersonò costantemente nella figura del dragone». Cosi, il drago fugato da San Romano a Rouen nel 720 personifica l’inondazione della Senna; quello di Tarascona è il Rodano che, straripando, arreca danni alla città. Le due enormi figure di serpenti scolpite nella cattedrale di Grenoble si spiegano con la stessa iscrizione incisa sulla facciata e secondo la quale «serpens et draco devorabunt urbem». Infatti la città è situata sull’imboccatura del fiume Drac, nell`lsère, i cui meandri tortuosi somigliano alle “spire” di un serpente.

CAOS ACQUATICO

La lotta di San Giorgio contro il drago (animale già presente nell’Apocalissi di Giovanni nell’equazione draco qui est diabolus”), rappresenta dunque, come ben ha evidenziato V. Dini ne “Il potere delle antiche Madri. Fecondità e culto delle acque nella cultura subalterna toscana” (Boringhieri l980) non solo la vittoria sull’idolatria (drago), ma anche quella sulle forze naturali “malvagie”, soprattutto le inondazioni, e si traduce nella immediata sconfitta delle medesime grazie all’azione salvifica svolta sia da San Michele Arcangelo, assurto a patrono dei Longobardi, che da San Giorgio, il cui culto si diffonde ben presto proprio nell’ambito di quei gruppi sociali insediati lungo i corsi d’acqua o sui laghi. Il suo irraggiamento nell’area occidentale, intessuto di leggende[1] , si deve soprattutto ai monaci Basiliani, il cui compito consisteva tra gli altri nel bonificare le zone paludose affette da malaria. Già nell’VIII secolo il Santo viene raffigurato nell’area balcanica su un cavallo mentre trafigge un drago. Va corretta pertanto l’affermazione che si legge nel bel volume La chiesa di San Giorgio a Grosio secondo cui «solo all’epoca delle Crociate si inizia a ritrarre San Giorgio montato a cavallo oppure nell’atto di uccidere il drago…››.

Nello stesso volume è ben evidenziata tuttavia l’area di diffusione del culto di San Giorgio sia in Valtellina che nel Lario, territori caratterizzati da forte rischio a causa delle inondazioni dell’Adda e di altri corsi d’acqua minori per l’elevato indice della piovosità.

«Vi è – scrive A. Di Nola nel suo primo volume di Storia delle Religioni – una ambivalenza fondamentale dell’acqua che si presenta come lo strumento della prosperità ed anche come forza eversiva», il che comporta per determinati gruppi sociali «un permanente rischio di emersione del caos acquatico e di crollo delle strutture sociali in uno status primordiale che è quello delle acque morte paludose o della piena violenta dei fiumi».

RUPE MAGNA

La valle dell’Adda presenta degli idronomi significativi al riguardo (Isolaccia, Morbegno) ed evocanti appunto lo status di un «caos acquatico», di «non vita», con tutta l’angoscia che comporta il sovvertimento subìto dall’habitat durante le alluvioni.

Pertanto, sottolinea il Dini, la rabbia del fiume deve essere calmata. Nei suoi pressi i nostri progenitori   costruivano templi o erigevano altari e a tale scopo fungeva benissimo anche un masso o una rupe mai inghiottita, per lo strano giuoco delle correnti, dalla furia delle acque e per tale motivo rivestita di carattere sacrale.

Pur nel lungo trascorrere del tempo, l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla incontenibile violenza dei fiumi non è mutato di molto. Per scongiurarla oggi si prega nelle chiese, un tempo invece, come per esempio a Grosio, sulla Rupe Magna, elevando le braccia al cielo in segno di supplica ed invocando a gran voce gli dei uranici.

Questo è il messaggio che gli uomini del neolitico, stanziati nel bel sito di Grosio, hanno scolpito sulla roccia per tramandarlo ai loro posteri. ln tal senso, Grosio attende ancora una importante pagina di storia che, finora, non è stata scritta.


[1] Si sa ben poco della vita di S. Giorgio legata ad una «passio» anonima del VII secolo: cfr. K. Erhard, Der Heilige Georg in der griechischen Uberlieferung, München 1911; P Toschi, La leggenda di S. Giorgio nei canti popolari italiani, Firenze 1964.




IL CULTO DI SANT’AGATA A CASTEL VECCHIO SUBEQUO

Le fonti “galattogene” nella tradizione popolare abruzzese

di Franco Cercone

[Pubblicato in “Quaderni di Tradizioni Popolari di Castel Vecchio Subequo e della Valle Subequana” Quaderno N. 1. A cura del Comune di Castelvecchio Subequo (Aq.), 1988.

N.d.r.: L’articolo è integrato con annotazioni ed integrazioni apportate successivamente dall’A.]

È nota a tutti una vecchia filastrocca riportata anche dal De Nino nel primo volume dei suoi Usi Abruzzesi e relativa ai giorni della prima settimana di febbraio:

«Agli due é la Cannelora,

agli tre Sante Biasce,

agli quattro n’è chibelle,
agli cinque Sant’Agata bella» [1]

Agata, giovane catanese convertita al cristianesimo, subisce come sembra il martirio sotto Decio o forse sotto Diocleziano nel 251.

In base ad una Passio sorta molto tardi, probabilmente nel corso del VI secolo, la Santa appare depositaria di molti protettorati. Tra l’altro, poiché era invocata durante le eruzioni dell’Etna e quindi anche in occasione di incendi, essa è raffigurata spesso con una fiaccola presso una casa in fiamme o con una candela accesa in mano, specie in Austria e nella Germania meridionale dove ben presto il suo culto si diffonde in modo capillare ed assurge anche a protettrice dei minatori[2], mentre in Italia diventa addirittura patrona dei fabbricanti di campane.

In occasione del martirio alla vergine catanese furono recise le mammelle[3] e pertanto Sant’Agata venne invocata ben presto a salvaguardia delle malattie del seno ed in particolare dalle puerpere
affinché mai venisse loro a mancare quel prezioso alimento che è appunto il latte materno e sul quale esse da sempre hanno fatto affidamento per la nutrizione dei bambini.

Per le donne del mondo rurale, sottolinea efficacemente il Dini, «la mancanza del latte rappresenta un dramma che coinvolge brutalmente l’esistenza della prole, perché nello stato precario in cui si
trovano le masse contadine sarebbe stato quasi impossibile ricorrere a forme sostitutive (altra nutrice o diverse forme di alimentazione lattea), possibili solo per le classi abbienti»[4].

Questa situazione angosciante è ben descritta da A. Macdonell nel suo noto libro di viaggio In the Abruzzi[5],in cui l’A. sostiene peraltro che la storia d’Abruzzo è stata scritta più dalle donne che dagli uomini, i quali come pastori transumanti o perché impegnati in altre attività erano costretti a restare per la maggior parte dell’anno lontani da casa. Il duro lavoro sui campi e nei paesi di montagna anche il trasporto della legna – come si vede nella celebre tela Bestie da soma del Patini – costituivano una costante minaccia per la salute della donna, che temeva dopo il parto la formazione del latte stracco nel seno, cioè il latte reso poco nutriente dalle fatiche giornaliere. Donde il ricorso sia all’acqua di particolari sorgenti, ritenute per antica tradizione “galattogene” ed affidate alla protezione di particolari sante, fra cui in Abruzzo Sant’Agata, Santa Scolastica e Sant’Eufemia, che alla Madre di tutte le madri, a quelle Madonne cioè che effigiate nel momento sublime di allattare il Bambino, hanno dato luogo alla tipologia delle Madonne del latte di cui residuano in Abruzzo numerosi esempi: nelle tele (come la stupenda Madonna del latte di Matteo da Campli), negli affreschi (come quelli che si ammirano nella chiesa del XII secolo di Santa Maria ad Cryptas, a Fossa , ed in quella cinquecentesca di San Francesco a Carapelle Calvisio) e nella scultura[6].

Secondo il Reau la “Madonna che allatta” non è altra che la “Madonna delle Grazie” ed a tal proposito la Pasculli-Ferrara chiarisce che si tratta di “un tema caro all’iconografia cristiana, già sin dal medioevo, e sarà invece vietato all’epoca della Controriforma, perché considerato indecente e con chiari legami alla leggenda pagana di Giunone nutrice, e della Via Lattea”[7].E’ una tesi questa da accettarsi, a nostro avviso, con le dovute riserve, in quanto nella grande maggioranza le chiese erette sub titulo della “Madonna delle Grazie” non annoverano affreschi o statue  raffiguranti la Madonna che allatta il Bambino, tema questo caro anche a Leonardo, come dimostra la Madonna del latte conservata nel Museo di San Pietroburgo. Una rilevante eccezione è costituita in area peligna dalla statua in legno policromo conservata presso la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Rocca Pia e che si distacca artisticamente dalle tipologie consuete, in quanto la Vergine è rappresentata, come evidenzia O. Leone,”in piedi e con il Bambino sul braccio sinistro, mentre con l’indice e il medio della mano sinistra preme la mammella come per far uscire il latte”[8]

Oltre che alla Madonna è ad alcune sante cui le donne del mondo rurale si rivolgono tuttora e fra esse va annoverata soprattutto Sant’Agata, che detiene insieme a Santa Scolastica e Sant’Eufemia il potere di far accrescere il latte nel seno materno. Alla luce delle testimonianze e fonti storiche in nostro possesso, esso sembra più antico rispetto al patronato contro le malattie del seno, fra le quali vanno necessariamente comprese anche le manifestazioni ipogalattiche.

 «La mancanza del latte in alcune puerpere veniva attribuita a forze malvagie ed a fatture. Le conseguenze della ipogalattia erano ritenute veramente drammatiche (mortalità infantile), specialmente se il lattante non trovava adattamento a latte animale (capra o mucca). In questi casi (allergia al latte animale) l’unica soluzione era rappresentata dal prestito del latte, dalla presenza di una balia oppure dal ritorno della funzione lattea della madre, affidata alle fontane, alle pietre lattaiole, alle erbe galattofore, agli interventi della Madonna e di altre sante…»[9].

Nell’economia dei gruppi sociali rurali subalterni appariva prioritaria, come sembra, l’esigenza dell’abbondanza di latte materno rispetto alla difesa del seno da molteplici malattie di diversa natura. Non a caso infatti, nel quinto volume degli Usi e Costumi Abruzzesi, nessun cenno fa il De Nino di tali malattie in un capitolo intitolato, e ciò è significativo, Tumori, che si ricollega tuttavia a quanto lo studioso peligno sottolinea nel citato primo volume degli Usi.

Il ricorso a tante e benefiche Madonne del latte, implorate dalle donne nei casi di ipogalattia o malattie del seno, si associa diacronicamente a culti e pratiche votive idroterapiche mediante abluzioni rituali presso alcune fonti situate in un determinato spazio sacro, caratterizzato da ierofanie, e che si caricano di conseguenza di sacralità[10]. È lo spazio reso sacro dalla erezione del tempio (prima) e della chiesa (dopo) che rende sacra la fonte e ci sembra che l’analisi degli aspetti cultuali di Sant’Agata in area subequana confermi tale ipotesi.

La festa di Sant’Agata si svolge a Castelvecchio Subequo nel pomeriggio del quattro febbraio con particolare solennità e grande concorso di devoti, provenienti soprattutto dai centri limitrofi[11].

I complessi rituali che riguardano il culto professato alla Santa stanno diventando, anno per anno, oggetto di studio da parte di antropologi culturali, demologi e storici delle religioni, sicché il bel capoluogo dell’area subequana, da considerarsi oggi l’unico centro devozionale agatiano in Abruzzo, rappresenta uno degli importanti tasselli che compongono quel meraviglioso mosaico che è appunto il folklore peligno. Di una chiesa dedicata a Sant’Agata in Castello Vetulo (così appare il toponimo Castelvecchio nei primi documenti medievali) si parla già nella Bolla Corografica di papa Clemente III, emanata il 5 aprile 1188, ma essa deve considerarsi preesistente a tale data.

La Bolla suddetta menziona tutte le chiese esistenti in tale periodo a Castelvecchio Subequo e precisamente: Ecclesiam Sancti Johannis, Sancte Marie, Sancti Pamphili, Sancte Marie, Sancte Agathes, Sancti Andree, Sancti Angeli, Sancti Cosime, Sancti Petri, Sancti Jacobi, Sancti Nicolai, Sancti Thome, Sancti Pauli, Sancti Jagobi, Sancti Tusci, Sancti Potentis»[12].

Tali chiese, certamente di piccole dimensioni, erano per lo più rurali e di conseguenza molte di esse erano situate extra muros, come appunto quella attuale di S. Agata, sorta probabilmente sui resti dell’antico edificio menzionato nella Bolla Corografica del 1188 ed andato distrutto forse in seguito a terremoti.

Una prima descrizione, anche se succinta, della festa di Sant’Agata a Castelvecchio Subequo si deve ad Antonio De Nino ed essa riveste comunque una certa importanza perché ci permette di seguire
l’evoluzione degli schemi rituali in un arco di tempo superiore ad un secolo:

«Nelle vicinanze di Castelvecchio Subequo – scrive appunto il De Nino in un brano dal titolo: Abluzioni in Sant’Agata – alla contrada Macrano, c’è una chiesuola dedicata a Sant’Agata. Di che sia
protettrice Sant’Agata, lo sanno anche i bambini che poppano. Presso la chiesuola sgorga una limpida fontana che prende nome dalla Santa. Alla Santa, nel giorno della festa, vanno a carovana le donne, specialmente a prima mattina. E chi credete voi che si raccomanda con più devozione? La giovane forse o la vecchia? La maritata? Problema difficile. È certo che le giovanette pregano di cuore… Pregano di cuore anche le maritate perché senza le mammelle buone, c’è il danno del terzo e del quarto (figlio)… Dopo le preghiere, sempre fervorose, si va alla fontana di Sant’Agata. Le mani corrono sotto la gola, si slaccia la camicia e colle giumelle si attinge acqua e si fanno lavande. Così
ogni male starà lontano»[13].

Non meno interessante risulta una pagina del Pansa che ci permette di allargare la conoscenza dell’orizzonte devozionale sia di Sant’Agata che di tante altre sante, particolarmente venerate in Abruzzo per essere galattofore e capaci di prevenire ogni male che possa colpire il seno materno:

«Presso Castelvecchio Subequo (Aquila), nella contrada Macrano, è una fonte detta di S. Agata, dove le donne vanno a fare le abluzioni alle mammelle per provocare l’uscita del latte. Al convento di S. Francesco, a Valle Verde, presso Celano (Aquila), per avere il latte alle mammelle, le donne vanno a bere ad una fonte limpidissima, gettando nell’acqua dei chicchi di grano o delle briciole
di pane. A Lanciano le donne alle quali viene meno il latte, si recano alla fonte di S. Eufemia (Sanda ‘Fumìjee o Mummìje) sulla Maiella portando il grano sul petto ed una bottiglia di vino che dev’essere tracannata dal primo che s’incontra per la via. Arrivate alla fonte debbono nel curvarsi, far cadere alcuni chicchi di grano nell’acqua; ed il latte crescerà mano mano che quei chicchi, ammollandosi, si gonfieranno. Quelle che da Fara Filiorum Petri (Chieti) vi accorrono per lo stesso motivo, portano via da quella fonte, a fine di conservarli per devozione, dei ghiaiottoli (brècche). Alle donne che vi si recano da Chieti il sacrestano della Madonna della Misericordia, dov’è la statua di S. Eufemia, regala dei ceci che quelle mettono in una borsetta e portano al collo, come un breve, fino a che non torna il latte. A Lanciano ed altri paesi Sanda Fumìje è sinonimo di latte. Fra Torricella e Gessopalena (Chieti) si trova pure una fontana dedicata a S. Agata, dove si praticano le abluzioni alle mammelle. Le divote che vi si recano da Roccascalegna (Chieti), debbono, durante il tragitto, fare elemosina a qualche povero viandante di un pane e di un soldo. Giunte alla fontana, usano gettarvi dei chicchi di nove spècie di legumi ed una moneta. Nel ritornare poi al paese, debbono battere una via diversa da quella percorsa, e prima di entrarvi sono obbligate ad accettare la farina in nove case diverse, farne le sagne e, senza condimento di sorta, offrirle ai poveri o ad altre persone che passano davanti all’uscio di casa, riservando per sé il solo brodo. Alla fonte di S. Scolastica (S. Sculastre), la cui acqua si crede sorta miracolosamente dalle rovine d’un’antica chiesa dedicata a quella santa, accorrono le divote di Campli (Teramo) per far ritornare il latte alle mammelle. Ma tanto nell’andare che nel tornare, debbono fare l’offerta d’un pezzo di pane a chiunque s’incontra per la via, fosse pure un grande signore o un principe. Nel tenimento di Corropoli e presso la villa Garrufo, pure nel Teramano, sorgono due chiese rurali dedicate a S. Scolastica. Il dieci febbraio d’ogni anno vi si recano in pellegrinaggio le donne della vallata, coi loro mariti, e dopo aver praticate le solite abluzioni alle mammelle, vi tengono dei banchetti. Vi accorrono anche le vecchie le quali trovandosi alcune volte nella necessità di provvedere al sostentamento di qualche nipote rimasto orfano e non avendo mezzi per affidarlo ad una nutrice, adempiono alle stesse pratiche, come usano le giovani. V’è chi dice che, dopo il rituale banchetto celebrato davanti alla chiesa, le mammelle di quelle vecchie sono state viste rigonfiare e il cibo cangiarsi in latte!

Le donne di Gessopalena (Chieti) vanno a bere l’acqua della fonte della Sàise (=sése, zizza, mammella), e dopo aver bevuto e recitato le litanie, si bagnano il petto con quell’acqua»[14].

Tutte le località menzionate dal Pansa, eccezion fatta per Garrufo, non sono più meta di pellegrinaggi e sono cadute in disuso le abluzioni preposte a favorire abbondanza di latte ed a scongiurare
qualunque malattia del seno. Se, dunque, Castelvecchio è il principale e più importante centro cultuale di Sant’Agata in Abruzzo, altrettanto occorre dire per Garrufo relativamente al culto di Santa Scolastica, sulla cui acqua galattogena e miracolosa, dalle proprietà simili a quella di Sant’Agata, il Braccili nota quanto segue:

“II 10 febbraio di ogni anno, in occasione della festività di Santa Scolastica, protettrice delle “donne che allattano”, le puerpere d’Abruzzo si danno appuntamento a Garrufo, un paese della Val Vibrata
in provincia di Teramo, nei pressi di un pozzo detto di Santa Scolastica.

Le donne, preoccupate per la diminuzione del latte da dare ai propri figli, bevono con devozione l’acqua attinta dal pozzo con un vecchio secchio. Sono molte le donne che credono nelle virtù taumaturgiche di quell’acqua che pure non presenta alcuna particolare sostanza farmacologica.

Questo rito è legato alla credenza popolare secondo la quale la puerpera, quando vede scemare la quantità del proprio latte, ne attribuisce la causa all’invidia di qualcuno che le fa il malocchio. Oltre alla difesa sacrale, vi sono anche rimedi empirici, costituiti dalla medaglia di Sant’Agata, portata sempre appesa al collo, ed il cosiddetto latteruolo, che è costituito come ricorda il De Nino da un acino di vetro o di argilla, verniciato e forato.[15]

A Schiavi d’Abruzzo invece il protettore delle puerpere è San Felice, cui nella frazione di San Martino è dedicata una fontana chiamata fonte lattiera. Qui le donne che non possono allattare convengono dal vicino Molise e persino dalle Puglie per bere l’acqua e farsi tornare il latte. La pratica si applica sia alle donne che agli animali e consiste nel mangiare e bere alla fontana lasciandovi qualcosa: un capo di vestiario o una pagnotta di pane”[16].

Come si è visto, il De Nino sottolinea che le abluzioni votive avvenivano nel secolo scorso a Castelvecchio Subequo «di prima mattina», mentre oggi il momento culminante della festa si svolge nel pomeriggio del 4 febbraio, quando cioè ultimata la funzione religiosa nella chiesetta di
Sant’Agata, la popolazione devota si riversa sul piazzale antistante alla fonte Sant’Agata, già gremita del resto di fedeli intenti alle abluzioni rituali o ad attingere l’acqua da riportare a casa per le persone anziane che non sono potute intervenire alla semplice quanto toccante cerimonia. L’acqua attinta   direttamente alla fonte non viene trangugiata, ma bevuta a sorsi lenti e ciò rientra nello schema comportamentale richiesto dalla solennità del rito.

Nessun cenno fa invece il folklorista peligno dei pani votivi a forma di seno (seno di Sant’Agata) cotti nel corso della notte precedente proprio ad istanza del comitato dei festeggiamenti, il quale provvede ad allestire nei pressi della fonte un modesto stand in cui vengono offerti a modico prezzo non solo i pani ma anche salumi locali, vino ed altri prodotti.

Da una signora di Secinaro presente alla festa nel febbraio di alcuni anni fa e residente a Toronto, abbiamo appreso che i pani a forma di seno vengono inviati anche in Canada ed in America, essendo molto richiesti da persone originarie dei paesi della valle subequana, da tanto tempo emigrate oltre oceano[17].

I pani di Sant’Agata costituiscono, insieme alle abluzioni ed alle bevute votive dell’acqua della fonte, i mezzi di difesa sacrale contro ogni male che possa colpire il seno della donna, vanno distinti nei due aspetti: la forma e la sostanza, cioè il pane in sé. Oltre che ad una funzione apotropaica, la forma ubbidisce ad un atto di magia simpatica, perché la purezza del seno della martire catanese assicura anche la purezza del seno delle devote, in base appunto al noto principio che il simile produce simile.

Circa il secondo aspetto va sottolineato che la riproduzione del seno di Sant’Agata è sempre affidata al pane, cibo sacrale che ha condizionato da sempre la vita dell’uomo e non a caso è proprio il pane quotidiano che si implora nel Pater Noster.

Al riguardo A. Di Nola sottolinea che «La diffusione dei pani benedetti è molto nota per tutta l’Italia. È liturgia popolare molto antica, nella quale la potenza magico-apotroapica del pane viene fatta
discendere dalla figura mitica cui lo si connette: qui sant’Antonio, altrove san Nicola… e in un caso singolare la stessa Vergine Maria, proibendo il canone 79 del Concilio Quinisesto Trullano dell’anno 692, di preparare pani in forma della placenta della Madonna…»[18] .

Per quanto concerne le abluzioni votive o il semplice rito di bere l’acqua alla fonte, occorre notare che la loro funzione protettiva è esplicata ed assicurata essenzialmente nel dies natalis di Sant’Agata,
quando appunto le acque sono pregne di poteri curativi, analogamente a quanto avviene per certe erbe, per la guazza ecc., che acquistano particolari proprietà solo nel giorno del solstizio estivo (notte di
San Giovanni). Affinché dunque le acque, come nel caso della fonte di Sant’Agata, esercitino un potere apotropaico e galattogeno, occorre che esse siano utilizzate in un tempo sacro, contrapposto ad un tempo profano, che coincide con il giorno di festa della martire catanese.

È singolare tuttavia la circostanza che nella Passio di Sant’Agata, composta come si è detto nel corso del VI secolo, non si parli minimamente di acqua associata al culto della Santa o presente in una delle
leggende agiografiche formatesi attorno alla martire in Sicilia.

Sicché deve necessariamente supporsi che sia le abluzioni rituali che le pratiche idroterapiche affondino le proprie radici in una religiosità etnica superequana più antica che è stata poi mediata nei bassi tempi medievali da altre «potenze» cristiane.

Uno spiraglio interpretativo ci è offerto al riguardo dalle recenti indagini archeologiche svolte nell’area superequana ed in particolare in territorio di Castelvecchio Subequo.

Come è noto, «alla fine del 1920 lavori di sterro tra la chiesetta e la fonte S. Agata portarono alla luce importanti testimonianze sulla frequentazione di questo luogo alla fine del periodo repubblicano: statuette di bronzo, statuette di dimensioni maggiori… (appartenenti) al tipo del cosiddetto Hercules Promachos… Tutti questi elementi si riferiscono senz’altro ad un santuario di Ercole, da cercare nelle immediate vicinanze della sorgente, senza dubbio un elemento importante nel culto. È abbastanza noto già in Grecia il ruolo di Eracle/Ercole come divinità protettrice delle fonti, in particolare di fonti ritenute salutari… (Le tracce dei) grandi edifici intorno a S. Agata appartengono dunque molto probabilmente ad una ristrutturazione del vecchio santuario che fu ampliato per ricevere un numero crescente di pellegrini e devoti attirati dalle proprietà salutari della fonte…»[19].

Tali acque rivestono importanza non solo a fini sacrali e terapeutici ma anche per l’economia del gruppo sociale. Su un altro santuario dedicato ad Ercole, individuato insieme a due dediche votive nei pressi della stazione ferroviaria di Molina, è stato osservato come esso costituisca «una delle tante testimonianze del culto dell’Alcide, particolarmente diffuso tra i Peligni forse in connessione con le attività pastorali, il che spiega anche l’ubicazione di questi sacrari lungo i percorsi tratturali e presso fontane e corsi d’acqua ove confluivano quotidianamente le greggi al pascolo»[20].

Il Wonterghem ipotizza di conseguenza che in tale area dovesse sorgere un complesso termale, con funzioni sia religiose che curative, anche se «a prima vista potrebbe meravigliare la trasformazione di un piccolo luogo di culto presso una fonte (di acqua fredda!) in un complesso destinato non solo alla devozione ma anche a cure termali. La spiegazione però deve forse essere cercata nella diffusione dell’idroterapia… dopo che Antonio Musa era riuscito nel 23 a.C. a guarire l’imperatore Augusto utilizzando questo metodo curativo (bagni freddi e il bere acqua fredda…) … Non si sa fin quando durasse il successo delle terme di Superaequum, ma come in altri casi, il ricordo delle virtù salutari della fonte fu conservato nella credenza popolare e S. Agata ha preso il posto delle divinità antiche»[21].

Va tuttavia sottolineato che fra l’ethnos superaequanus ed il gruppo sociale stanziato nell’omonima valle all’epoca della formazione e quindi della diffusione della Passio agatiana (VI-Vll secolo), intercorre un’ampia parentesi temporale in cui, nota il Di Nola in un caso simile, si sono verificate variazioni e fusioni razziali così profonde (si pensi alle invasioni barbariche) che è almeno rischioso far riferimento ai termini di linee di ascendenza etnica e di conseguenza, aggiungiamo noi, alla sostituzione automatica di Ercole con Agata in tutte le pratiche votive.

D’altro canto le indagini condotte dal Dini hanno evidenziato come la funzione protettiva nei rituali galattogeni e nei culti idroterapici sia stata svolta esclusivamente da divinità femminili, cui subentrano più tardi sante e martiri cristiane soprattutto nell’Italia centro-meridionale, «ove antiche sorgenti sacre, sacelli o edicole erano stati dedicati in epoca precristiana a divinità della lattazione e anche del parto»[22].

Se dunque le pratiche idroterapiche, che dovevano svolgersi nell’area superequana in diversi luoghi data la ricchezza delle acque sgorganti dal Sirente, sono riconducibili all’intenso culto professato ad
Ercole, non altrettanto può dirsi dei culti galattogeni e di quei particolari scongiuri apotropaici, capaci di allontanare qualsiasi male dal seno materno, ai quali dovevano essere preposti necessariamente divinità femminili indigeti (anche Pelina?)[23] e forse la stessa Cerere, la cui presenza nel pantheon superequano è attestata da una epigrafe rinvenuta in località fonte S. Gregorio, a Secinaro[24].    

Ma in un determinato territorio, particolare questo di estrema importanza, i sistemi di incanalamento delle acque subiscono anche nel corso di un secolo profonde modificazioni in conseguenza di movimenti tellurici ed alluvioni, cui fanno seguito sia il ritorno ad un «caos primordiale, rovina, distruzione e morte… che minacciano un certo tipo di civilizzazione»[25], che la formazione di un complesso di miti e leggende intorno alle acque devastatrici ed al diluvio universale[26] .

Nella rifondazione del cosmo e quindi della vita di un determinato gruppo sociale, cadono in oblio tutte le potenze dell’ordine preesistente e nuove divinità si proiettano all’orizzonte in funzione salvifica e
protettiva.

È quanto, appunto, lascia intuire la toponomastica superequana, la quale conserva numerosi termini formatisi nel periodo della dominazione longobarda, come lama, S. Angelo ed a nostro avviso anche macràno, da ricollegarsi forse a marano o marane, nel senso di «acquitrino» o «zona paludosa», che ha dato il nome in tedesco anche ad un pesce della specie dei salmonidi, il coregóne (Maràne), che vive in laghi poco profondi e negli stagni.

Che lama equivalga a luogo acquitrinoso o paludoso è lo stesso Paolo Diacono a chiarirlo nella sua nota Historìa Langobardorum[27]  e la presenza nell’area superequana di toponimi come Valle Lama, Le Lamate ecc. sta chiaramente ad indicare che la sistemazione e canalizzazione delle acque in periodo romano aveva subito in tale territorio profondi rivolgimenti con conseguente formazione di un vero e proprio «caos acquatico».

In definitiva dobbiamo proprio a studi comparati ed a indagini condotte di recente in aree vicine a quella abruzzese, la possibilità di far maggior luce su questo affascinante capitolo di religiosità popolare, in cui emerge la figura di Sant’Agata che si arricchisce di un patronato galattogeno mediante l’impiego di tecniche idroterapiche ed abluzioni che non compaiono affatto nella Passio della martire catanese.

Forse anche per influenza dello stesso nome (agathos significa infatti in greco buono), Sant’Agata viene «associata spesso per influenza longobarda al culto delle acque, unitamente alla figura di San Michele Arcangelo»; ed a Sant’Angelo i Longobardi dedicarono numerose chiese nella fase della loro capillare penetrazione nell’Italia centro-meridionale, come dimostra anche la toponomastica superequana che annovera, persino nella stessa Castelvecchio, molte chiese intitolate al mitico santo vincitore del dragone, simbolo delle acque stagnanti ed impure.

Cosicché, e concludiamo con le stesse parole del Dini, «alla polivalenza sacrale dell’acqua corrispondono numerosi culti e riti che da secoli, sotto qualsiasi esperienza religiosa, si consumano intorno alle sorgenti. L’efficacia del simbolo non si può fermare al solo valore sacro rappresentato dall’acqua come elemento cosmogonico, ma si richiama all’epifania locale, perciò alla sua storia, alle vicende vissute e sofferte dal gruppo, alla manifestazione della presenza sacra sentita da una collettività in un dato e preciso luogo, in un preciso momento».

I fattori storico-culturali che portano alla formazione del culto di Sant’Agata nella Valle Subequana appaiono dunque molto complessi. La diffusione, a partire dalla prima metà del secolo scorso, di latte in polvere, di omogeneizzati e comunque di sostanze sostitutive del pur prezioso latte materno, dovevano portare – come c’era da attendersi – alla scomparsa dei rituali galattogeni. Se ciò non è avvenuto si deve al fatto che le acque di tutte le sorgenti legate comunque al culto di S. Agata, S. Scolastica e S. Eufemia si sono arricchite di un ulteriore patronato, quello anticancerogeno, che spinge continuamente le pie donne abruzzesi verso queste fonti della speranza. Quando sarà debellato il cancro al seno, queste fonti non avranno più probabilmente funzioni da svolgere e la loro sacralità degraderà lentamente con il trascorrere del tempo, fino a scomparire del tutto dal nostro orizzonte culturale.

Questo nostro studio non presume ovviamente di apportare la parola “fine” alla dinamica della formazione del culto di Sant’Agata a Castelvecchio Subequo, un culto che trasformatosi, va diffondendosi, nei nostri tempi, in conseguenza di quel terribile male che è appunto il cancro che colpisce il seno materno. Il nostro è un contributo in attesa della scoperta di nuovi documenti ed anche di nuovi particolari nascosta nella memoria dei nostri vecchi.


[1] Cfr. A. De Nino, Usi Abruzzesi, vol. I, pp. 94-95, Firenze 1879; circa il quarto verso di questa filastrocca di carattere calendariale, l’A. chiarisce in nota: «Ai quattro non è niente, è un santo che non importa (chibelle, covelle)».

[2] Cfr. Wòerterbuch der deutschen Volkskunde, terza ediz. a cura di R. Beitl, sub voce Agatha, Stuttgart, A. Kroner Verlag, 1974; per il culto in Abruzzo ed in particolare in area peligna cfr. M. Santilli, I minatori ed il culto di Santa Barbara a Castelvecchio Subequo, Corfinio 1998.

[3] Specie dopo il XIV secolo la Santa viene rappresentata con un piatto avente sopra le mammelle recise e talvolta anche le tenaglie. Così la ritraggono per es. Sebastiano Del Piombo ed il Tiepolo in due quadri conservati rispettivamente a Palazzo Pitti, Firenze, ed alla Pinacoteca di Berlino. Circa i probabili rapporti fra S. Agata e divinità italico-romane preposte a culti della fertilità cfr. E. Giancristofaro, Tradizioni popolari d’Abruzzo, p. 74 sgg., Roma 1995.

[4] V. Dini, Il potere delle antiche Madri, pp. 49-50, Torino 1980.

[5] London 1908; traduzione con il titolo Negli Abruzzi a cura di Gisa Taurisani, Sulmona 1991.

[6] Cfr. V. Mariani, Sculture lignee in Abruzzo, Bergamo 1930. Il busto in pietra di una Madonna del latte è conservato anche nel Museo Civico di Sulmona.

[7] Cfr. L. Reau, Iconographie de l’Art Chretien, vol. II, Tomo II, p. 123, Parigi 1957 ; M. Pasculli-Ferrara, Un pittore della Scuola dalmata tra L’Aquila e Guglionesi : Michele Greco da Valona ; in Atti del Convegno di Studi Storici su L’Abruzzo e la Repubblica di Ragusa tra il XIII e XVII secolo, tomo II, p. 65 ; S. Atto di Teramo,1989 ; a cura della Associazione Archeologica Frentana, Ortona.

[8] Cfr. O. Leone, Rocca Pia. Notizie storiche, p. 220, Sulmona 1977.

[9] V. Dini, op. cit., p. 141.

[10] M. Eliade, Il sacro e il profano, p. 25 sgg., Torino 1969,

[11] Una efficace descrizione dei pellegrinaggi alla Fonte di S. Agata è contenuta nell’Opera di Damiano V. Fucinese, Un anno, una vita. Storia orale del popolo raianese, vol. I, p. 162 sgg., Sulmona 2003.

[12] Cfr. N.F. Faraglia, Codice Diplomatico Sulmonese, Documento XLI, p. 55, Lanciano 1888.

[13] A. De Nino, Usi Abruzzesi, cit., pp. 95-96. La festa oggi non si svolge più il cinque febbraio, come scrive il   De Nino, ma nel pomeriggio del quattro, vigilia del dies natalis della martire.

[14] G. Pansa, Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, vol. I, pp. 129-30, Sulmona 1924.

[15] Cfr. A. De Nino, Usi abruzzesi, vol. II, p.29, Firenze 1881.

[16] L. Braccili, Folk-Abruzzo, p. 44, L’Aquila 1979. Di una chiesa dedicata a Santa Scolastica a Gagliano Aterno, si parla anche nella Bolla Corografica di Clemente III, emanata nel 1188. Non sappiamo però se in essa si svolgessero abluzioni rituali e culti idroterapici.

[17] Dal Wörterbuch der deutschen Volkskunde, cit., si apprende che in Austria il pane di Sant’Agata viene offerto per devozione anche agli animali da cortile e da stalla in chiara funzione apotropaica. Non è da escludere che tale pratica vigesse un tempo anche a Castelvecchio, data l’importanza che gli animali rivestivano nell’economia delle società agro- pastorali, come appunto quella subequana.

[18] A. Di Nola, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, p. 204, Torino 1976. È significativo il fatto che la ricorrenza di Sant’Agata non sia menzionata tra le festa fixa februarii del calendario diocesano e ciò lascia intuire, a nostro avviso, le riserve avanzate nei secoli passati dai vescovi valvensi nei confronti della forma del pane di Sant’Agata. Cfr. Officia in Dioecesi Valvensi et Sulmonensi recitanda, editi ad istanza del vescovo T. Patroni, p. 66 sgg. Napoli 1884. Un altro elemento probante al riguardo è costituito dalla circostanza che il De Nino, osservatore attento, non fa alcun cenno di questo tipico pane benedetto.

[19] F. Wonterghem, Superuequum nel periodo romano, p. 20 sgg. Quaderno n. 3 della collana «Contributi alla cultura della Valle Peligna Superequana», Castelvecchio Subequo 1984.

[20] E. Mattiocco, Il territorio superequano prima di Roma, p. 28, nota 36, Quaderno n. 2 della collana «Contributi alla cultura della Valle Peligna Superequana», Castelvecchio Subequo 1983.

[21] F. Wonterghem, cip. cit., p. 25.

[22] V. Dini, op. cit., p. 121.

[23] Cfr. G. Pansa, I ludi venatori dei Peligni rappresentati in alcuni bassorilievi di Sulmona, in «Bullettino della Commissione Archeologica Comunale», fasc. IV, an. 1907, p. 270 sgg., Roma 1904.

[24] Cfr. E. Ricci, Ubicazione di Superaequum e spigolature peligne, p. 32 sgg., Sulmona 1984; E. Splendore, Superaequum e i Peligni Superequani, p. 102, Sulmona 1979.

[25] M. Eliade, op. cit., p. 47.

[26] Cfr. G. Pansa, Le tradizioni mitiche del diluvio in relazione allo studio delle origini abruzzesi, in «Rassegna di Storia ed Arte d’Abruzzo e Molise», n. 1-2, 1926, p. 2 sgg., Roma 1926.

[27] Cfr. anche al riguardo E. Ricci, Superaequum e gli antichi Cedici, p. 41 sgg., Sulmona 1981.




IL CULTO DI SAN PANCRAZIO A CARAPELLE

Estratto Pubblicato in Bullettino Deputazione Abruzzese di Storia Patria “HOMINES DE CARAPELLAS – STORIA E ARCHEOLOGIA DELLA BARONIA DI CARAPELLE” L’AQUILA 1988 Pgg. 125-136

di Franco Cercone

La costruzione della chiesa di S. Pancrazio[1] risale verosimilmente ai primi decenni del XVIII secolo, mentre alla prima metà del ‘300 è da attribuirsi, forse, la chiesetta dedicata allo stesso giovane martire, sita accanto all’edificio settecentesco.

La chiesa ha un unico altare, quello appunto di San Pancrazio; ancora nel secolo scorso ve ne erano altri due dedicati rispettivamente a S. Giuseppe ed a Maria Vergine, ma privi di benefìci o lasciti laicali
dovevano trovarsi in uno stato d’abbandono, tale da essere colpiti da interdetto.

Dalla visita pastorale che il vescovo di Valva e Sulmona, Mario Mirone, compie a Carapelle in data 29 luglio 1842, si apprende infatti a proposito di San Pancrazio: “Hec Ecclesia distat ab oppido Carapelle ad milliarium circiter, pertinet ad ipsam communitatem et habet tria altaria nempe. Altare majus sub titulo S. Pancratii, secundum S.Joseph et tertium beate Marie Virginis Costantinopolitani. Aprobabimus primum et reliquimus alios duo sub interdicto”[2].

Carapelle, si sa, era parte integrante della Diocesi di Valva, cui ancora oggi appartiene. Le più antiche bolle corografiche, come quelle di Innocenzo II (1138)[3], Lucio III (1183)[4] e Clemente III (1188)[5],
menzionano una sola chiesa sub titulo S. Pancratii, sottoposta alla giurisdizione valvense. Essa sorgeva a Raiano e precisamente sul colle di San Pancrazio[6].

La Bolla corografica di Clemente III ci dice in particolare che nel 1188 vi erano a Carapelle “Ecclesiam sancti Cipriani, sancti Victorini, sancti Leonardi, sancti Petri, sancti Pauli, sancti Nicholai, et sancti Christofori, sancti Johannis et sancte Marie, sancti Laurentii, sancte Marie, sancti Cataldi, sancte Marie et sancte Marie”[7].

Come è noto, la funzione principale di molte bolle era quella di ribadire l’appartenenza di tali chiese alla giurisdizione ecclesiastica dei vescovi e di difenderle in tal modo dai costanti tentativi degli ordini
monastici, soprattutto Benedettini, diretti ad usurparne il possesso ed a renderle nullius dioecesis. Questo ci spiega come dell’antica chiesa dedicata a San Pancrazio in Carapelle, nessuna menzione vien fatta nelle bolle corografiche in precedenza ricordate. Essa infatti, insieme a 1.600 moggia di territorio, apparteneva al monastero di S. Pietro in Tritas, non lungi da Capestrano, posto alle dirette dipendenze di San Vincenzo al Volturno.

Della plagia Sancti Pancratis (anche: plaia Sancti Pancratis), toponimo che presuppone necessariamente l’esistenza in loco di una chiesa sotto tale titolo, si parla infatti nel Chronicon Vulturnense (anni 779 e 782) a proposito di quidam homines Carapellenses che avevano
occupato, “ingeniose”, alcune terre e boschi appartenenti a S. Pietro in Trite[8].

Si tratta dunque di una chiesa sottoposta alla giurisdizione dell’abate di San Vincenzo al Volturno e per tal motivo non compare nelle bolle corografiche valvensi.

Secondo alcune fonti agiografiche, San Pancrazio subì il martirio il 12 maggio del 304 durante una feroce persecuzione di Diocleziano. Sembra che egli avesse appena compiuto i 14 anni[9], anche se al riguardo è stato osservato che “la passio” di S. Pancrazio, leggendaria, come appare anche dagli errori grossolani di cronologia che vi si trovano, fu probabilmente scritta nel VI-VII secolo da qualcuno degli addetti alla basilica del martire[10].

Sul luogo dove fu decapitato, cioè sull’Aurelia antica, dovette sorgere ben presto una chiesa dedicata al giovane martire, che non più capace di accogliere le masse devote che ivi si recavano in pellegrinaggio, fu sostituita nel 505 da una grande basilica voluta da papa Simmaco[11].

Da San Giovanni Bosco, autore di una nota monografia storica sul martire, apprendiamo che “per dare un pubblico segno della sua grande pietà e devozione verso S. Pancrazio, quel pontefice vi fece fare un arco sopra l’altare, con ornati che pesavano oltre quindici libbre d’argento… La
cosa che poi mirabilmente servì a diffondere il culto verso le reliquie del nostro Santo, fu la maniera sensibile con cui gli spergiuri erano puniti”[12].

Nei suoi Miraculorum libri, San Gregorio di Tours afferma al riguardo che alla tomba di San Pancrazio accorrevano i romani che dovevano prosciogliersi con giuramento da qualche accusa. Il giovane
martire era considerato infatti come uno dei più terribili punitori degli spergiuri e ciò forse per la tenacia e lealtà con cui aveva difeso la sua fede cristiana, in quanto presso la sua tomba “accorrevano i neofiti per giurare fedeltà a Cristo e alla Chiesa”[13].

Allo stato attuale della documentazione in nostro possesso, certamente carente, non sappiamo come mai il culto per S. Pancrazio sia restato circoscritto, nell’ambito della Diocesi di Valva, solo a Raiano e

Carapelle[14].

Anzi, per quanto concerne Raiano, la visita pastorale del Vescovo De Silanis, in precedenza ricordata, ci conferma che nel 1356 non esisteva più qui alcuna chiesa dedicata a S. Pancrazio e con essa deve
essere svanito anche il culto per il martire, il cui nome non figura nel Kalendarium perpetuum ad usum Dioecesis [15].

Una indagine svolta nell’ambito delle diocesi limitrofe a quella peligna e diretta ad individuare altri centri devozionali, ha dato scarsi risultati.

Nella Marsica, per es., troviamo solo due chiese intitolate al martire: la prima nella frazione avezzanese di Castelnuovo (Parrocchia di S. Giacomo e S. Pancrazio)[16], e la seconda a San Sebastiano, frazione di Bisegna, dove è intenso invece il culto per Santa Gemma, natia del luogo ma patrona di Goriano Sicoli, il cui dies natalis viene a coincidere con quello di S. Pancrazio, cioè il 12 maggio.

Carapelle dunque va considerata come epicentro del culto di S. Pancrazio in un’area geografica certamente ampia, ma priva di testimonianze rilevanti sotto il profilo della religiosità popolare.

Nella visita pastorale del 1356, in precedenza citata, risulta rilevante il numero dei chierici e diaconi aventi per nome Pancrazio e ciò è da considerarsi come testimonianza dell’accesa devozione della comunità di Carapelle per il Santo. Poiché un documento pubblicato dal Marinangeli ci parla, verso la fine del’400, del vescovo e della Diocesi di Aufinum (Ofena), sita nella Provincia Valeria, la quale “dipendendo dal Patriarcato romano, era completamente soggetta a Roma” [17], si può ragionevolmente supporre che il culto di San Pancrazio sia penetrato a Carapelle, in circostanze difficili da accertare, grazie ai contatti che Aufinum aveva con le sedi episcopali di Aveia, Pitinum ed Amiternum.
Il particolare culto per alcuni santi, come S. Cipriano e S. Vittorino, professato in Valva solo nell’area settentrionale della Diocesi[18], rappresenta forse una circostanza non casuale ed una spia che ci rivela come l’area tritana fosse più esposta alle influenze provenienti dall’alta valle dell’Aterno e dalla Sabina, una direttrice geografica, del resto, che fin dall’antichità aveva coinciso con un importante itinerario transumante. Quale elemento, forse probante, troviamo infatti a Carapelle una chiesa dedicata a San Cipriano, mentre altre chiese dedicate a S. Vittorino, martirizzato ad Amiternum, si riscontrano in Ofena e Carapelle[19] nonché nella stessa Trite[20].

La festa di San Pancrazio non si svolge oggi con quella particolare solennità di un tempo: il tutto si riduce alla celebrazione della messa nel tardo pomeriggio dell’11 maggio, vigilia quindi del dies natalis del Santo[21].

I pochi fedeli rimasti – oggi Carapelle supera appena i cento abitanti – compiono una piccola sosta all’edicola votiva, anch’essa dedicata a S. Pancrazio, sita lungo la strada campestre che mena al Santuario[22].

In essa, grazie allo zelo del Parroco, Don Ettore Nardecchia, è stato di nuovo sistemato un quadro con l’effigie del giovane martire, vero e proprio ex voto commissionato nel secolo scorso dai primi carapellesi emigrati in America. L’edicola segna dunque, come in altri episodi di religiosità popolare, l’inizio della sacralità di un territorio, posto sotto la protezione di S. Pancrazio, che si estende su tutto il colle dove sorge il Santuario. Diversa da quella dei nostri giorni doveva essere tuttavia la scenografia offerta, ancora negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, dai numerosi pellegrini provenienti per la ricorrenza della festa dai centri limitrofi, soprattutto Capestrano, Castel del Monte,
Calascio, Castelvecchio Calvisio, S. Pio delle Camere ed altri. In base alle notizie forniteci dai nostri informatori, oggi possiamo ricostruire sufficientemente una pagina sconosciuta di religiosità popolare, di cui nessuna eco si coglie nelle opere del Pansa, del Finamore e soprattutto negli Usi e Costumi abruzzesi del De Nino. Sorprendente è poi la circostanza che la folklorista inglese Estella Canziani abbia illustrato molte tradizioni relative a Castelvecchio Calvisio, dove era approdata
dopo “un viaggio avventuroso”, ma nessun cenno fa di Carapelle che pur dista pochi chilometri da quel paese[23].

Fra le “compagnie” che si recavano in pellegrinaggio a S. Pancrazio, quella di Castel del Monte era la più numerosa; essa arrivava la vigilia del giorno di festa e pervenuta al Santuario, procedeva in ginocchio dal portale fino all’altare. La “compagnia” trascorreva la notte dell’11 maggio
sdraiata sul pavimento della chiesa, dove, secondo una pratica largamente diffusa, dovevano svolgersi probabilmente riti di incubatio preposti, mediante la “legge del contatto”, a prevenire o curare malattie
ossee o artriti deformanti[24].

Tali modelli comportamentali sono fondati, come è noto, sul convincimento che il pavimento di un santuario, centro dello spazio sacro, possieda le stesse virtù miracolose delle pietre e delle rocce in
conseguenza di ierofanie o presenza di santi. Il 12 maggio era per i Carapellesi giorno di festa e tutti si astenevano dal lavoro sui campi e nelle botteghe artigiane per non incorrere in sanzioni (“le disgrazie”,
secondo quanto ha affermato l’informatrice) comminate dal Santo. Sul sagrato del Santuario la “Deputazione”, cioè il gruppo degli organizzatori della festa, provvedeva ad offrire ai devoti accalcati attorno al sagrato biscotti, uova e soprattutto le cosiddette ferratelle di S. Pancrazio, confezionate secondo una ricetta tradizionale con uova fresche, farina, zucchero e bucce di limone.

I biscotti, ciambelle, panette, ferratelle ecc. preparati nei giorni in cui si festeggiano determinati santi, assumono il valore ed il potere dei cibi sacrali, con funzione prevalentemente magico-apotropaica, poiché essendo destinati ad essere consumati per lo più in un breve spazio di tempo, quello appunto
“festivo”, ingenerano nei fedeli forze vitali capaci di allontanare qualsiasi male dalla persona, che vive pertanto in uno stato di grazia immunizzante[25].

Dentro il Santuario si svolgevano frattanto riti di comparatico.

Le persone instauravano tale rapporto di “parentela fittizia” facendo tintinnare la campanella posta dietro l’altare e da tale momento esse si chiamavano cumpare e cummare, a seconda che il rapporto stesso venisse a stabilirsi fra soli uomini o sole donne[26].

L’aspetto più importante, sotto il profilo della religiosità popolare, è costituito tuttavia dalle unzioni rituali effettuate dentro il Santuario mediante il cosiddetto olio di S. Pancrazio.

Dietro l’altare, l’attenzione del visitatore è attratta da una pietra rettangolare, misurante all’incirca cm.40 x 60, che presenta nella superficie una cavità resa scura dalla presenza di olio, quello appunto “di
S. Pancrazio”, ritenuto dai fedeli miracoloso per la cura dei reumatismi e delle malattie ossee.

Il rito consiste, da sempre, nell’intingere un po’ di ovatta nella cavità della pietra e di strofinarla sulle parti del corpo malate, soprattutto sulle articolazioni delle ginocchia e delle braccia.

Batuffoli imbevuti dell’olio di S. Pancrazio vengono riportati a casa e donati a persone anziane e malate oppure spediti in America ai Carapellesi ivi residenti, che anche tramite il parroco del luogo, ne fanno continua richiesta. Gli scettici, definiti “miscredenti”, affermano invece che l’olio taumaturgico altro non è se non quello fuoriuscito dai lumini votivi, deposti per atavica consuetudine sopra tale pietra; sicché questa ne è rimasta col trascorrere del tempo così impregnata da trasudare
costantemente il liquido oleoso ai primi caldi primaverili.

Per i fedeli, al contrario, l’olio affiora miracolosamente sul concio calcareo ed anche se di tanto in tanto una mano devota contribuisce, con piccole aggiunte, a mantenerne umida la cavità, esso è considerato un vero e proprio carisma, largito dal santo martire a favore della comunità carapellese. Va subito chiarito al riguardo che l’olio d’oliva, destinato ad uso sacrale-terapeutico, è presente con le stesse caratteristiche nel culto di S. Falco a Palena e della Madonna del Castello, venerata in una chiesetta rurale sita in tenimento di Caramanico, in onore della quale si confezionano caratteristiche boccette che, riempite d’olio, vengono inviate ai fedeli che ne fanno richiesta.

Maggiori affinità con il culto di S. Pancrazio affiorano tuttavia al Santuario della Madonna dell’Incoronata, presso Sulmona, meta, nella terza domenica d’aprile, di devoti provenienti soprattutto da Villalago[27]. Come nell’omonimo santuario di Foggia[28], si svolgono qui unzioni rituali sugli arti mediante il cosiddetto olio dell’Incoronata, quello cioè che alimenta la grande lampada votiva posta a destra dell’altare.

Per guarire dunque dalle malattie artritiche ed ossee, in Abruzzo non ci si affida solo a pratiche idro e litoterapiche basate su “un metodo clinico arcaico”, sottolinea il Di Noia nell’articolo citato, “che comporta l’intervento della fede come predisposizione alla suggestionabilità nella
rete delle influenze psicosomatiche, in appoggio ad una probabile efficacia reale dell’automassaggio su roccia minerale”, ma anche a quelle oleoterapiche, che trovano del resto e non solo nel mondo popolare una vasta gamma di utilizzazioni in merito alle più svariate manifestazioni patologiche.

Il valore simbolico dell’olio d’oliva, adoperato dalla chiesa nell’amministrazione di alcuni sacramenti, cerimonie liturgiche e consacrazioni[29], se da un lato ha rafforzato la credenza nel potere
miracoloso e curativo di questa sostanza oleosa, dall’altro non è sufficiente di per sè a spiegare il suo largo impiego terapeutico, da ricollegarsi, a nostro avviso, anche alla sua capacità di procurare se non
la guarigione almeno un sollievo nei confronti di alcune malattie, come appunto i dolori reumatici, non ancora sconfitte dalla medicina dei nostri giorni. Quest’ultima, d’altro canto, in un passato certamente non remoto, faceva largo uso di olio d’oliva a fini terapeutici. Nel Trattato di Materia
Medica
il Signor Cullen, inglese, sottolinea come il massaggio sull’epidermide, effettuato con sostanze oleose, provoca “una maggior flessibilità alle materie secche…ma questa non si può avere convenevolmente che ungendosi d’olio le dite (sic) o le mani di chi deve fregare, e così si ha uno de’ più gran vantaggi che poss’avere l’uso degli oli. Gli effetti di una leggerissima frizione continuata a lungo, par che siano considerevolissimi, eccitando una oscillazione costante ne’ vasi della parte che
sono al di sotto, e potendo propagare questi medesimi effetti fino alle parti le più lontane le oscillazioni eccitate ne’ nervi della pelle”[30].

Secondo una diffusa credenza popolare i reumatismi sarebbero causati infatti dalle ossa che si seccano, donde il rimedio suggerito dallo stesso Cullen, che pure era un medico, di massaggiare l’epidermide “con sostanze oleose”, per dare “flessibilità alle materie secche”.

Per la cura dei reumatismi, pare dunque che ci sia una certa concordanza fra quanto proponeva la scienza medica del XVIII secolo (vedi per es. il Cullen) e la terapia ancora in uso soprattutto presso il
mondo contadino. “I dolori reumatici – scrive il De Nino nel V volume degli Usi e costumi abruzzesi, che ci offre una vasta gamma di utilizzazione dell’olio a scopi terapeutici – si guariscono con le frizioni di un unguento, composto d’incenso maschio fatto bollire nell’olio d’oliva”[31]. Non si deve credere, nota efficacemente al riguardo il demologo peligno, “che sempre i rimedii empirici sono una disgrazia.
Sempre, no: il più delle volte, anzi, giovano potentemente; perché, in realtà, si fondano sopra le esperienze di secoli e secoli. E poi, come farebbe la povera gente sparsa nella campagna, e come farebbero le popolazioni dei piccoli paesi, dove è raro che si veda il medico, o si vede quando il malato sarebbe finito, se non si fosse ricorso alla medicina tradizionale? C’è anche il caso che i rimedi sono innocui. E allora la malattia fa il suo corso; e, se il malato deve guarire, guarirà: senza dire della influenza benefica che quei rimedii avranno esercitato sulla immaginazione dell’infermo”[32].

Se manca il medico o risulta inefficace sia la terapia empirica che quella scientifica, al paziente non resta altro che il santuario, lo spazio sacro cioè capace di scatenare reazioni emotive tali da condurre, spesso, alla guarigione. Un santuario tuttavia, come quello di S. Pancrazio a Carapelle, non è altro, in fondo, se non l’ambulatorio di un medico particolare: il santo o l’anacoreta “specializzati” in alcune malattie.  Con questa differenza però, che la visita del medico della mutua dura in genere il tempo necessario per scrivere una ricetta o riempire gli spazi vuoti di un modulo, mentre quella del santo taumaturgo si protrae per tutto il tempo voluto dal devoto paziente, che invoca, pregando ed eseguendo antichi rituali, grazie e guarigioni. E tra le grazie richieste vi è spesso quella di tener lontani i medici dalla propria casa, come si può leggere anche su alcuni piattini di ceramica, venduti un po’ ovunque nei giorni di mercato e destinati ad essere appesi, con funzione apotropaica, alle pareti domestiche. Vien fatto così di pensare alla nota invocazione rivolta a Sant’Ambrogio da parte di una ragazza, tormentata dai medici che invano tentavano di guarirle il braccio: “Sancte Ambrosi, libera me nec medici magis me offendant, nec dolorem faciant michi”[33].

San Pancrazio appartiene dunque a quella schiera di santi che come S. Venanzio, a Raiano, sono preposti alla tutela delle malattie ossee ed artritiche da cui restano affette soprattutto le genti della montagna e delle umide pianure abruzzesi. E’ difficile dire, allo stato attuale di una documentazione lacunosa, in quali circostanze storiche il giovane martire abbia assunto un patronato che possiamo genericamente definire antireumatico e del tutto nuovo rispetto a quello primitivo, che faceva del Santo il protettore di coloro che giuravano il vero e persecutore degli spergiuri[34].

Il fenomeno si verifica frequentemente nel campo della religiosità popolare, dove spesso accanto ad una costante, nel caso il culto per S. Pancrazio, vi è sempre una variante, la “natura” cioè della protezione avvertita da un gruppo sociale. Le funzioni svolte da culti e riti magico-religiosi non sfuggono alle leggi storicistiche e nel loro mutare attraverso il tempo cogliamo la proiezione di bisogni diversi delle nostre devote popolazioni.

Così a Castelvecchio Subequo, un tempo le donne si recavano presso la fonte di S. Agata affinché crescesse nei loro seni il latte con cui nutrire i piccoli; oggi invece vi accorrono per scongiurare mediante abluzioni che il cancro stia lontano dai loro petti.

Il patronato originario di S. Domenico di Cocullo era in origine antifebbrile ed antitempestario; in seguito il santo assume anche quello contro il morso dei rettili velenosi e dei cani affetti da rabbia.

E tanti altri esempi potrebbero essere addotti al riguardo, esempi che tuttavia mal si concilierebbero con le tesi di G. Cafiero, autore di uno studio apparso nel marzo del 1970 sul periodico Atlante e dal titolo, significativo, Gli ultimi pellegrini.

Non ci saranno mai infatti, a nostro avviso, degli “ultimi pellegrini”. Finché il sole brillerà “sulle sciagure umane”, vi saranno sempre uomini esposti a rischi e tensioni psichiche, la cui eliminazione non può avvenire nell’ambito di una parrocchia, priva di quella drammatizzazione rituale che fa del fedele un attore principale, ma nel santuario, luogo di incontro e di diretto contatto tra l’uomo e la divinità. È qui che si scatenano emozioni e reazioni psico-somatiche ancora sconosciute e che portano al miracolo.

Insomma, per parafrasare un noto pensiero di Cesare Pavese, “un santuario ci vuole”.


[1] Il nome deriva dal greco e significa: che domina tutto. Il pancrazio era infatti un esercizio di lotta nel quale potevasi ricorrere ad ogni mezzo per abbattere l’avversario

[2] Biblioteca Diocesana Sulmona, Visite Pastorali di Mons. Mirone, ms, in s.v. Carapelle, 29 luglio 1842.

[3] Cfr. N. F. faraglia, Codice Diplomatico Sulmonese, Doc. XXIII, Lanciano1888

[4] G. celidonio, La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. III, Casalbordino 1911, p. 33.

[5] N F. faraglia, op. cit., Doc. XLI.

[6] Della chiesa di S. Pancrazio, a Raiano, non si parla più comunque in una visita pastorale del 1356. Probabilmente essa era ruralis e già diruta in tale anno. Cfr. G. celidonio, Una visita pastorale nella Diocesi Valvense fatta nel 1356, in “Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte”, n. 8, Casalbordino 1899, p.176. Sul toponimo Colle di S. Pancrazio, presso Paiano, cfr. P. destephanis, [Raiano], ne “Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato”, vol. XVI, Napoli 1853. p.189 sgg.; D.V. Fucinese, Raiano. Notizie storiche e vita tradizionale. L’Aquila 1971, p.23.

[7] Cfr. N.F. faraglia, ivi, op. cit., Doc. XLI.

[8] Cfr. il Chronicon Vulturnense del Monaco Giovanni, a cura di v. federici, vol. I, Roma 1929 p.194 sgg.; G. CELIDONIO, La Diocesi ecc., op. cit. vol. III. p.140 sgg. Il toponimo plagia, o plaia, assai diffuso in Abruzzo ed altrove, indica pendio, piaggia, discesa collinare; cfr. in merito E. giammarco, Dizionario Abruzzese-Molisano, vol. III, s.v. Plagia, Roma 1976, p.1568.

[9] O. pietrobono, San Pancrazio a via Aurelia Antica, Roma 1975 p.3 sgg.; E. fusciardi, Catacombe, Basilica e Convento di S. Pancrazio, Roma 1929 p. 5 sgg.

[10] Cfr. Biblioteca Sanctorum, s.v. Pancrazio, Roma 1968.

[11] O. pietrobono, Op. Cit., p.10 sgg.

[12] san giovanni Bosco, Vita di S. Pancrazio, Roma, Editrice A.V.E., 1939 p. 5 sgg. Il martire, è utile ricordarlo, è uno dei Patroni della Gioventù Italiana di Azione Cattolica.

[13] O. pietrobono, ivi, p.5. 

[14] I possedimenti soggetti in Trite a S. Pietro ad Oratorium e quindi a San Vincenzo al Volturno, costituivano una specie di insula benedettina nell’area settentrionale della Diocesi di Valva, la cui circoscrizione territoriale, prima dello smembramento operato da Sisto V, era più ampia dell’attuale.

[15] Cfr. Officia in Dioecesi Valvensi et Sulmonensi recitanda, Napoli 1884.

[16] In precedenza, tuttavia, vi erano due chiese sotto i rispettivi titoli. Da una relazione del 1728, conservata nell’archivio Diocesano Marsi, Avezzano (C/27/ 622), si apprende che “In questa piccola villa di Castelnuovo, che costa solamente di 10 fuochi, luogo miserevole e deserto, vi sono due chiese, ciòè la Parrocchiale sub invocatione S.cti Jacobi Apostoli ed una altra diruta, lontano da detta villa due tiri di mano, dedicata al glorioso Santo Pancrazio”. Devo la notizia al Prof. Angelo Melchiorre che in tale sede ringrazio vivamente.

[17] g. marinangeli, Noterelle di Storia ecclesiastica nella Provincia Valeria, in “Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria”, L’Aquila 1973, p.400

[18] Si vedano al riguardo le Bolle corografiche pubblicate dal Faraglia

[19] Cfr. la Bolla di Clemente III, già citata, del 5 aprile 1188.

[20] Cfr. N.F. faraglia, op.cit., p.44.

[21] Presso la numerosa comunità di Carapelle, residente a Toronto, San Pancrazio si festeggia il 12 maggio. Nella metropoli canadese manca però una chiesa eretta in onore del martire protettore.

[22] Un’altra edicola votiva sorge in tenimento di Capestrano. Gli abitanti di questa località, narra una leggenda, avevano tentato invano di sottrarre la statua di S. Pancrazio ai carapellesi, diventata all’improvviso incredibilmente pesante. La tradizione vuole, secondo schemi codificati relativi alla fondazione dei santuari ed alle impronte miracolose dei santi, che presso l’edicola di Capestrano S. Pancrazio abbia lasciato l’orma del piede. Dalle testimonianze delle nostre informatrici (citiamo per tutte la S.ra Pia D’Andrea, casalinga, residente a Carapelle) non è risultata alcuna notizia in merito a probabili strofinamenti rituali degli arti sull’impronta del piede di S. Pancrazio, al fine di guarire da forme artritiche deformanti. Su tale argomento cfr. g.pansa, Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, vol. I, Sulmona 1924, p.133 sgg.; A. Di nola, Quando una pietra poteva guarire, in “Corriere delle Scienze”, 25/5/1982; V. Dini, II potere delle antiche Madri, p.60, Torino 1980; E. gianciustofaro, Storie del silenzio. Cronache di vita popolare abruzzese, in “Rivista Abruzzese”, n.3, 1984, p.352 sgg.; A. Melchiorre, Tradizioni popolari della Morsica, Roma 1984, pp.65-70.

[23] Cfr. E. CANZIANI, Through the Apennines and the Lands of the Abruzzi. Landscape and peasant life, Cambridge, W. Heffer & Sons, 1928.

[24] Non sappiamo se i riti di incubatio a S. Pancrazio tendessero anche al conseguimento della fertilità nelle coppie sterili, come avveniva per es. a Pratola Peligna nel santuario della Madonna della Libera. Cfr. al riguardo G. pansa, op.
cit., voi. I, p.113; M. C. harrison. A survival of incubation in “Folk-Lore”, London 1906. 

[25] Per tale problematica cfr. soprattutto A. Di nola, Gli aspetti manico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino 1976, p.201 sgg.

[26] Questa forma di comparatico non è annoverata fra quelle descritte da A. DE nino in Usi Abruzzesi, vol. I, Firenze 1879, p.l7, p.42 e p.48 sgg. Tutte davano origine, comunque, ad un complesso di diritti-doveri che erano diversi tuttavia dalla potestà spettante al cosiddetto Sangiovanni, cioè il padrino scelto per il battesimo e la cresima. Sia a Carapelle che altrove, lu San Giuànne non era quasi mai parente del battezzando. La struttura del rapporto di comparatico, assai sentito in Abruzzo, sembra rivelare così complessi fattori di natura economica che vietano ai parenti la possibilità di fungere da persone su cui si possa fare affidamento nei momenti di bisogno, dato che è proprio tra parenti che insorgono contrasti in occasione soprattutto di suddivisione ereditaria. Proverbi assai noti in Abruzzo come per es. lu parente è come lu stevale, cchiù è stritte e cchiù fa male. oppure frate e parente, come serpente sono molto illuminanti al riguardo e contribuiscono a comprendere l’humus socioeconomico in cui l’istituto del comparatico affonda le sue radici.

[27] Cfr. A. d’antonio, Villalago, Storie, leggende, usi, costumi, Pescara 1976, p.187.

[28] Cfr. M. torcia, Saggio Itinerario Nazionale pel Paese de’ Peligni fatto nel 1792. Napoli 1793, pp.141-42.

[29] Si pensi per es. all’olio di S. Biagio ed a quanto afferma S. Giacomo il Minore nella sua lettera sull’ unzione degli infermi (v. 4): “C’è qualcuno tra voi che sia ammalato? Faccia chiamare i presbiteri della chiesa che preghino su di lui, ungendolo con l’olio nel nome del Signore”.

[30] Cfr. Trattato di materia medica del Signor Cullen. tomo III. pp. l27-28. Napoli 1791.

[31] A. de nino, Usi e costumi abruzzesi, vol. V, Malattie e rimedi. Firenze 1891, p.27.

[32] A. de nino, Usi e costumi abruzzesi, vol. V, cit., pp. VII-VIII.

[33] Cfr. A. Imelde Galletti, Infirmitas e terapia sacra m una città medievale, in “La Medicina popolare in Italia”, Quaderno n.8 de La ricerca folklorica, Brescia 1983, p.l7.

[34] Probabilmente, in passato dovevano essere collegate al culto di S. Pancrazio alcune credenze relative al ciclo coltivatorio, che persistono oggi nella Germania e nel Tirolo. Qui S. Mamerto, S. Pancrazio, S. Servazio, e S. Bonifacio, venerati dall’11 al 14 maggio, sono chiamali i Santi del ghiaccio (Eisheiligen), in quanto in tali giorni la temperatura è talvolta così bassa da minacciare il raccolto sui campi o gelare le gemme degli alberi da frutta e delle viti (cfr. Wòrterbuch der deutscben Volkskunde, s.v. Pankratius, Stuttgart, A. Kròner Verlag, 1974). Un elemento probante è costituito dalla circostanza, già riferita, che il 12 maggio si festeggia a Goriano Sicoli Santa Gemma ed un proverbio raccolto in tale località sottolinea che se a Santa Gemma chiove, ogne coppe ne fa nove, con evidente riferimento alla seminagione del grano ed alla tensione
provocata dalle incertezze, insite nel ciclo produttivo. Il pellegrinaggio assume pertanto in questo particolare momento dell’anno anche il valore di un ex voto, al fine di ottenere buoni raccolti sui campi. Cfr. al riguardo A. Di nola, Gli aspetti
magico-religiosi di una cultura subalterna italiana,
Torino 1976, p.19.




PER UNA BIBLIOGRAFIA DELLE FOGGE Dl VESTIRE

[Pubblicato in “Costumi popolari d’Abruzzo e Molise nel 1700 e 1800” – Centro Studi P. Serafini, Sulmona 1986]

di  Franco Cercone

Per i tipi delle Edizioni del Gallo Cedrone de L’Aquila vedeva la luce, nel 1982, il volume dal titolo “Costumi Popolari d’Abruzzo”, ricco di numerose tavole a colori ed in bianco e nero, frutto di intense ricerche effettuate nel corso di due anni presso archivi e collezionisti privati.

Il giudizio dei critici, apparso sui più svariati quotidiani e periodici fu positivo e particolarmente lusinghiere risultarono le recensioni del compianto G. Bolino, di A. Di Nola[1], e di I. Bellotta.

Vincenzo Accardo ed io – autori di tale pubblicazione – consideravamo, ed a ragione la bibliografia sull’argomento non esaustiva, ma solo una pietra miliare che permettesse, con le sue indicazioni, di proseguire nel cammino che porta al completamento di quel difficile capitolo etnografico che è appunto il Costume popolare abruzzese.

Nell’estendere in seguito lo sguardo anche al Molise, Regione legata all’Abruzzo, per motivi storici e

geografici, da una koinè culturale, abbiamo avuto possibilità di arricchire le fonti bibliografiche facendo tesoro anche dei contributi scaturiti da mostre sui costumi svoltesi in periodi successivi alle manifestazioni da noi organizzate (Sulmona 1982, Castelvecchio Subequo 1984) e soprattutto da quella che ha avuto luogo nel luglio del 1985 a Chieti presso la Pinacoteca C. Barbella, con la pubblicazione del volume «Il costume popolare Abruzzese tra ‘700 e ‘800›› ed. Solfanelli, 1985, contenente i saggi di De Rosa e Trastulli “Il Costume Abruzzese tra cronaca e storia” e quello pregevolissimo di E. Spedicato “Sulle tracce del costume popolare: ipotesi di percorso”.

Sulla scia delle considerazioni fatte da G. B. Bronzini ne “Il metodo funzionale per lo studio del costume popolare” (in “Cultura e Scuola” n.81, 1982, pag.108 e sgg.), i nuovi dati acquisiti hanno apportato maggior ordine nella valutazione delle fonti sia sul piano sincronico che diacronico, sicché prescindendo dagli aspetti meramente tecnici, lo studio del costume popolare va visto soprattutto come indagine diretta alla focalizzazione dei rapporti uomo-ambiente, nel quadro più vasto della geografia antropica e dell’antropologia culturale.

Poiché nelle fogge di vestire l’aspetto cromatico assume una importanza fondamentale, non qualificabile come elemento sovrastrutturale (nei paesi montani, per es., il predominio delle stoffe nere, al di fuori dei casi di “lutto stretto”, è dettato dall’esigenza di attrarre il più possibile i raggi del sole, mentre a valle funzione opposta svolgono, o meglio, svolgevano le tovaglie bianche sul capo), si comprende come gli ex voto pittorici, che ornano, spesso da secoli, le pareti di molti santuari, abbiano attirato anche sotto il profilo che qui interessa, l’attenzione degli studiosi, per cui tali tavole votive, scaturite talvolta anche dall’estro di insigni artisti, costituiscono la fonte storica più importante per lo studio del costume popolare.

Gli ex voto pittorici, eseguiti per lo più ad olio, rappresentano infatti delle vere e proprie fotografie a colori risalenti ad epoche in cui non esistevano macchine fotografiche, e scattate da ignoti artigiani che ritraevano il committente, uomo o donna, con l’abito usuale nella scena della ierofania e della Grazia Ricevuta.

Per lo stesso motivo agli ex voto pittorici sono paragonate le figurine in terracotta che animavano i presepi. Modellate secondo le fogge di vestire, dei più svariati paesi, esse venivano colorate a mano fin nei minimi particolari, raggiungendo spesso (come nel caso di G. Avolio, artista di Pacentro) livelli di arte figulina.

Oltre alle fonti citate nel volume “Costumi Popolari d’Abruzzo”, ve ne sono altre di notevole interesse che sono sfuggite alla nostra attenzione o alla nostra la memoria e che riguardano l’Abruzzo e l’area peligna in particolare. Vanno segnalati anzitutto i seguenti volumi: E. Mattiocco, O. Pelino, G. Di Tommaso “Sulmona nell’Ottocento”, Sulmona 1970; E. Mattiocco, “Sulmona Ieri”, Sulmona, 1972, per le numerose fotografie ritraenti donne nei costumi caratteristici de paesi della Conca Peligna (periodo fine Ottocento – primi decenni del Novecento); D.V. Fucinese “Raiano notizie storiche e vita tradizionale”, L’Aquila, 1971. In quest’ultimo l’A. riporta alcune descrizioni di costumi osservati dal Gothein durante la sua permanenza a Sulmona e centri limitrofi nell’ultimo decennio del secolo scorso [‘800].

A questi lavori vanno aggiunte opere e resoconti di viaggiatori stranieri dell’Ottocento di cui siamo venuti a conoscenza negli ultimi tempi e che andrebbero tradotti in italiano data l’importanza che rivestono per la nostra Regione e per il Mezzogiorno, come il volume K.U. Von Salis-Marschlins “Viaggio attraverso l’Abruzzo”,1789, ristampa anastatica a cura di A. Polla, Avezzano 1981.

Di notevole interesse risulta per la Marsica e soprattutto per Celano il saggio di P. Piccirilli, “Una relazione inedita intorno allo stato di Celano”, pubblicato nella “Rassegna Abruzzese di Storia e Arte” (n. 9, 1899); lo stesso dicasi per “Collelongo”, pregevole monografia di W. Cianciusi, pubblicata nei 1972 e ricca di annotazioni sul costume di tale località.

Tra le opere riproducenti costumi della nostra regione pubblicate verso la metà dell’800 vanno segnalate quelle realizzate con notevole spirito imprenditoriale da Gaetano Dura, concretizzate in una serie di lavori di grande importanza, alcuni dei quali non molto noti agli studiosi del settore.

Le elenchiamo qui appresso in ordine cronologico:

  1. S. Gatti – G. Dura, Scenes populaires dessineès par Gaetano Dura, Napoli. Lit. Gatti e Dura, 1840, (con 25 tavole colorate a mano).
  2. G. Dura, Costumi Napoletani, Napoli Lit. Gatti e Dura (con 10 tavole colorate a mano).
  3. G. Dura, Nuova raccolta di costumi e vestiture di Napoli e suoi dintorni, Napoli. Lit- Gatti e Dura, 1850-51 (con 39 tavole acquerellate a mano).

Verso la metà dell’800. sotto l’influsso delle teorie romantiche, si ebbe una grande fioritura di opere, italiane e straniere, aventi per soggetto scene di vita popolare con riproduzioni, a colori ed in bianco e nero, di personaggi del contado in costumi tradizionali.

Accanto alle più note, vanno inoltre segnalate:

  1. Autore Anon.,  Regno di Napoli, Siti, Monumenti, scene e costumi, Torino, Pomba Ed., 1835. voll.4; (con 68 tavole incise alcune delle quali riproducenti costumi abruzzesi a molisani)
  2. M. Buonaiuti, Italian Scenery Representing the manners, customs amusements of the different states of Italy, London 1824, (con 32 tavole colorate a mano da J. Godby).
  3. S. Manning, Italian pictures drawn with pen and pencil, London, s.d.
  4. F. De Boucard, Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, Opera diretta da F. De Boucard, Napoli, Nobile Ed., 1853-58 voll. 2; (con 101 tavole acquarellate a mano e disegnate da valenti artisti, tra cui il Palizzi).
  5. N. Dally, Usi e costumi sociali, politici e religiosi di tutti i popoli del mondo, Torino, Stab. Tipogr. Fontana, 1844-47, voll. 4 (con 250 tavole incise in rame e colorate a mano)._
  6. J. Gourdault, Naples et la Sicilie, Parigi, Hachette. 1889; (nell’opera sono riprodotti disegni in bianco e nero di costumi abruzzesi e molisani).
  7. Autore Anon. , Nuova raccolta di 56 costumi di Roma e contorni tratti dalla fotografia, Roma 1860, (con 56 costumi litografici, colorati a mano).

In molte opere un certo spazio è riservato alle colonie albanesi dell’ltalia meridionale, con descrizione

degli usi e costumi di questo popolo. Particolarmente interessanti per l’influenza esercitata sulle tradizioni popolari di molti centri del sud (si pensi a Villa Badessa in tenimento di Rosciano). Al riguardo va segnalato il volume di F. Tajani, Le Istorie albanesi. Epoca prima e seconda, terza e quarta, Salerno, F.lli Jovene, 1886, (contenente molte tavole di costumi in litografia, colorati a mano). Lo stesso dicasi per i Briganti, che insieme ai Pastori diventano il simbolo della Einsamkeit romantica. Ed è proprio ad essi che la pittrice inglese M. Graham dedica un importante lavoro dal titolo Three Montes passed in the mountains east of Rome, during the year 1819, London, 1821. Nel volume sono riprodotti gli abbigliamenti caratteristici di 10 briganti abruzzesi. Da segnalare infine l’importante opera di Harriet Morton, Protestant vigils or evening records of a journey in Italy in the years 1826 and 1827. London, R. B. Seeley – W. Burnside 1829. 2 voll.

L’interesse suscitato delle fogge di vestire del Regno di Napoli per gli studiosi anglosassoni, si inserisce così in quella Weltanschauung romantica che fa del luccicante paesaggio meridionale la cornice ideale dei Wandern, del vagare senza mete precise, alla ricerca di tutti gli elementi che arricchiscono la propria formazione spirituale.

Usi e costumi acquistano così il valore di prezioso tassello di completamento del mosaico descrittivo di popoli e terre lontane e fissa una pagina importante di storia che fino al secolo scorso non era ancora stata scritta.


[1] Cfr. A. Di Nola “Per un bilancio della ricerca culturale in Abruzzo” in Rivista Abruzzese n. 4 Anno XXXVI 1983: [“… Passiamo a più fausti lidi, quelli che toccano i problemi delle tradizioni popolari, con un’intelligente pubblicazione dedicata ai costumi popolari d’Abruzzo (V. Accardo e F. Cercone “Costumi popolari d’Abruzzo”, Edizioni del Gallo Cedrone, 1982, pp. 72+30 tavole delle quali molte a colori). Veramente in questa splendida opera si passa a una storia minore di realtà regionale intensa ed attentissima, proprio perché la ricerca, questa volta è diretta ad un’area molto precisa e ristretta. … La consistenza culturale delle vicende che interessano il costume è chiarita dall’intervento, come sempre brillante ed erudito, di Franco Cercone che ci offre notizie di eccezionale valore: non soltanto quelle relative all’origine degli abiti e delle acconciature, ma quelle che affrontano apparenti curiosità, localismi che sembrano superficiali e che, invece, rivelano i volti nascosti della realtà abruzzese, per esempio la serie documentaria che, nello scritto di Cercone, riguarda la obliterazione del costume maschile, più rapida e evidente dell’abbandono del costume femminile. Dietro mi sembra sia tutta la cronaca delle transumanze, degli spostamenti, delle migrazioni stagionali di questa gente: i maschi realizzano contatti con alterità culturali, con Roma, con la Campagna romana, con la Puglia, pagando in proprio, anche negli abiti, la deidentificazione, mentre la metà femminile, relegata nelle attese nelle terre abruzzesi, diviene depositaria di tradizioni residue. L’opera, a parte il notevole valore delle riproduzioni, è un esempio di antropologia storica, del come un dato specifico, quello del costume materiale, possa essere sollevato a indice di analisi di una storia culturale: ed è violenza subìta il dover constatare che uno studioso come Cercone, certamente di livello nazionale, debba portare a termine questi lavori nel silenzio della periferia sulmonese, soltanto perché i centri di studio universitari vivono nel facile gioco dei piccoli poteri mortificanti e cancellano le rischiose presenze delle intelligenze”. Alfonso Di Nola]




QUEL SANTO ABITA ANCORA QUI

Si parla della protezione esercitata dalle Edicole votive nei rioni di paesi e città, fra cui Sulmona 

[Pubblicato in “La Gazzetta peligna”, Anno I, n° 9, Sulmona 1985.]

Un capitolo particolarmente interessante della religiosità popolare sulmonese, che stranamente non ha suscitato alcun interesse nel Pansa e nel De Nino, è costituito dall’analisi delle cosiddette edicole votive, consistenti per lo più in affreschi di limitate dimensioni e realizzate in epoche diverse sulle facciate delle abitazioni site nel centro storico di Sulmona, su commissione di un singolo devoto o ad istanza degli abitanti di un vicolo, di una piazzetta o addirittura di un intero rione. La bibliografa sull’argomento è comunque assai scarsa. Per quanto mi consta l’unica pubblicazione al riguardo ha visto la luce a Napoli nel 1978 a cura di G. Provitera, G. Ranisio ed E. Giliberti ed ha per titolo: “Lo spazio sacro. Per un ‘analisi della religiosità popolare napoletana”, prefazione di Luigi Lombardi Satriani.

Nel presentare il volume, l’illustre antropologo ha confermato appunto quanto prima si asseriva e cioè che il tema delle edicole votive “non è certo frequente nell’indagine demologica e storico-religiosa”, che ha privilegiato piuttosto lo studio degli ex voto pittorici, cugini stretti delle edicole votive. Osserviamo subito, rispetto alla tipologia rilevata dal Provitera per Napoli, che a Sulmona risultano scarsi gli altarini e le nicchie votive. La maggior parte delle edicole votive è costituita infatti da affreschi non incassati nelle pareti degli edifici, o da vecchie stampe coperte spesso, per esigenze protettive, da materiale plastico o da vetro, risalenti per lo più a tempi recenti. Non mancano esempi tuttavia di edicole antiche, come la bella Madonna, probabilmente cinquecentesca, affrescata sulla facciata dell’attuale mattatoio comunale, e l’edicola – anch’essa di pregevole fattura – affrescata sulla facciata di un palazzo sito in via De Nino.

La freschezza di esecuzione avvicina tali edicole all’arte naïve ed al mondo degli ex voto pittorici, mentre negli affreschi più antichi si percepisce talvolta traccia di influenze artistiche del passato. Dagli ex voto pittorici le edicole votive differiscono tuttavia per una serie di motivi, soprattutto per quanto concerne la tecnica con cui quest’ultime vengono realizzate. L’ex voto infatti è destinato ad ornare la parete di una chiesa o di un santuario (si pensi agli ex voto esistenti al Santuario dell’Incoronata) e viene eseguito ad olio oppure a tempera su tavola. L’edicola invece, quando non contenga una immagine stampata, è realizzata secondo la tecnica dell’affresco e destinata non ad uno spazio già sacro, ma a trasformare, come nota il Lombardi Satriani, “lo spazio realistico in spazio protetto” e pertanto “sacro” L’ex voto inoltre costituisce un rapporto singolo tra la divinità e l’offerente, colui cioè che ha ricevuto una grazia.

Le edicole ricalcano spesso questo modello comportamentale, ma sorgono anche per mera devozione, al di fuori cioè della struttura temporale “voto fatto, grazia avuta”, ponendosi su un piano culturale collettivo ed agendo come fattore di aggregazione e di ulteriore identificazione del vicolo, del rione, del quartiere. L’edicola, infine, nota il Lombardi Satriani, “si pone come una variante liturgica, abolendo la mediazione ecclesiastica nel rapporto con il Divino e superando lo spazio chiuso dell’edificio adibito a culto”. L’edicola votiva, dunque, una volta realizzata, spezza i legami che la tenevano unita all’offerente ed accentra a sé il culto di un intero vicolo, diventa oggetto di culto di un ristretto gruppo sociale, legato da quei “sentimenti del noi” analizzati come è noto dal Sumner.

Così, nota efficacemente il Provitera, “l’edicola diventa parte integrante della vita del vicolo, facilita l’istituirsi del rapporto con l’effige rappresentata che, per chi vive questa realtà ed è partecipe di uno stesso orizzonte culturale, diviene personaggio familiare cui rivolgersi, confidando ad essa i propri problemi, i propri timori, le proprie aspirazioni. Le edicole votive sulmonesi sono costituite per la maggior parte da affreschi realizzati su pareti esterne e privi di quelle protezioni costituite da nicchie, dotate e non di sportello con vetro. Non mancano importanti eccezioni, come per esempio, a Largo Mercatello, dove un’edicola votiva di consistenti dimensioni e rappresentante la “Madonna della Neve”, è protetta da tali accorgimenti che le hanno assicurato un buono stato di conservazione. Nelle edicole costituite da affreschi ed esposti, senza protezione, all’azione corrosiva degli agenti atmosferici, tale stato ha raggiunto invece livelli allarmanti e ben farebbe la Civica Amministrazione a favorire il loro restauro, da affidare eventualmente allo stesso Istituto d’Arte di Sulmona. Degna di nota è poi la circostanza che alcune edicole mostrano preesistenti e primitive tracce di illuminazione, impianti che probabilmente furono favoriti all’inizio del secolo dalle stesse Autorità comunali in zone del centro storico non ancora servite dalla corrente elettrica.

La rete elettrica, infatti, inaugurata a Sulmona nei primi anni del nostro secolo, non serviva allo stesso modo piazze e strade cittadine e molti vicoli restavano perciò immersi nel loro buio storico. Se illuminati, accadeva spesso nei primi momenti che le scarse e fioche lampadine si fulminavano “misteriosamente” o venivano intenzionalmente rotte per diversi motivi, compreso quello – si legge in un numero di maggio 1907, del periodico sulmonese “La Riscossa” – di impedire che occhi indiscreti potessero osservare merci introdotte clandestinamente di notte, per sfuggire al “rapace” dazio, nonché a causa dell’esigenza, avvertita dagli innamorati, di “colloquiare” in piena oscurità.

Si intuisce allora come da parte delle autorità comunali si fosse prodighi nel concedere ai devoti l’autorizzazione per l’illuminazione dell’edicola votiva. Rompere una lampadina equivaleva, in questo caso, ad un’azione profanatrice nei confronti di uno “spazio sacro” e dell’immagine venerata, che, in tal modo, si riteneva che non espletasse più la sua azione protettiva sul singolo o sul gruppo. La paura di trasformarsi in persona sacrilega proiettava dunque sull’edicola illuminata un vero e proprio tabù sicché questa, accanto a tipiche funzioni salvifiche, svolgeva anche paradossalmente, un importante “servizio” sociale. Le edicole votive, dunque, costituiscono una importante pagina di religiosità popolare, e ci aiutano a ricostruire il complesso “pantheon” devozionale sulmonese. Pertanto, un recupero del centro storico della Città, che non tenesse conto dell’esigenza di un loro completo restauro, equivarrebbe alla ricomposizione di un mosaico mancante di alcuni indispensabili tasselli.

Franco Cercone  




PASTORIZIA ED AGRICOLTURA A PETTORANO SUL GIZIO

In un drammatico documento di Filippo Destephanis del 1859

[Pubblicato in “Rivista Abruzzese” Anno XXXVIII, N 1, 1985 Lanciano. Pgg. 39-42]

«Tempo di pastorizia». Così potrebbe essere definito il periodo compreso tra la primavera e l’autunno del 1983, in cui a più riprese si è discusso in vari convegni abruzzesi sul famoso “progetto transumanza” ideato dal Ministero per i beni culturali ed ambientali. Sono note a tutti le polemiche scoppiate in mento alla scelta dei tratturi e quindi delle aree geografiche da privilegiare mediante interventi statali, diretti alla tutela di tutti i monumenti storici in esse comprese. Nel fervore delle discussioni si è tralasciato, tuttavia, l’approfondimento di alcuni aspetti legati all’attività della pastorizia, come per esempio la compilazione di una carta contenente un censimento di tutte le capanne agropastorali esistenti in Abruzzo e Molise, nonché l’analisi della pastorizia come fenomeno “industriale”, legato cioè agli investimenti, operati nel settore da ricche famiglie, soprattutto romane. Non meno interessanti sarebbero risultate, nell’ambito di tali convegni, delle indagini dirette ad individuare i ritmi d’ascesa economica di alcuni «massari», che da umili pastori si trasformano in breve tempo in veri e propri industriali del settore ovino. Lo stemma infisso su un palazzo settecentesco di Pescocostanzo e contenente una testa di montone al posto delle solite “armi” o insegne nobiliari, rappresenta al riguardo un episodio che non richiede ulteriori commenti.

Il fenomeno poi della «pastorizia di sussistenza», collegato alla cosiddetta “microtransumanza”, resta ancora del tutto inesplorato in relazione al continuo stato di conflittualità fra pastori e contadini locali, come appunto nella conca peligna.  Una drammatica pagina di storia ci viene offerta in tal senso da uno scritto del notaio Filippo Destephanis, di Pettorano sul Gizio, padre dello storico Pietro, che sottoponiamo all’attenzione degli studiosi. Il manoscritto in questione, dal titolo “Memoria sull’origine dei tratturi”, faceva parte del fondo Pietro Destephanis, acquistato dall’antiquario Matteo Tonini, di Ravenna, cui va il nostro ringraziamento per la possibilità che ci ha offerto di pubblicarlo.

Franco Cercone

Da “Memoria sull’origine dei Tratturi”: Per avere una notizia dell’origine dei Tratturi è necessario rimontare fino al tempo in cui i romani riunirono al loro Impero il Sannio e le Puglie. Una parte di questa ultima regione fu destinato al pascolo del gregge in tempo d’inverno, col pagamento di un dazio.

Varrone è il più antico scrittore che ci ha lasciato memoria del passaggio del bestiame dal Sannio alle Puglie. Gli abitanti dell’Abruzzo han sempre esercitata l’industria delle pecore, favoriti dai luoghi montuosi ed alpestri, che si rivestono di eccellente e fertilissimo pascolo nell’estate; ma fu osservata la necessità di evitare la rigidezza del clima, e la Puglia con la sua dolcissima temperatura invitava nell’inverno alla trasmigrazione. Ecco, dunque, la trasmigrazione da un pascolo all’altro secondo le stagioni.

Non occorre parlare come fu alterata questa trasmigrazione di animali coll’occupazione dei Barbari, e come fu rimessa in piedi sotto il dominio de’ Normanni. Dopo tante vicissitudini Alfonso I d’Aragona si studiò di riordinare i pascoli della Puglia. Nel parlamento tenuto il 1443, egli, tra le altre

cose, stabiliva tre diversi cammini negli Abruzzi, col nome di tratturi, per la comoda trasmigrazione degli animali, pagando ai padroni il prezzo delle rispettive terre occupate da detti tratturi, i quali ne’ tempi posteriori furono limitati a 60 passi di larghezza, ognuno di 7 palmi napolitani. E, secondo Stefano di Stefano nella sua “Ragion Pastorale”, lo stesso Re Alfonso fe’ venire dalla Spagna le pecore di lana gentile, le quali distribuì tra gli Abruzzesi, come i più atti e pratici al governo di esse, e come abitanti in luoghi montuosi dove si trovano erbaggi teneri in tempo d’estate.

Alfonso, dunque, accrebbe l’industria delle pecore attribuendo le migliori terre del suo regno al pascolo. Oggi si comprende bene che un sistema pastorale non conviene che a popoli erranti e poco inciviliti, ma ciò che è cattivo nei tempi nostri non lo era ne’tempi antichi. Pertanto, sarebbe stato più sano consiglio ristabilire il cittadino insiememente (sic) pastore ed agricoltore.

Posteriormente per le doglianze de’ Pugliesi nel 1457, lo stesso Alfonso accordò loro di coltivare una determinata quantità di terre. Cresciuto il bisogno della coltivazione nel 1536, il Regno supplicava l’imperatore Carlo V per libertà dell’agricoltura nella Capitanata, ma non fu esaudito perché la domanda era opposta dall’interesse de’locati. Queste determinazioni contrastanti la prima sussistenza de’popoli, ad altro non servirono che a mettere in una perpetua guerra i pastori e gli agricoltori.

Le cose si portavano ad estremità pericolose, e si stimò vano il consiglio di non molestare coloro che avevano occupati i tratturi. Perché ancora ristretta l’agricoltura nella Puglia, il Regno fu travagliato da una carestia; il che obbligò il Governo nel 1555 ad accrescere altre terre all’agricoltura, come similmente fu fatto nel 1745.

Il secondo dei tre tratturi stabilito da Alfonso, incominciando da Celano per Popoli e Sulmona, svolgesi nella pianura lungo il fiume Gizio, e, passando vicino le mura di Pettorano, taglia a questi cittadini i più fecondi terreni e più adatti all’agricoltura, perché son là dove gli Appennini quasi dividendosi aprono il bacino peligno: i più atti dico e più fertili, non solo per la migliore qualità della terra, che per lo scolo di tutti gli umori delle due montagne.

Mentre poi tali terre, sì perché site nel piano fra le due montagne, perciò cretose; sì perché intersecate dalla strada consolare, il polverio di questa, innalzato nella primavera e nell’autunno dalla colluttazione dei venti, naturalmente inaridisce l’erba, e disseccandola fa si, che nel passaggio degli armenti non si ha più l’erba tenera e fresca, ma arida e secca.

Il che non avverrebbe se il tratturo volgesse e si portasse lungo la falda della montagna orientale, cioè in una zona tra l’inculto macchioso, e le terre coltive. La quale incominciando dalle Pietreregie, confine dei due territori di Sulmona e Pettorano, montando lievemente e poi prendendo una linea orizzontale lungo le coste e man mano rispetto a quest’ultima Terra, andrebbe pianamente a ricongiungersi col tratturo che traversa il tenimento di Roccavallescura.

Il poco bisogno dei terreni, per lo scarso numero degli abitanti, non facea pensare, in tempo che si stabilirono i tratturi, che alienando queste terre si toglieva alla popolazione ventura il mezzo della sussistenza. A questo si unisce pure l’occupazione degli Introdacquesi nelle altre terre anche migliori del Comune, le quali, ad essi alienate dagl’infelici Pettoranesi, formano la loro dimora coll’avervi stabilite case rurali, e prese altre terre a colonia. I Pettoranesi son rimasti colle terre sui monti o sul dorso di essi, le quali, per la scarsezza del ricolto, non son per nulla sufficienti ai bisogni della popolazione cresciuta.

Esuberando le braccia sono obbligati i meschini andar raminghi l’inverno, o nell’Agro Romano, o a Terra di Lavoro, o alle Puglie, imitando gli armenti, pervéro anche in Calabria, dove guadambiando il vitto gli uomini, riportano poche monete alla famiglia, che per lo più a stenti ha tirato l’invernata. Da alquanto tempo anche la State [estate] son costretti uscir dal paese a guadambiare un tantino per pagare i fitti delle terre coltivate dalle donne e bastanti neppure per la sussistenza di queste. Ed oh quante volte il marito, il padre, dovendo ripartire all’incominciar dell’inverno, lascia la moglie, la famiglia in mezzo alle premure del locatore che domanda il fitto del piccolo campicello! e senza la sussistenza per l’intera vernata.

 È causa di dolore e di dispiacere il vedere terre attissime all’agricoltura giacere inutili per un sol passaggio di armenti; mentre terre arenose e fresche, produttrici di erbaggi teneri, son rimaste all’agricoltura. Sorge perciò nell’Università il desiderio di domandare un cambiamento pel tratturo e questo volgere a coltura. 

Il Comune ha tanta poca rendita che per pagare i pesi comunali è obbligato mettere tanti balzelli che rendono più poveri gli abitanti. Col cambiamento del tratturo verrebbe ad acquistarsi rendita sufficiente per pagare questi pesi. Quindi inutili balzelli. Ed il contadino, preso a coltura dal Comune una porzione della terra occupata dal tratturo, vi ritrarrebbe la sussistenza per l’intera famiglia. Oltre a ciò: il cambio che si propone del tratturo può essere vantaggioso tanto ai Pettoranesi, per le esposte ragioni, essendo il terreno dove trovasi attualmente ben atto all’ agricoltura. Vantaggioso alla pastorizia, dappoiché, trovandosi l’attuale tratturo all’uscita del paese, l’erbaggio ne vien distrutto da’ continui usi degli abitanti; nel mentre che il tratturo nel luogo proposto resterebbe pieno in ogni stagione dell’anno di erba copiosa ed eccellente.

Non giova dire che le contravvenzioni al regolamento del 14 Decembre 1858 son punite. Certo che i tratturi per la loro destinazione (art. 1° del detto regolamento) debbono prestare copioso erbaggio sì nell’autunno quando il bestiame scende nelle Puglie; sì nella primavera quando fa ritorno sui monti.

Ma intanto il Paese per tempo inveterato, solito a servirsi di tale estensione di terreno per i diversi usi: cioè per la trebbiatura del grano, macerazione di canape, assolamento e disseccamento di vivai e fieno, passaggio continuo di animali, non potrebbe senza notabil danno difficilmente esserne impedito.  D’altronde col cambiamento del tratturo verrebbe ad essere compensato il disvantaggio con l’accresciuto ricolto: primo e necessario bisogno dell’uomo!

Questo è l’unico mezzo che può prospettarsi al Direttore del Tavoliere per rimuovere l’impedimento dell’uso cui è destinato il Tratturo, ed il meno vantaggioso per avere abbondante erbaggio nel transito de’ greggi e degli armenti de’ censuari pastori del Tavoliere.

Sia quindi tutto zelo dell’amministrazione il rimettere una ragionata domanda di cambiamento di suolo al Tavoliere di Puglia; perché compreso dell’utilità della cosa ne possa provocare la Sovrana Sanzione (Filippo De-stephanis).

Il dì 23 marzo 1859.




IL CULTO DI SAN FRANCESCO D’ASSISI

La Tradizione Popolare Abruzzese

[PUBBLICATO IN “RIVISTA ABRUZZESE” A. XXXVI, N 2 LANCIANO 1983 -Pgg. 151-155]

di Franco Cercone

«Tra Firenze e Roma – afferma il Sabatier nella sua notissima Vita di San Francesco d’Assisi – sarebbe difficile camminare mezza giornata per le montagne, senza incontrare, sulle cime, capanne che portino il suo nome»[1].

Numerosi sono infatti i toponimi, soprattutto in Umbria, che ricordano il passaggio o la dimora del Poverello in quelle contrade.

Alla ricchezza delle testimonianze che si riferiscono ad una vasta area dell’Italia centrale, fa riscontro tuttavia per l’Abruzzo una modesta mole di riferimenti, che concernono non solo la toponomastica, ma anche il patrimonio della nostra letteratura orale, soprattutto leggende sacre e canti
popolari religiosi inerenti alla vita ed alle opere del Santo.

Questa circostanza, a nostro avviso, non è casuale, ma va ricollegata a quei cosiddetti «fattori di non rielaborazione popolare» di cui tenteremo, in tale sede, di individuarne i motivi.

Va sottolineato comunque, che l’epicentro cultuale sembra manifestarsi in Abruzzo lungo una direttrice i cui riferimenti geografici sono costituiti da Carsoli, Celano, Castelvecchio e Sulmona. Questa direzione ovest-est appare in stretta relazione con i due viaggi compiuti da San Francesco
nelle nostre contrade, in un periodo compreso approssimativamente fra gli anni 1215-1226, ma al riguardo non lievi sono le incertezze fra gli studiosi e biografi del Serafico.

Il Santo, in pratica, segue un tratto dell’antica via Valeria, allorché, secondo alcune fonti, conclusosi a Roma il Concilio Ecumenico Lateranense nel novembre del 1215, si dirige a Celano. Fermatosi a Carsoli, presso l’eremo di Santa Maria, sito sul colle Vezziano, S. Francesco vi avrebbe
fondato un convento dove, per la sua presenza, accorrevano di continuo folle di fedeli, e per sottrarsi ad esse, narra una leggenda registrata da diversi storici, il Santo è costretto a rinchiudersi in una cella da dove, attraverso una graticcia di ferro, parlava con la gente ed ascoltava le loro suppliche[2].

Questo episodio della vita del Santo, tramandatesi di generazione in generazione, deve aver subito notevoli varianti anche sotto il profilo geografico, poiché in una di queste, registrata dal Degli Abbati nel secolo scorso, San Francesco non proveniva da Roma ma da Greccio: «Vedete sulla collina a destra del convento? – afferma questo Autore – Lo fondò San Francesco di Assisi, quando da Greccio venne e qui ristette. Tuttora vedesi la finestruccia con la grata di ferro, attraverso la quale egli parlava alle genti che venivano a lui»[3].

Sembra che nello stesso inverno del 1215, il Santo lasciasse Carsoli per raggiungere Celano. A questo viaggio si ricollega il noto episodio del mantello, che, secondo San Tommaso da Celano, il Serafico avrebbe ricevuto da un cittadino di Tivoli. Il racconto è il seguente: San Francesco incontra per strada una vecchietta che chiedeva l’elemosina. Non avendo altro da offrire, egli si priva del panno che indossava e lo regala alla povera donna, pensando che a causa del freddo il dono le sarebbe riuscito gradito. Dopo un po’ di tempo però, la vecchietta raggiunge di nuovo il Poverello e lo informa che il panno avuto in regalo non era sufficiente per confezionare un mantello. Al che San Francesco invita uno dei suoi seguaci a privarsi anche lui del panno ed a donarlo alla donna[4].

A parte questi episodi, fra cui spicca anche quello sulla mamma del Santo, raccolto e pubblicato dal Finamore nel 1901[5], è interessante la sacra leggenda pubblicata dal Pansa nel 1927, nel secondo volume di “Miti, Leggende e Superstizioni dell’Abruzzo”. Notevole è la circostanza che le informatrici del demologo sulmonese sono in questo caso due donne di Castelvecchio Subequo, di cui egli riporta anche i nomi. «San Francesco – si legge nella leggenda raccolta dal Pansa – dimorava a Castelvecchio Subequo, nel convento da lui fondato, e godeva fama di grande predicatore.

Una volta fu chiamato a Celano… e la sua parola vi destò il più grande entusiasmo. Era signore di quella Terra un certo barone Leggerone, un soggetto assai cattivo, il quale non credeva a Dio e ai Santi e perseguitava crudelmente i terrazzani. La moglie (…del barone) avendo saputo dell’arrivo di San Francesco, ebbe l’ispirazione d’invitarlo a palazzo e gli suggerì anche l’idea di convertire il marito. San Francesco accettò l’invito… Mentre fervevano i preparativi del pranzo… fu notato con meraviglia che mancava la frutta. Si mandarono allora per la campagna tutti i servi del palazzo, a fine di ricercarla, ma non fu possibile. Una forte siccità aveva quell’anno distrutti i raccolti… Non fu questa però la sola o la peggiore disavventura di quel giorno. Mentre si allestiva il banchetto, un bellissimo bambino, unico erede del barone… andò per disgrazia a cadere in un caldaio d’acqua bollente e vi perì… La festa tanto sfarzosamente preparata, si convertì in funerale. Ma San Francesco, che assisteva a quello spettacolo, non si scompose affatto e rivolte le pupille al cielo, si inginocchiò e parlò. Poi alzatosi, andò difilato ad un armadio, ch’era addossato alla parete, l’aprì e… chi si vide? In piedi e sorridente, il figliuolo del barone faceva bella mostra di sé, sostenendo con le mani un vassoio di legno sul quale spiccavano tre bellissime arancie… »[6].

La presenza di San Francesco a Castelvecchio Subequo è attestata, secondo la tradizione popolare, da un’altra sacra leggenda raccolta dal De Nino e relativa alla mula del Santo. Il Serafico, come si apprende da questa, dimorando nel convento di Castelvecchio, «aveva ordinato alla sua mula di andare ogni giorno a fare la questua nel paese. La povera bestia obbediva ed ogni qualvolta faceva ritorno al convento, picchiava sulla terra col piede per farsi aprire dal frate portinaio. Miracolosamente fino ad oggi, si è conservata l’impronta di uno dei ferri della mula di San Francesco ed è sormontata da una croce»[7].

Alcune leggende, inoltre, come avviene di frequente in casi simili, dovevano essere sorte intorno alla reliquia del sangue delle stimmate di San Francesco, conservata appunto nel convento di Castelvecchio. Secondo una testimonianza dell’Antinori, tale sangue si scioglieva ogni 17 settembre, nella ricorrenza della festa del Serafico.

Nella sacra leggenda raccolta dal Pansa, si è visto poi come il figlio del barone Leggerone (così la tradizione ha trasformato il nome di Ruggierone, conte di Celano), ritornasse in vita grazie all’intercessione di San Francesco con tre arancie poste su un vassoio. Pare infatti che il Santo avesse
una particolare predilezione per gli alberi di arancio ed il De Simone ci dice in particolare che la cappella di San Francesco a Lecce sia sorta proprio nel punto dove il Serafico «dormì sulla nuda terra e dove piantò uno degli aranci, che vissero per secoli»[8].  La volta e le pareti del coro del monastero di San Francesco a Sulmona, erano state affrescate nella metà del 400 da Andrea da Lecce (Magistro Andrea pictore di Lictio), come risulta da un documento pubblicato dal Piccirilli, il quale sottolinea che «ogni parete dell’abside era spartita… in tre riquadri, ciascuno dei quali mostrava un fatto della vita del Santo»[9]. Tali affreschi sono andati purtroppo perduti e non sappiamo se contenessero qualche riferimento alla singolare debolezza, chiamiamola così, del Serafico nei confronti dell’arancio,
tema del resto che è assente anche negli affreschi del convento di Castelvecchio.

Ora, malgrado le ricerche effettuate e dirette ad ampliare il patrimonio della nostra letteratura orale intorno a San Francesco, non sono stati ottenuti quei risultati che si attendevano. Da quella meravigliosa e preziosa biblioteca, che è appunto la memoria dei nostri vecchi, sembra scomparso il più bel libro che si riferisce alla rielaborazione popolare dell’opera e della figura del Poverello d’Assisi. In qualche caso, inoltre, ci siamo trovati di fronte ad un singolare fenomeno di rigetto, come dimostra una leggenda raccolta dal De Nino e pubblicata nel IV volume dei suoi Usi e costumi abruzzesi. In essa infatti vi si narra l’episodio che abbiamo visto in precedenza e relativo al bambino morto nel caldaio d’acqua bollente. Ma in questo caso, e ciò è significativo, ad operare il miracolo non è San
Francesco, bensì Sant’Antonio da Padova[10]. E poiché nel mondo popolare non esistono a nostro avviso visioni frammentarie della realtà, né i cosiddetti «prelogismi» applicati come categorie innate ad altre culture, il demologo difficilmente resiste all’impulso di dare un ordine ai pur sparsi tasselli che formano l’apparente «non senso» di tale mosaico comportamentale.

Francesco, in sostanza, il santo della povertà evangelica e della rinunzia ai beni materiali, si presenta come latore di un messaggio che scarse possibilità aveva di essere recepito dalle «plebi rustiche» delle nostre campagne, da tempo avvezze a lottare contro una natura ostile, espressa già nel periodo italico in chiave mitica e sovrastrutturale dal culto per Ercole.

E questa natura è fatta essenzialmente di rischi, cui il pastore ed il contadino sono periodicamente esposti nel ciclo dell’anno e della vita.

Come comprendere, dunque, il disprezzo del Santo per il denaro oppure il castigo imposto dal Serafico ad un suo discepolo, che aveva raccolto alcune monete da terra, quando queste potevano servire all’acquisto di una pur piccola manciata di sementi?[11] Si spiega allora una credenza assai comune in Castelvecchio Subequo, secondo la quale – come mi hanno rivelato molte informatrici[12]  sognare San Francesco d’Assisi equivale ad un brutto presagio per la famiglia, porta sfortuna!

Non di messaggi, dunque, che ricordassero ai poveri la loro povertà, ma di aiuti extra umani che li garantissero dalle tensioni del ciclo preposto alla produzione dei beni essenziali, hanno bisogno gli umili strati sociali, i quali, spesso in modo sincretico, rielaborano un «pantheon» di potenti divinità preposte alla salvaguardia delle messi, della moria del bestiame, alla protezione dei beni dal fuoco e dalle acque, fino alla salute delle mamme che allattano, poiché spesso i bimbi non avevano altro di cui sfamarsi se non il latte materno.

Ecco allora stagliarsi sull’orizzonte delle nostre comunità figure possenti di santi, come S. Antonio Abate, che protegge il bestiame, S. Agata, che assiste le puerpere, S. Nicola, che protegge il pastore transumante ed assicura il pane alla famiglia, S. Donato, che protegge dall’epilessia, un male sociale originato nelle nostre contrade dal consumo non ozioso del vino, essendo una sostanza zuccherina e  quindi energetica, di cui il contadino può facilmente disporre durante i faticosi lavori sui campi.

San Francesco si allontana così da questo mondo, in parte del tutto scomparso, che non respira se non povertà, sfumando lentamente sull’orizzonte delle società rurali abruzzesi, ed al suo posto subentrano altri Santi, come S. Domenico di Cocullo, più idonei a dare una risposta ai corposi problemi quotidiani, non privi di drammaticità, che le popolazioni umili si trovano ad affrontare. Il messaggio del Serafico non è, tuttavia, del tutto scomparso, poiché in un mondo, come il nostro, in cui si fa «footing» per smaltire le calorie eccessive della società consumistica, v’è gente, nel cosiddetto «Terzo Mondo», che non fa movimenti per non consumare quelle poche energie superstiti e che garantiscono una misera esistenza.

Franco Cercone


[1] P. Sabatier, Vita di San Francesco d’Assisi, p. 235 sgg.; Roma, Loescher & C.,1886.

[2] N. Papini, La storia di S. Francesco d’Assisi, vol. I, p. 87; Foligno, Tommasini Ed., 1825.

[3] L. Degli Abbati, Da Roma a Sulmona. Guida storico-artistica delle regioni attraversate dalla nuova -ferrovia, p. 83; Roma 1888.

[4] Cfr. al riguardo la “Vita Seconda di San Francesco d’Assisi”, del Beato Tommaso da Celano, in Fonti Francescane, vol.I, LIII, p. 623 sgg.; Assisi, a cura del Movimento Francescano, 1977.

[5] Cfr. G. Finamore, La mamma di San Francesco, in «Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti», 1° Supplemento, p. 79, Teramo 1901.

[6] G. Pansa, Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo, voi. II, pp. 239- 40; Sulmona 1927.

[7]  Cfr. G. Pansa, ivi, vol. I, pp. 142-43.

[8]  L. G. De Simone, Intorno a Maestro Andrea pittore, in «Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte», n. 7, 1899, p. 66, Casalbordino 1899.

[9] P. Piccirilli, La chiesa di S. Francesco di Sulmona e il pittore Andrea di Lecce, in «Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte», n. 4, 1898, p. 38; Casalbordino 1898.

[10] Cfr. A. De Nino, Usi e costumi abruzzesi, vol. IV, p. 171 sgg.; Firenze 1877.

[11] Cfr. Fonti Francescane, cit., I, p. 606 sgg.

[12] Citiamo per tutte la Signora Francesca Incani, insegnante, di anni 43, cui esprimiamo il nostro più vivo ringraziamento.




SINGOLARE OLLA CINERARIA RINVENUTA IN TERRITORIO PELIGNO

di Franco Cercone

[Pubblicato in Abruzzo Oggi, n. 18, Pescara 1982. Contiene una vera e propria scoperta etnografica: l’uso, finora sconosciuto nel culto romano dei morti, di deporre nelle olle cinerarie tre chiodi piegati in modo da costituire le iniziali del nome, prenome e cognome del defunto.]

La conoscenza occasionale di un contadino curioso e nello stesso tempo superstizioso ha permesso di poter descrivere una singolare olla cineraria venuta alla luce recentemente nell’area peligna e precisamente in località Casali di Cocullo [foto1]. Per tale motivo si è ritenuto utile riportare le immagini del reperto e del suo contenuto, da cui dipende appunto la singolarità dell’olla in questione. Quando infatti, dal contadino che l’ha rinvenuta, è stata tolta la terra che l’aveva riempita, son venuti alla luce tre chiodi in ferro forgiato, piegati e torti in modo diverso l’uno dall’altro nonché frammenti di ossa umane. Per la fertile fantasia del nostro contadino, tali chiodi non rappresentavano altro che i mezzi del martirio di un povero infelice condannato alla crocifissone. A noi invece la strana foggia dei chiodi ha richiamato alla mente la possibilità, reale, che si trattasse di tre lettere dell’alfabeto riferentisi al nome del defunto di cui si è voluto tramandare la memoria nel tempo. Insieme alla flessione, si nota che i tre chiodi appaiono anche torti sull’asse, indice questo di chiara volontà rivolta a trasmettere semanticamente un messaggio [foto 2].

Le olle che finora sono state pubblicate e studiate, anche da un punto di vista morfologico in relazione alla «logica del recipiente» (si allude qui alla ormai famosa analisi condotta da G. Profeta), sono in genere “anepigrafi”, essendo destinate all’interramento. Alcune riportano graffite sulla parete delle lettere che, se non sono l’abbreviazione del nome del defunto, si riferiscono alle iniziali di una dedica pregna di “pietas”.

Altre volte la memoria del nome del defunto era affidata a steli posti nella terra al di sopra dell’olla interrata. La singolarità del reperto in questione consiste dunque nella circostanza che il messaggio, sia esso un nome, una dedica o forse anche uno scongiuro, non è affidato alla parete vascolare dell’olla fittile, né, per quanto ne sappiamo, a una piccola stele che, se esisteva, è andata dispersa, ma a tre chiodi forgiati, come se l’antico ed ignoto offerente avesse voluto proteggere di più la «personalità» del defunto.

Ci siamo preoccupati ovviamente di consultare testi di epigrafia ed abbiamo richiesto il parere di studiosi italiani e stranieri per accertarci se in passato siano venuti alla luce reperti simili a questo descritto.

Le indagini condotte a tal fine non hanno portato ad alcun risultato positivo e ciò rafforza la nostra convinzione che ci troviamo di fronte ad un reperto di grande importanza e capace di apportare contributi diretti alla conoscenza di particolari aspetti archeologici ed antropologo-culturali.

Si diceva in precedenza infatti che nell’olla sono stati rinvenuti frammenti di ossa appartenenti inequivocabilmente, come è risultato da un esame specialistico, a resti umani.

Essa misura cm. 38 di altezza a coperchio in situ, la circonferenza all’imboccatura è di cm. 46 mentre quella massima è di cm. 85,5. I tre chiodi sono lunghi cm. 12 e presentano ognuno quattro facce. Le fattezze dell’olla, del tipo di impasto e dei chiodi forgiati fanno datare il reperto intorno al II-I sec. a.C. circa. A partire da tale periodo la pratica ed il rito dell’incinerazione sono attestati, in una fase ormai di romanizzazione della Penisola, in maniera diffusa ovunque ed anche nell’area peligna, ma senza carattere di esclusività, poiché l’inumazione costituisce pur sempre la forma comune di seppellire i defunti, con tutte le premesse antropologiche e religiose che l’accompagnano. Tuttavia, se altrove l’incinerazione costituiva anche la risoluzione di problemi urbanistici, con l’occupazione appunto di minori aree da destinare alle sepolture (vedasi a proposito la fondamentale opera di L.V.Thomas, Anthropologie de la mort, p.300 sgg.,Paris, Payot Ed. 1975), in un’area come quella in cui è venuta alla luce l’olla descritta, priva di un centro a densa concentrazione demografica, viene a mancare tale presupposto tecnico-organizzativo ed il rito dell’incinerazione assume una dimensione che è solo di natura etico-religiosa. Ed il rilievo va esteso a nostro avviso a tutto il territorio peligno.

Tornando ai chiodi, noi riteniamo che essi si riferiscano ad un nome, a meno che, se è esatta la disposizione che abbiamo dato loro, non indichino la frase “Cum Lacrimis Posuit”, dato che la piegatura che è stata loro impressa sembra richiamare appunto le tre lettere dell’alfabeto C,L,P. Ma non è da escludere ovviamente altra interpretazione, compreso uno Spruch a carattere magico-religioso.

A noi comunque resta la soddisfazione di aver reso noto un messaggio, a distanza di due millenni, da parte di colui che ha introdotto i chiodi nel vaso, messaggio che, malgrado tutti i moderni mezzi d’indagine, è destinato forse a restare un «mistero archeologico».




IL CULTO DI SAN DONATO NELLA VALLE PELIGNA

I centri cultuali e “l’Urazione de sante Denàte” a Cansano

[Pubblicato in “rivista abruzzese”, a. Xxxv, n°1, lanciano (ch) 1982, pp.59-62.]

di Franco Cercone

Fra i canti religiosi popolari che da qualche tempo vado raccogliendo nell’area peligna ve n’è uno, particolarmente interessante, che ho registrato dalla viva voce della Sig.ra Di Giacomo Maria Govanna, contadina di anni 75, dimorante a Cansano (Aq.). Si tratta de l’uraziòne de sante Denàte, la cui importanza non tanto è costituita dalle varianti che esso presenta rispetto alle versioni registrate dal Lupinetti e dalla Nobilio[1], quanto invece da alcune considerazioni di carattere socioeconomico inerenti alle funzioni del culto e di cui anche altre informatrici intervistate sono apparse ben
consapevoli. II «male di S. Donato» o epilessia, lungi dal collocarsi così su un piano metastorico come «mal di luna» o malattia misteriosa, legata a circostanze della nascita e via dicendo, si è rivelato invece come male sociale e «storico», legato a particolari condizioni ambientali ed alimentari che, almeno per l’area peligna, in passato sono risultate determinanti.

La prima parte di questo breve studio che, diciamolo subito, non ha alcuna pretesa di considerarsi esauriente, è rivolta tuttavia agli aspetti filologico-letterari die scaturiscono dal testo dell’uraziòne di Cansano, salvata dall’opera distruttrice cui negli ultimi tempi l’ha condannata il Clero locale[2].

Essa veniva cantata fino a qualche tempo fa dalle poche vecchie superstiti durante la processione in onore di S. Donato, che continua a svolgersi tuttavia nel mese di settembre partendo dalla chiesetta settecentesca sita nella periferia di Cansano. Il S. Donato di cui parliamo fu vescovo di Arezzo ed il suo dies natalis cade il 7 agosto, per aver subito proprio in tale giorno il martirio sotto l’imperatore Giuliano intorno al 360-363 d. C.

La specificazione si rende necessaria poiché nel Martirologio Romano sono annoverati ben altri 17 santi con tale nome ed il Nostro viene confuso soprattutto con S. Donato di Fiesole, anch’egli vescovo, di origine irlandese, vissuto intorno al IX sec. ed il cui dies natalis cade invece il 30 settembre[3].

Se scorriamo le antiche Bolle corografiche della Diocesi di Valva e Sulmona, si resta perplessi nel constatare l’assenza di chiese dedicate a tale Santo, eccezion fatta per Ofena, dato che la Bolla di Innocenzo II (1138) menziona in tale località fra le altre quella dedicata a S. Donato[4]. Si ha notizia dal Pansa, inoltre, che per meriti insigni Sulmona aveva concesso allo storico Emilio De Matteis la cappella di S. Donato, sita nella chiesa di S. Agostino, dove appunto fu tumulato nel 1681[5].

Non sappiamo però con sicurezza se tale cappella sia coeva o successiva alla chiesa degli
Agostiniani[6].

L’unico centro cultuale peligno, che per il concorso di devoti assume grande rilevanza, è il santuario di S. Donato a Castel di Ieri, centro agricolo della valle Subequana, denominato castellum Ildegerii nelle Bolle corografiche citate.

Qui il 3 settembre affluiscono molte compagnie di devoti da ogni parte d’Abruzzo ed accompagnati dai congiunti non mancano gli epilettici o, come si dice anche, coloro che sono affetti dal cosiddetto male de S. Donate e che il Santo ha appunto potere di guarire.

Si tratta però di un ignoto martire, e ciò è singolare, sepolto in una fossa comune nelle catacombe di S. Ponzano a Roma, i cui resti furono donati – donde il nome Donato con cui il martire stesso fu ribattezzato dall’ Universitas di Castel di Ieri – dalla S. Sede alla chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta[7].

Tale donazione fu effettuata nell’ottava di Pasqua del 1753, sotto il governo del vescovo Carlo De Ciocchis e pertanto l’ignoto martire è venuto ad ingrossare la lista dei Santi che sotto tale nome sono menzionati nel Martirologio Romano[8]. Ma torniamo all’urazione di Cansano, che dopo Castel di Ieri si presenta come il maggior centro cultuale peligno.

Il testo dell’uruzione viene riprodotto fedelmente come è stato scritto dalla informatrice di Cansano su due pagine di un quaderno scolastico e di esso è stata inviata copia fotostatica alla redazione della Rivista Abruzzese. La trascrizione musicale è opera del Maestro Benedetto Bianchi, noto musicologo sulmonese, che in tale sede ringrazio vivamente. Mi sembra opportuno sottolineare che il testo è strutturato in quartine per lo più di versi dodecasillabi (secondo il cosiddetto orologio della passione), per cui si hanno 24 quartine che sono chiuse in tale circostanza dalla venticinquesima in onore della SS. Annunziata.

Urazione de S. Dettate, 25 anne a gliu letto melate, “scritto a mento” da Di Giacomo Maria Donata, anni 75, Cansano.

Perza  la forza mia  e perza lungegno
questa è la morte che mi vè a cità
ognuno me la vete da questo regno
perza la forza mia e perza lungegno

Agli due mi sintì chiamare
sentì una  grosse voce al’improviso
erano gli miei compagni guali guali

e agli due mi sentì chiamare

Agli tre veddi  chi mi a visto

vedde la cascia della mia gioventù

gli maestri che laveva fatto ben provista

agli tre veddi chi mi ha visto

Agli quattro mi sentì feruto

misericordia cerca dal mio petto

la lingua mi diceva aiuto aiuto

agli quattro mi sentì feruto

Agli cinque mera misso a letto
ma tutti me lo dicevano non digione
gli occhi mi piancevano con molto affetto
e agli cinque mera misso a letto

Agli sei mi valse confessare
cercare perdono a quella mamma mia

questo viaggio ognuno gli abbiamo da fare
e agli sei mi volse confessare

Agli sette la bella sapienza
la lingua mi cercava la comione
Dio te  la pozzo dare a salivamiento
agli sette la bella sapienza

Agli otto con molte persone
minevano in casa mia a visitare
ognuno se la contava la sua raggione
agli otto mi volse confessare

Agli nove mi posa annegare
dentro la casa mia una gran tempesta

nessun aiuto mi prodasti dare

agli nove mi posa annegare

Agli dieci voglio far prodesto

guarda la faccia mia pare una masca

o mamma hanno finosto le negri vesti
agli dieci voglio far prodesto

Agli undici mi sente sconfidato
o spiziale mio fatto alento
guarda il puzo mio quanto a mancato
agli undici mi sento sconfidato

Agli dodici veddi gli miei parenti
venivano in casa mia a visitare
ognuno la contava la definrenza
agli dodici veddi gli miei parenti

Agli tredici voglio domantare
quello che porta la comunione
me la potesse l’anima salvare
agli tredici voglio domantare

Agli quattorci la madra pietosa
le vedde le negri veste ricomprare
questo servano pe rivestire lo sposo
agli quattorci la madra pietosa

Agli quintici la mia sorella scapelata
venne a gliu letto a farmi la croce
quest’anima ti sia raccomantata
agli quintici la mia sorella scapelata

Agli sedici mi rivolto agli angeli
senti le truppe e le campane sonare
o mamma hanno fenito i dolci canti
agli sedici mi rivolto agli angeli

Le veddi comprare le bianche torte[9]per stu corpo morto
fateci un dono che dovete fare
agli diciassette le vedde comprare

Sentì una grossa voce
erano gli miei compagni gualuva  gualuva
portavano le crilante  delle rose
agli diciatto sentì una grossa voce

Agli diciannove la madre si acosta

ci si acosta con una carta scritta
di pegno non si potevano per il ghiostro
agli diciannove la madre si acosta

Agli vente abbiamo arrivato al posto
sono arrivato a questo lugno santo

ditelo per me un paternostro
agli vente abbiamo arrivato al posto

Agli ventuno gliu ficiuolo si canta
le campanelle suonano nalta voce
o mamma hanno fenito gli dolci canti
agli ventuno gliu ficiuol si canta

Agli venteddu la madresi acosta
ci si acosta con una carta scritta
di pegno non poteva per l’ighiostro
agli venteddu la madre si accosta

Agli ventetrè fu morto e settirato
unanima non si trovava per la terra
piancete amori miei parenti e frati
ai ventetrè  fu  morto e  settirato

Agli ventequattre si apri la sepeltura
guarda la faccia mia pare d’acciaio
o mamma  hanno fenito  le miei fegure
agli ventequattre si apre la sepoltura

Agli venticinque fu la gloriosa

il giorno ella santissima Nunziata

la Madonna fu la cara sposa
per tutto il monto fu santificata

Le quartine seguono come si vede, per quanto concerne la rima, lo schema a/b/a/a che risulta simile a quello della versione registrata dal Lupinetti, mentre da quest’ultima si discosta quella della Nobilio. Un cenno a parte meritano i primi due versi dell’Urazione di Cansano. Nelle due versioni suddette essi si rinvengono infatti separati ed inseriti in quartine diverse (Nobilio), mentre nella versione del Lupinetti compare solo il primo verso, che è lo stesso con cui inizia un canto raccolto dal Salomone-Marino: “Persi la mente mia, persi lu necgnu”, uno dei dieci che ricorda il Vespro Siciliano[10].


[1] Cfr. P. Donatangelo Lupinetti, “Castiglione Messer Raimondo e il suo tesoro”, p. 112 sgg., L’Aquila 1963; E. Nobilio, “Vita tradizionale dei contadini abruzzesi nel territorio di Penne”, p. 192 sgg., Firenze 1962. La bibliografia sull’argomento è assai vasta, anche se per l’area abruzzese resta fondamentale un lavoro di Emiliano Giancristofaro dal titolo “Il male sacro in Abruzzo”, apparso nella «Rivista abruzzese», n. 4, 1967, p. 3 sgg. Vedasi anche AA. VV., “Mal di luna. Folli, indemoniati, lupi mannari: malattie nervose e mentali nella tradizione popolare, p. 28 sgg., Roma, Newton Compton, 1981, introduzione di A. Di Nola (lo studio su «II male di S. Donato» è opera di G. Lutzenkirchen).

[2] Io non so fino a che punto si possa parlare per altre aree, come per es. quella marsicana, di «feste popolari cattoliche», poiché non sono un «teorico». Per quanto concerne quella peligna, l’osservazione diretta mi ha fatto constatare purtroppo che i termini «popolare» e «cattolico» risultano spesso inconciliabili e l’azione omologante della liturgia cattolica, trova proprio nei vescovi i suoi più tenaci assertori. Chi ne ha voglia, può consultare al riguardo ciò che il vescovo di Valva e Sulmona, F. Amadio, sosteneva nel «Bollettino Diocesano» (n. 6, nov. 1973): «Per una rinnovata celebrazione delle feste religiose popolari».

[3]  Cfr. P. Bargellini, Mille Santi del giorno, p. 440; Firenze 1978.

[4]  N. F. Faraglia, “Codice Diplomatico Sulmonese”, Doc. XXXIII, Lanciano 1888.

[5] G. Pansa, “Emilio De Matteis. L’opera sua e i cronisti sulmonesi”, in “Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte”, fasc. II, 1897, p. 147 sgg.

[6]  II Sac. A. Leombruno, in un opuscolo dal titolo “San Donato Vescovo e Martire nella storia e nella tradizione popolare” (Sulmona 1960) sottolinea che tale cappella è sorta contemporaneamente alla chiesa di S. Agostino. Fondata verso la fine del sec. XIII, quest’ultima fu distrutta dal terribile terremoto che devastò Sulmona il 3 nov. 1706. Si salvò la sola
facciata che fu infissa nel 1883 nella chiesa di S. Filippo Neri, sita in Piazza Garibaldi. Un’altra chiesa dedicata a S. Donato, ma orami diruta, sorgeva a Goriano Sicoli e di essa dà qualche notizia lo stesso Leombruno (ivi, p. 34).

[7] Importante è anche la festa che si svolge a Castel del Monte il 6 e 7 agosto nella chiesetta di S. Donato sita fuori il paese che, pur appartenendo alla Diocesi di Valva e Sulmona, è tuttavia in area vestina.

[8] Cfr. anche A. Leombruno, ivi, p. 20.

[9] Data la struttura del canto, le strofe 17 e 18 hanno una diversa impostazione, confermatami del resto dalla Sig.ra Carmela Di Giacomo, di Cansano, casalinga, di anni 62: «Agli diciassette le vedde comprare / le bianche torte pe stu corpo morto / fateci un dono che dovete fare / agli diciassette le vedde comprare. Agli diciotto senti una grossa voce / erano
gli miei compagni gualuva gualuva / portavano le crilante delle rose / agli diciotto senti una grossa voce».

[10] Cfr. F. Napoli, “Storia della Città di Mazara”, p. 61, Mazara 1932, rist. anast. Bologna, Forni, 1974.




SINGOLARE COSTUMANZA

In uso presso gli abitanti di Cansano e Campo di Giove  in un documento del 1755 redatto a Pacentro

di Franco Cercone 

[Pubblicato a Sulmona, Ed. Italia editoriale, 1972, pp. 8. Qui riproposto in versione integrata dalle annotazioni e correzioni poste dallo stesso A. a margine del testo stampato]

Nel numero 1 della “Rassegna Abruzzese di storia ed arte” 1897, si legge, inserita nella rubrica “Usi e costumi Abruzzesi”, pag.65, la seguente nota di G. Pansa, che riporto qui interamente:

“Il documento che segue fa parte di un volume miscellaneo ms. del canonico Giuseppe Pansa, mio antenato. È copia d’un istromento redatto a Pacentro, e contiene la notizia di una singolare costumanza in uso presso gli abitanti di Cansano e Campo di Giove. Vi ha di notevole che le parole ‘E’ palmizio e non è pasquizio’  pronunziate il Sabato Santo dai naturali di Campo di Giove contro quei di Cansano, suonavano ingiuria e davan luogo a reazioni e disordini. Perché? Forse qualche rito religioso si annetteva a quelle parole? Qualche tradizione poco onorifica per i Cansanesi? Indaghino gli studiosi di usi e costumi locali”. (G. PANSA)

“In Dei Nomine Amen. Die vigesima mensis Aprilis, tertiae Indictionis, anni 1755, actum in Terra Pacentri, et proprie in domo Mag. Donati Galterio, sita etc.… iuxta etc… regnante etc… anno etc…

Nos de lìcentia obtenta a Rev. Vicario Phoraneo eiusdem Terrae ob festum Dominicae etc… Personalmente costituiti avanti di noi Pietro Silvestro, Giovanni Mastrangelo, ed Antonio Galterio della sud Terra di Pacentro, li quali spontaneamente e non per forza alcuna, … attestano, dichiarano, e rattificano come non solamente ad essi costituiti, e tutti di questa Terra, ma anche alle Terre convicine a quelle di Campo di Giove, e Canzano è noto, e manifesto, che anticamente in ogni anno nel giorno del Sabato Santo, che ricorre la Festività della Resurrezione di Nostro Signore, li Cittadini di essa Terra di Campo di Giove in comitiva fra’ grandi, e piccoli con tamburri, e campane di armento, ed archibugi erano soliti a portarsi in un Colle detto il Morrone, ove si riguarda la Terra di Canzano, tenimento di essa, ed ivi con suono di tamburri, e Campane, e spari di archibugio a scherzarla, e beffeggiarla con urli, e con alta voce, dicendo E’ Palmízio e non è Pasquizio, e con altri improperj, li Cittadini di d. Terra di Canzano per lo spazio di più ore, di modo che per tali impertinenze vi sono nati varii dissordini, e risse, ed inconvenienti fra detti Cittadini di Campo di Giove, e quelli di Canzano, più volte detti Cittadini di Campo di Giove ne sono rimasti bastonati, e dissarmati di detti archibugj, campane, e tamburri, tanto vero, ch’essi Pietro Silvestri e Giovanni Mastrangelo più di un’anno sono stati spettatori di dette risse; detto Antonio Galterio, per essersi ritrovato da circa anni sette in otto in detta Terra di Campo di Giove in detto giorno di Sabato Santo per alcuni suoi affari, vidde ocularmente una caterve di cittadini armati con tamburri, e campane di armento, ed armi da fuoco dopo l’ora di pranzo, che si portarono in detto Colle detto il Morrone a far le solite beffeggiature, a dire è Palmizio non è Pasquizio, materia per altro, che ha fatto, e fa inorridire tutte le Terre convicine a ‘detti Cittadini di Canzano, ma ben’anche perchè venivano propalate ne’ giorni dedicati alla Passione di G. C. Ch’è quanto hanno potuto testificare di loro certa scienza, colla promessa di rattificarlo sotto lo stesso vincolo di giuramento avanti qualsisia Giudice, Tribunale, loco, e foro etc. Quibus omnibus ita peractis, sponte requísiverunt nos, ut publicum conficere deberemus actum. Nos enim etc. Unde etc. Praesentibus Honuphrio de Lisio,Terrae Pacentri Regio Iudice ad contractus, Mag. Donato Galterio, Stephano Maccione, etc. etc”

L’esortazione davvero stimolante rivolta da G. Pansa ai folkloristi e storici del suo tempo, passò stranamente inosservata. Questa circostanza mi ha offerto pertanto la possibilità di indagare sulla strana costumanza cui il documento redatto a Pacentro si riferisce. Essendo inoltre di Cansano, mi premeva accertare innanzitutto se le due ipotesi avanzate dal Pansa rispondessero a verità.

Man mano che sottoponevo i vecchi di Campo di Giove e Cansano a continue pressioni mnemoniche, senza pervenire ad alcun risultato positivo, svaniva in me lentamente la speranza di scoprire il significato di quelle parole (è Palmizio non è Pasquizio) legate ad avvenimenti così lontani da noi. Restava ancora un vecchio di Cansano da intervistare, il Sig. Luigi Di Giallonardo, che malgrado i suoi 75 anni, mostra tuttora una vitalità veramente eccezionale.

E proprio da questo gioviale vecchietto dovevo apprendere come si erano svolti i fatti che hanno determinato poi la strana costumanza di cui si parla nel documento redatto a Pacentro.

Cos’era successo, dunque?

In quei tempi viveva a Cansano un prete che aveva dei libri una concezione catastrofica, ritenendo che in essi si annidasse l’anima del demonio. Nemmeno almanacchi e lunari si salvavano da tale pessimistica valutazione. Pertanto, questo prete dopo essersi ben informato presso la Curia di Sulmona, per sapere i giorni precisi dell’anno e dei mesi, con le relative festività solenni, introduceva

ogni primo gennaio in una grande zucca, da lui definita “Santa Zucca”, essiccata e svuotata dei semi, tante fave per quanti erano i giorni dell’anno. Questo prete viveva in casa di una sua sorella sposata e madre di una bambina alquanto vivace. Costei, trasgredendo un giorno l’ordine preciso di “zi preute” di stare sempre lontana dalla “Santa Zucca”, che troneggiava in un angolo della casa come un Santo nella sua nicchia, se ne impossessò in un momento in cui i suoi genitori erano assenti e, infilato l’uscio, se ne andò in un prato a godersi in pace quel tanto sospirato trastullo, proprio come fanno i cani quando s’imbattono in un osso e si appartano per consumare l’insperato spuntino.

Frattanto la madre era tornata a casa e vedendo dopo un po’ di tempo rientrare la bambina con la “Santa Zucca” che continuava a seminare fave per strada, a stento riuscì a trattenere un grido di terrore. Avvertendo però nello stesso tempo la voce del prete, suo fratello, che s’apprestava a rincasare, presa dal panico, strappò dalle mani della bambina la zucca, vi introdusse velocemente diverse manciate di fave e la ripose.

La mattina dopo, domenica, il povero prete, accingendosi al rito quotidiano che consisteva appunto nel prelevare una fava dalla “Santa Zucca”, si accorse subito che qualcosa non andava. Ed il suo stupore crebbe enormemente quando, vuotata la zucca, constatò allibito che il numero delle fave era incredibilmente aumentato.

Che fare? Secondo suoi calcoli approssimati, la Pasqua bussava alle porte. Senza perdersi di coraggio, dopo aver anche considerato il caso, subito scartato, di un miracolo, il buon prete fece suonare a festa le campane ed ai fedeli accorsi in Chiesa, tenne questo breve sermone:

«Popolo diletto di Cansano! La Santa Pasqua la festeggiamo oggi. Perché se diamo retta a questa “Santa Zucca”, non la festeggeremo né quest’anno, né l’anno prossimo».

Il caso volle che quel giorno fosse Domenica delle Palme ed un contadino di Campo di Giove, che si trovava a Cansano per affari, riferì ai suoi concittadini, appena tornato al paese, che in quel giorno a Cansano si era festeggiata la Pasqua.

Era un’occasione questa che i cittadini di Campo di Giove non potevano lasciarsi sfuggire, poiché fra i cittadini delle due Terre i rapporti erano alquanto tesi, a causa dei diritti avanzati dalle due parti su alcune zone di confine riservate a pascolo. Perciò negli anni seguenti, ogni Domenica delle Palme i cittadini di Campo di Giove accorrevano in massa sopra un’altura prospiciente Cansano e con “tamburri, campane di armento e spari di archibugio” ricordavano rumorosamente ai cittadini di quest’ultima Terra che era “Palmizio” e non “Pasquizio”.

Per porre fine alle risse, che immancabilmente avvenivano in tale giorno, fra cansanesi e campogiovesi, occorse l’intervento dell’intendente regio, come risulta dal documento redatto a Pacentro.

Oggi, tempo in cui Cansano e Campo di Giove lavorano concordi per assicurare ai propri cittadini un futuro migliore, i fatti fin qui narrati svaniscono in una tenue luce autunnale ed i protagonisti, realmente vissuti, acquistano una dimensione che è quella delle fiabe.




CONSERVAZIONE DELLE CARNI di Maiale, Cinghiale e Pecora

Osservazioni sui metodi in Abruzzo

di Franco Cercone

[Contributo pubblicato in “Bollettino del Repertorio e dell’Atlante demologico sardo” BRADOS, n°9, p. 43 sgg., Cagliari 1980.]

Il maiale è considerato dai contadini abruzzesi “la grascia (l’abbondanza) de la case” ed ancora fino all’ultimo conflitto mondiale costituiva l’unica carne, insieme al pollame, di cui potesse usufruire la numerosa famiglia. La situazione oggi non è molto cambiata, anche se il tenore di vita ha subito una notevole evoluzione. In genere si verifica che i maiali allevati sono più di uno e la carne trasformata in eccedenza viene venduta a consumatori privati. Ciò spiega l’attenzione riservata ai metodi di conservazione dai quali dipende la vendita degli insaccati e dei prosciutti. Potremmo addirittura parlare di un «ciclo del maiale», che va dall’allevamento fino alla macellazione ed alla trasformazione della carne, fase quest’ultima che comprende anche il periodo dell’essiccamento.

Ogni stadio di tale ciclo è accompagnato da rischi che hanno ripercussione nella sfera psichica del contadino, assai bisognoso di una protezione che assicuri il lavoro di un anno da qualsiasi calamità. I santini e le immagini di Sant’Antonio Abate, affissi dietro le porte delle stalle, assumono allora una significativa funzione apotropaica, mentre la festa del 17 gennaio conclude la fine di una tensione protrattasi per mesi. La fase che segue, cioè la preparazione degli insaccati e degli altri salumi per la conservazione, si svolge entro limiti di maggior sicurezza, poiché il contadino sa che il successo è affidato alle sue mani ed alla sua esperienza. Di tale fase due sono i momenti rilevanti:

a) salatura e condimento con pepe e peperoncino delle carni;

b) asciugamento degli insaccati e dei prosciutti, come di altri pezzi interi, in locali adatti. Per quanto riguarda la prima fase, si è avuta la possibilità di constatare che la quantità di sale usata è maggiore nei paesi di pianura e medio-collinari e minore nei paesi di media e alta montagna. La salatura, dunque, è proporzionale alla pressione atmosferica. Il contadino ha compreso questa legge lentamente e tramandandola di generazione in generazione, l’ha trasformata in saggezza.

Avviene però che con i primi caldi, il sale penetra più a fondo nelle carni tagliate e conservate a pezzi (come guanciale, prosciutto etc.) e nei paesi di pianura, ove la quantità di sale messa sulle carni esternamente è maggiore, si avverte di più che la carne è salata, a discapito della bontà e, quindi, della qualità. Ma il maggior sale messo sulle superfici costituisce il prezzo pagato per la sicurezza della conservazione. È quello che si verifica per il vino: di fronte al pericolo che si guasti, il contadino preferisce fare vino cotto anziché crudo; egli non può correre rischi, non può vanificare un anno di duro lavoro. Questo spiega, anche se in parte, la migliore qualità degli insaccati e dei prosciutti conservati in alta montagna. I contadini intervistati hanno dichiarato che l’altitudine ideale per la conservazione va dagli 850 ai 1200 metri. Se è vero poi che «l’uomo è ciò che mangia», la norma vale anche per gli animali, e non solo per i suini.

Anche il pepe ed il peperoncino, messo sulle pareti delle parti intere oppure negli insaccati, serve a proteggere le carni soprattutto dalle mosche. Ma poiché tali insetti si sviluppano prima in pianura, ne deriva che la quantità di tali spezie deve essere maggiore, dato che le carni, in montagna, possono usufruire di un maggior periodo di esenzione da tale pericolo. Per l’essiccamento a perfezione, occorre collocare i prodotti in un luogo arieggiato ed asciutto. Il termine «arieggiato›› merita qualche chiarimento, nel senso che il locale deve avere sempre due aperture, ma situate in direzione opposta. Le aperture ideali sono quelle fatte in direzione Nord-Sud. Le ‘composte di salsicce’, messe in recipienti ricoperti interamente di strutto, vanno collocate nell’angolo più buio e più freddo del locale. Lo stesso vale per le vesciche destinate alla conservazione dello strutto, nonché per i salami messi sott’olio d’oliva per aumentare il loro periodo di conservazione. L’Abruzzo, si sa, è anche terra di cinghiali e chi scrive è fermamente convinto che comunque il toponimo ha a che fare con aperuzio, apruzio, da aper. I metodi di conservazione delle carni di cinghiale sono assai differenti da quelli adottati per i suini. Il cinghiale infatti ha una carne asciutta, senza grasso, che una volta insaccata, indurisce nel giro di poco tempo. Appena ucciso, i contadini – soprattutto nella Valle del Sangro – usano far uscire dal cinghiale la maggior quantità possibile di sangue, che è ritenuto amaro. Poiché la carne è dura, salsicce e salami devono essere conservati sott’olio di oliva. L’olio con il tempo ammorbidisce le carni e le rende squisite. Per i prosciutti di cinghiale il segreto sta nella minima (e nello stesso tempo precisa) quantità di sale sparsa sulle superfici.

Una volta iniziato il taglio del prosciutto, occorre sempre cospargere di grasso la carne che resta a contatto con l’aria, in modo che non si secchi completamente.

Alcuni usano poi preparare le salsicce di cinghiale come quelle di suino, mischiando però all’impasto della carne, grasso di maiale. In casi in cui le condizioni atmosferiche sono particolarmente eccezionali, come per esempio un continuo spirare di venti caldi nel periodo di gennaio, alcuni contadini mettono le salsicce di carne ed i salami in grandi frigoriferi.

Questa precauzione non viene presa per le salsicce di fegato, perché nel frigorifero sono particolarmente soggette a deteriorarsi.

L’essiccamento al sole di parti di pecora, abbondantemente salate, è un procedimento ormai in disuso. Esso ha subìto la sorte dei pastori transumanti. Oggi non si vedono più tratturi: la transumanza si è meccanizzata e gli animali, in carri ferroviari o autotreni, raggiungono celermente la Puglia senza la possibilità di rimpiangere i tempi passati.




LE EDICOLE VOTIVE DEL CENTRO STORICO DI SULMONA

Aspetti di Religiosità Popolare Peligna

[Pubblicato in Abruzzo Oggi, A. III, n. 5-6, Pescara 1980, pp.19-20]

Di Franco Cercone

Un capitolo particolarmente interessante della religiosità popolare, poco studiato a giudicare dalla scarsissima bibliografia esistente sull’argomento, è costituito dall’analisi delle cosiddette edicole votive, consistenti per lo più in affreschi di limitate dimensioni, realizzati sulle facciate delle case site nel centro storico urbano da ignoti pittori, su commissione di un singolo devoto, degli abitanti di uno stesso caseggiato, di un piccolo vicolo, di una piazzetta o addirittura di un intero rione.

Una importante e forse unica pubblicazione sull’argomento, dal titolo“Lo spazio sacro. Per un’analisi della religiosità popolare napoletana”, ha visto la luce a Napoli nel 1978 a cura di G Provitera, G. Ranisio ed E. Giliberti, con prefazione di Luigi M. Lombardi Satriani. L’illustre antropologo ha confermato quanto prima si asseriva, e cioè che il tema delle edicole votive “non è certo frequente nell’indagine demologica e storico-religiosa”.

Pertanto, saranno frequenti i richiami all’opera suddetta e soprattutto a quella parte in cui G. Provitera analizza struttura e funzioni dell’edicole votive presenti nel quartiere napoletano di Montesanto, preso a campione nell’indagine condotta dagli Autori citati. Ciò servirà da un lato ad evidenziare le caratteristiche dell’edicola votiva sulmonese e dall’altro a sottolineare la complessità dei problemi socio-religiosi emersi da questa particolare ricerca condotta direttamente sul campo.

Osserviamo subito, rispetto alla tipologia rilevata dal Provitera per Napoli, che a Sulmona risultano scarsi gli altarini e le nicchie. La maggior parte delle edicole è costituita infatti da affreschi murari,
non incassati nelle pareti degli edifici, o da vecchie stampe coperte spesso da materiale plastico (quelle più recenti) o da vetro, risalenti per lo più agli inizi del nostro secolo. Non mancano esempi di edicole antiche, come la bella Madonna (probabilmente) quattrocentesca, affrescata su un muro dell’attuale mattatoio comunale.         

La loro freschezza si avvicina all’arte naïf ed al mondo degli ex-voto pittorici, mentre negli affreschi più antichi si percepisce addirittura lo stampo o le tracce di influenze artistiche del passato.
Dagli ex-voto le edicole votive differiscono tuttavia per una serie di motivi, soprattutto per quanto concerne la tecnica con cui quest’ultime vengono realizzate,

L’ex-voto infatti, quello pittorico, è destinato ad ornare la parete di una chiesa, di un santuario, e viene eseguito per lo più ad olio o tempera su tavola.

L’edicola invece, quando non contenga una immagine stampata, è realizzata secondo la tecnica dell’affresco e destinata non ad uno spazio “già sacro”, ma a trasformare come nota il Lombardi Satriani (ivi, p.8) “lo spazio realistico in spazio protetto” e pertanto “sacro”.

L’ex-voto inoltre costituisce un rapporto singolo fra la divinità e l’offerente, colui cioè che ha ricevuto una grazia. Le edicole ricalcano spesso questo modello comportamentale, ma sorgono anche
per mera devozione, al di fuori cioè della struttura temporale “voto fatto, grazia avuta”.

In entrambi i casi comunque, “si pongono sul piano culturale collettivo, agendo come fattore di aggregazione e di ulteriore identificazione del vicolo, del rione, del quartiere…L’edicola si pone come una variante liturgica, abolendo la mediazione ecclesiastica nel rapporto con il Divino e superando
lo spazio chiuso dell’edificio adibito a culto” (Lombardi Satriani, ivi, p.8).

L’edicola dunque, una volta realizzata, spezza i legami che la tenevano unita all’offerente ed accentra a sé il culto di un intero vicolo, diventa oggetto di culto di una comunità socialmente ristretta ed accomunata dai medesimi “sentimenti del noi” analizzati dal Sumner. [H. J. Sumner Maine 1822-1888 giurista e sociologo britannico]

Così, nota efficacemente G. Provitera (ivi, p. 59), “l’edicola diventa parte integrante della vita del vicolo, facilita l’istituirsi del rapporto con l’effige rappresentata che, per chi vive questa realtà
ed è partecipe di uno stesso orizzonte culturale, diviene personaggio familiare a cui rivolgersi, confidando i propri problemi, i propri timori, le proprie aspirazioni”.

L’area sacrale, realizzatasi in maniera extra-liturgica con l’edificazione dell’edicola, è spesso, nei confronti degli abitanti dello stesso vicolo o persino dello stesso rione, fonte di immunità territoriale
per quanto concerne “il negativo esistenziale” e pertanto provoca in alcuni casi il rovesciamento dell’aspetto temporale insito anche nel modulo dell’ex-voto, nel senso che la “grazia avuta” non
è preceduta dal “voto fatto” e la prima, a livelli più o meno consci, viene attribuita all’intervento miracoloso del Santo o della Madonna venerati nell’edicola.

Tornando alle edicole votive di Sulmona, notiamo innanzitutto due particolarità. Esse sono assenti nei quartieri nuovi della città, formati non solo dall’edilizia residenziale, ma anche dalle cosiddette “case popolari”, le quali, accolgono sempre più gli abitanti che fuggono dai vicoli e certamente non appartenenti ai ceti “egemoni”. Dispersi nel mare di cemento dei piani regolatori, che simili ad alveari non consentono più di ritrovare uno spazio che costituisca elemento di identificazione socio-culturale, i nuovi agglomerati risultano urbanisticamente deculturanti e generano forse un meccanismo di rigetto nei confronti dell’edicola.

Il fenomeno è accentuato inoltre dalla circostanza che mentre i muri delle vecchie case del centro storico sono coperti per lo più da un intonaco costituito da sabbia e calce e, formante dunque una
parete naturalmente predisposta ad accogliere l’affresco, quelli delle case moderne, rivestite da un sottile strato di cemento, non offrono alcuna possibilità al riguardo.

Una eventuale iniziativa diretta ad edificare una edicola in un palazzo moderno, oltre alle difficoltà tecniche suddette, incontra un ostacolo insormontabile (a prescindere dall’approvazione di tutti
i condomini), nelle stesse norme urbanistiche, che sono estremamente rigide in tal senso e non permettono deviazioni dirette a “personalizzare” l’aspetto esterno del palazzo.

La seconda osservazione scaturisce dai rilievi stessi fatti sul campo, e cioè che le edicole sulmonesi sono costituite nella maggior parte da affreschi realizzati su pareti esterne prive di quelle protezioni costituite dalla nicchia o da uno sportello di vetro. Di conseguenza sono proprio queste ad aver subito maggiori danni, essendo esposte continuamente all’azione corrosiva degli agenti atmosferici.

Altre edicole, provviste di tali accorgimenti, si presentano invece chi più chi meno in un discreto stato di conservazione. Alcune mostrano tracce di precedenti impianti di illuminazione ed è probabile che la loro funzione corrisponda a quella analizzata per Napoli da G, Provitera (ivi, p. 44), e cioè la risoluzione del problema dell’illuminazione della città (o meglio: di vicoli e piazzette) mediante l’illuminazione notturna dell’edicola.

La rete elettrica, infatti, inaugurata a Sulmona nel 1906, non serviva allo stesso modo le principali strade e piazze cittadine ed i piccoli vicoli immersi nel loro buio storico. Inoltre, le scarse e deboli
lampadine si fulminavano di frequente o, spesso, venivano rotte per molti motivi, compreso quello della necessità, avvertita dai giovani, di poter contare su una costante zona d’ombra per i colloqui…amorosi. Quest’aspetto è confermato da notizie stralciate da giornali dell’epoca. Invece, la rottura della lampadina apposta all’edicola votiva, equivaleva ad una azione profanatrice espletata nei confronti dello spazio sacro e dell’immagine venerata, che diventava pertanto non più protettiva.

La paura di trasformarsi in sacrileghi costituiva dunque un impedimento psichico per ogni azione contraria a norme comportamentali religiose, per cui l’edicola illuminata svolgeva accanto alle tipiche funzioni salvifiche, protettive e culturali anche un servizio sociale pubblico. Edicole che presentano tuttora “segni” di culto costante, come fiori o altri abbellimenti, sono oggi rarissime a Sulmona.

Un esempio è costituito dall’edicola situata a Piazza Mercatello, ben conservata e protetta da sportello con vetro, che è illuminata di giorno e di notte da una lampada votiva. Si tratta della “Madonna della Neve”, che è particolarmente venerata a Sulmona e nell’area Peligna.

Purtroppo, il discorso del restauro riguarda la maggior parte delle edicole sulmonesi, sprovviste del tutto di accorgimenti che le salvassero da sole, acqua e vento.

II loro recupero si impone tuttavia per una serie di considerazioni: le edicole votive infatti costituiscono testimonianze di una “pietas popolare” che permette di riaprire un capitolo di storia ingiallito dal tempo, ma di massima importanza sotto l’aspetto etnografico.

Poiché, come afferma G. Ranisio (ivi, p. 75) la religiosità popolare “assume forme proprie e si realizza nell’ambito di un particolare rapporto diretto ed immediato con la divinità”, ne deriva che il
culto di un santo non è mai causale: esso costituisce invece la proiezione di particolari esigenze protettive dell’uomo che emergono da una struttura socioeconomica ambientale e non tanto da una mera devozione preposta all’acquisizione di un posto in paradiso.

Il culto di S. Lucia, così intenso nella Valle Peligna, si ricollega per es. ai mestieri tradizionali dei nostri contadini che erano nello stesso tempo scalpellini, carbonai, calcaroli e mietitori, tutte attività che esponevano gli occhi a continui pericoli.

Il culto di S. Emidio si sviluppa a Sulmona soprattutto a partire dal 1706, dopo che il terremoto del 3 novembre di tale anno, che durò secondo lo storico Ignazio Di Pietro (1806) “più di un Pater Noster”, cambiò quasi il volto della città di Ovidio.

Quello di S. Rocco è intenso soprattutto dopo la peste del 1656, cessata la quale si assiste un po’ ovunque in Abruzzo alla fioritura di chiese, cappelle ed edicole votive dedicate al santo, per intercessione del quale si credette debellata la funesta epidemia.

Le edicole votive, dunque, ci aiutano a ricostruire il complesso pantheon devozionale di un determinato ambiente geografico i cui spazi sacri si realizzano in base ad uno dei fenomeni analizzati da G. Profeta nell’importante lavoro dal titolo “Leggende di fondazione dei Santuari” (Lares. 1970, III-IV pp. 245-258), perché l’edicola votiva costituisce appunto il santuario del vicolo o del rione.

In località Torrone[1], troviamo affrescati in una stessa edicola, sorta “a devozione” di un offerente, tutte le maggiori “potenze dei Santuari peligni”, cioè S. Domenico di Cocullo, S. Antonio Abate, La Madonna della Libera e S. Antonio di Padova. Essa evidenzia il bisogno dell’offerente di assicurare dai rischi del negativo esistenziale sé stesso e i suoi beni, animali compresi.

Quasi la metà delle edicole censite, che ammontano a circa quaranta, presentano l’effige della Madonna. Ciò si spiega con la circostanza che sono le donne ad essere le curatrici dell’edicola, ma non vanno sottovalutati altri fattori. Infatti, dato che “è solo attraverso la figura mediatrice che si instaura il rapporto con il divino, mediatrice per eccellenza è la Madonna, in quanto figura materna” (G, Provitera, ivi pag. 56). Un bell’affresco raffigurante la Madonna dello Potenza, è quello che si trova in via Aragona, edificata, in base a notizie raccolte, per voto fatto da un cuoco nel sec. XV.

Fattori sociologici, storico-religiosi ed antropologici impongono dunque che sia di nuovo riedificato quel pantheon delle devozioni popolari costituite appunto dall’edicole votive, e proprio in un
momento storico in cui si sottolinea l’esigenza della ristrutturazione dei centri storici come ambienti “a misura d’uomo”.


[1]  Frazione di Sulmona che porta verso Bugnara.




PACENTRO E L’ARTE DEL PRESEPE ABRUZZESE

Un’antica tradizione delle nostre terre

[Articolo pubblicato in «ABRUZZOSETTE», Settimanale indipendente fondato da Remo Celaia, Anno XIII n. 2 del 18 gennaio 1979 L’Aquila.]

di Franco Cercone

Al turista frettoloso che raggiunge Pacentro si apre subito davanti agli occhi la realtà di una nuova vocazione e cioè quella turistica e gastronomica, confermata dai numerosi ristoranti tipici che vanno sorgendo un po’ ovunque in questo paese da considerarsi tra i più belli d’Abruzzo. Pochi però si soffermano ad osservare i suoi monumenti artistici e gli incomparabili scorci che hanno come scenario finale le torri del castello, teatro di lotte violente fra Cantelmo e Caldora e tantomeno i magici presepi che vengono allestiti nelle case private e nei luoghi pubblici.

L’ultimo grande artista del presepio pacentrano è stato Giuseppe Avolio, che morto sedici anni fa ha lasciato tuttavia ai suoi paesani l’impronta di un certo stile, di una vera e propria scuola nella composizione delle figure e del paesaggio che animano la Sacra Rappresentazione.

L’erede di questa antica arte pacentrana è oggi il prof. Francesco Buccitelli, validamente assistito dalla sorella Vera, nella cui abitazione il presepio, composto secondo i canoni di G. Avolio, occupa una intera stanza. I personaggi che affollano il luogo della Natività e creati per lo più – particolare degno di nota su cui torneremo appresso – nei primi decenni del nostro secolo, presentano misure diverse e sono in cartapesta o terracotta.

Le statuette più grandi raggiungono circa 75 cm., sono collocate all’inizio dello scenario mentre le più piccole, di 25 cm., sono poste in fondo alla parete e ciò dunque in ossequio a quelle leggi prospettiche spesso carenti nei famosi presepi settecenteschi napoletani, i quali comunque hanno esercitato una forte influenza su quello pacentrano. In quest’ultimo, come mi ha precisato il prof. Buccitelli, la capanna non assume un posto fisso per cui il presepio pacentrano risulta, ad una attenta osservazione, anno per anno, diverso e perciò ricco di inventiva e fantasia.

Sulla rivista Civiltà della Campania (n.1 dic. 1974) Domenico Rea ha osservato che i famosi presepi napoletani conservati nel Museo di San Martino costituiscono “per scenografia e paesaggio, un’imitazione abbastanza al naturale della scenografia e del paesaggio urbani napoletani, in cui una volta trionfava l’idea del mercato bazaar…”

Il che significa che fra scenario del presepio e quello della vita quotidiana esistono strette relazioni ed il primo è spesso uno specchio fedele del secondo. In tal senso il presepio pacentrano è più sobrio di quello napoletano e non presenta una vasta gamma di personaggi dai caratteristici mestieri, forse perché l’abruzzese fin dai tempi lontani, è stato solo pastore e contadino. Nel primo mancano quei personaggi allegri e scanzonati, colti sorridenti nell’attività quotidiana, come nel famoso Presepio Cuciniello del Museo San Martino[foto2], oppure modellati come quelli della Sacra Rappresentazione di Andrea Perucci (1651-1704), la cosiddetta “Cantata dei pastori”, nella quale i doni portati da questi ultimi alla sacra famiglia consistono “in un cesto di pomodori alla Madonna, un corno contro la jettatura a San Giuseppe ed una seggiolina a Gesù Bambino” (A. Perolini Il Presepio popolare italiano, pag.13,Roma dic.1972-genn.1973).

Le statuette pacentrane invece si presentano con volti austeri che a stento trattengono quell’atavico senso di solitudine, frutto anche dello storico isolamento della regione, che sonnecchia un po’ nel cuore di tutti gli abruzzesi.

Anche la capanna perciò – che è il cuore del presepio – risente nella concezione pacentrana di questa particolare atmosfera. Il Bambino è semplice, San Giuseppe ha lo sguardo di un uomo vissuto sui campi, mentre la Madonna, che si presenta come una povera contadina, ci rammenta i versi danteschi del XX canto del Purgatorio: “…dolce Maria…/povera fosti tanto / quanto veder si può per quell’ospizio / ove ponesti il tuo portato santo”.  

Fra i personaggi che animano il presepio pacentrano un cenno a parte meritano le contadine dell’area peligna riprodotte nei costumi tipici dei paesi d’origine. Giuseppe Avolio infatti, per aver modellato le sue statuette nei primi anni del nostro secolo, ci ha offerto la possibilità di ricostruire con una certa fedeltà sia la foggia che i colori dei tessuti adoperati per le varie componenti del costume. Per quanto ci risulta mancano in Abruzzo esempi di presepi sceneggiati derivati dal dramma liturgico medioevale o da sacre rappresentazioni, come quella allestita a Greccio da San Francesco e di cui Tommaso da Celano ci ha lasciato una palpitante descrizione. Il cosiddetto “Presepe vivente” rappresentato a Rivisondoli, dopo gli entusiasmi iniziali, è andato infatti man mano perdendo quell’importanza che all’inizio sembrava rivestire, dimostrando ancora una volta come sia necessaria alla continuità di tali manifestazioni una solida eredità tradizionale che nel caso di Rivisondoli manca del tutto, essendo il “Presepe vivente” sorto ex novo per esigenze turistiche.

Queste sono ovviamente solo alcune fra le numerose considerazioni che il presepio di Pacentro, magistralmente allestito dal prof. Buccitelli, suscita all’osservatore. Perciò su questo importante tema di vita tradizionale torneremo a parlare al più presto fra le pagine di Abruzzo Sette.  




L’INTRODUZIONE di Franco Cercone

[Contributo pubblicato: Introduzione al Volume “Giovanni Pansa. Miti Leggende e Superstizioni. Scritti inediti e rari” a cura di F. Cercone, Ed. L.U. Japadre, L’Aquila 1979, pagine n. 158]

Sulla scrivania dove Giovanni Pansa aveva infaticabilmente lavorato fino al giorno precedente la sua morte, avvenuta in Sulmona il 19 gennaio 1929, furono rinvenuti alcuni lavori cui egli attendeva e che si riprometteva di completare.

Tra questi, come mi rivelò Donna Clara Pittoni-Pansa, figlia dell’illustre sulmonese, una nuova edizione ampliata su “Ovidio nel medioevo e nella tradizione popolare” nonché il “Quarto supplemento alla Bibliografia storico-topografìca degli Abruzzi”. Malgrado tutte le ricerche effettuate nella biblioteca Pansa, insieme a Donna Clara non mi è stato possibile rintracciare tali manoscritti, andati dispersi in circostanze difficili da accertare. L’acquisto della biblioteca stessa da parte della Provincia di Pescara, avvenuto nell’estate del 1976, ha aumentato inoltre le difficoltà di un loro rinvenimento. Anche se allo stato di bozze, il Pansa aveva portato a compimento altri tre importanti scritti di carattere etnografico, che secondo le intenzioni dell’A. dovevano costituire i primi tre capitoli del terzo volume di “Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo. Studi comparati”[1] dedicato a B. Croce.

Tali studi, che si possono considerare dei veri e propri rari, vengono ora riproposti all’attenzione degli studiosi poiché furono pubblicati postumi nella loro stesura incompleta, nelle riviste più disparate, alcune delle quali poco note al pubblico qualificato. Essi erano stati già segnalati comunque da G. Profeta nella sua fondamentale Bibliografia delle Tradizioni popolari abruzzesi (Roma 1964) e successivamente nel mio saggio Giovanni Pansa: vita e opere, apparso sul Bollettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria (1973), cui si rinvia per l’indice bibliografico. Gli scritti in questione, disposti da me secondo la loro data di pubblicazione, sono i seguenti:

I. – Picus martius. Studio di esegesi mitica pubblicato in “Il Folklore Italiano”, diretto da R. Corso, an. VI, 1931, fasc. III-IV, pp. 181-199.

Tale scritto, come mi ha rivelato Donna Clara Pittoni-Pansa, costituiva la relazione che G. Pansa avrebbe presentato al Convegno del Folklore Italiano, svoltosi a Firenze il 10 giugno 1929, ed al quale era stato ufficialmente invitato. Lo stato di salute (il Pansa morì infatti nello stesso anno) non gli permise di affrontare il viaggio e tale circostanza impedì al Sulmonese, vissuto isolato e al di fuori delle polemiche che in quel momento s` agitavano intorno alla complessa problematica del Folklore, di entrare in contatto con altri illustri studiosi che parteciparono al suddetto Convegno, come R. Pettazzoni, R. Corso, P. Toschi, G. Cocchiara ecc.

II – L’ordalia totemica dei Marsi ed il Santuario di San Domenico di Cocullo, pubblicato in cinque puntate.

Le prime tre apparvero in “Luci Sannite”, periodico diretto da E. Paterno, Benevento, genn.-apr. 1938, pp. 39-41; magg.-lug. 1938, pp. 33-36; ag.-nov. 1938, pp. 31-32. Le ultime due apparvero invece in “Attraverso l’Abruzzo”, Pescara, magg.-giu. 1957, pp. 1-3 ; ag. 1957, pp. 13-14.

III. – Di uno specchio magico del sec. XV-XVI e della Catoptromanzia degli antichi secondo le leggende medioevali e i racconti popolari, pubblicato in “Lares”, Roma, an. XXVI. 1960, pp. 1-14.

Circa il loro contenuto, tali studi si impongono alla nostra attenzione sia per il rigore scientifico del metodo che per l’importanza degli argomenti trattati e rappresentano pertanto la fase di maggior maturità cui il Pansa era pervenuto negli ultimi anni della sua vita.

Da un punto di vista formale è doveroso rilevare che “Picus Martius” e “Di uno specchio magico” risentono, proprio perché pubblicati allo stato di abbozzo, della mancanza di lima che si nota anche negli altri scritti inediti del Pansa.

Per quanto riguarda invece “L’ordalia totemica dei Marsi” il discorso è alquanto diverso, poiché oltre a mancare di questa limatura finale, è stato poco curato durante la stampa. Infatti specialmente le ultime due puntate sono piene di refusi ed il testo è in molti punti poco comprensibile a causa dei numerosi errori, come è stato segnalato alcuni anni fa da G. Profeta.[2]

Di qui la necessità di una revisione minuziosa del testo che ho effettuato con scrupolo e che potrebbe far considerare, sotto alcuni aspetti, quasi un inedito L’ordalia totemica dei Marsi.

All’attenzione degli studiosi vengono riproposti anche due scritti che per motivi diversi possono essere considerati lo stesso dei rari e cioè: “L’amphidromia” nonché “La Porta di ferro e le leggende del tesoro nascosto”.

Il primo rappresenta il capitolo di uno studio dal titolo: “In Abruzzo. Saggi di Etnografia comparata”, pubblicato nella «Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti» (Teramo 1915, fasc. XI, pp. 561-579) e non inserito dal Pansa in uno dei due volumi di Miti e Leggende.

Del secondo studio invece, pubblicato anch’esso nella suddetta Rivista (Teramo 1917, fasc. VI, pp. 273-284), è inserita in Miti e Leggende solo una minima parte (vol. 1, pag. 48 segg.) in cui manca tra l’altro il tema importante della credenza popolare sull’Anticristo, trattato invece nello studio originario.

Nel presente volume si riporta anche la biografia contenuta nel mio saggio bio-bibliografico sul Pansa, precedentemente citato, che è stata ulteriormente ampliata con notizie di cui sono venuto a conoscenza in questi ultimi due anni ed arricchita da due lettere inedite, a mio avviso importanti, di A. de Nino e G. Cocchiara.

E veniamo agli inediti, la cui pubblicazione devo alla cortesia di Donna Clara Pittoni-Pansa.

Si tratta di quattro scritti di cui uno reca la data appostavi in calce dallo stesso Pansa: Sulmona, giugno

1909, ed ha per titolo “I preti concubinarii in Sulmona nel XIV sec., oggetto di una conferenza svolta al Comune di Sulmona la sera del 30 maggio 1909 ed il cui testo il Nostro non ritenne opportuno pubblicare.[3]

Dato l’argomento trattato, che il Celidonio definì «poco veritiero» in un opuscolo apparso subito dopo la conferenza del Pansa,[4] ritengo che tale scritto possa essere escluso dalla rosa di quelli che nelle sue intenzioni dovevano confluire nel III volume di Miti e Leggende. La stessa osservazione va fatta degli “Usi di Cansano”, una semplice pagina di appunti, e di “Miracoli”, una trattazione che in alcuni punti è resa pesante da elementi teologici e filosofici.

“La leggenda dell’oro in Abruzzo”, l’ultimo scritto in questione, è un abbozzo sulle credenze plutoniche abruzzesi e sulla presenza di giacimenti e vene aurifere nella nostra regione. Si tratta dunque di un argomento di alto interesse etnografico, ma la sua incompletezza ne riduce di molto l’importanza.

Se esistono altri inediti nella biblioteca Pansa è una domanda cui allo stato attuale è difficile rispondere. Io ne dubito, date le ricerche fatte insieme a Donna Clara Pittoni-Pansa circa tre anni fa e l’esito negativo che esse hanno dato.

Occorre rilevare tuttavia che nel 1906 il Pansa fece parte del comitato scelto dal Comune di Sulmona per erigere un monumento ad Ovidio. L’iniziativa non ebbe successo; ma dal Mattiocco si apprende che «nell’aprile 1910 si commemorava a Sulmona la morte del De Nino e in quell’occasione si riparlò del monumento. Giovanni Pansa allo scopo di rinverdire gli entusiasmi … preannunciava una conferenza il cui ricavato sarebbe stato devoluto pro monumento. Il Pansa tenne fede all’annuncio e parlò della pubblica economia e del costume della Sulmona trecentesca››.[5]

Se il Pansa abbia steso il testo della conferenza e l’abbia pubblicato non mi è stato possibile accertare.

Nel 1979 cadrà come è noto l’anniversario del cinquantenario della morte di G. Pansa. Mi auguro che questo mio lavoro, tendente a realizzare quello che certamente fu uno degli ultimi desideri dell’illustre studioso, possa costituire un degno omaggio alla sua memoria.

Franco Cercone


[1] È utile ricordare in tale sede che i primi due volumi, con lo stesso titolo, furono pubblicati entrambi a Sulmona nel 1924 e nel 19277 per i tipi dell’Ed. U. Caroselli. Essi saranno indicati da ora in poi semplicemente con Miti e Leggende.

[2] G. Profeta, Il rito delle serpi di Cocullo in un documento inedito del carteggio di Melchiorre Delfico, in “Atti del Congresso Internazionale di Linguistica e Tradizioni Popolari”, Udine 1969, nota 6, pag. 242.

[3] Il titolo completo della conferenza, da cui il Pansa trasse I Preti concubinarii in Sulmona nel XIV sec., era “La società

Sulmonese del secolo XIV nella pubblica moralità e nel costume”. Cfr. E. Mattiocco, (Un inedito Capitolato di Giovanna d’Aragona, principessa di Sulmona), in «Bullettíno della Deputazione Abruzzese di Storia Patria», vol. II 1975, pag.605, nota 28.

[4] G. Celidonio, I Chierici coniugati in Sulmona, Sulmona 1909.

[5] E. Mattiocco, Sulmona ieri, pag. 64, Sulmona 1972. La notizia è stata stralciata dal Mattiocco da un giornale dell’epoca che non conteneva ulteriori precisazioni circa il titolo della conferenza stessa. Probabilmente, il Pansa deve essersi soffermato sullo stesso argomento trattato nella conferenza dell’anno precedente. Cfr. nota 3.




TESTI INEDITI SUL CULTO DI SANT’ANTONIO ABATE IN ABRUZZO

[Relazioni pubblicate alle pagine n. 256-265, in Appendice al volume di A. Di Nola, Gli Aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino, Boringhieri Edizioni, 1975.]

di Franco Cercone

“Diamo qui di seguito i testi delle relazioni trasmesse da F. Cercone che ha compiuto nel 1974 una ricerca campione in un ristretto territorio, prevalentemente della Valle Peligna. I risultati, che sono stati frequentemente utilizzati nel presente studio, sono di vivo interesse perché documentano l’estensione residua del culto” (A. Di Nola)

1-Ateleta (provincia dell’Aquila)

Pur essendo protettore del paese san Gioacchino, la festa di sant’Antonio si svolge con particolare solennità e con grande concorso di popolazione. Fra i diversi rioni si scatena una corsa frenetica per erigere la catasta di legna da accendere per la sera del 17 gennaio. La legna viene raccolta casa per casa da gruppi di giovani. Un comitato formatosi alcuni giorni prima della ricorrenza effettua una questua per il paese per acquistare un maialetto. Il 17 mattina il maialetto viene condotto davanti al sagrato della chiesa madre e viene benedetto. Subito dopo gli viene tagliato un orecchio e messo in libertà, senza campanello. Dove si ferma gli viene offerto da mangiare. Il pomeriggio si svolge la processione con banda e spari. Finita la processione, alcuni carri sfilano per il paese insieme a coppie mascherate. C’è anche la sfilata di maschere su cavalli pittorescamente addobbati. È stabilito un premio per la coppia più bella e per quella più brutta. Attorno al grande falò acceso in piazza, danzano, a suon di banda, numerose maschere.

Il porcellino, al quale è stato amputato l’orecchio, viene ucciso a ottobre e venduto tramite asta. Il ricavato servirà per l’acquisto di un altro porcellino a gennaio e per la costituzione di un fondo

destinato ai festeggiamenti del santo.

Non c’è l’usanza di cantare dietro le porte. Anche le frazioni di Ateleta festeggiano il 17 gennaio con l’accensione di grandi fuochi. (informatrice: signora Adelina Le Donne in D’Amico, di anni 51, casalinga)

2a- Cansano (provincia dell’Aquila)

Il porcellino è acquistato da devote nella prima settimana di novembre ed è alimentato a carico pubblico. Lo si macella tre, quattro giorni prima del 17 gennaio. Le carni sono vendute all’asta e il ricavato è destinato alle spese per officiare la messa solenne, per la banda, per la processione, per i mortaretti. Il maiale porta il campanello.

2b- Cansano (provincia dell’Aquila)

Incantesimo per gli animali:

“Sante Crisimare

médiche lu cape,

Sante Siste

médiche de Gesù Criste,

Sant’Antuone

médiche buone,

médiche quella vena

che tanta guerra mèna.”

Si pongono su un piatto, incrociate, due chiavi, un maschio e una femmina. Si ripete tre volte. L’animale accasciato si rialza subito. (informatrice: signora Angela Di Paolo, anni 74)

3- Pescasseroli (provincia dell’Aquila)

La sera del 17 ha luogo la processione. La statua del santo, al quale molto tempo fa era stata dedicata una chiesa, ora diruta, si trova nella chiesa di Santa Lucia. Sant’Antonio reca in una mano il bastone, mentre nell’altra un libro dal quale si sprigionano le fiamme. in Piazza Sant’Antonio avviene la benedizione degli animali. Subito dopo si accende un gran fuoco. ln un grande caldaio viene benedetta l’acqua. Dopo il rito ciascuno riporta a casa un po’ di acqua benedetta e alcuni carboni, anch’essi benedetti. Questi ultimi sono sparsi nella stalla e hanno il potere di proteggere gli animali che vi dimorano. ln caso di incendio, sia della casa sia della stalla, vi viene portata la statua del santo, nel caso in cui vi siano difficoltà per spegnere l’incendio.

Grande è la devozione per il santo, assai temuto. Alcuni anni prima della Seconda guerra mondiale, tre giovani di Pescasseroli si fecero avanti alla statua durante la processione del 17 gennaio. Uno di essi esclamò: “Fuma, sant’Antò! “, facendo l’atto di offrire un sigaro al santo. Ebbene tutti e tre hanno fatto una “brutta fine”.

ln particolare il giovane che offri il sigaro è diventato muto e pazzo.

Il 17 gennaio segna anche l’inizio di Carnevale. Gruppi di giovani e ragazze, ancora oggi, vanno a visitare parenti e amici, cantando dietro le porte la seguente canzone:

“Bona sera,

signora patrona [= padrona di casa],

sem venute a visità.

Chesta sera [= questa sera]

è sant’Antonie

che ce deve aiutà.

Sant’Antonie nel deserte

allevève i maialette [= il maialetto].

Lu demonie maledette

ce l’andava a disturbà.

Se ci-avete le pecurelle,

sant’Antonio è lu pasturelle.

Se ci-avete le galline,

sant’Antonie le benedice;

Se ci-avete cavalle e bighe,

sant’Antonio le benedice.

Se ci-avete la farine,

ce facemme glie tagliarine [= tagliolini].

Se ci-avete la recotte [= ricotta],

ce ne ime [= andiamo] porte porte [= subito subito].

Se ci-avete larde e presutte [= prosciutto],

sant’Antonio accette tutte.

Se ci-avete ‘ne fiasche de vine,

ce ne ime [=andiamo] a la cantina.

Se ci-avete na coppia de pane,

ce facemmo na settimane.”

Finito il canto, il padrone di casa apre l’uscio e offre i regali. Non esiste a Pescasseroli la tradizione del maialetto allevato. Se nevica prima del 17 gennaio si dice: “Sant’Antonie s’ha misse la barba” [=si è messa la barba]. (informatore: signor Paolo Papa, contadino, di anni 76)

4- Pescocostanzo (provincia dell’Aquila)

In questo centro, che conserva intatta una piazza a struttura cinquecentesca, è una chiesa dedicata al santo. In essa si ammira un bel quadro di sant’Antonio, risalente al Quattrocento. Attorno al quadro sono piccoli affreschi, forse coevi, che illustrano le tentazioni del demonio nel deserto. Tra Cansano e Pescocostanzo è inoltre il “bosco di Sant’Antonio”, con piante secolari.

Da qualche anno la festa non si svolge più con molta solennità. La mattina del 17 gennaio un comitato va in giro per il paese con i trattori muniti di campanelli per la questua della legna. ll trattore ha sostituito una slitta caratteristica, chiamata traja, molto adatta, prima della meccanizzazione, al trasporto della legna e del latte sulla neve (Pescocostanzo è a quasi 1300 m. sul livello del mare).

Finita la questua della legna, il comitato effettua una cernita: la “legna buona”, cioè i tronchi lunghi, di solito di faggio, suscettibili di essere lavorati per ricavarne utensili, viene accatastata in piazza e venduta con un’asta pubblica. La “legna cattiva” viene invece destinata al falò che si accende la sera. Il ricavato dell’asta è destinato alla manutenzione della chiesa di Sant’Antonio.

Anni addietro un comitato acquistava il maialetto che circolava, con un campanello appeso al collo, attraverso le strade e riceveva da mangiare. Il 17 gennaio veniva venduto in una pubblica lotteria: in un recipiente venivano introdotti cinquecento cartoncini numerati da 1 a 500, e tre cartoncini distinti con il numero 17. Vinceva il maialetto il possessore del biglietto uscito dopo l’estrazione di uno dei tre 17.

Perdura, invece, l’usanza di rappresentare scenicamente le tentazioni del santo, fra angeli e diavolo tentatore. Gruppi di giovani (alcuni dei quali sono vestiti da angeli, uno da diavolo e un altro con cappa, barba lunga bianca e bastone impersona il santo) vanno cantando dietro le porte.

Presso l’uscio il coro canta:

“Sant’Antò, sant’Antò”.

Si apre la porta ed entrano tutti eccetto il diavolo che resta fuori.

Riprende il canto:

Sant’Antonio:

Nel deserto sono stato,

dal demonio fui tentato.

Per le strade e per le vie

vado pregando sempre Dio

Diavolo (spalancando la porta):

Si spalancano ormai le porte.

D’un vecchietto vado incontro.

Se sarà per questi dintorni

da me sarà tentato.

Sant’Antonio (facendo scongiuri):

Va via, poltrone,

al tuo destino!

Lascia il divino.

Non è per te.

(Il demonio scompare)

Angeli (con spade di legno in mano):

Non temere, Antonio bello.

Se il Demonio si ribella.

noi la spada impugneremo

e il demonio scacceremo.

Eremiti:

Elemosina, elemosina!

A noi poveri eremiti

con la barba incanutita,

fate a noi la carità.

(È importante ricordare che, secondo l’informatore, questi versi erano una volta in dialetto.)

A questo punto il padrone di casa offre da bere e regala salami, formaggio ecc.

Esisteva un altro canto, in dialetto, in onore del santo. Veniva cantato in coro dietro le porte, senza rappresentazione. Ecco il testo:

Sant’Antonie de gennare [= di gennaio],

mezza paja a ju pajare [= mezza paglia al pagliaio, forse perché l’inverno è a metà],

mezza paja e mezze fiene [= fieno].

So nu povere pellegrine,

vade cercande i quattrine.

I quattrine nu’n ce ne stianne [= non ci sono].

Dacce quaccose da magnà [= dacci qualche cosa da mangiare].

Se ce daje na ventresche [= se ci dai una ventresca],

sant’Antonie se renfresche [= si rinfresca].

Se ce daje nu presutte [= un prosciutto],

lu magnême asciutte asciutte [= senza pane].

Se ce daje nu cacecavalle [= un caciocavallo],

lu magnème lu mese de magge [= lo mangiamo il mese di maggio].

Se ce daje na recotte [= una ricotta],

la magnème a mezza notte.

Se il padrone di casa non apriva l’uscio, il coro intonava alcuni ‘versi a dispetto’:

Tutt’i cheuve che tié a la porte [= tutti i chiodi che hai alla porta],

i diauvle che se i porte [= che il diavolo se li porti].

(informatore: signor Giuseppe Cocco, sarto, di anni 56)

5- Pietransieri, frazione di Roccaraso (provincia dell’Aquila)

Si acquista, di solito verso la fine di ottobre, un maialetto al quale si allaccia al collo un nastro con campanello. Dove si ferma gli viene offerto da mangiare. La notte viene ricoverato nella stalla del contadino che per ultimo gli ha dato da mangiare. La mattina viene rimesso in libertà. Il 17 gennaio viene venduto all’asta. L’uso è ancora presente.

(informatrice: signora Carmela Di Gragorio. casalinga, anni 52)

6- Rionero Sannitico (Isernia)

Fino a circa dieci anni fa, da parte di un fedele o di un gruppo di fedeli veniva acquistato un maialetto, di solito a gennaio, che, benedetto dal prete, era messo in libertà con un nastro rosso al collo, senza campanella. Il maialetto era nutrito dall’intera popolazione. Il 13 giugno, festa di sant’Antonio di Padova, veniva venduto e il ricavato offerto al parroco per la chiesa. Si verificava spesso, tuttavia, che il fedele o gruppo di fedeli costituitosi in comitato, acquistassero il maiale già grande alcune settimane prima del 13 giugno e in tale data lo offrissero all’asta.

(informatore: signor Domenico Antonelli, agricoltore, anni 61)

7- Roccacasale (provincia dell’Aquila)

Il 17 gennaio si svolgeva la processione in onore di sant’Antonio. Il pomeriggio si benedicevano gli animali. Da qualche anno l’uso va attenuandosi.

Fino a qualche anno fa, la sera del 17 gruppi di giovani andavano cantando dietro le porte di amici e parenti. Ecco il testo recitato da un giovane con barba bianca impersonante il santo:

Sant’Antonie de la Rocche [= di Roccacasale],

hai sapute che sci ccise lu puorche [= ho saputo che hai ucciso il porco],

e ne le può queste nega [= e non puoi questo negare],

pecchè l’aie antese de strellà [= perché l’ho inteso strillare].

Se me date na salcicce,

me la magne a cicce cicce;

se me date nu fegatuzze [=salciccia di fegato],

demane matine me c’encazze [= ci faccio festa].

Se me date na ventresca,

me la magne fresca fresca.

Se me date nu presciutte,

mele magne asciutte asciutte.

Se me date nu salame,

me le mette a la catàne [= tasca della giacca].

Se me date na galline,

demane ce facce gli tagliuline._

E se voi ng me dà niente [= se non vuoi darmi niente];

Sant’Antonie te fa casca gli diente.

Un altro canto del 17 gennaio era il seguente:

Sant’Antonio a lu deserte

ce teneva nu stipette [= uno stipetto].

Ce se metteva le cauzette [= calzini].

Lu demonie maledette

glie se le piglie e glie se le mette.

Pe’ dispette a lu demonie,

facemme [= facciamo] la festa a Sant’Antonio.

Sant’Antonie è nu grande sante,

benedice tutte quante.

Sanr’Antonie viechiarieglie [= vecchierello]

mette fuoco a l’armantielle [= albero, legna, ceppo],

pe’ scallà Notre Signore [= per riscaldare nostro signore].

Canta canta bielle fiore! [= bel fiore]

Belle fiore a già cantate:

tante grazie lu Signore ce l’ha mandate.

Un diverso canto, sempre del 17, viene rivolto ai vigneti. Il padrone di un vigneto è molto grato alla “cumpagnia”, cioè al gruppo dei cantori, se questi rivolgono canti augurali al suo podere.

Il pomeriggio del 17, il capo della “cumpagnia” avverte un certo proprietario di un vigneto che a un’ora stabilita la truppa sarà presso il suo podere. Qui arrivati, i giovani cantano:

Sant’Antonie de bunigne [= apportatore di bene],

famme entrà dentr’a sta  vigne [= fammi entrare in questa vigna].

N ‘azzappa [= non zappare],

n’azzulfanà [= non irrorare con la miscela di zolfo),

n’assumenà [= non diserbare],

né recigne [= non recingere il podere],

né rabbatte [= non attaccare i rami della vite ai sostegni],

né rattocche [= non rimuovere le zolle alla radice della vite],

ma soltanto a velegnà [= ma soltanto vendemmiare].

E cioè il proprietario, dopo tale augurio, non aveva più bisogno di compiere i lavori descritti per ottenere un raccolto abbondante.

(informatore: signor Antonio D’Eliseo, anni 90)

8- Rocca Pia (provincia dell’Aquila)

Si acquistava, di solito a ottobre, un maialetto. Gli si metteva al collo un nastro con il campanello e lo si lasciava in giro per il paese.

Tutti gli davano qualcosa da mangiare. Il 17 gennaio veniva venduto  e il ricavato andava alla chiesa. Nel giorno di sant’Antonio tutti portavano gli animali in piazza perché il prete li benediva. La mattina del 17 si mettevano a cuocere i “granati”, cioè il granturco, quando era lessato, si mandava un piatto di “granate” ad amici e parenti.

Il piatto di granturco lesso, che si dona per devozione a parenti e amici nel giorno di sant’Antonio, è usanza comune in territorio peligno. ln proposito l’informatore signor Salvatore Colaiacovo di anni 62, da Pratola Peligna, dice che, quando qualcuno riceveva il 17 gennaio un piatto d “granate”, ringraziava ripetendo:

Tante vache mi sci date,

tante some puozze refà,

[e cioè: “Tanti chicchi di granturco mi hai dato, tante some di granturco possa ricavare dal raccolto dell’anno”, avendo presente che la soma equivale a tre tomoli di 46 chilogrammi ciascuno].

(informatrice: signora Pia Amicucci, di anni 55)

9- Roccaraso (provincia dell’Aquila)

Si acquistava alcuni mesi prima della festa un maialetto e al collo gli si legava un nastro con campanello. Il maialetto, subito benedetto, cominciava a girare per il paese. Al suono del campanello tutti aprivano l’uscio per offrirgli qualcosa. Se qualcuno non aveva niente da offrire, si rivolgeva al maiale con queste parole:

“Antuò, vattenne! Nen tienghe niente!”

Il 17 gennaio gruppi di giovani raccoglievano casa per casa pezzi di legna per il grande fuoco da farsi in piazza. Veniva raccolta anche una certa quantità di farina per fare delle “pagnottelle”, che dopo essere state benedette in chiesa venivano offerte alla popolazione.

ll maiale veniva venduto il 17 gennaio tramite lotteria. Dopo la distruzione del paese nell’ultimo conflitto è scomparso l’uso. L’informatore, che è nativo di San Pietro Avellana (provincia di Campobasso), racconta un episodio avvenuto in quel centro. Una madre, assentatasi un momento da casa, non trovò più al suo ritorno il bambino di appena un anno, che aveva lasciato nella culla. Disperata si rivolse al maialetto di sant’Antonio che, per pura coincidenza, stava per entrare nella sua casa: “Antuò! dò sta la creatura?” [= dove sta il bambino] Il maialetto si diresse immediatamente sotto la culla, dove appunto era caduto il bambino, e con grugniti attirò la madre.

(informatore: signor Vincenzo Acquafondata, artigiano, anni 65)

10- Santo Stefano di Sessanio (provincia dell’Aquila)

La sera del 17 gennaio gruppi di giovani cantano dietro le porte questo ritornello:

Sant’Antonie de jennare [=di gennaio]

mese [= mezzo?] grane a lu granare

e mesa [= mezza?] paglie a lu pagliare.

Il gruppo era introdotto in casa e gli si offriva formaggi, salsicce ecc.

La benedizione avviene però il 13 giugno, festa di sant’Antonio di Padova. Alcuni giorni prima del 13 giugno, tutti i proprietari di cavalli, muli e asini si recano in montagna per raccogliere la legna che, accatastata, viene venduta all’asta. Il ricavato rappresenta un contributo per la festa del santo. Il 13 giugno si fa la processione con benedizione degli animali. Né il 17 gennaio né il 13 giugno si accendono i fuochi. Pur essendo santo Stefano protettore del paese, la devozione popolare della maggioranza della popolazione, una volta costituita in prevalenza da boscaioli e proprietari di animali, è rivolta a sant’Antonio di Padova.

(informatrice: signora Maria Florio, di anni 81)

11- Scanno (provincia dell’Aquila)

Il 17 gennaio, di mattina presto si ripete un’antichissima tradizione, della quale sono attualmente depositari i signori Di Rienzo di Scanno. Davanti casa Di Rienzo viene acceso un grande falò dai fattori di questo signore, proprietario di greggi in Puglia. Un enorme caldaio viene posto sopra il fuoco e si inizia a cuocere un pasto caratteristico dei pastori, gli ‘stuppelli’, cioè una pasta di farina dura, insieme con ricotta. A poco a poco la piazzetta dove avviene la cottura di tale pasto si anima di vecchie che recano ‘camelle’, cioè piccoli recipienti di stagno o di rame. Ciascuna riporta a casa un po’ di tale pasto che viene offerto per devozione all’assaggio di tutti i familiari. Coloro che vengono a prelevare il pasto recano con se anche un piccolo sgabello e durante la cottura siedono intorno al fuoco.

Non c’è la tradizionale processione, ma solo la benedizione degli animali, che avviene il pomeriggio. Non esiste nemmeno l’uso di cantare dietro le porte.

(informatore: signor Marco Notarmuzi, di anni 57)




PROCESSO PER MAGIA nella Sulmona del XVIII° secolo

[Contributo Pubblicato alle pgg. 148-152in “Rivista Abruzzese”, anno XXXII – N.3-4 Lanciano 1979]

di Franco Cercone

Nell’archivio della Cattedrale di Corfinio, gentilmente messomi a disposizione da Don Cesiro Di Francescantonio, mi sono imbattuto in un voluminoso fascicolo manoscritto raggruppante gli «Atti del Vicario generale della Curia di Valva Mons. Liberati».

Tali atti, che abbracciano gli anni 1723-1726, si riferiscono al processo contro un certo Fra Francesco di Naro, località in tenimento di Agrigento, e detto perciò «il Siciliano», il quale, pur non essendo stato ordinato sacerdote, aveva celebrato messa, confessato ed amministrato il Sacramento della Comunione non solo in Umbria (soprattutto a Spoleto) ma anche in numerose località dell’Abruzzo aquilano e nel Sulmonese, fra cui Pettorano e Pacentro. «II Siciliano» però, cioè Fra’ Francesco, possedeva l’abilità di eludere continuamente la sorveglianza ecclesiastica e di fuggire al momento opportuno dai monasteri appena avuto sentore di essere ricercato. Così, per es., si apprende (pag. 99 del manoscritto) che «il Siciliano» si trovava a Pacentro nel gennaio del 1724 presso il Convento dei Minori osservanti.

Su segnalazione del Priore, il Vescovo di Sulmona invia in ricognizione alcuni frati che riferirono, dopo, di essere arrivati troppo tardi, in quanto «il Siciliano… se ne fugiva dalla parte della ferrata di ferro che corrisponde all’orto… ignudo con le semplici asciucatori seu tovaglie di lino
bianco, e con le motande e scarpe…».

Del fatto comincia ad interessarsi anche la Santa Congregazione, che in data 27 maggio 1724 raccomanda da Roma, una volta a conoscenza che «il Siciliano» era nelle carceri vescovili di Sulmona, che «Fra’ Francesco di Naro… sia costantemente custodito, però trattato con carità, moderando la supposta asprezza de’ ferri a’ piedi e manette a le mani».

Inoltre la Santa Congregazione raccomandò al Vescovo di Sulmona, Matteo Odierna, di cui torneremo a parlare, che tutti gli atti relativi al processo le fossero poi trasmessi.

Il mistero di quest’uomo, che pur vestito da frate non aveva ancora la potestà di celebrar messa, si svela allorché durante il lungo processo di Sulmona pervengono all’autorità ecclesiastica inquirente gli atti del processo svoltosi a Spoleto contro Fra’ Francesco, alias «il Siciliano», atti inviati dalla stessa Santa Congregazione al Vescovo di Sulmona per conoscenza. Da essi risulta che «il Siciliano» era esperto in magia bianca e nera ed aveva partecipato a diverse sedute al fine di «cavar tesori». Alcune
di queste pratiche e riti magici risultano sorprendentemente simili a quelli messi in atto da un gruppo di religiosi implicati nel processo Centini, svoltosi un secolo prima circa (1634-1636) ed oggetto di un ampio studio pubblicato da Giuseppe Profeta[1].

Nelle ultime udienze del processo a Spoleto – egli riuscì come al solito a fuggire prima della sentenza e pertanto condannato in contumacia – Fra’ Francesco di Naro confessa che in una delle sue tante peregrinazioni si ritrovò a Capestrano in compagnia di un frate cappuccino di cui, disse, non ricordava il nome.

Questo frate lo portò «in casa d’un tal Sig.r Gioacchino ed in un piccolo stanziolino di detta casa, ove dicevasi esserci di certo un grosso tesoro; cominciò detto prete a recitare un’orazione, che
l’aveva presa dal breviario, e scritta in una carta, ne io so, che orazione si fusse. e quella unitamente alla rovescia, cioè l’ultime parole nel primo e le prime nell’ultimo. Poi disse detto prete cappuccino spogliato, che ci voleva un breviario nuovo, alcune candele di cera non ancora usata, come anche alcuni spachetti (sic) non mai toccati da donna ed io ancora dicevo di si, che ci volevano queste cose alla presenza di detto Signor Gioacchino e sua moglie, ma non sortì nientaltro in quel luogo. Poi ci partimmo io et il detto prete cappuccino spogliato in altri luoghi, e fra gli altri in un torrione di detta città che dicono la Porta d’Assisi, ed ivi ancora col detto Pre’ dicessimo certe parole di questo tenore, ricordandomi alcune parole di esso che sono: Sasmois, Canoismus, Mausmis, Daufanis et altre delle quali che hora non mi sovvengono, dicendomi ancora il detto Padre che se in quel luogo vi fosse stato il tesoro, mentre si dicevano le dette parole, sarebbe comparso avanti gl’occhi l’oro come raggi di sole: lui diceva che vedeva non so che cosa, ma io non vedeva cos’alcuna, e nè in questo luogo sortì altra cosa…
».

Nella seduta del 2 dicembre 1724 «il Siciliano» fa questa confessione:

« Essendo capitato circa li 25 o 26 settembre del 1723 in una osteria da 6 miglia prima d’arrivare all’Aquila, la sera di detto giorno capitò ancora in detta osteria mentre io ed altri uomini stavamo mangiando, un uomo di giusta statura, un poco grassotto che mostrava d’essere d’età di
45 anni in circa, di carnagione olivastra, con perucca in testa di colar biondo, barba negra, e canuto alquanto, vestito di sciamberga di colar cinericio il quale in discorso disse che si chiamava Monsù Simone di natione francese e perché portava come una borsa di calice per cercar la limosina, e. detta borsa era di color rosso e disse, che lui era Pagano convertito alla fede e per segno di ciò mi mostrò alcuni attestati di Roma, che lo raccomandava agli ordinarj de’ luoghi, a’ fine di questuare. Quest’uomo fu da me invitato a mangiare in detta osteria ed io in fatti pagai il mangiare per
me e per lui. Stassimo alquanto in discorso di cavar tesori e lui disse in presenta di quegli altri che erano in nostra compagnia che se fussimo stati in un patto di cavar tesori, sarebbe a lui bastato l’animo d’esentare me ed esso medesimo dalle bastonate ma non gl’altri. Da questo motivo essendo io dormito col sopradetto Monsù Simone, ci presi confidenza e discorrendo di molte materie e specialmente de’ tesori, che la mattina m’avrebbe insegnato altri secreti quanti io ne volevo. Ed infatti la mattina doppo d’aver fatta colazione che io la pagai, lui mi diede una moneta d’oro che mi disse
che valeva un Luiggi, e detta moneta era antica di Nerone imperatore, e mi disse che aveva cavato un tesoro nelle parti di Calabria e richiedendogli io di quello che promesso m’avea la sera, lui mi disse di si, che perciò si cavò dalla sacca molte carte ed un libro in ottavo foglio manoscritto,
che il carattere dava del rosso e mi fece scrivere le seguenti cose.

In primis mi fece scrivere prò vendicatione inimicorum, quale fu di questo tenore:

si prende un panno negro et destendendolo in un luogo, di sopra vi si mette la croce, alle braccia della quale vi si pongono due candele di cera negra ed a’ piedi la testa de morto e le candele dette devono stare accese, e poi ponendosi inginocchioni si dice il Salmo Miserere Mei Deus al rovescio, cioè dove diceva mei vel meam si doveva dire illi vel suam, che è l’istesso che dire quelle parole che in detto Salmo esprimono la persona di quello che lo reciti dicendolo giusto; alla rovescia poi quelle parole si dicevano in persona terza. E mi pare che per detto affetto vi fusse un altro
Salmo del quale io non me ne ricordo; e questo si deve fare per tre giorni che poi se ne vedeva l’effetto con la morte di quello per qual si faceva detta funzione.

In secondo luogo mi fece scrivere pro flussu sanguinis alcune parole, delle quali io non ne ricordo in verun modo. In terzo luogo mi fece scrivere pro tortura delle quali parole non mi ricordo bene, solo mi ricordo, benché in confuso, che ci andassero mischiate queste parole cioè che il latte di Maria Vergine sia dolce in quello che riceve la tortura, che la morte e passione di Cristo sia dolce e soave: e sopra questo non mi ricordo altro. In questo luogo mi fece scrivere di poter ritrovare il luogo preciso del tesoro ove era nascosto con questo modo: si prende un’oncia di grasso umano con
due oncie di cera o vergine o non vergine; delle quali se ne fa una candela ed il stuppino della quale deve essere di camiscia d’un morto, poi detta candela si mette nell’altare sotto la tovaglia nella parte dell’evangelo
; facendoci celebrare una Messa in detto altare per l’anima di quel morto, del
quale si prese la camiscia per far detta candela. Doppo che è celebrata detta Messa si prende la sopradetta candela e nel luogo ove si crede possa star il tesoro s’accende, recitandoci il Salmo dove sta questo versetto: Ut viderunt oculi mei et considerabo mirabilia de lege tui, che se vi è il tesoro,
la candela vi tira nel sito ove sta, ed ivi si smorza.

Mi voleva ancora far scrivere che per fare d’un altra maniera più sicura la detta candela, oltre le sopradette cose, ci voleva l’oglio santo, e particole consecrate e che queste ancora l’impastavano  nell’istessa candela, e che poi quella candela si poneva accesa sopra un bastone che si fissava
in terra e dicendoci alcune parole, fra le quali solo mi ricordo e poco bene: Taumaturgo, o Tumaturgo, o altra parola simile non ricordandomi bene, e che poi il detto bastone con detta candela accesa sarebbe che se andato nel sito ove era il tesoro, e che ivi si sarebbe smorzata la candela; ma quest’ultimo secreto non lo volli scrivere, perché m’inorridij nella detta superstizione. Quinto mi fece scrivere che per tirare una donna al proprio amore, si prende un poco di cera vergine, e se ne fa una piccola statua, al collo della quale statua, s’avvolta un filo di seta cremsi, lasciandone pendere di un palmo di detta seta, colla quale detta statuetta appendere in un chiodo, ponendo sotto la statuetta un lentissimo fuoco, acciò la statua si scaldi, ma non si distrugga. Poi si prendono tre spille, e si pongono la prima mi pare nella mano destra, l’altra nella sinistra, e la terza nella parte del cuore. Poi si dice:

O vos tres a’ me invocate, Nempe, Uf, et Giul, e queste tre parole me le fece scrivere con le lettere maiuscole; e mi ricordo, che ogni volta, che si proferisce una delle tre parole sopradette, si pone per ciascheduna volta una spilla delle già dette ne’ sopradetti luoghi, affisandole dalla parte della testa, e non della punta di dette spille, senza farle trapassare dall’altra parte di detta statua. Affissate con le sopradette parole le dette spille si segue a dire alcune parole, delle quali solo mi ricordo
queste cioè: Denvo vos per polestatem qua habetis super Sidera Levantem, Ponente, Grecu et Favoniun, poi ne seguono altre parole, che non me ne ricordo, e finalmente: Luna est scabellum pedum vestrorum: Sol est corona capitum vestrorum, ed altre parole, che non mi ricordo, fra le quali
mi pare che vi siano: Vos estis principes prophetorum et imphropetari, o pure Creatarum et increatarum, visibilio duniun et invisibilium, mettendoci ancora fra l’altre parole il nome di quella donna per la quale era fatta la statua. E mi ricordo che nell’ultimo si diceva: Ut luscoriosa veniat inter
brachia mea. Poi ci pigliava la detta statuetta, e si poneva sotto un matone
della porta della chiesa, dove la femina se n’andava a sentir la messa. E che ciò fatto se ne sarebbe veduto l’effetto soggiungendomi che questo secreto l’aveva in seguito ad un Sig.re di Cosenza, di cui non mi ricordo il nome, e che detto Sig.re ne vidole l’effetto[2].

In sesto luogo mi fece scrivere un secreto contro l’armi, e fu così, si prende un poco di carta vergine, e la quale si fa con la seconnina di donna, a modo di carta pecora, ed in detta carta facendoci un piccolo giro con punta di cortello, o di forbice nova, dentro detto giro vi si pongono queste parole, cioè:

Heli, Heloim, Lasach, Lamasabactani, Agios, Atheos, Athenateos, seu Imos e per ciascheduna di queste parole ci si fa’ il segno della croce e che poi della carta si portava addosso e che non c’era pericolo d’offesa d’armi.

Mi ricordo hora, che quando m’insegnò il modo di ritrovare tesoro nella candela mi disse, che ci disegnava la verga d’Aronne[3] e lui medesimo me ne fece il disegno con la penna nella carta in modo della detta verga, e questo me n’ero scordato di dirlo di sopra. Tutto ciò che ho riferito mi
fece scrivere il sopradetto Monsù Simone, il quale mi voleva far scrivere altri secreti, dicendomi ch’erano più belli, ma io non me ne curai. Tutte le sopradette cose io me le copiai in un foglio di carta, e le portavo con me, si la sopradetta copia come l’originale, che erano più cartuccie, ove
prima l’avevo scritte…».

Interrogato ancora a Spoleto sulle pratiche magiche dirette ad assicurare l’immunità dalle ferite d’armi, Fra’ Francesco di Naro precisò ancora:

«Nelle carceri dell’Arcivescovato di Chieti io diedi il secreto sopradetto contro l’armi a’ due sbirri di quella corte, de’ quali io non so come abbiano il nome, e cognome, ne so’, che essi sene siano serviti, stanteché io ancora gli lo misi in dubbio, se poteva essere veridico, o no detto secreto. Quando io poi fui nelle Carceri della Regia Audienza di Chieti, a quel che mi ricordo nel mese di decembre 1723, trovandomi in conversazione d’un certo Zi’Avenzio ed un prete, che non so come si chiami, ma mi pare, che dicesse ch’era della Ripa, o pure di Villa Magna et in conversazione discorrendo di tirar le donne per via di parole, e di cavar tesori, ancor io dissi richiesto da loro, che sapevo un secreto per ritrovar il loco preciso del tesoro, e gli copiai il sopradetto secreto della candela, che dissi nell’altro mio esame, ed acciò no avesse fatto alcun effetto ci aggiunsi altre cose false, o’dir meglio a’ mio capriccio[4].

Mi ricordo, che maggiormente beffeggiarlo ci feci una copia di memoriale co molte parole a’ capriccio come Sasmois, Muluis, Musfis e gli dissi, che quello era il memoriale che doveva ponersi sopra il luogo del tesoro, e che poi ritornandoci in termine di ventiquattro hore si sarebbe trovato il
tesoro aperto. Ma io non so, se gli detti si servirono di quel ch’io gli dissi, perché io mai più gli viddi. Nè mi ricordo se gl’insegnai nessun altro degli sopradetti secreti. Circa il tempo di Pasqua del corrente anno 1724 un carceriere della Regia Audienza di Chieti, che si chiamava Micuccio, essendosi questo accorto che io teneva il secreto per cavar tesori, venne con uno del Vasto nelle dette Carceri, e mi supplicò, che gli avessi fatta la candela, che si richiedeva per cavar il tesoro, io gli dissi di si per rispetto che era carceriere, e lui mi portò il grasso umano cioè della pianta della mano, ed un poco di cera, che si richiedeva per fare la sopradetta candela, come anche un pezzo di camicia che disse che l’aveva presa nella sepoltura di un figliolo morto…».

Questi sono i passi più rilevanti del processo, alquanto appesantito da una serie di deposizioni che nulla aggiungono agli importanti riti magici in esso menzionati. Fra’ Francesco di Naro, detto «il Siciliano», fu condannato nel 1724 alla fine del processo svoltosi a Sulmona dal Vescovo Francesco
Odierna, il quale concludeva il dispositivo della sentenza con queste parole: «… impostegli penitenze salutari, lo condanni alla galera in perpetuo», e ciò per aver detto messa, confessato senza essere ancora prete e per le pratiche magiche da lui «presi ed insegnati», come conclude il fascicolo del processo.


[1] G. Profeta, Magia e Politica, L’Aquila 1975. Il processo si concluse a Roma con la condanna a morte di Giacinto Centini e due frati, rei di aver   attentato alla vita di Papa Urbano Vili mediante riti di magia nera svoltisi in diverse località, fra cui Campli e Corropoli, entrambe in prov. di Teramo.

[2] Nel processo Centini si apprende che uno dei frati che congiurarono contro Urbano VIII si era follemente innamorato d’una donna che non voleva corrispondere al suo amore. Avendo confessato ad un altro frate il suo segreto, ricevette da quest’ultimo un rimedio infallibile per piegare tale donna alle sue voglie. Egli fu invitato ad appendere ad una finestra una
statua «di cera vergine» legata ad un filo, «per che fosse agitata dal vento, presupponendo, che si come la statua s’andava voltando in qua, et in là, così si muovessero le viscere della donna ad amarlo». Cfr. G. Profeta, op. cit.pag. 159.

[3] Aaronne, come è noto, operò diversi prodigi con il suo bastone o «verga», fra cui la divisione del Mar Rosso per permettere il ritorno degli Ebrei alla Terra Promessa (Esodo, XIV, 9), il flagello delle rane su tutto l’Egitto (Esodo, VIII, 5) ecc… Già nel medio evo la «verga d’Aaronne» viene usata a scopi magici. Si tratta di un bastone per la «circumscriptio» dello spazio magico. Allo stesso uso erano destinati altri bastoni chiamati «le clavicole di Salomone» o «clavicola di Salomone». Cfr. al riguardo G. Profeta, op. cit. pag. 159, ove per altro «La Clavicola di Salomone» appare come titolo di un libro di arti magiche.

[4] È evidente come «il Siciliano», viste le brutte acque in cui si trovava, cerchi di porre, ma invano come vedremo, tutto il suo operato sul piano dell’irrilevanza, tentando di commuovere l’autorità ecclesiastica inquirente.




TOPOGRAFIA E DEMOGRAFIA della Sulmona medievale

Contributo pubblicato in ABRUZZOSETTE [Settimanale indipendente fondato da Remo Celaia], del 13 aprile 1978

di Franco Cercone

Fresco di stampa è apparso per i tipi della Labor di Sulmona un importante ed impegnativo lavoro di E. Mattiocco dal titolo “Struttura urbana e società della Sulmona medievale”. È inutile ricordare in tale sede i contributi d’alto valore scientifico apportati dal Dott. Mattiocco nel campo archeologico, storico e dell’oreficeria medievale, campo quest’ultimo in cui l`A. viene annoverato fra i maggiori studiosi a livello nazionale.

Questa recente fatica del ricercatore sulmonese viene a completare una serie di decisivi scritti sulla storia del capoluogo peligno apparsi negli ultimi tempi: cioè Sulmona nell’800 e Sulmona ieri, impostisi all’attenzione degli studiosi anche per l’abbondante materiale fotografico inedito nonché per gli apporti di squisito carattere etnografico.

Nella “Struttura urbana e società della Sulmona medievale” il Mattiocco ha applicato un efficace quanto, sotto molti aspetti, nuovo metodo d’indagine diretto a stabilire i mutamenti della popolazione con la conseguente trasformazione della primitiva cinta muraria della città d’Ovidio, la quale dimostra l’A., era ancora nel sec. XI quella risalente all’epoca romana.

Le vicende demografiche poi, e qui rileviamo uno dei tanti pregi dell’opera, non vengono seguite con un’ottica esclusivamente fissata su Sulmona, bensì con lo sguardo più ampio rivolto alla situazione europea in generale ed italiana in particolare, di cui il capoluogo peligno risente comunque gli influssi.

«A partire dalla metà dell`XI sec. Sottolinea l`A. in tutto l’occidente si avvertirono i segni di un diffuso incremento demografico e tecnico» per cui la cinta primitiva che accoglieva 2.000 abitanti circa risulta insufficiente di fronte alla nuova spinta proveniente soprattutto dal mondo contadino peligno e ciò provoca la formazione di nuovi borghi attaccati alla cinta primitiva. L’esigenza della loro difesa in cui fanno spicco attivi forenses del circondario. Conduce nel sec. XIV all’allargamento della cinta muraria con la Porta S. Amico a nord e Porta Napoli a sud. ed alla conseguente ripartizione della Città in sei Distretti. cui vengono abbinati i forenses del circondario.

Si apprende cosi. particolare ignorato da molti studiosi, che tali abbinamenti non erano affatto casuali ma determinati dal percorso che i forenses compivano per raggiungere Sulmona e quindi dalla Porta d’ingresso alla Città che portava poi lo stesso nome di quello del Distretto. Cosi al Distretto di Porta Salvatoris erano ascritti i Forense: di castro pectorani e de castro cansani, mentre a quello di Porta Maranesca (è vana a proposito ogni spiegazione, come quella di R. Colapietra, se non ricondotta a «Maranesca – perché conducente alle – Marane›› di Sulmona) i Forenses de castro pacentri e campi jovis. Tutti questi rilievi vengono condotti in base ad una attenta lettura che il Mattiocco fa di un eccezionale Documento, quale è appunto il Catasto del 1376, esaminato sommariamente dall’altro storico sulmonese N.F Faraglia nella prefazione al suo pur fondamentale Codice Diplomatico Sulmonese (Lanciano 1888).

Lo studio fatto dal Faraglia su tale Catasto – nota il Mattiocco – era stato condotto essenzialmente sulle rubriche, senza rilevare l’alterata progressione in cui erano state sistemate le pagine, prive di numerazione, al momento della rilegatura del volume. Ne derivano errori nel computo degli accatastati, che l’A. riconduce poi, esclusi i Forenses, al numero di 1212.

Anche da ciò è derivato in seguito un sorprendente errore di valutazione della popolazione sulmonese dell’epoca, cui incorse non solo il Faraglia ma anche il Pansa, influendo negativamente su tutti gli studiosi successivi.

Il Faraglia infatti «sistemò la popolazione sulmonese del tempo intorno ai 15.000 abitanti», cifra certamente esagerata commenta a ragione il Mattiocco, che riconduce in base a severi calcoli sui fuochi e cartografici intorno alle 7.000 unità. Queste sono ovviamente solo alcune fra le numerose considerazioni suscitate dalla fondamentale opera di E. Mattiocco sulla quale ritorneremo ancora a parlare. Ciò che comunque va sottolineato è che essa costituisce un felice mezzo d’indagine da cui gli studiosi potranno trarre non pochi suggerimenti metodologici. 




GRAZIANO MERLINO  Poeta Dialettale 

di Franco Cercone

[Articolo pubblicato alle pagine n. 299-300 del Bollettino Trimestrale ASTRA (Pe) Tradizioni Popolari Abruzzesi. Anno VI Numero 20 (aprile-maggio-giugno) 1978]

Non pochi, penso, concorderanno con me nel riconoscere in Graziano Merlino l’ultima perla scoperta nel campo della poesia dialettale abruzzese.

E questa scoperta è tanto più sorprendente se si pensa all’attività che questo figlio d’Abruzzo svolge lontano dalla sua Terra, Taranta Peligna. Ma se si riflette alla circostanza che Graziano è fratello di Italo Merlino, assiduo collaboratore di molti periodici culturali regionali, la sorpresa svanisce e si pensa subito al noto detto abruzzese «Dalla vòtte bbone ne’esce vine guaste».

La capacità di Graziano Merlino di evocare in versi il perenne scorrere della vita nei piccoli paesi, è qualcosa che pietrifica il cuore per la sua struggente malinconia. Si pensi solo ai due con cui sintetizza mirabilmente la notte (cacciune ch’abbaie) ed il giorno (galle che cante) oppure agli altri tre nei quali scolpisce la nascita e la morte in un trittico di straordinaria efficacia, insieme alla partenza dell’emigrante, che è anche morte:

fratucce ch’nasce

tate ch’parte

tatone ch’more

A leggere questi versi ti sembra di rompere blocchi di pietra, di aprire squarci su essenziali visioni. E su queste s’eleva il canto della lontananza, che avvolge con la musicalità dei versi, sfrenati da togliere il respiro, sia i ricordi del poeta che il valore del paese natio, ormai trasfigurato in simboli:

pahese ‘mi

murte

pahese ‘mi

vive.

PAHESE ‘MI 

[di Graziano Merlino]

Pahese ‘mi .

tremute lamature

sole

fredde neve gele

muntagne

cime bianche

citelanze cumpagnìie

Pahese ‘mi

silenzie

cacciune ch’abbaie

galle che cante

vente che fere

fiume ch’ scorre

strille d’alane

Pahese ‘mi

carezze de mamme

fratucce ch’ nasce

tate ch’ parte

tatone ch’ more

Pahese ‘mi

australie america

calvarie crocefisse

campesante

campane a feste

a murte a distese

Pahese ‘mi

suspirate abbandunate

sunnate

disprezzate

‘ngannate

Pahese ‘mi

amore

odie

pecundrìie luntananze

Pahese ‘mi

derupate fsragellate

trascurata rashcate

spugliate

Pahese ‘mi

che voglie d’arrivenì

che voglie d’arripartì

Pahese ‘mi

che crona longa

se fenisce ‘ssu rusarie

pu ‘bbijé la litanìje

Pahese ‘mi

murte

Pahese ‘mi

vive.




SULLA TRADIZIONE DEL «COMPARATICO» IN ABRUZZO

di Franco Cercone

[Contributo pubblicato in rivista abruzzese, anno XXXI n. 3-4 Lanciano 1978 pagine n.  181-182]

Il tradizionale istituto del comparatico, che resiste ancora tenacemente in Abruzzo soprattutto nelle aree dell’entroterra montano, è stato oggetto di un approfondito studio da parte di E. Giancristofaro e ad esso si fa rimando per la relativa bibliografia (1). 

Questi appunti che siamo andati man mano annotando sull’argomento sembrano tuttavia presentare caratteri degni di nota e pertanto suscettibili di apportare ulteriori contributi per la messa a fuoco dell’importante tema culturale nei gruppi sociali subalterni.

Come è noto, l’istaurazione del rapporto di comparatico veniva scelto, ma non sempre, il giorno di S. Giovanni Battista ed a proposito ha osservato il Fiordigigli: “La promessa di comparaggio, effettuata nel giorno di S. Giovanni, creava e crea vincoli d’affetto più stretti della parentela; i1 recederne significava attirarsi odio implacabile, violento attrito… » (2).

Il corsivo del passo citato è nostro ed introduce alcuni rilievi che scaturiscono, come ci è sembrato, dall’analisi comportamentale di un gruppo di informatori intervistati (3). 

La persona scelta come compare «lu San Giuànne» non è quasi mai un parente né si trova in condizioni economiche inferiori rispetto a quella di chi ha operato la scelta. La struttura del modello operativo che si incentra nel «comparatico» sembra pertanto rivelare complesse determinazioni di natura economica o di “integrazione economica”

che vietano ai parenti o consanguinei la possibilità della funzione di «alter ego» o persona cui si possa far affidamento nei momenti di bisogno, dato che è proprio con essi che insorgono contrasti in occasione soprattutto di suddivisione ereditaria (4).  

II proverbio popolare i “parenti sono come gli stivali: più sono stretti e più fanno male” (5),  assai in uso ad Opi (e l’informatore di tale località mi ha assicurato che è comune anche in diversi centri della Marsica), Castel di Sangro e Forlì del Sannio, risulta a proposito assai significativo. Notevole è poi la norma che nell’area dell’alto Sangro spetti al padrino la scelta del nome da imporre al nascituro e quest’ultimo porta assai spesso il nome del primo. Ad Opi poi vige l’usanza ormai codificata dalla ripetizione costante ed uniforme nel tempo del comportamento che i1 compare debba essere scelto assai lontano dal paese, donde il proverbio:

“la moglie della tua villa e compare de cento miglia”.

Poiché in un piccolo centro non è difficile reperire un padrino al di fuori del parentado vien fatto di chiedersi quale sia la logica o le motivazioni che spingono una persona a cercare altrove quei vincoli così stretti che derivano dal rapporto di comparatico, o, in altri termini, quali siano le ulteriori funzioni cui l’istituto del comparatico adempie o in passato abbia adempiuto.

Pur nell’evidente eufemismo, l’espressione «cento miglia» alludente alla lontananza del compare, sottolinea probabilmente la necessità, in una società omogenea rurale, di scegliere l’alter ego sia al di fuori dei rischi incombenti in una determinata area sul ciclo economico annuale (come la siccità, la quale se colpisce una zona può risparmiare un’altra) che dall’esigenza dell’integrazione di colture diverse. D’altro canto, nel viaggio

compiuto per raggiungere il compare lontano, da effettuarsi «almeno una

volta all’anno e preferibilmente nel giorno di S. Giovanni Battista» (Opi),

è possibile intravedere anche un aspetto culturale dato dal trasferimento delle persone da una zona all’altra e non dissimile sotto certi aspetti dal «viaggio» compiuto in occasione dei pellegrinaggi. Dalle dichiarazioni degli informatori intervistati è risultata anche la diversa posizione della donna nei confronti dei diritti-doveri che la legano al proprio compare. Essi, infatti, restano immutati fintanto è nubile, ma da sposata, entra a far parte dei diritti-doveri che scaturiscono dal rapporto di comparatico esistente tra il

marito ed il compare di quest’ultimo, secondo uno schema che sembra rivelare residui di un’antica struttura patriarcale della famiglia abruzzese:

Secondo gli informatori intervistati, i rapporti della donna con il primo compare tendono col tempo ad affievolirsi, mentre quelli con il compare del marito, da lei acquisiti con il matrimonio, si cementano e si sacralizzano soprattutto in occasione della nascita del primo figlio. Aggiungiamo a chiusura di queste brevi note due consuetudini sull’argomento registrate a Pacentro e Collepietro. A Pacentro (Inf.ce Sig.ra Antonietta Buccitelli, casalinga di anni 81) chi si recava di mattina in campagna o al cimitero

passava sempre davanti alla casa del compare e sull’uscio deponeva una pietra.

A Collepietro (Inf.re Sig. Domenico Varrassi, insegnante di anni 50) nell’ultimo bicchiere durante la consumazione del consólo si lascia sempre un dito di vino. Forse da tale usanza deriva la norma, assai comune in Abruzzo, di non versare ancora da bere nel bicchiere se questo non sia stato prima completamente vuotato, perché il «dito di vino» richiama alla mente il lutto e perciò è di cattivo augurio.

Note

[1] Cfr. «Rivista Abruzzese», 1977, n° 1, pag. 16 segg.

2 G. Fiordigigli, Un paese d’Abruzzo nella leggenda e nella tradizione, vol. 2° pag. 157; L’Aquila 1977. Il Giancristofaro definisce appunto il comparatico «una parentela fìttizia» (ivi, pag. 16).

3 Signori: Franco Turco, contadino di anni 28, Forlì del Sannio (Is.); Cesidio Serene, di anni 59, contadino, Opi (Aq.); Anna Carugno Rosati, di anni 35, insegnante, Castel di Sangro (Aq.): Pia Amicucci, di anni 57, bidella, Roccapia (Aq.).

4 A Cansano (Aq.) nelle, liti per la suddivisione della proprietà e per il diritto all’asse paterno è noto il detto vuoglie l’aadòre de tata meja..

5 A Villalago: frate e parente come serpente.; cfr. A. D’Antonio, Villalago. Storia, leggende, usi. costumi, pag. 199; Pescara 1976.




FUNGHI E TABÙ DEL FERRO

di Franco Cercone

[Articolo pubblicato alla pagina n. 239 del Bollettino Trimestrale ASTRA (Pe)- Tradizioni Popolari Abruzzesi Anno V Numero 15 (aprile-maggio-giugno) 1977]

L’autunno, si sa, non è solo tempo di vendemmia ma anche di funghi.

Il raccoglitore di funghi è quasi sempre un esperto a livello empirico, convinto tra l’altro che essi non debbano essere raccolti in presenza di residui ferrosi o pezzi di ferro perché ritenuti in tal caso velenosi.

Poiché tale convinzione è del tutto priva di ogni fondamento scientifico, la sua genesi può essere ricondotta ad un tabù antichissimo, quello del ferro.

La spiegazione ritenuta «la più convincente» , per tale tabù è quella dataci dal Frazer nel Ramo d’oro.

Il ferro, come minerale nuovo, «era da molti considerato con sospetto e antipatia»   in quanto, aggiungono altri autori, per es. il Furbon, «il ferro è rimasto a lungo un metallo impuro, d’origine straniera, non essendo stato associato alle imprese degli dèi»  .

L’impiego del ferro come amuleto, ed il ricorrere al contatto col ferro per allontanare minacce sulla propria persona (tocca ferro) sono in relazione secondo me alla comparsa del ferro ed al suo uso per la costruzione di armi, contro le quali quelle in bronzo si spezzavano come onde che si infrangono sulle rocce.




LA PIETRA DELLA VERGOGNA

… e la «zecca»  nella tradizione popolare abruzzese

di Franco Cercone

[Contributo pubblicato in “Misura” (Rassegna Trimestrale di Abruzzesistica Ed. Del Buccio), anno I, n° 3, L’Aquila 1977, pp. 85-92. E in “Lares” anno XLV, n° 1, Firenze 1979, pp. 59-64.]

Quando a Roccaraso e Pescocostanzo si vuol sottolineare che una certa persona versa in cattive condizioni economiche, si dice ancora oggi che essa ha misse lu cule a lu tùmmere (ha messo il sedere sul tomolo).

La parola dialettale tùmmere deriva da tomolo ed indica non solo una misura agraria di superficie, corrispondente a mq. 2.700, ma anche – ed è ciò che in tale sede interessa – una misura di capacità per cereali, soprattutto grano, equivalente a Kg. 44.

Lu tùmmere era di pietra e la sua forma ricorda quella di alcuni antichi mortai dove si tritavano sale e spezie, e che oggi sono assai ricercati per l’arredamento di ambienti rustici o per utilizzarli come soprammobile negli appartamenti moderni. A Roccaraso[1] ed in altri centri abruzzesi – vedremo in seguito quali – esisteva una specie di tùmmere pubblico nel quale veniva misurata la quantità di cereali data in prestito e che all’atto della restituzione doveva essere ancora misurata nello stesso
tùmmere.

La funzione di questo recipiente era probabilmente quella di costituire un punto fisso di riferimento in una economia regolata spesso dal baratto, ovviando così ai mutevoli regolamenti nell’ambito della compravendita ed al deprezzamento della moneta. Non sempre però chi aveva preso in prestito una certa quantità di cereali, misurata al tùmmere, era in grado di poterla restituire, soprattutto in seguito alla devastazione del raccolto da parte degli agenti atmosferici oppure a causa della siccità.

Il creditore aveva allora due possibilità per rifarsi del danno subito: adire le vie normali della giustizia oppure vendicarsi in un modo alquanto singolare. Egli, infatti, nel giorno e nell’ora comunicati in precedenza al debitore, costringeva quest’ultimo a recarsi nel luogo dove era situato il tùmmere ed a restarvi seduto per un certo tempo con il sedere completamente nudo, esposto così ai motti pungenti o alla commiserazione dei passanti.

Lu tùmmere di Roccaraso è andato distrutto in seguito ai tristi eventi dell’ultimo conflitto mondiale che ha causato la rovina completa dell’antico centro storico, sottoposto a continui bombardamenti. Tuttavia, un esempio di tùmmere ben conservato e forse simile a quello di Roccaraso si ammira ancora oggi a Pacentro (Aq.), in via Madonna delle Grazie. L’imboccatura, come si vede nella foto, è stata turata di recente per impedire che l’acqua vi ristagnasse e gelando d’inverno provocasse danni irreparabili all’importante reperto. Col passar del tempo il tùmmere fu sostituito da una semplice pietra, detta appunto pietra della gogna o della vergogna, un monolito squadrato di cui si hanno esempi a Pescocostanzo (Aq.) e Castilenti (Te.).

A Pescocostanzo la pietra della vergogna è situata ai piedi della scalinata della chiesa di Santa Maria del Colle e nel 1966, come ho appreso dal Signor Giuseppe Cocco di anni 59 (un sarto nativo del luogo), la Pro Loco ha fatto rivivere ai divertiti turisti la scena del tùmmere, che
nella tradizione locale presenta varianti degne di nota. A Pescocostanzo, infatti, chi aveva molti debiti e non poteva pagarli, si recava alla messa grande celebrata di domenica nella suddetta chiesa e dopo la benedizione scendeva frettolosamente per la scalinata, ai cui piedi è situato come si è detto il tùmmere, e calatisi i pantaloni vi restava seduto fino a quando l’ultimo fedele non avesse abbandonato la chiesa. Egli si esponeva pertanto volontariamente alla gogna e da quel momento non aveva più debiti.
I creditori, per antica consuetudine, non potevano più perseguirlo penalmente e né, a detta del mio informatore, è mai avvenuto che qualche povero diavolo, dopo essersi seduto sul tùmmere, abbia ricevuto ancora pressioni da parte dei creditori: una specie di codice d’onore, dunque, rispettato da entrambe le parti.

Con il trascorrere del tempo la pena infamante del tùmmere dovette essere estesa forse ad una serie di altri reati, dato che «a Pescocostanzo, scoperto il ladro di abigeato, si portava in pubblica piazza e, dopo un giudizio sommario, alla presenza di tutto il popolo convocato per tale occasione, si condannava al disprezzo ed alla fustigazione. Poggiato ad uno sgabello in pietra, doveva mostrare il deretano al popolo scoprendosi tra le risate e il disprezzo di tutti; e quindi veniva scudisciato»[2].

Una ulteriore variante a quanto finora si è detto, è rappresentata dal tùmmere di Castilenti, in provincia di Teramo, sul quale ha scritto una gustosa pagina Luigi Braccili: «A Castilenti, un paesino della provincia di Teramo […] esiste ancora oggi una grossa pietra di forma parallelepipeda chiamata tomolo. Oggi la pietra si trova ai piedi di un grosso olmo all’inizio di un viale della circonvallazione del paese, ma un tempo invece era sistemata nella piazzetta al termine di un piano inclinato che porta alla chiesa madre. Lu tòmmele, così infatti veniva chiamata la grossa pietra, serviva per farvi sedere quelli che subivano un fallimento. Era in un certo senso una specie di gogna, un mezzo ingeneroso per esporre al ludibrio coloro che non hanno saputo tener fede agli impegni finanziari.

Ancora oggi nella zona della Vallata del Fino, di uno che è incorso in un fallimento si dice: quello ha messo  il culo a lu … tòmmole. Infatti il tomolo serviva ad un rito assai strano, oggi per fortuna in disuso, che metteva in ridicolo chi appunto doveva dichiarare fallimento. Il rito avveniva nella piazza principale del paese all’uscita della messa grande, all’incirca verso le undici e mezza della
domenica, al cospetto di quasi tutta la popolazione di Castilenti. Il povero fallito doveva denudarsi il deretano … e sedersi più volte sul tomolo gridando ogni volta che si sedeva sulla pietra: tommolo è uno, tommolo è due, tommolo è tre, ecc.

Naturalmente il numero delle sedute dipendeva dall’entità del fallimento. […] Per i commercianti della Vallata del Fino essersi seduti sul tomolo significava aver subito il marchio dell’infamia e difficilmente dopo aver partecipato da protagonisti all’infamante rito sulla piazza di Castilenti riuscivano a riprendersi negli affari. Quando il rito fu proibito, il tomolo fu tolto dalla piazza principale del paese e fu collocato alla periferia come per dimostrare a tutti che la civiltà aveva giustamente epurato una usanza che era medioevale … Nessuno però ha avuto il coraggio di toccare il tomolo. Ancora oggi se qualche ignaro ragazzo vi si va a sedere sopra, subito viene richiamato a gran voce dalla madre come se si fosse seduto sui carboni accesi. Nessuno si siede sul tomolo che rimane sempre
lì come uno strano tabù ».[3]

Anche a Sulmona «nella piazzetta denominata Nunzio Federico Faraglia […] che prima ancora aveva nome Piazza del Pesce, vi era una rossa e spessa lastra di pietra chiamata le staffe. In tempi antichi, forse nel sec. XVI, i debitori cocciuti erano costretti a battere tre volte il denudato deretano su quella pietra ».[4] Così afferma lo storico sulmonese F. Sardi de Letto, il quale aggiunge che nella costruzione della fontana sita a Sulmona in Piazza Garibaldi «quella pietra levigata servì precisamente a farne il bacino».[5] Il particolare è  confermato da un altro scrittore sulmonese, Nicola Grilli, il quale precisa che « Sulmona […] ha molte piazze, tra le quali Piazza Garibaldi, nel Centro della quale vi è una grande e bella fontana […] che non ha alcuna importanza storica, se non si voglia darne una al curioso accidente che tramutò in vasca il gran petròne che fu già della gogna ».[6] Da un punto di vista diacronico è importante rilevare come l’usanza in questione fosse già viva nel Medioevo, epoca in cui la pietra dove avveniva il rito infamante era nota come pietra dello scandalo ».[7]

Lu tùmmere che rappresentava una consuetudine giuridica popolare assai estesa in Abruzzo e forse ancora in vigore all’inizio del secolo scorso, era integrato da altri due istituti giuridici popolari: la zecca e Iu  suldate a castighe.

La zecca, come è noto, è un parassita della pelle di molti vertebrati di cui succhia il sangue. A Cansano (AQ) veniva chiamata zecca la persona, odiata e nello stesso tempo temuta, incaricata dal Comune di riscuotere tasse dai cittadini.[8] Ma anche una persona qualsiasi che vantava un certo credito su un’altra poteva rivolgersi alla zecca, che riceveva in tal caso dal creditore una percentuale sulla somma esatta. Per antica consuetudine sia il Comune che il creditore non potevano inviare la zecca alla
casa del debitore. A costui il debito poteva essere ricordato soltanto per strada. Avveniva allora che la zecca stazionasse sempre per le vie o sulla piazza principale del paese in attesa di vedere il debitore, cui, con due colpetti di mano sulla spalla ricordava il debito da pagare.

La zecca non aveva alcun ritegno. Svolgeva il suo compito anche se il debitore si trovava insieme ad amici o forestieri che venivano così involontariamente messi a conoscenza della triste situazione economica del debitore, con grave danno al buon nome di quest’ultimo. Ma – e la notizia è veramente fantastica – per atavica consuetudine il debitore che non voleva o, più spesso, non poteva estinguere il debito, andava a mettersi alla vista della zecca con le spalle aderenti al muro della casa più vicina
ed in tal caso la zecca non poteva molestarlo. Il muro della casa conferiva dunque al debitore una specie di immunità che nel momento lo rendeva non perseguibile, particolare questo che fa sorgere il sospetto che l’espressione italiana « mettere qualcuno con le spalle al muro », nel senso lato di costringere qualcuno a non muoversi, abbia potuto trarre origine da tale atavica consuetudine giuridica.

Certo è che il mio informatore di Pescocostanzo già citato, cioè Sig. Giuseppe Cocco, mi ha rivelato in presenza di altri vecchi del luogo il motivo per cui i tetti delle case nel centro storico di Pescocostanzo sono  assai sporgenti.

In questa località una persona non poteva essere arrestata se riusciva a raggiungere il muro di una casa, poiché ai gendarmi non era permesso oltrepassare lo spazio intercorrente tra il muro e la verticale abbassata dall’estremità del tetto.

Il perimetro della casa cioè era circondato da uno spazio inviolabile di un metro circa, misura corrispondente appunto a quella della sporgenza del tetto. A Pescocostanzo pertanto – ha aggiunto il mio informatore – vigeva la prassi allorché si costruiva una casa, di far sporgere il più possibile il tetto per aumentare l’area di immunità che era inviolabile ed in tal senso sacra. Sorge qui spontanea una domanda: le moderne immunità parlamentari per fatti commessi in violazione di leggi traggono forse le loro origini da tali consuetudini così lontane da noi nel tempo? È difficile dirlo. Tuttavia, non v’è chi non possa riconoscere che si tratta di un dubbio stimolante e sono certo che altri studiosi si interesseranno di nuovo del problema. È probabile, inoltre, che quel giuoco dei bambini, detto acchiappamure, assai comune in Abruzzo ed altrove, consistente nell’inseguirsi a vicenda e nell’eliminare dal giuoco stesso colui che è stato toccato con le mani da un altro, rappresenti una degradazione della consuetudine giuridica popolare in questione, poiché nel giuoco il bambino che riesce a raggiungere il muro di una casa non può essere toccato con le mani e di conseguenza nemmeno eliminato.

Anche nella provincia di Teramo esistevano una volta le zecche, denominate in tale area pittime; ed in un capitolo dedicato ai tradizionali mestieri abruzzesi L. Braccili ha riservato alle pittime una pagina assai significativa. « Quello della Pittima – osserva il Braccili – è un tipico mestiere abruzzese oggi del tutto scomparso. Accadeva spesso che nei momenti più accesi di una discussione, magari fra amici di una certa importanza attorno ad un tavolo di un bar, si avvicinasse qualcuno che, dopo aver dato un colpetto sulla spalla ad uno degli interlocutori, gli faceva passare di colpo tutto il fervore della discussione. ‘Guarda – diceva la pittima con la più grande naturalezza di questo mondo – il debito che hai contratto con tizio attende ancora di essere pagato e sarebbe ora di saldarlo, non ti pare?’
La pittima aveva così svolto il suo lavoro. Il creditore lo aveva pagato per questo … Qualche volta accadeva che la pittima mentre si faceva premura di avvertire la sua vittima di turno, si vedeva colpito da schiaffi e pugni. […] In questo caso a pagare le spese doveva essere il ‘datore di lavoro’, ossia il creditore.

Quello di buscare pugni e schiaffi dalle vittime delle sue sollecitazioni non era l’unico inconveniente che caratterizzava le prestazioni della pittima. […] Quando entrava in un locale pubblico non erano pochi quelli che gli voltavano le spalle. […] Emarginato dal mondo dell’amicizia spicciola, la pittima si chiudeva in sé stesso e metteva maggior impegno nel suo lavoro aumentando così le reazioni di quelli che dovevano subire le sue costanti sollecitazioni ».[9]

Non meno sorprendente risulta oggi per noi l’altra consuetudine giuridica popolare, cioè lu suldate a castighe che secondo i miei informatori di Cansano, precedentemente citati, era assai comune un tempo nel circondario di Sulmona.

Chi non pagava le fondiarie si vedeva arrivare in casa un ospite particolare e cioè un soldato o gendarme che restava a mangiare e dormire nella casa del debitore fino a quando quest’ultimo non avesse pagato le tasse! La persona timorata cercava ovviamente di impedire in tutti i modi che i paesani scoprissero la presenza del Soldato a castigo, venendo così a conoscenza della sua triste condizione economica. In pratica però qualsiasi rimedio si mostrava vano e subito dopo l’arrivo del soldato, la notizia era già in bocca di tutti.[10]


[1] Informatore: Giuseppe Petrarca, artigiano, di anni 75.

[2]A. d’antonio, Villalago. Storia, leggende, usi, costumi. Pescara, Editrice Italica 1976, p.79. 

[3] L. braccili, Folk Abruzzo, Pescara, Tip. Arte della Stampa 1973, pp. 31-32. Da altra parte si apprende invece che il debitore doveva sedersi nudo sul tommele e gridare « ad alta voce il numero dei tomoli di grano che non poteva soddisfare, alzando e battendo il deretano sulla pietra ogni volta che progrediva nella numerazione ». (In P. D. lupinetti, Castilenti, Lanciano, Cooperativa Editoriale Tipografica 1973, p. 111). Con le stesse modalità la punizione del tùmmere si svolgeva anche a Tagliacozzo. (Cfr. G. gattinara, Storia di Tagliuzzo, Città di Castello, Tipografia S. Lapi 1894, p. 72). Ciò conferma che a Castilenti l’applicazione della pena del tòmmole ai fallimenti rappresenta una evoluzione dell’antica consuetudine giuridica popolare, un tempo diretta a punire un reato ritenuto grave dai contadini, cioè la mancata restituzione del grano avuto in prestito. 

[4] F. sardi de letto, La Città di Sulmona. Impressioni stanche e divagazioni, Sulmona, tip. Labor 1972, p. 154.

[5] Ivi, p. 154.

[6] N. grilli, La Città di Sulmona. Cenni storici, geografici e polìtici, New York, II Carroccio Publishing Co. 1932, p. 22.

[7] L’espressione, in senso metaforico, è già presente nella Bibbia (Isaia, Vili. 14).

[8] Informatori: Luigi Di Giallonardo (anni 75), Luciano Chioda (anni 70) e Francesco  D’Orazio (anni 69), tutti contadini del luogo.

[9] L. braccili, op. cit., p. 56 sgg.

[10] Secondo l’insegnante elementare Rocco Colecchia di Cansano, di anni 66, l’istituto giuridico  del soldato a castigo risalirebbe al periodo borbonico.




IL CULTO DI SAN DOMENICO DI COCULLO

Nei resoconti dei viaggiatori inglesi

di Franco Cercone

[Introduzione di Franco Cercone Il Culto di S. Domenico di Cocullo nei resoconti dei viaggiatori inglesi pubblicata in: Woodward, W. H. La festa di San Domenico di Cocullo (traduzione di D. Lepore). Sulmona, La Moderna, 1977.]

L’interesse suscitato dal rito delle serpi che si svolge a Cocullo ogni primo giovedì di maggio, in onore di San Domenico, ha varcato i confini nazionali fin dal secolo scorso. Ma i progressi diretti a far luce su questo «interessante capitolo di psicologia popolare››, soprattutto per ciò che concerne le funzioni che in passato il rito svolgeva presso due comunità come Cocullo e Villalago, a struttura prevalentemente pastorale, si sono avuti solo di recente grazie alle indagini, condotte anche in senso diacronico, di due studiosi italiani: Alfonso Di Nola e Giuseppe Profeta [i].

Non bisogna dimenticare tuttavia l’importante contributo del folklorista sulmonese Giovanni Pansa (1865 – 1929), autore di uno studio dal titolo L’ordalia totemica dei Marsi ed il Santuario di S. Domenico di Cocullo, apparso postumo in diverse puntate sulle riviste Luci Sannite ed Attraverso l’Abruzzo nel periodo 1938-1957 e riunite poi in un volume che raccoglie gli scritti inediti e rari del Pansa da me curati [ii] .

Il rito delle serpi di Cocullo viene conosciuto in Inghilterra verso la metà del secolo scorso grazie al successo ottenuto dal volume di un colto viaggiatore, K. Craven, dal titolo Excursions in the Abruzzi and Northern Provinces of Naples (Londra, 1838) [iii], un periodo in cui tra gli studiosi inglesi si discuteva sul nome da dare a quelle che fino ad allora venivano chiamate popular antiquities.

Siamo dunque alla vigilia del famoso intervento dell’archeologo William John Thomps sul giornale londinese Athenaeum, in data 22 agosto 1846, in cui propose l’adozione del termine ƒolklore. La descrizione che il Craven fa non tanto dei serpari marsi a Napoli, quanto dell’emissario posto vicino a Luco, deve aver non poco impressionato i suoi flemmatici connazionali:

«Quando lo visitai – scrive egli – il luogo era reso più notevole per una grande moltitudine di serpenti che stavano sulle pietre a scaldarsi al sole e che si lanciavano nell’acqua per avvicinarsi a noi. Si poteva vederli che nuotavano attorno alla nostra barca e che vibravano la lingua contro di essa con un’apparenza aggressiva e violenta›› [iv]  Dopo il Craven, è E. Lear a compiere un viaggio in Abruzzo e nel 1846 pubblica a Londra le sue Illustrated Excursions in Italy. La parte relativa all’Abruzzo, Viaggio illustrato nei tre Abruzzi, è stata tradotta e pubblicata alcuni anni fa (1974) a Sulmona [v].

Agli inizi del nostro secolo compie un altro viaggio la scrittrice A. Macdonnel, che pubblica poi a Londra nel 1908 il volume dal titolo In the Abruzzi, in cui a p. 183 e 275 sgg. ritorna sull’argomento che il Woodward tratterà l’anno dopo nel quotidiano inglese «The Manchester Guardian›› in data 1° giugno 1909 e che viene sottoposto all’ attenzione degli studiosi nella versione di Donatella Lepore.

Altre interessanti descrizioni del rito delle serpi di Cocullo sono contenute nell’ opera della scrittrice inglese E. Canziani, che compie un viaggio in Abruzzo nell’estate del 1913 ed il cui resoconto è pubblicato però nel 1928 a Londra con il titolo Through the Appenines and the Lands oƒ the Abruzzi. Landscape and Peasant-liƒe described and drawn by E. C. [vi] .

Importanti sono anche alcuni articoli apparsi in riviste specializzate nel corso del secolo, soprattutto quelli di M. C. Harrison, “Serpent – Procession at Cocullo” [vii], di T. Ashby, “Some festivals in the Abruzzi”[viii]  e della studiosa americana L. Clarke Smith, “A Survival oƒ an ancient cult in the Abruzzi”, pubblicato nella rivista «Studi e materiali di storia delle religioni›› (vol. IV, 1928, pp. 106-119).

Questi sono ovviamente gli autori noti, che si sono interessati del culto di S. Domenico a partire dalla metà del secolo scorso.

Per arricchire il quadro delle testimonianze inglesi, occorrerebbero proficue letture degli scritti di quei «viaggiatori››, resi noti dalla relazione che il Prof. Lemann Brokans svolse a Teramo nel settembre del 1974, in occasione del Terzo Convegno di studio del Centro di Ricerche Abruzzo Teramano , e dal titolo «Viaggiatori Europei negli Abruzzi durante il sette – ottocento›› [ix].

Nell’ambito del Convegno un ulteriore contributo venne in tal senso dal Prof. Noel Blackiston, del «Grande Archivio›› di Londra, che parlò dei «Viaggiatori inglesi in Abruzzo››, a partire dai sec. XVII-XVIII, che sono i più importanti per il processo di ofidizzazione del culto di S. Domenico di Cocullo, processo che in verità presenta ancora molti lati oscuri, malgrado gli enormi successi ottenuti dalle indagini di A. Di Nola e G. Profeta. Da qui la necessità di dirigere le ricerche non solo nell’ambito degli archivi e biblioteche nazionali, ma anche altrove, non essendo escluso che proprio da una fonte straniera possano pervenirci importanti contributi sulla dinamica del culto di S. Domenico di Cocullo. Franco Cercone


[i] Cfr A. DI NOLA, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana (Torino 1976); G. PROFETA, Il rito delle serpi di Cocullo e la sua funzione socio-culturale (L’Aquila 1976); ID., Una ignorata dissertazione di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in «Lares››, genn.-marzo 1979, pp. 5-56.

[ii] G. PANSA, Miti, Leggende, Superstizioni, Inediti e Rari a cura di F Cercone; L’Aquila, Japadre Ed., 1979.

[iii] Il primo vol., tradotto da I. Di Iorio, è stato pubblicato nel 1979 a Sulmona per i tipi della «Moderna››.

[iv] Op. cit. p. 105; nota 3.

[v] Tip. Labor; traduzione a cura di B. Di Benedetto Avallone.

[vi] L’opera della Canziani, tradotta da D. Grilli, M. Luisi e V. Bonanno, è stata pubblicata nel 1979 dall’Ed. De Feo. Roma. Entro l’anno uscirà un’aItra edizione della stessa nella collana «Documenti di vita popolare», diretta da G.Profeta, con note di carattere folklorico che mancano nell’edizione romana.

[vii] In «Folk-lore. Being the Transactions of the Folk-lore Society», vol. 18, 1907, pp. 187-191.

[viii] In «The Anglo-American Review», vol. ll, 1909, pp. 45-51.

[ix] Per i nomi dei viaggiatori europei cfr. «Attraverso l’Abruzzo››, n. 33, 1974, pp. 187-188.




L’INCANATA NELLA TRADIZIONE ABRUZZESE

[Contributo pubblicato in Attraverso l’Abruzzo, (Rivista mensile organo ufficiale del Centro Studi Abruzzesi Dir. G. Valentinetti ) n. 60, 1977 Pescara]

di Franco Cercone

Nel 2secondo volume di Miti e Leggende (pagina n. 85 seguenti) G. Pansa si è interessato anche dell’incanata nella tradizione abruzzese. Egli cita un passo del De Nino sull’argomento (cfr. Usi e Costumi Abruzzesi, voi. II, pag. 156) accettando a quanto pare anche l’origine dell’espressione «incanata».

Afferma infatti il De Nino: “Per diritto consuetudinario è permesso ai mietitori di dire quante più male parole vogliono a chi passa: lupa, scrofa, cornuto e simile zizzania! E questo gridare, come farebbero i cani, si dicono incanate. Il brutto uso va oggi scomparendo, e tanto meglio”.

Della singolare costumanza, di cui parla anche G. D’Annunzio nella Figlia di Jorio, il Pansa dà un saggio in senso diacronico, scoprendola non solo presso Greci e Romani (cfr. per es. Ovidio, Fasti, III, 675 segg., dove l’oscenità è messa in atto dalle puellae), ma anche nell’antico Egitto.

Un non meglio identificato articolista (T. M.), lo ha riportato in «Folklore d’Abruzzo» (an. I, n. 1, 1971, pag. 8 segg.) senza ulteriori contributi. Il Liberatore definisce l’incanata dei mietitori di Ofena «iniqua licenza» che colpiva persino le persone di alto lignaggio (G. Liberatore, Ragionamento Topografico – istorico – fisico – ietro sul Piano delle Cinque Miglia, pag. 157; Napoli 1789). Tale usanza non era limitata, come avevano supposto il Pansa ed il De Nino, solo al periodo della mietitura e della vendemmia, ma anche ai maggiori momenti del ciclo produttivo.

Il Tanturri, infatti, nella sua Monografia su Villalago, inserita nel Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato, (vol. XVI, pag. 134, Napoli 1850) afferma che: «Chiunque passa pei luoghi ove si tòndono* le pecore, deve prepararsi a ricevere, specialmente se sia conosciuto, ingiurie e contumelie che con impertinenza vengongli scagliate dai tonditori [tosatori]. Tale riprovevole usanza, che ha di buono il solo nome (incanata), altrove si pratica dai mietitori e vendemmiatori, pe’ quali ultimi il Viceré Toledo fu costretto ad emanare severe ordinanze, come si ha dal Giannone, Stor. Civ. del Regno di Napoli, tom. XIII, pag. 11».

Afferma infatti il Giannone (ivi): “Durava ancora il costume tramandato dall’antica gentilità, ne’ tempi delle vendemmie di vivere con molta dissolutezza e libertà: i vendemmiatori non s’arrossivano incontrando donne, ancorché onestissime e nobili, frati ed altri uomini serii, di caricargli di scherno, e di parole oscene, con tanta licenza, quanto si vede nel Vendemmiatore di Luigi Tansillo”.

Altre notevoli informazioni sull’argomento mi sono pervenute dal Sig. Luigi Giustini, maestro elementare di anni 59 residente a Pettorano sul Gizio (Aq.) ma nativo di Villa Santa Lucia (Aq.), e dal noto poeta Angelo Semeraro, originario di Paganica (Aq.). Secondo i miei informatori, infatti, l’incanata aveva luogo durante la raccolta delle olive (Pettorano sul Gizio), la battitura del granturco (Villa S. Lucia) e la raccolta della canapa (Paganica). In quest’ultima località inoltre avveniva verso la fine dell’inverno un pranzo speciale, detto «cossa», il cui piatto forte era costituito dalla «cannavicciata», minestra a base di «cannaviccio» o «seme di canapa». A tale pranzo potevano partecipare solo donne che, alla vista di qualche malcapitato passante, lanciavano a quest’ultimo parolacce accompagnate da gesti osceni.

L’incanata, dunque, sembra essere una costumanza legata alle fasi più salienti della produzione agro-pastorale e caratterizzata da espressioni scurrili che si accompagnano, per esempio a Pettorano, a gesti di natura fallica (il raccoglitore di olive piegava il braccio destro appoggiandovi la mano sinistra).

È probabile, tuttavia, che due fossero i risultati che si intendevano raggiungere, con un grado di consapevolezza negli operatori diffìcile da determinare: proteggere da influenze maligne il raccolto (ed in tal senso l’incanata era favorita forse dal proprietario) e nel contempo la persona stessa che opera l’incanata, e, come hanno precisato tutti i miei informatori, la persona in questione non era mai il proprietario del fondo o del bene prodotto, ma lavoratori «a giornata».

Questo bracciantato, allora, viveva in tali momenti, in una specie di stato psichico di grazia, in un rapporto diretto con l’abbondanza che non voleva che si disturbasse. I mietitori, infatti, quelli che fino a venti anni fa vedevamo sdraiati per terra sulle nostre piazze in attesa di committenti non erano certamente proprietari di fondi.

Anche nell’esempio di incanata tratto dal Pansa dalla Passio S. Eusanii , i mietitori erano al lavoro «per incarico». Lo stesso dicasi per i tosatori di pecore di cui parla il Tanturri e per i vendemmiatori di Pratola Peligna, come appresi tempo fa dal prof. Panfilo Petrella, ivi residente.

L’incanata, dunque, veniva messa in atto dal vasto mondo subalterno, con motti e gesti scurrili che in periodi diversi da quello del raccolto si configurano come tabù. È possibile anche ipotizzare uno status psichico di colpa del proprietario nei confronti del bracciante, status di cui egli si libera favorendo o almeno non impedendo l’incanata, e la coscienza del subalterno di costituire la ricchezza del padrone nel momento particolare del raccolto.

Quest’ultimo sottostava così volentieri in un clima di apparente sovversione di valori, all’esplosione della licenziosità del diseredato.

Se queste sono soltanto delle ipotesi, resta però certo il fatto che l’incanata non si spiega se non nella struttura dei rapporti storici fra latifondo e sottoproletariato, fra capitale e lavoro, fra ricchi e poveri.        

*[tòndere : lat. Tondere ant. o letter. – tosare]




FATTI E PERSONAGGI della terra di Ofena (dal XII al XIV secolo)

[Articolo pubblicato in ABRUZZOSETTE (Settimanale indipendente fondato da Remo Celaia), Anno X n. 6, del 19 febbraio 1976. L’Aquila]

di Franco Cercone

La più antica Bolla Corografica che si conosca è per quanto concerne la Diocesi Valvense, quella di Pasquale II (1112) che descrive le Chiese e le Terre in essa situate.

In quell’anno le chiese di Ofena, non più sede di diocesi, erano 3 e non 4, come afferma il Celidonio (La Diocesi di Valva, vol. I pg 182; Casalbordino 1909), particolare che si evince da una lettura esatta della Bolla suddetta: Ecclesias sancti valentini nicolai et sancti marci et sanctae luciae.

Ciò significa che in un primo momento vi era in Ofena un’unica chiesa dedicata appunto ai santi Valentino e Nicola e non due.

Dalla stessa Bolla di Pasquale II apprendiamo anche che in Trite, cioè lungo la Valle dei Tirino, esistevano quattro chiese: S. Martino, S. Giovenale, S. Vittorino e S. Giovanni.

Trite è un toponimo vago ed estensivo che comprende anche il Monastero di San Pietro ad Oratorium, monastero dai vasti possedimenti, fra cui Ofena, riconfermati ancora nell’8l6 da Ludovico I ai monaci Vulturnensi che lo possedevano. Non è possibile confondere Trite, o Valle Tritana, con Capestrano perché Capestrano, come centro, è di là da venire rispetto non solo a Bussi (anch’esso menzionato nella Bolla di Pasquale II) ma anche e soprattutto ad Ofena. E ciò non solo perché in epoca italica e romana Aufinum [Ofena] era l’unico centro catalizzatore della zona, ma anche perché fu centro episcopale prima che fosse fondato il Monastero di San Pietro ad Oratorium. Se il primo documento che si riferisce a quest’ultimo risale al 752, anno in cui fu confermato come possesso ai Volturnensi da Stefano II (e pertanto la sua fondazione può farsi risalire, ad abundantiam, ad un secolo prima), abbiamo invece documenti certi riferentisi ad Aufinum, come sede diocesale e risalenti per es. al periodo 468-483, corrispondente al pontificato di Papa Simplicio I. 

In una lettera tale Papa comunica infatti a Gaudenzio, vescovo di Aufinum, sanzioni per aver violato alcune norme di disciplina ecclesiastica. (Cfr. G. Marinangeli Noterelle di Storia Ecclesiastica nella Provincia Valeria in Bullettino D.A.S.P., 1973, pag. 389 segg.)

Non è questione di opinioni dunque. La storia è fatta da documenti. Ma torniamo ad Ofena.

ln un’altra Bolla emanata nel 1138 da Innocenzo II, troviamo ulteriori descrizioni delle chiese, terre e confini della Diocesi di Valva. In tale anno, 1138. troviamo:

“Ecclesias sancti valentini nicolai et sancti marci. Et sancti salvatoris et sancti egidii  et sancti donati, et sante marie et sancte luciae. Quae sunt in Ofene.”

Nel breve arco di 26 anni dunque furono costruite rispetto al 1112 ben quattro chiese in più, e cioè S. Salvatore, S. Egidio, S. Donato, S. Maria. Mezzo secolo più tardi nella Bolla di Clemente Ill (5 Aprile 1188), vengono ulteriormente precisate Terre e Chiese della Diocesi di Valva. Tale Bolla è mollo importante perché da essa si apprende che oltre alle precedenti menzionate vi sono in più le Chiese dedicate a S. Valentino e S. Nicola (cioè due chiese distinte), a S. Massimo, e l’ultima a S. Vittorino.

Nel 1196 si apprende inoltre l’esistenza di una chiesetta campestre, ma non per questo meno importante, dedicata a San Pietro.

L’Architrave fu scolpito da un artista di Ofena, Magister Silvester, che il Piccirilli (in Rass. Abruzzese di Storia e Arte. n.7 Casalbordino 1899) desunse dall’Antinori (Ms. vol 27). Sulla destra della chiesa, scrive il Piccirilli, vi è “un altare molto bello e conservatissimo, dal sec. XV, con alcuni pregevoli affreschi”.

Questa eccezionale erezione di chiese sta a significare che nel giro di 80 anni circa Ofena subì un notevole incremento demografico, soprattutto ad opera di nuclei longobardi, di cui si ha un’eco in “placiti, piati e privilegi riportati dalla Cronica Vulturnense”.

Ecco cosa dice il Celidonio a proposito (op. cit., vol.III, pg. 143): “Molti Longobardi certamente avendo invasa per lo innanzi la Valle Tritana, scaduti sotto i Franchi ed ammiseriti, si adattarono per necessità e per franchigia ad essere servi del Monistero (di San Pietro ad Oratorium). Però come ogni altra servitù anco questa dette luogo a contrasti, anzi ribellioni”.

Nell’ 854 alcuni contadini di Ofena (Villa Offene) tentarono di sottrarsi alle angherie cui erano sottoposti dai frati del Monastero. Tali contadini, definiti secondo i documenti dell’epoca servi (significativo è a proposito la compilazione del “Catalogo dei servi della Valle Tritana”, dell’872), erano tali Johannacii, Atriamo, Onzoli, ed altri. In un altro Placido che ebbe luogo ad Ofena l’Abbate – come riferisce il Celidonio – ebbe ad esclamare “costoro coi padri e le madri furono servi del Monistero, e se ne sono sottratti. Giudicateli.”

Quali erano dunque i termini del dissidio?

L’aumento demografico portava evidentemente la popolazione, soprattutto i nuovi immigrati, ad invadere (cioè a coltivare) terreni che sotto il Monastero restavano incolti, con il susseguente rifiuto di donare una cospicua parte del raccolto ai frati, anche perché, nota giustamente il Celidonio, “vi erano molte contestazioni contro i possedimenti Vulturnensi” (vol. III, pag. 149). Fra le contestazioni va annoverato anche un Privilegio di Pasquale II a tenore del quale al prevosto del Monastero di S. Pietro erano riconfermati diritti e beni feudali. Senonché la scienza epigrafica dimostrò nel 1908, ad opera di un insigne studioso tedesco, P. Kehr, che tale Privilegio era completamente falso ed andava annoverato fra le invenzioni dei monasteri dell’epoca, dirette ad assicurare ad ogni costo il possesso di determinati privilegi, a danno delle inermi popolazioni. Per finire si apprende da un desunto di una Bolla di Innocenzo III, risalente al 1308, come Ofena si fosse arricchita di una ulteriore chiesa, S. Giovanni, e quindi a quella data le chiese erano complessivamente 12.

All’ulteriore aumento demografico si accompagna in Ofena un certo benessere che si evince dall’attenta lettura di una visita pastorale nella Diocesi Valvense fatta nel 1356. Un certo Plebanus , chierico di una , ma non precisata, chiesa di Ofena, “Solvit tareni XX”,  mentre il Prepositus della chiesa di S. Lucia “solvit tareni X”. Se si prende quest’ultima somma per media e la si moltiplica per 12, quante erano appunto le chiese di Ofena, abbiamo la rispettabile somma di 120 tareni, che dati i tempi rappresentavano per la Diocesi Valvense veramente un buon introito (cfr. Rass. Abruzzese di Storia e Arte, n. 8, pag. 179; Casalbordino 1899).

L’elevato tenore economico, come derivazione di una agricoltura fiorente, provoca in Ofena specializzazioni ed associazioni artigiane, in cui spiccano figure di artisti di primo piano, come per es. il già citato Magister Silvester e il Maestro Berardo, che nel 1322 riceve l’incarico da parte dei canonici di San Panfilo in Sulmona, di miniare, insieme al Maestro Merolo di Bucchianico, tutti i libri corali esistenti nella Cattedrale Peligna.

E qui ci fermiamo, molto è stato omesso, ma lontano ci porterebbe il discorso sull’affascinante Terra di Ofena, che aspetta, almeno per il periodo che abbiamo trattato, un’importante pagina di storia che deve ancora essere scritta.




FIABE D’ABRUZZO

Bella Venezia – Giuseppe Ciufolo

[Articolo pubblicato alle pagine nn. 169-171 del Bollettino Trimestrale ASTRA (Pe.) – Tradizioni Popolari Abruzzesi . Anno IV Numero 11 (aprile-maggio-giugno) 1976.]

di Franco Cercone

La feconda attività di Andrea Jannamorelli si è concretizzata negli ultimi tempi, anche nella raccolta di fiabe abruzzesi inedite, o di «varianti» o fiabe già note che costituiscono, come tali, un importante contributo ai fini della determinazione delle «aree irraggiatrici». Sicché, come mi confidava a Roma il compianto prof. Paolo Toschi, avviene spesso che le varianti assumono, per lo studioso di poesie popolari, grande interesse e non solo sotto il profilo etnografico.

La prima di tali fiabe, costruita in versi suscettibili di essere musicati, s’intitola «Bella Venezia». Essa rappresenta una ulteriore variante peligna rispetto a quella raccolta dal De Nino e pubblicata, come è noto, nel 3° volume degli usi e costumi abruzzesi (Firenze 1883).

La seconda, dal titolo «Giuseppe Ciufolo», pur risentendo di qualche altro motivo tradizionale, è da considerarsi inedita, tanto più che di essa non vi è alcuna traccia nelle fiabe del De Nino.

Esprimere un parere sulla lingua di Andrea Jannamorelli non è facile.

Certo essa è scintillante e fresca come i ruscelli di montagna. Ma è soprattutto nella calda umanità dell’autore, su quell’immediatezza che fa presa nel cuore del lettore, trasportandolo verso un tempo irrimediabilmente perduto per l’Abruzzo, che consiste soprattutto il magico potere di questo giovane e già affermato autore.

Sono questi i motivi essenziali che giustificano l’apparizione delle due fiabe di Andrea Jannamorelli proprio nelle pagine di «Tradizioni popolari Abruzzesi».

BELLA VENEZIA (fiaba d’Abruzzo) di Andrea Iannamorelli.

  E dimmi, allora, mio bel cavaliere se ce n’è una che a te può piacere;

  e dimmi, allora, mio bel forestiero chi è la più bella del mondo intiero.

  Bella Venezia era ancora piacente, un tempo, forse, era stata innocente.

  Ma or che passati erano gli anni le si leggevan sul corpo gli affanni.

      La gente diceva che un giorno funesto un forestiero, per fare l’onesto,

      vedendo passare la figlia di quella presto abbia detto: «E’ lei la più bella !».

      Bella Venezia, senza esitare, prese la figlia per farla gettare nella caverna dell’orco nero,

ché la mangiasse lo sparviero.

La poveretta si mise a ballare tutta la notte, per non farsi straziare;

quando l’uccello si mise a dormire la giovinetta potette fuggire.

Correvano i giorni tra pianti e lamenti, il freddo faceva, battendo i denti.

Poi, per fortuna, venne il mattino nel quale passava il bel principino.

«Salvami. Sire!» «Ti voglio sposare!».

Il principino raggiante di gioia, solo così scacciò via la Noia.

La Noia era una brutta stregaccia alla quale da tempo si dava la caccia;

lei era capace, con una fattura, di rovinarti la vita futura.

Il principino, salvando la donna, riuscì a nascondersi nella sua gonna

e, soddisfatto di tanta abbondanza, per lui, da quel giorno, fu sempre vacanza.

Vissero insieme gli sposi contenti;

la Noia, frattanto, grignava i denti;

Bella Venezia crepava d’invidia

e un giorno mori, bestemmiando sua figlia.

GIUSEPPE CIUFOLO (fiaba d’Abruzzo) di Andrea Iannamorelli.

Giuseppe Ciufolo zappatore, destinato a fare il signore,

se non zappava zufolava e la zappa per lui lavorava.

Un giorno vide carponi, per terra, un uomo lungo, disteso; era morto.

e allora, mosso dalla pietà, lo ricoprì di rose e di viole.

Il bravo giovane zufolatore, che lavorava per un patrigno,

un giorno fu cacciato di casa, prese lo zufolo e se ne andò.

Andava in giro a chiedere un po’ di carità, un povero mendicante gli dette la sua metà;

divennero buoni amici, stavano sempre insieme, giurarono di dividersi sempre tutto a metà.

Giuseppe Ciufolo zappatore, destinato a fare il signore, andò dal Re del suo paese

che non lesinava, certo, le spese!

E incominciò ad arare i suoi campi, a seminarli, a rassodarli;

quando era stanco lasciava la zappa, prendeva la zofolo e poi cantava:

Allegra falce, allegra falciglia, perché il padrone non vuol darmi sua figlia?

Allegra falce, allegra falciglia beato l’uomo che se la piglia!

La reginella, sentendo cantare, andò alla finestra per ascoltare;

Giuseppe Ciufolo zufolatore presto la fece cadere in amore.

Poi, una notte fuggirono in barca; era una notte di grande passione

però all’improvviso lo zappatore si ricordò di quel pegno d’onore.

E quando vide il vecchio arrivare prese un coltello per tagliare la sposa,

l’avrebbe fatto con grande dolore ma era più grande quel pegno d’onore.

«Fermati!» disse quel vecchio barbone

«fermati, Ciufolo, sei uomo d’onore!››;

«fuggite insieme, siate felici, viva l’amore e la carità.

lo son quel vecchio che un giorno vedesti lungo, disteso, carponi per terra;

mi hai ricoperto di rose e viole…viva l’amore e la carità!».