CARAMANICO E LE SUE ACQUE

Il rito battesimale sul fiume Orta  e la tradizione del comparatico in Abruzzo (Il «Consólo»)

A Caramaneche ce se repòse « Fior de cetròne, ‘nghe l’acqua sulfuròse e l’aria ‘bbone ».

di Franco Cercone

[Contributo pubblicato in Attraverso l’Abruzzo, n. 46, Pescara 1975]

Così suona uno stornello raccolto a Caramanico, che non soltanto per l’acqua sulfurea è giustamente famosa. Fontane come quella del «Pisciarello» e di «Santa Croce», nonché la «Fonte Grande», costituiscono, insieme a molte altre piccole sorgenti, che sgorgano nelle immediate vicinanze del Paese, un invidiabile patrimonio idrico che ha reso famoso, in Italia ed all’estero, questo pittoresco centro termale.

Ciò spiega perché a Caramanico, pur essendo l’Assunta la protettrice del luogo, sia anche particolarmente venerato San Giovanni Battista, precursore di Gesù nella predicazione e nel battesimo.

Il 24 giugno, infatti, festa di San Giovanni, «Le persone che se fanne a cumpare» scendono al fiume Orta e tenendosi per mano lo attraversano tre volte, promettendosi fedeltà e reciproca assistenza per tutta la vita(1).

Viene così a instaurarsi un tipo di rapporto, che per la sua intensità, specie fra la gente umile, trascende in Abruzzo anche quello di parentela: «li San Giuànne», è l’espressione con la quale in molti centri abruzzesi si indica il padrino o la madrina. Di solito la persona scelta come compare non è un parente, bensì un amico, un compagno di lavoro o un vicino di casa, una persona, insomma, di provata fiducia e scelta per certe affinità elettive.

Si tratta, comunque, di persone con cui non si hanno liti pendenti. A Pacentro, per esempio, una donna non usciva mai di casa senza portare con sé un po’ di sale da buttare per terra appena incontrava una parente, persona ritenuta apportatrice di malocchio(2).

Fra l’altro, i parenti erano qui i più esosi nei rapporti economici, donde l’espressione «è custàte salate», riferentesi alle divisioni della proprietà. A Cansano il detto «a stu munne se so accise gli fratiélle ma mai gli cumpére» è un adattamento del vecchio aforisma «erano più che nemici: fratelli».

Questo rapporto, quasi sempre instaurato, e non solo a Caramanico, all’inizio da due capifamiglia, perdura per molti anni e per diverse generazioni.

Esso si rinnova e nello stesso tempo si rafforza in occasione di un battesimo, una cresima o un matrimonio, circostanze in cui il diritto di comparatico viene concesso dal padre ad altri mèmbri della famiglia. Se una persona si trova già in un rapporto di comparatico, difficilmente acconsente ad instaurarne un altro, perché ciò significherebbe un vero e proprio tradimento nei confronti del primo compare.

Il rapporto di comparatico si scioglie, ma non sempre, solo in seguito all’emigrazione di un gruppo familiare, che deve essere totale, altrimenti il diritto si trasmette al membro più anziano della famiglia, uomo o donna, rimasto al paese.

«Lu cumpàre» e «la cummàre» sono le persone che più direttamente partecipano alle gioie e ai dolori familiari. Sono i primi ad essere invitati nei momenti lieti e i primi ad accorrere in quelli tristi, specie in occasione della morte di un membro della famiglia del loro figlioccio. In tale circostanza spetta al compare preparare il pasto di consolazione, detto «gliu cunsule», che viene consumato dalle due famiglie riunite subito dopo le esequie dell’estinto.

A Cansano, «lu cunsule» viene offerto anche al sacerdote la sera del Venerdì Santo ed è consumato in sagrestia subito dopo la processione del Cristo morto. Almeno dal punto di vista della quantità dei cibi offerti, l’istituto del «consólo» ha subito una notevole evoluzione nel tempo.

In un testamento del 1237, fatto da un certo Berardo Altrude, si legge:

«In primis pro anima mea relinquo post funus meum Panem et Vinum per Universos Clericos Sulmonis, iuxtra consuetudinem ipsius terrae(3)» .

Se sfrondiamo ora questo caratteristico rito che si svolge sul fiume Orta di ogni evidente ricordo evangelico (San Giovanni Battista, il Giordano, etc.), troviamo alla base di esso la riconferma di una esigenza storica dell’uomo, il superamento cioè delle forze ostili ambientali mediante il fatto associativo.

I motivi, infatti, che inducono due persone ad instaurare un così intenso rapporto, sono psicologici e pratici nello stesso tempo, ma tutti rientrano nell’istituto umano di conservazione, «nella relazione funzionale degli uomini che devono sostenersi a vicenda per la soddisfazione dei loro bisogni vitali»(4) .

È il circolo vizioso della «coincidentia oppositorum», per cui il massimo amore coincide con la massima manifestazione dell’egoismo umano. In tale senso, il rito sul fiume Orta ci ricorda, anche se vagamente, un passo della Repubblica di Platone, dove si parla appunto del fiume Amelete [Lete, fiume dell’oblio], «in cui le anime vengono a bere ed in cui perdono ogni ricordo»(5).

Il termine «ricordo» si riferisce, secondo l’accezione platonica, ad un vago stato di inquietudine che provoca come è stato acutamente osservato, «una impressione di deficienza che fa nascere l’amore»(6).

Almeno in un primo momento, più che una «relazione funzionale», è stata questa inquietudine derivante dalle forze oscure che lo circondavano, ad indurre l’uomo a cercare i suoi simili, come un animale atterrito cerca il suo branco che erra.

Il timore del futuro e dell’ignoto affonda le sue radici nella lunga notte esistenziale dell’uomo, troppo lunga per non lasciare tracce. Ciò che in Abruzzo induce due persone ad instaurare un rapporto così intenso, è appunto quel senso di incertezza per la vita futura, la coscienza che un anno di lavoro sui campi può essere distrutto dagli agenti atmosferici, la sicurezza che beni e persone sono protetti durante lunghe assenze all’estero per motivi di lavoro, la certezza insomma che esiste un amico fidato cui ricorrere nei tristi frangenti della vita.

1 Stranamente questo antico rito è sfuggito a T. Marino, autore di un importante scritto dal titolo «La Festa di San Giovanni in Abruzzo», in «Abruzzo Cattolico, Rassegna religiosa, scientifica e letteraria», Chieti, 1896, anno IV, fase. III.

2 Informatore Prof. Francesco Buccitelli.

3 G. Celidonio, «La Diocesi di Valva e Sulmona», vol. IV, pag. 41.

4 M. Horkheimer e Th. W. Adorno, «Lezioni di sociologia», p. 30. Torino, Einaudi, 1966.

5 J. P. Vernant, «Mito e pensiero presso i Greci», p. 67. Torino, Einaudi, 1970.

6 Robin, « Platon, Oeuvres complètes », p. 1376, Paris, 1940. « Bibliothéque de la Plèiade ».




IL CRISTO DELLE PETIZIONI

IL CRISTO DELLE PETIZIONI

Religiosità popolare

[Articolo pubblicato alla pagina n. 111 del Bollettino Trimestrale ASTRA (Pe.) – Tradizioni Popolari Abruzzesi. Anno III Numero 7 (aprile-maggio-giugno) 1975]

di Franco Cercone

Lo stupendo Crocifisso, che si ammira nella navata di destra della Cattedrale di Sulmona, è un esempio tipico di scultura spagnuola della fine del sec. XIII, “di un’arte assai superiore e del tutto fuori da influenze nordiche”.

Il Crocifisso fu donato alla Chiesa dal Papa sulmonese Innocenzo VII. Ma non è di scultura lignea che voglio ovviamente parlare, bensì di una straordinaria usanza legata al bel Crocifisso. Devo l’informazione al canonico Antonio Chiaverini, direttore dell’archivio vescovile e profondo conoscitore di Storia Patria, che in tale sede ringrazio vivamente.

Il Cristo presenta alla sua destra una larga apertura nel costato, simbolo delle sofferenze causategli dagli uomini. Orbene, durante la fase di restauro cui il Cristo fu sottoposto nel 1953, ad opera della Sovrintendenza de L’Aquila, furono rinvenuti dentro la statua numerosi pezzetti di pergamena, contenenti suppliche che i fedeli, dal secolo XIV in poi, avevano rivolto al Cristo, «imbucandole» attraverso la larga apertura del costato.

Misteriosamente questi ritagli di pergamena sparirono e con loro svanì anche, almeno credo, la possibilità di poter studiare un importante episodio di vita religiosa popolare.

[1] V. Mariani, Sculture lignee in Abruzzo, p. 19, Ist. d’Arti Grafiche, Bergamo 1930.

Religiosità popolare

[Articolo pubblicato alla pagina n. 111 del Bollettino Trimestrale ASTRA (Pe.) – Tradizioni Popolari Abruzzesi. Anno III Numero 7 (aprile-maggio-giugno) 1975]

di Franco Cercone

Lo stupendo Crocifisso, che si ammira nella navata di destra della Cattedrale di Sulmona, è un esempio tipico di scultura spagnuola della fine del sec. XIII, “di un’arte assai superiore e del tutto fuori da influenze nordiche”.

Il Crocifisso fu donato alla Chiesa dal Papa sulmonese Innocenzo VII. Ma non è di scultura lignea che voglio ovviamente parlare, bensì di una straordinaria usanza legata al bel Crocifisso. Devo l’informazione al canonico Antonio Chiaverini, direttore dell’archivio vescovile e profondo conoscitore di Storia Patria, che in tale sede ringrazio vivamente.

Il Cristo presenta alla sua destra una larga apertura nel costato, simbolo delle sofferenze causategli dagli uomini. Orbene, durante la fase di restauro cui il Cristo fu sottoposto nel 1953, ad opera della Sovrintendenza de L’Aquila, furono rinvenuti dentro la statua numerosi pezzetti di pergamena, contenenti suppliche che i fedeli, dal secolo XIV in poi, avevano rivolto al Cristo, «imbucandole» attraverso la larga apertura del costato.

Misteriosamente questi ritagli di pergamena sparirono e con loro svanì anche, almeno credo, la possibilità di poter studiare un importante episodio di vita religiosa popolare.

[1] V. Mariani, Sculture lignee in Abruzzo, p. 19, Ist. d’Arti Grafiche, Bergamo 1930.




UN SINGOLARE SCONGIURO APOTROPAICO

In alcuni Mascheroni Peligni Articolo

[Pubblicato alle pagg. 83-91 del Bollettino Trimestrale ASTRA (Pe.) – Tradizioni Popolari Abruzzesi. Anno III Numero 6 (gennaio-febbraio-marzo) 1975]

“Si preferisce respingere fuori dalla cultura tutto ciò che non si conforma nelle norme sotto le quali si vive”: Claude Levi-Strauss

La straordinaria usanza a carattere fallico che mi accingo a descrivere è passata inosservata a tutti i folkloristi abruzzesi e soprattutto a Giovanni Pansa, autore tra l’altro di un fondamentale saggio dal titolo “Riti e simboli fallici dell’Abruzzo. Studi di etnografia comparata archeologia e folklore” . Per l’importanza che riveste, l’argomento merita ulteriori indagini dirette ad accertare, anche al di fuori dell’area peligna, testimonianze di una costumanza che, pur affondando le proprie radici nella notte dei tempi, è degradata da atto magico-religioso a semplice superstizione, spesso vissuta a livello d’inconscio. In molti centri peligni dunque, si osservano, per lo più infissi sulla facciata anteriore di umili case o di vecchi palazzi, resi “nobili”, dalla pastorizia un tempo fiorente, mascheroni fittili o in pietra che mostrano in modo evidente la lingua da fuori. Io ho avuto anche la fortuna, forse, di poter parlare con l’ultimo artigiano che su ordinazione esegue tali mascheroni, in legno o in pietra, il signor Giovanni Fraino, di anni 85, ebanista, abitante in Rivisondoli.

«Queste maschere – mi ha detto il signor Fraino – servono contro l’invidia e contro il malocchio La lingua sta ad indicare l’organo sessuale dell’uomo. In tali lavori raggiunse una certa celebrità un artigiano di Rivisondoli, di nome Emidio Troiano, vissuto verso la metà dell’Ottocento e soprannominato ‘toscanino’, perché aveva lavorato per un certo periodo in Toscana, dove aveva frequentato circoli anarchici. Appena tornato a Rivisondoli, ‘toscanino’ tentò di diffondere le idee anarchiche. Ma sorvegliato continuamente dalle autorità, fu costretto ad emigrare in America, dove continuò a scolpire mascheroni con la lingua da fuori». Questa dichiarazione del signor Fraino è certamente importante, e non tanto perché testimonia nel tempo la continuità di tale particolarissimo tipo di artigianato, quanto per la consapevolezza che gli artigiani stessi ebbero ed hanno della simbologia inerente all’atto di cacciare la lingua in segno di scongiuro, “un linguaggio dimenticato” direbbe Erich Fromm, che si è salvato tuttavia giungendo fino a noi con tutto il suo messaggio magico-religioso.

Analizziamo dunque alcuni di tali mascheroni presenti nell’area peligna. A Bugnara, centro distante 6 km da Sulmona, si ammira in via Fontana un mascherone rotondo fittile che misura cm. 50 circa di diametro (vedi dis. Bugnara).

A Scanno su segnalazione del prof. Dante Pace, noto studioso di archeologia peligna che in tale sede ringrazio sentitamente, l’uso in questione è assai vivo e si notano mascheroni in pietra scolpiti sulle facciate di alcuni palazzi ed anche sotto le mensole di balconi.

Sulla facciata anteriore di un rustico sito proprio nel centro di Scanno e precisamente in via dei Caduti, spicca un mascherone scolpito in una pietra del muro, che presenta caratteri così arcaici da far sorgere il sospetto che possa risalire ad epoca romana se non addirittura italica (vedi dis. Scanno).

Tale circostanza non può tuttavia stupire. Chi visita infatti il Museo Campano a Capua, resta affascinato di fronte ad una serie di mascheroni fittili di epoca italica, sistemati in apposita sala, e mostranti la lingua al di fuori. Il disegno 1 (vedi dis. Sulmona) mostra un mascherone in pietra infisso sopra il portale di una casa di Sulmona, in via Probo Mariano.

Il disegno 2 (vedi dis. Pratola Peligna.)  si riferisce ad un mascherone in stucco, posto sotto il cornicione di una casa sita in Via Antonio De Nino a Pratola Peligna. Il proprietario di tale casa, devo la preziosa informazione all’avvocato Panfilo Petrella di Pratola Peligna, fece appositamente collocare tale mascherone sotto la grondaia agli inizi del secolo, poiché era in lite per motivi di interesse con il proprietario della casa di fronte.

Questa singolare usanza, sulla quale esiste scarsissima letteratura, affonda dunque le sue radici nella notte dei tempi ed è pervenuta a noi ancora ricca del suo significato originario. A proposito afferma il Forcellini: « Linguam exserere lubridii causa in aliquem, mos fuit antiquis Latinis, qui etiamnum apud nostrates viget, quo quidem obscaeni aliquid adversus alium, quicum contendis, signiflcatur; nam lingua ita exserta similitudinem quamdam penis exhibet, quae tum viris, tum femnis, tum pueris stupri contumeliam minitari videtur» 

L’aspetto della «minaccia di stupro» insito, secondo il Forcellini nell’exserere linguam, un atto che equivale all’esibizione del pene, è tuttavia secondario, come ritengo, rispetto al concetto storico-religioso del fallo come simbolo di forza, fertilità, crescita, e pertanto ritenuto capace, se esibito direttamente o anche sostituito dalla lingua, di rendere immune l’uomo di fronte ad ogni tentativo esterno diretto a turbare la sua psiche, a minacciare i suoi beni o la sua stessa persona.

Si tratta in definitiva di un atto apotropaico, diretto ad annullare la influenza malvagia, non disgiunto anche da un contenuto magico-omeopatico, che spesso a livello d’inconscio intende produrre il simile (benessere, sviluppo fisico e psichico, fertilità ecc.) con il simile (lingua, surrogato del pene, elemento fecondante per eccellenza, il simbolo stesso, pertanto, della vita). Significativo è a proposito un episodio riferito da Livio. I Galli, avanzati fin quasi alle porte di Roma, si erano attestati sulla riva settentrionale dell’Aniene e solo un ponte li divideva dall’esercito romano, accampato sulla riva opposta. Ad un certo momento un Gallo, di enorme corporatura, si staccò dalla sua schiera e fattosi avanti sul ponte sfidò a duello il soldato romano ritenuto più valoroso.

Si offerse per il combattimento Tito Manlio e Livio aggiunge: «armatum adornatumque adversus Gallum stolide laetum et – quoniam id quoque memoria dignum antiquis visum est – linguam etiam ab inrisu exserentem producunt».   Di fronte al pericolo che la sua vita correva per l’imminente duello, il Gallo dunque cacciò fuori la lingua, simbolo della stessa vita, per allontanare apotropaicamente ogni minaccia. Lo stesso valore di scongiuro fallico è costituito dall’atto apotropaico che frequentemente si nota nel nostro Abruzzo ed anche altrove, durante il passaggio di un carro funebre, simbolo di morte, si evoca la vita toccando il pene, simbolo di vita. Al posto dei genitali si tocca spesso anche il ferro, capace di «tener lontani fantasmi e altri spiriti pericolosi»  

Un altro esempio atto ad illuminare il concetto di fertilità e di vita insito nella lingua è costituito dall’usanza che i Tibetani hanno, come è noto, di salutarsi cacciando la lingua. Anche i contadini tedeschi attribuiscono all’atto di cacciare la lingua (Zunge aussrechen) un augurio di bene e di prosperità. 

Tale atto, particolare assai importante, è una specie di surrogato di un altro gesto, il così detto Daumenhalten, che consiste nell’infilare il pollice tra l’indice e il medio, dove appunto il pollice sta a simboleggiare l’organo dell’uomo. Nei miei frequenti soggiorni in Germania ho potuto constatare che i due atti, cioè sia la « Zunge aussrechen » che il « Daumenhalten », assumono, specie nelle persone anziane, un valore apotropaico cosciente cui si ricorre per scongiurare pericoli di qualsiasi natura. Specialmente durante un litigio verbale, cacciare la lingua o infilare il pollice tra l’indice e il medio, equivale ad uno scongiuro contro le minacce di uno dei contendenti oppure ad una difesa nei confronti di ingiurie ritenute capaci di sconvolgere o impedire in quel momento, l’equilibrio fisico-psichico in seguito all’ira che tali ingiurie provocano, di sconvolgere o impedire dunque un processo armonico di crescita. 

Vi sono tuttavia ulteriori aspetti meritevoli di essere sottolineati e né con essi l’argomento può considerarsi esaurito.

Come è noto, il mero atto di cacciar fuori la lingua, compiuto a livello d’inconscio, è comune a tutti i bambini, senza distinzione di sesso. Dall’adolescenza in poi però, si verifica un mutamento significativo nel comportamento dei maschi e delle femmine. Infatti, l’atto di cacciare la lingua si nota solo in quest’ultime, mentre i primi lo sostituiscono con altri gesti «osceni» e con parole «scurrili››, che rappresentano ulteriori scongiuri a carattere fallico.

Così un gesto che imita il fallo è costituito dall’atto di piegare il braccio destro sul quale si poggia la mano sinistra, atto comune specialmente nell’Italia centro-meridionale. Circa il linguaggio scurrile, valgono tutt’ora le lucide intuizioni del Pansa, trattandosi di una “espressione attenuata delle forme naturalistiche di scongiuro, perché conserva ancora, più o meno consciamente, il sentimento e il carattere comune a quella che era per i nostri vetusti antenati l’espediente più acconcio per allontanare l’invidia: l’esibizione fallica. Così io penso che a questi mezzi averrunchi, propri del volgo, sia come mostra apparente di scongiuro, sia come espressione viva del linguaggio, debba ascriversi l’uso della interiettiva CA – – O, comunissima nel meridione, con la quale si presume dare efficacia al discorso. Essa dovrebbe corrispondere al latino Praefiscine”. 

Ora, l’esibizione della lingua viene considerata nella donna una «oscenità» non tanto, come ritegno, a causa della funzione che l’atto stesso ha (scongiuro apotropaico), quanto per il fatto che la funzione stessa è rappresentata dalla lingua in chiara e cosciente sostituzione del pene. Vi sono intatti altri scongiuri compiuti, alla luce del sole, da donne appartenenti ad ogni ceto (come per es. toccare il ferro) e nella certezza di non violare alcuna norma sociale.

Ma l’oscenità insita nel concetto del fallo, è relativamente recente, poiché questo fu presso molti popoli del vicino Oriente, in Grecia e a Roma, un simbolo religioso legato a culti agrari e della fertilità in genere. Prescindendo dalle «fallogonie» che rappresentano in tal senso il caso più classico e non affatto sconcertante, tutto lascia ritenere che anche la Festa dei Ceri a Gubbio, che ha fatto scrivere fiumi d’inchiostro, non fosse altro che un rito di fertilità compiuto mediante l’esibizione di grandi falli portati in giro per le campagne, un rito dunque, di derivazione bacchica. essendo Bacco Dio della vite e del vino.

Fu accertato inoltre da Bachhofen , da Morgan  e confermato da illustri antropologi contemporanei come E. Fromm  , che sotto la più recente religione patriarcale è esistito uno stato più antico di religione matriarcale, caratterizzato dal culto di divinità androgine, le «Dee-Madri», rappresentate artisticamente dalle famose “Veneri” venute alla luce un po’ ovunque nell’area mediterranea, e raffigurate con seni e natiche enormi per sottolineare quei culti della fecondità cui le Dee-Madri stesse erano preposte. Ma, avverte Eliade, “l’androginia divina che si trova in tanti miti e credenze, ha un valore teorico, metafisico. La vera intenzione della formula è quella di esprimere, in termini biologici, la coesistenza dei contrari, dei principi cosmologici, cioè maschio e femmina, in seno alla divinità” 

Pertanto, nella fase matriarcale, di cui noi abbiamo un’eco nel mito delle Amazzoni, la Dea-Madre assume a sé, nell’ambito del culto generale della fertilità, anche l’attributo del fallo, organo fecondante a lei «naturalmente» estraneo, ma riprodotto simbolicamente, nell’atto magico in generale ed apotropaico in particolare, dalla lingua.

E non a caso quei mascheroni fittili mostranti abbondantemente la lingua da fuori, venuti alla luce nei pressi di Capua, sono stati ritrovati insieme ad alcune Dee-Madri. In questa «coincidentia oppositorum ››, rappresentata dalla Dea Madre, la lingua e quindi il fallo, lungi dall’essere simboli osceni, costituivano paradossalmente un aspetto della struttura stessa della divinità che riuniva in sé tutti i contrari.

Scomparse le Dee-Madri, altre divinità apparvero nell’Olimpo mediterraneo, depositarie delle stesse funzioni delle Dee- Madri. Una di queste divinità fu Cerere, preposta ai culti della fertilità e particolarmente venerata presso i peligni, nella cui area, come si è visto, sono presenti i mascheroni che, grazie ai disegni dell’amico Giovannelli, che con noi ha condotto le ricerche per la parte illustrativa, sono inseriti nel presente studio quale valido corredo grafico.

Franco Cercone

In Foto: 4  disegni di Vito Giovannelli

[Sullo stesso argomento: F. Cercone, Esibizione fallica della lingua in mascheroni peligni, articolo pubblicato alle pag.193-196 della “Rivista LARES” (Organo dell’Istituto di Storia Tradizioni Popolari dell’Università di Bari e della Federazione Italiana Arti e Tradizioni Popolari) Anno XLI – N 2 aprile/giugno 1975; Ed.: Leo S. Olschki – Firenze]

1 In “Rivista di antropologia” volume 25, Roma 1822.Il Pansa tratta tre argomenti: a) il rito magico dei ramoscelli spaccati e la tradizione dei culti fallici nel santuario della Madonna del Lago a Scanno; b) le incanate e le esibizioni falliche; c) il rito eleusino di Baubo ed il simbolo talismatico della ranocchiella abruzzese.

2 E. Forcellini, Lexicon totius latinitatis , Tom. III, voce ‘Lingua’.

3 T. Livio. Storia di Roma, Libro VII, X. L’episodio, come narra Cicerone (De Orat.II, 66) fu anche riprodotto in una tabula che si ammirava nel Foro romano.

4 J. G. Frazer, Il ramo d’oro, I 352; Boringhieri 1973.

5 Cfr. E. Hamann – Krajer e Baechtold – Staubli, Handwoerterbuch des deutschen Aberglaubens , vol. VI, 815; Berlino 1942.

6 Stranamente il significato del Daumenhalten è sfuggito all’attenzione dell’Albergamo, quando questo illustre studioso afferma che “D’incerta origine sono alcuni gesti e frasi di scongiuro tutt’ora usati nei paesi civili, come lo stringere il pollice tra l’indice e il medio, che i tedeschi denominano Daumenhalten” (F. Albergamo, Mito e Magia, pag. 135. Guidi Ed. Napoli 1972). L’equivalente italiano del Daumenhalten è il ‘fare le fiche’ di cui abbiamo vastissima testimonianza soprattutto in campo letterario. Si confronti per esempio Dante, lnferno XXV.

7 G. Pansa, Riti e simboli fallici dell’Abruzzo …ecc , op. cit. nota 4, pag. 21. Si confronti con gli altri scongiuri ed esibizioni falliche delle donne abruzzesi.

8 In  Das Mutterecht , Stoccarda 1861, Schroeder Ed.

9 In Ancient Society , Chicago 1877, Charles Ed.

10 E. Fromm, Il linguaggio dimenticato, Bompiani Ed. pp. 196 segg.

11 M. Eliade, Trattato di Storia delle Religioni , pag. 436; Boringhieri 1972.




LA  PERONOSPORA

Animali danneggiatori delle campagne

Pubblicato alla pagina n. 121 del Bollettino Trimestrale ASTRA

[Tradizioni Popolari Abruzzesi. Anno III Numero 8 (luglio- agosto- settembre) 1975]

Nel Volume I° di «Miti. leggende e superstizioni dell’Abruzzo» pagine: 23-37 , G. Pansa fa la seguente osservazione: «Potrebbero allegarsi numerosi esempi di pratiche superstiziose intese allo scongiuro contro gli animali danneggiatori delle campagne. Essi ripetonsi invariabilmente in quasi tutti i paesi dell’Abruzzo … Nella provincia di Chieti e di Aquila ebbe un tempo grande rinomanza l’acqua di San Bartolomeo. Alla grotta del Santo, sulla Maiella, traevano a frotte i contadini per raccoglierla e spargerla sulle vigne, a fine di scongiurare la peronospora››.

Anche il Finamore ha dedicato a questa pratica superstiziosa dei contadini di Caramanico Terme, Sant’Eufemia a Maiella e Roccacaramanico una pagina ironica dal titolo «Un nuovo rimedio contro la peronospora degli Abruzzi» .

Senonché la tradizione popolare si è vendicata dei due folkloristi abruzzesi.

Ad un esame mineralogico effettuato nel 1930 dal Prof. Bilancioni dell’Università di Roma, l’acqua rivelò un’alta percentuale di zolfo e pertanto costituiva effettivamente un rimedio contro la peronospora.

La credenza popolare non ha fatto altro che attribuire al Santo alcune proprietà chimiche intrinseche all’acqua della grotta.

Credo allora che la conclusione sia solo questa: più è grande l’orizzonte che la mente umana scruta, più perde quest’ultima il contatto con la realtà delle piccole cose.

Franco Cercone

[1] Sulmona. 1924, Stab. Tip. Angeletti.

[1] Arch. per lo studio delle trad. popol. ital.”, diretto da S. Salomone Marino e G. Pitrè, vol. IX, pag. 437, Palermo, 1890, Ciausen Ed.

Ingresso alla Grotta di San Bartolomeo

Alla sinistra dell’entrata, un muro, la cui sommità è crollata, si tratta della parete in muratura di una grossa cisterna, che sfrutta un anfratto della grotta.  È un serbatoio di notevoli dimensioni e può contenere fino a 800 litri di acqua piovana, che scendendo sulla parete rocciosa esterna arrivava ad un foro praticato sul muro della grotta e da lì, per mezzo di un canale in terracotta (oggi scomparso) riempiva la cisterna.




IL VERBO «PECURÀ»

di Franco Cercone

Articolo pubblicato alla pagina n.31 del Bollettino Trimestrale ASTRA

[Tradizioni Popolari Abruzzesi. Anno II Numero 2 (gennaio-febbraio-marzo) 1974]

Questo strano verbo è particolarmente usato nella Valle Peligna ed anche nel chietino, nel senso di guardare, osservare.

A Cansano, mio paese nativo, l’espressione «PECURÀ MOJ» equivale a «ma guarda un po’!».

Tale verbo è strettamente collegato, almeno ritengo, ad un’area geografica come quella peligna, la cui attività principale, da tempo immemorabile, è stata sempre la pastorizia.

In un primo momento, forse, il verbo «pecurà» ha avuto soltanto il significato di «guardare le pecore», anche se in latino «pecus» indica il bestiame in genere.

Il Finamore a tal proposito nota solo quanto segue: Pecurà, musare, guardare attentamente, come fa la pecora. Semplicemente «guardare».  

Nelle società primitive i beni erano costituiti essenzialmente dal bestiame, che pertanto doveva essere sorvegliato e difeso. Il potere esercitato dal capo sul gruppo era in relazione non solo alla sua forza fisica, bensì anche al bestiame posseduto.  

E poiché il bestiame significava ricchezza, da pecus è derivato il termine «pecunia».

Successivamente, grazie all’economia dello scambio, il concetto di ricchezza si allarga per comprendere non solo il bestiame, ma anche i prodotti della terra, utensili, armi e così via. Aumenta così il numero delle cose da «pecurà››, cioè da guardare, sorvegliare. Il verbo «pecurà» si stacca così dal suo primo ed unico oggetto, il bestiame, ed assume il significato più vasto di osservare.




IL VERBO «’NTECCHIÀ»

di Franco Cercone

Articolo pubblicato alla pagina n. 46 del Bollettino Trimestrale ASTRA

[Tradizioni Popolari Abruzzesi. Anno II Numero 3 (aprile-maggio-giugno) 1974]

Quando un giovane di Caramanico aveva «aducchiàte» una ragazza, le metteva un ceppo (ticchie) davanti l’uscio di casa, ciò che equivaleva ad una richiesta formale di matrimonio cui la ragazza era obbligata a rispondere.

Se la mattina dopo il giovane notava che il ceppo era ancora davanti l’uscio, la sua richiesta era da intendersi respinta.

Se invece la ragazza o qualche familiare avevano preso il ceppo portandolo in casa, questo significava che la richiesta era stata accolta.

Di solito il ceppo veniva messo davanti l’uscio di casa di una ragazza nella notte del sabato. La domenica mattina, la ragazza «’ntecchiata›› (conquistata) si recava alla messa grande che si celebra ancora oggi nella bellissima chiesa di Santa Maria Maggiore, accompagnata dal fidanzato, raggiante soprattutto per aver concluso felicemente un lungo periodo di tempo fatto di appostamenti, tacite intese e sguardi fugaci.

Se l’uso di mettere il ceppo davanti l’uscio di casa si riscontra in molti paesi abruzzesi, tuttavia soltanto a Caramanico, Campo di Giove e Roccaraso esiste il verbo ‘ntecchià con il particolare significato di catturare, conquistare.

In qualche altro centro, come per esempio a Capestrano, si usa mettere dietro l’uscio delle ragazze il « ciocco ». E il verbo che ne deriva è « ‘nciacculà ».

Dell’uso particolarissimo di tali verbi non è possibile trovare traccia in nessuno dei nostri folkloristi.




MITI E LEGGENDE sugli insediamenti ebraici in Abruzzo

Città Sant’Angelo e il suo Borghetto

[Pubblicato sul mensile Orizzonti Angolani (novembre – dicembre 1987) Anno VIII, n. 10 -11 Città Sant’Angelo]

La circostanza che uno studioso non calato nella realtà angolana abbia comunque la possibilità di focalizzare alcuni aspetti diacronici della Città vestina non deve destare meraviglia.

Le recenti acquisizioni in campo storiografico ed etnografico hanno evidenziato infatti una koinè nelle vicende abruzzesi che costituiscono una chiave di lettura valida sia per il singolo tassello che per l’intero mosaico storico regionale.

Fra i tanti episodi che sembrano distinti tra loro ma che rivelano invece una comune struttura, va annoverato quello relativo alla presenza di comunità ebraiche in Abruzzo, fenomeno sociale, questo, che assume particolare importanza soprattutto nel corso del XV secolo.

“Quando le antiche colonie ebraiche stabilissero la loro sede nei territori d’Abruzzo – nota il Pansa – non è ancora storicamente accertato. La primitiva occupazione ebbe luogo nel versante adriatico, nei paesi cioè dediti all’esercizio della mercatura e dei commerci marittimi, come Vasto, Lanciano, Ortona e Pescara”.

Se si esclude l’episodio di Roberto di Bassavilla, conte di Loretello, che nel 1156 scacciò da Lanciano gli ebrei che vi risiedevano per aver parteggiato per Guglielmo il Normanno, si sottolinea da più parti come le comunità ebraiche “fossero uguagliate agli altri cittadini, dispensate dai segni di riconoscimento speciale e dagli altri distintivi cui erano precedentemente obbligate”.

Oltre ai privilegi di cui godevano, si ha notizia che sia Re Ladislao che la Regina Giovanna II d’Angiò accordarono alle comunità israelitiche stabilitesi a Cittaducale, L’Aquila, Sulmona, Ortona, Isernia e Venafro, nonché in altri luoghi (ma nessuna menzione si fa di Città S. Angelo!) di tenere scuole, sinagoghe e cimiteri.

La direttrice L’Aquila-Venafro, su cui vengono a stanziarsi nell’interno della Regione le comunità ebraiche, non è casuale, ma viene a coincidere invece con la cosiddetta Via degli Abruzzi, l’importante arteria economica e militare che collegava attraverso la dorsale appenninica Firenze con Napoli.

Non è la campagna, infatti, polverizzata già nella proprietà o accentrata nelle mani di pochi signori e nobili locali, ad attirare da noi piccole comunità ebraiche (e Città Sant’ Angelo rientra nella fattispecie), ma il commercio dei panni di lana, della seta, dello zafferano (nell’area centrale regionale) e dei commerci marittimi (lungo la costa), che permettono a tali comunità di prosperare con attività di credito.

La tradizionale oculatezza nell’amministrare i propri beni ed a prosperare, attirava sui gruppi ebraici pregiudizi di ogni sorta, non privi di “accuse di sortilegi, di pratiche superstiziose e sacrilegi”  e soprattutto di usura, accusa questa che veniva loro mossa dai più feroci ed intolleranti Frati Minori, “i quali, mossi da ignoranza dei fenomeni economici, confondevano credito con usura” .

Il tempo ha fatto giustizia di tali pregiudizi e la realtà è risultata alquanto diversa se si pensa che “a Brescia, nel 1426, l’usura dei Cristiani era arrivata fino al tasso incredibile dell’80% all’anno …   (sicché) la Città nel 1444 “domandò al Papa il permesso di introdurre gli Ebrei come unico rimedio contro gli strozzini”.

 Come risulta da un antico catasto cittadino, gli Ebrei abitavano a L’Aquila nel quartiere di San Flaviano  e la comunità era certamente consistente, possedendovi case e terreni. L’Editto generale del 1510 li costrinse poi ad abbandonare la Città. Eppure, si badi bene, il loro quartiere nei pressi della chiesa di San Flaviano non era denominato ghetto e lo stesso dicasi per Lanciano, dove gli Ebrei erano arroccati attorno al “quartiere della Sacca”.

Si è tramandato invece fino ai nostri giorni a Città Sant’Angelo il toponimo strada del ghetto, che si snoda a ridosso della chiesa di S. Agostino nel quartiere più antico del bel centro vestino.  Ricollegare tale toponimo alla presenza di una pur piccola comunità ebraica sembrerebbe cosa normale, anche se a Città Sant’Angelo – sottolinea la Giuliante – “non si ha memoria di una vera e propria comunità israelitica”.

E l’Autrice ha perfettamente ragione, perché dai Registri della Cancelleria Angioina, pubblicati sia dal Barone che dal Faraglia, non risulta minimamente alcuna presenza di gruppi ebraici a Città Sant’Angelo e l’unica spiegazione dell’esistenza del toponimo ghetto

non è ricollegabile solo alla presenza in loco (ed in passato) di “minoranze etniche di zingari“, presenza che va evidenziata, del resto, “anche in altre zone della Città” .

L’identificazione, tra l’altro, di “ebreo” con “zingaro” e viceversa, costituisce un episodio troppo noto nel campo etnografico regionale e tomare sull’argomento sarebbe inutile. Basti pensare alla “corsa degli zingari” a Pacentro, manifestazione in cui da secoli i protagonisti non sono stati mai veri e propri zingari, ma contadini del luogo costretti per necessità a camminare a piedi scalzi, proprio come gli zingari di un tempo.

L’assenza di comunità ebraiche a Città Sant’Angelo è confermata comunque da una fonte decisamente “non sospetta”, e cioè dalla relazione del viaggio compiuto da fra’ Serafino Razzi in Abruzzo, dato che i Domenicani, come i Minori, vanno annoverati fra coloro che fomentarono odio contro le comunità ebraiche nei secoli XV e XVI. Sembra strano pertanto che il Razzi, alloggiato nel convento di S. Agostino a Città Sant’Angelo, non faccia alcuna menzione della presenza di ebrei in loco, dato che la via del ghetto si snoda proprio dietro il convento.

Da altra fonte, anche se degli inizi del ‘700, troviamo la stessa conferma relativa all’inesistenza di gruppi ebraici a Città Sant’Angelo e si apprende tra l’altro che nel centro vestino, su 345 fuochi, vi erano “4 fisici, di cui uno speziale di medicina; non vi sono chirurghi” .

In sostanza, è avvenuto a Città Sant’Angelo quello che, in base ad una tipica struttura evolutiva del tessuto urbano, si è verificato in altre città abruzzesi, come per esempio a Sulmona, dove dall’indicazione medioevale di Burgium, si passa poi a Burghitto, ghítto, e dal XV secolo a Borghetto, “evidentemente per la sua modesta estensione” .

In mancanza di documentazione attestante la presenza di comunità ebraiche, il toponimo ghetto va inteso pertanto come alterazione di Borghetto.

Ed il rilievo appare tanto più significativo se si pensa che gli Ebrei sono documentati per esempio a Sulmona, non nel Burgium, ma “in tutt’altra parte della città”  .

Circa poi la stranezza, sempre a Città Sant’Angelo, del toponimo Grottone, va ricordato che esso è da ricollegarsi alla presenza di un insediamento longobardo, al culto delle acque, ed all’esistenza di una grotta dedicata a S. Michele Arcangelo, il santo patrono dei Longobardi.

Ma su questi aspetti ci ripromettiamo di intervenire ancora su Orizzonti Angolani.

Quello che ci preme sottolineare è che Città S. Angelo attende ancora pagine importanti di storia che finora non sono state scritte e che da esse verrà sicuramente un importante contributo diretto alla ricostruzione di quell’affascinante poema epico che è appunto la Storia delle Genti d’Abruzzo.

Franco Cercone




ASPETTI TIPICI DELLA POESIA POPOLARE

Un canto alla rovescia raccolto a Cansano

I «Canti alla rovescia» rappresentano un tipico aspetto della poesia popolare. Essi furono oggetto di specifiche trattazioni da parte del Novati , del Giannini  , e recentemente del Cocchiara  . Quest’ultimo studioso ha messo a fuoco soprattutto «la protesta espressa nel ‘mondo alla rovescia’ come invito a una migliore condizione umana», sottolineando quindi il messaggio sociale dei canti stessi «raccolti un po’ dovunque in tutta Italia»  , e, anche se non lo dichiara espressamente, riporta per quanto concerne l’Abruzzo un «canto alla rovescia» pubblicato da Finamore  .

L’importanza del canto che ho raccolto a Cansano (informatrice Signora Angela Di Paolo, contadina, di anni 73) consiste dunque nella presenza di tale tipica poesia popolare anche nell’area peligna, dove però, malgrado ogni ricerca, non sono riuscito a registrarne altri esempi. Cosa che, ovviamente, auguro che riesca ad altri. Ecco, dunque, il testo del canto raccolto a Cansano per la cui trasposizione grafica chiedo comprensione ai cultori della dialettologia, in modo da evitarne le ire.

Tulle le cose a cuntrarie me vanne.

L’acque m’ assughe e lu sole me ‘mbonne!

Ije sacce ‘na canzone a’ la ruvesce

e a’ la ruvesce la vuoglìe cantá.

M’arrizze la matine a sunate de viéspre

piglie la fauce e vaje a zappá.

Pe la vije ‘ncontre nu sambuche,

saglie ‘ncoppe pe’ coglie le cerase.

S’affacce la padrone de lu nuce:

«Chi sta a coglie le lecene meje?»,

Scenne a bballe e piglie nu’ cantone,

tire `ncoccc e je rompe ‘na cosse!

Franco Cercone

Articolo pubblicato in “Bollettino Trimestrale A.S.TR.A – Tradizioni Popolari Abruzzesi”,  Pescara Anno V Numero 14 (gennaio-febbraio-marzo) 1977 ( pag. 211)

[1] F. Novati. Attraverso il Media Evo, Bari 1905.

[2] G. Giannini. Le canzoni alla rovescia, in «Rassegna Nazionale», Serie II, XXXVIII, 1916, pag. 36 segg.

[3] G. Cocchiara, II Mondo alla rovescia, Torino 1936.

[4] G. Cocchiara, ivi, pag. 165.

[5] G. Finamore, Tradizioni popolari abruzzesi, Vol. II pag. 121; Lanciano 1886.




IL RITO D’UN GIORDANO ABRUZZESE. Sul Liri a Civitella Roveto

Per la festa di S. Giovanni Battista

Con il ballo della mammoccia, un grande pupazzo di cartapesta che si trasforma in breve tempo in una torcia incandescente a causa dei numerosi petardi di cui è avvolta, terminano a Civitella Roveto i festeggiamenti “profani”. È con grande tripudio che la popolazione di questo grazioso centro agricolo della Valle Roveto saluta le scintille che s’innalzano al cielo, residuo di antichi cerimoniali legati a culti solari. Mancano pochi minuti alla mezzanotte del 24 giugno. Da quest’ora fino alle prime luci dell’alba il fiume Liri, che spacca in due parti il centro abitato, diventa sacro. Il rito del Giordano si trasferisce qui con tutto il suo mistero di millenni in una notte che è sempre stata di prodigi.

Fra le prime che accorrono a bagnarsi alle acque del Liri sono le vecchie, quasi sepolte sotto gli scuri scialli neri, simili a vestali per il solenne incedere e le diresti ombre vaganti nell’etere. Man mano che le prime luci dell’alba scacciano l’oscurità, il paesaggio si anima ed in diversi punti persone di ogni età, alcune portando sulle spalle anche i bambini, si immergono nelle acque gelide del fiume in parte inquinato.

Molti sono muniti di secchi e bottiglie con cui attingere l’acqua da riportare a casa e con essa bagneranno infermi e piccini. Il rito, infatti, se da un lato ha una funzione lustrale, dall’altro è diretto a preservare il corpo da malattie oppure ad eliminarne i sintomi anche se in fase avanzata. Fino a qualche tempo fa gli abitanti di Capistrello anch’esso centro della Valle Roveto, venivano ad immergersi qui per guarire dalla tigna, di cui erano affetti soprattutto i bambini. Ciò mi è stato rivelato da due simpatici giovani del luogo e cioè Egidio Sabatini, studente, e Zanello Fausto, operaio, di cui mi piace ricordare i nomi accanto a quello di Ferruccio Sabatini.

Sul Liri, a Civitella Roveto. si rinnovano nella notte di S. Giovanni i riti di comparatico che istituiscono fra due persone rapporti trascendenti spesso i vincoli stessi della parentela. Tornando ora al rito sul fiume Liri occorre aggiungere che quest’anno [1977] è stata apportata una modifica non priva di significati, e cioè è stata celebrata una messa alle quattro del mattino sul letto del fiume, cui ha partecipato numerosa popolazione. Inoltre, mi è sembrato di intravvede nei giovani, che dopo aver fatto il bagno sostano ancora sulle rive del fiume, malgrado la bassa temperatura notturna, una dimostrazione di forza fisica che potrebbe rientrare in uno dei “temi culturali” studiati da M.E. Opler per altre culture.

Interessante è stato osservare il differente comportamento di un giovane civitellese tornato dall’Argentina, tutto preso in una accanita partita di morra con i suoi amici ed in puro dialetto locale, e quello di un operaio stabilitosi a Roma che «parlava romano›. Avviene infatti cosa che ho constatato personalmente per aver vissuto in Germania la vita dei Gastarbeiter, che nei nostri lavoratori all’estero sia più viva l’esigenza di essere anche per pochi giorni all’anno soggetti di storia reintegrando sé stessi in modelli culturali in cui si sentono protagonisti. Sull’emigrato interno invece pesa come una spada di Damocle l’atteggiamento etnocentrico dei gruppi sociali in cui vive, per sottrarsi al quale egli tenta di mimetizzarsi mediante l’acquisizione di un nuovo linguaggio che è quello della città in cui lavora.

Si tratta di una specie di acculturazione di cui egli non è solo cosciente, ma addirittura fiero. Queste sono tuttavia le uniche osservazioni che il rito sul Liri, così pregno di raccolta religiosità, permette di fare. Lo spettacolo cui si partecipa si scolpisce nel cuore e sarà difficile dimenticarlo. Dentro la cornice folklorica c’è il ritorno alla “fede degli antichi”, come mi ha detto un operaio comunista, in cui l’uomo, reduce dall’ultima grande delusione (qual è appunto la civiltà dei consumi) cerca quelle protezioni psichiche, quelle compensazioni e giustificazioni esistenziali che il marxismo non gli ha saputo dare. È questo a mio avviso il segreto che è alla base della riscoperta dei pellegrinaggi e dei santuari. E forse per grazia ricevuta, per grazia di aver ritrovato sé stessi, sulle pareti delle chiese si appuntano migliaia di ex voto invisibili, espressi nei campi assolati e solitari oppure nel chiuso delle fabbriche.   

Franco Cercone

Articolo pubblicato in ABRUZZOSETTE, L’Aquila, 14 luglio 1977.

Settimanale indipendente fondato da Remo Celaia




LE DONNE DEI PASTORI

La luna de settembre ha ju cierchie tunne; A revederce bella, tra maggie e giugne

[Intervento di Franco Cercone tenuto nella conviviale A.I.C. (Accademia Italiana della Cucina)  delegazione di Isernia e L’Aquila: anno 2010]

Questo distico dal forte valore proverbiale, assai noto fra i nostri pastori transumanti, si rinviene nel II volume degli Usi e Costumi abruzzesi del De Nino ed esprime con maggior realismo rispetto al noto verso dannunziano (settembre andiamo, è tempo di migrare) un malcelato senso d’angoscia per l’imminente partenza per la Puglia, preannunciata dall’ultimo plenilunio estivo.

Ed all’angoscia si accompagnava la tristezza per il lungo soggiorno nella “desolata pianura apula”, come scriveva Francesco Bruni nel 1855 nell’Opera Canti del mandriano abruzzese, una pianura senza soluzione di continuità e dove non riecheggiavano “le dolci melodie della zampogna abruzzese”.

Ma se era “silente” la musica, non altrettanto era la poesia; sicché alcuni pastori di Villetta Barrea, di Pescasseroli, di Scanno, di Leonessa e di Castel del Monte hanno saputo trarre ispirazione dal silenzio dei pascoli, interrotti solo dai campanacci d’armento e dal latrare dei cani custodi.

Ed è proprio uno di tali poeti, Cesidio Gentile, che ci permette di entrare nel vivo del tema, scelto per questa simpatica conviviale patrocinata dalle delegazioni dell’Accademia Italiana della Cucina di Isernia e L’Aquila, presiedute autorevolmente dalla prof.ssa Giovanna Maj e dal Dr. Luigi Marra.

Del poeta pastore Cesidio Gentile, nato a Pescasseroli nel 1847, si è interessato particolarmente Benedetto Croce nella sua Storia del Regno di Napoli, allorché nell’”Appendice” a tale importante opera (“Due Paeselli d’Abruzzo”), traccia un breve lineamento storico di Montenerodomo e Pescasseroli, rispettivamente paese d’origine dei Croce e dei Sipari, famiglia cui apparteneva la madre del filosofo.

Il Croce ebbe la possibilità di rinvenire un poemetto di Cesidio Gentile, in cui il poeta pastore di Pescasseroli immagina di colloquiare con un altro pastore di Scanno. Costui aveva ricevuto dalla moglie una lettera in cui essa rivelava le insidie che attentavano al suo onore due signorotti di Scanno e nello tesso tempo la fine della provvista dei viveri.

Il pastore risponde alla moglie con il seguente sonetto, che fa vibrare il nostro animo per la freschezza delle immagini ed il commovente contenuto:

Faccio una prece all’eccelsa Regina

Che non ti faccia mancar cosa alcuna.

Meno la vita mia così tapina,

Mi lagno spesso della mia fortuna,

che devo star da te tanto lontano,

tu negli Abruzzi ed io nel verde piano.

Fatemi almeno il core aver contento,

fa’ che nessuno con te si dorma accanto;

ed io, pascolando il bianco armento,

sempre all’amore tuo vado pensando.

Cara consorte, mettici il talento,

cerca d’avere d’onestate il vanto;

rinnova la fedel moglie d’Ulisse,

come il poeta a noi ce la descrisse.

Due importanti aspetti emergono da questa poesia, legati alla lunga assenza degli uomini occupati nel Tavoliere: le insidie cui le donne rimaste sole erano esposte in paese e la fine delle scorte alimentari della casa, soprattutto nel momento critico della “costa di maggio”.

È in tali frangenti che emerge il valore delle donne abruzzesi e molisane, le quali assurgono ad un ruolo di vere e proprie eroine anche quando, dopo l’Unità d’Italia, vedranno partire i loro uomini oltre Oceano ed assumeranno la triste nomea di “vedove bianche”.

La scrittrice inglese Anne Macdonnell sa cogliere in modo mirabile nel suo noto libro di viaggio In the Abruzzi (Londra 1909) la situazione psicologica in cui versavano le nostre donne, uno status psicologico che ci è offerto dal famoso quadro Bestie da soma del Patini. Scrive infatti la Macdonnell:

“In Abruzzo alla donna spettano tutti i lavori, specialmente quelli faticosi. Ci sono dei luoghi dove a malapena ci si rende conto della presenza degli uomini ed in cui è la donna a dominare la scena. Il lavoro domestico e la gravidanza costituiscono solo una parte della sua vita. Lei affastella il legname per l’inverno, lei cuoce il pane, lei fila la lana ed il lino; tinge i tessuti, fa i vestiti e bada alle pecore per uso domestico. Lei costruisce persino le case, è uno straordinario facchino e con portamento maestoso porta sulla testa quello che vuoi, dal bagaglio più pesante ad un aratro, oppure una lettiera di ferro”.

Ma v’è di più. È la donna che custodisce i segreti delle erbe medicamentose e nel tramandarne i poteri salutari alle future generazioni fu spesso accusata di ‘stregoneria’. Fu proprio questa preziosa conoscenza che permise alle nostre comunità di cibarsi di erbe di campo e di sopravvivere in occasione delle frequenti carestie, come quella terribile del 1764. Ce lo ricorda appunto la Statistica Murattiana del 1811.

 È la donna ad essere depositaria di miti e leggende, di canti popolari, di rituali magici e di proverbi tramandati attraverso il racconto orale accanto al camino, nelle lunghe ed interminabili serate d’inverno. Grazie alla memoria delle nostre nonne, un patrimonio culturale di inestimabile valore si è sottratto così alla distruzione del tempo ed attraverso il racconto orale è pervenuto fino a noi contribuendo alla conoscenza delle complesse radici della nostra società.

 Il culto così intenso in Abruzzo ed in Molise, professato alla Vergine ed a molte Sante, non è altro che la proiezione della funzione e del ruolo preminente esercitato dalla donna nella nostra società. Fra quest’ultime vanno annoverate soprattutto le Sante galattogene, come Sant’Agata, Santa Scolastica e Sant’Eufemia, preposte alla salvaguardia del seno materno, perché il latte della madre era l’unico nutrimento su cui le donne dei ceti agro-pastorali potevano contare.

Non è questa la sede per dilungarci in tale affascinante tema storico – religioso e per analizzarne tutti gli aspetti. Una cosa però va detta a mo’ di conclusione: la storia d’Abruzzo e Molise è stata scritta nel corso dei secoli principalmente dalla donna. Ed alla donna ogni nostro paese e ogni nostra contrada dovrebbe erigere un monumento che tramandi ai posteri il suo eroismo ed il senso etico con cui ha plasmato tutta la nostra vita.




PER UN PANNO o per amore

Pubblicato sulla Rivista Illustrazione Abruzzese  sett-ott. 1984, Pescara

Pacentro è un pittoresco paese della provincia de L’Aquila arroccato alle pendici settentrionali della
Maiella. Il castello medioevale, che sovrasta il centro abitato, ci parla del suo illustre passato e delle lotte insorte fra i Cantelmo ed i Caldora per assicurarsene il possesso. La poca gente rimasta vive per lo più di agricoltura, mentre i giovani sono occupati nel terziario oppure nelle fabbriche del nucleo industriale di Sulmona. Rilevante è tuttora il numero dei diplomati senza impiego e dei pensionati.

Nella prima domenica di settembre, in occasione dei festeggiamenti in onore della Madonna di Loreto, si svolge a Pacentro la cosiddetta corsa degli zingari, una singolare manifestazione che di anno in anno richiama un numero di spettatori sempre più numeroso sia dall’Abruzzo che dalle regioni limitrofe. Nell’edizione del 1980 erano presenti, tra le altre, una rete televisiva di Monaco di Baviera ed alcuni giornalisti del periodico «Bild am Sonntag», edito nella stessa città tedesca.

Va subito chiarito che l’espressione zingari non deve trarre in inganno. Nel dialetto di Pacentro essa indica infatti chi cammina scalzo ed è stata coniata evidentemente in base all’osservazione costante che gli zingari, ed i nomadi in genere, andavano in giro in passato con pochi indumenti addosso e soprattutto a piedi nudi, date le scarse possibilità che essi avevano di poter acquistare delle scarpe.

Coloro che partecipano alla terribile gara sono generalmente contadini ed operai del paese. I figli delle persone benestanti e dei professionisti, almeno fino a circa dieci anni fa, non vi partecipavano in quanto non abituati a camminare a piedi nudi, specie lungo i sentieri pietrosi di montagna.

Pur nella dovuta cautela la corsa può essere definita in senso gramsciano come una tipica manifestazione della visione della vita di strati sociali subalterni oppure, secondo il pensiero del Lombardi-Satriani, un episodio di cultura di «contestazione».Tuttavia alcune “varianti” di rilevante interesse antropologico-culturale, emerse negli ultimi anni, inducono a ritenere che la chiave di lettura della “corsa degli zingari” sia  più complessa e le motivazioni da parte dei giovani che si cimentano nella terribile gara appaiono col passar degli anni sempre diverse. Ma procediamo nella descrizione delle fasi più emozionanti della manifestazione.

Va ricordato innanzitutto che di norma ilnumero dei concorrenti non è mai rivelato dalla Confraternita della Madonna di Loreto, che gestisce appunto la “corsa”, e diventa noto solo quando i giovani, verso le cinque di pomeriggio del giorno di festa, si radunano in località Pietra spaccata, un contrafforte roccioso di Colle Ardinghi, situato di fronte al paese e separato da quest’ultimo da una profonda gola in cui scorre il Vella, un torrente che scende precipitoso dalle falde della Maiella e ricordato da Ovidio nel

Terzo libro degli Amores.

Al primo rintocco di campana della chiesa della Madonna di Loreto, gli zingari, a piedi nudi ed in
pantaloncini e maglietta (tali indumenti sono forniti dalla stessa Confraternita), si gettano a capofitto
lungo il ripido pendio del colle cosparso ovunque di pietre, oltrepassano a valle il torrente Vella
e puntano di nuovo a monte in direziono di Pacentro, attraverso un sentiero che conduce direttamente alla chiesa.

Una folla enorme funge da degna cornice alla corsa ed è assiepata soprattutto lungo il tratto finale del percorso, complessivamente lungo tre chilometri circa. La maggior parte degli spettatori si accalca tuttavia attorno al sagrato di S. Maria di Loreto, poiché l’altare della chiesa, il cui portale è lasciato aperto, costituisce il traguardo della emozionante gara.

Quando i concorrenti sono in prossimità della meta, gli spettatori cominciano ad oscillare invasi da un crescente fermento, mentre urla di entusiasmo si levano dalla folla allorché da una curva non lungi dalla chiesa si vede sbucare il primo “zingaro”.  Con gli occhi dilatati dal dolore, provocato da un percorso quasi ordalico, il vincitore infila il portale e si inginocchia prima davanti all’altare, dopo di che si accascia stremato, seguìto man mano dagli altri partecipanti che ripetono lo stesso cerimoniale.

A corsa ultimata viene chiuso il portale. Solo negli ultimi anni è stato permesso a studiosi e fotografi di
restare nell’interno della chiesa e di assistere così ai momenti conclusivi della manifestazione.

La scena che si svolge assume a tratti toni drammatici e non facili da descrivere. Con i piedi cosparsi di
piaghe sanguinanti, gli zingari giacciono sdraiati sul pavimento e si aiutano a vicenda, mentre il dolore
atroce dai piedi sembra propagarsi tutto sui loro volti. Un medico presta la prime cure alle ferite vistose, ma la sua azione è vanificata spesso dalle richieste di soccorso che si accavallano fra le grida concitate degli organizzatori , impegnati ad accertarsi velocemente delle condizioni più o meno gravi in cui versano quelli che hanno concluso la gara.

Sull’angusto piazzale antistante alla chiesa, la folla attende ansiosa che si riapra il portale e fa commenti sullo svolgimento della gara e sul vincitore. Questi attimi di pausa ci permettono di aggiungere particolari importanti alla descrizione della manifestazione. La chiesa è dedicata, come si è detto, alla Madonna di Loreto ed un affresco eseguito nel tondo centrale della facciata raffigura, con una tecnica di esecuzione che ci ricorda quella degli ex voto pittorici, la traslazione della Casa Santa di Nazareth da Tersatto (Jugoslavia) a Loreto Marche. Il sacro edificio presenta caratteristiche tali da essere ascritto, come  conferma l’organo portativo coevo, alla prima metà del  XVIII secolo e sorge in base ad una tipica leggenda di fondazione dei santuari: una misteriosa donna, nella quale i fedeli riconosceranno in seguito la Madonna, si riposò proprio sul posto dove sarà eretta più tardi la chiesa[1].

La modesta facciata della chiesa è movimentata da tre tondi a stucco; in quello centrale è riprodotta come si è detto la traslazione della Casa Santa ed in quelli laterali, non affrescati, sventolano fin dalla mattina della festa due tagli di stoffa avvolti a mo’ di bandiera su un’asta di legno. Tali stoffe sono di diverso colore e sufficienti a confezionare due vestiti. Su ognuna di esse gli organizzatori della festa appuntano un santino riproducente l’immagine della Madonna di Loreto. Questi tagli di stoffa costituiscono appunto il cosiddetto palio, il premio cioè assegnato insieme a coppe e targhe ricordo ai primi due concorrenti, ma normalmente vengono premiati anche coloro che si classificano al terzo e quarto posto ed in tale ordine sfilano poi a manifestazione conclusa per le vie del paese per ricevere il dovuto trionfo.

Durante la corsa i deputati alla festa sorvegliano affinché nessuno aiuti con spinte i partecipanti, a meno che per difficoltà sopravvenute durante il terribile percorso qualcuno di essi non dichiari espressamente di rinunciare alla gara. D’altro canto, una sorveglianza per cosi dire indiretta e reciproca viene effettuata dagli stessi tifosi appartenenti ai rioni in cui abitano i concorrenti, la cui contesa, alimentata da quei sentimenti intrattenibili che affiorano spesso nel ‘blasone popolare’, solo oggi
si esaurisce nell’ambito di un’esperienza vissuta anche a livello ludico. Degna di nota è al riguardo la
circostanza che a Pacentro non v’è un santo protettore ufficiale. Parte della popolazione festeggia infatti la Madonna del Rosario e l’altra S. Carlo Borromeo. I rosaristi non fanno normalmente cospicue offerte per la festa di S. Carlo ed allo stesso modo si comportano i carlisti nella ricorrenza della Madonna del Rosario. Fra le due fazioni si scatena così una gara per organizzare la festa più bella del paese e ad essa contribuiscono con sostanziose rimesse, anche gli emigrati. In passato, infatti, le rivalità esplodevano in modo violento anche durante la manifestazione e l’informatrice citata, Maria Cicone,  ricorda che in una edizione della corsa svoltasi subito dopo la Prima guerra mondiale una persona venne accoltellata per aver spinto nella parte finale della gara un concorrente del proprio rione[2].

Ma torniamo, dopo questa necessaria parentesi, alla descrizione della corsa. Dai due tondi della facciata della chiesa vengono ammainati i palii, segno questo che sta per aver inizio la sfilata degli zingari.

Si apre il portale. Il clamore crescente degli spettatori sommerge le note della marcia intonata dalla banda, mentre applausi ed espressioni di compiacimento fioccano soprattutto sui primi due classificati che, seguiti come alfieri dal terzo e dal quarto, ricevono l’onore del trionfo. Portati a spalla da amici e parenti i quattro sfilano in ordine di arrivo lungo le strade principali del paese, preceduti dalla banda. Gli sguardi della folla sono appuntati ovviamente sul vincitore della corsa.

Sorreggendo l’asta su cui è avvolto il palio, egli viene portato a spalla dai suoi tifosi, seguito allo stesso modo dal secondo classificato. La sfilata termina alla casa del vincitore, dove si offre a tutti vino  vecchio attinto dalle caratteristiche conche di rame. Non poche sono le considerazioni che suscita la corsa degli zingari, che secondo il giudizio dei vecchi del luogo si svolgerebbe da tempo immemorabile. Come in altri episodi folklorici, la ricerca delle origini non spiega le funzioni svolte dal rito, sicché essa  risulta il più delle volte sterile e non appaga l’interesse degli studiosi . Il termine palio, è utile in tale sede ricordarlo, indica secondo il  Devoto un  «drappo prezioso assegnato come premio in gare o competizioni tradizionali, celebrate in varie città italiane dal medio evo in poi».

In un manifesto pubblicato a Roma nel 1768, si ricorda per. es. che «si correranno i Palii negli infrascritti giorni di carnevale», con la descrizione degli stessi palii costituiti da «stoffe pregiatissime» da donarsi ai vincitori delle varie corse[3].

Per quanto concerne più specificatamente l’area abruzzese, manifestazioni simili a quella di Pacentro dovevano svolgersi anche altrove, poiché si apprende dal De Nino che «a Rivisondoli, nelle feste principali, e a Pratola Peligna in San Rocco, è singolare la corsa dei ragazzi, dai sette ai dodici anni, che nudi vanno a precipizio da un punto all’altro del paese per guadagnare un palio. E il piccolo vincitore poi, nudo, entra nella chiesa a ringraziare il santo»[4]. Una corsa a piedi nudi si svolgeva anche a Sulmona il 28 aprile, festa di san Panfilo. Ce lo ricorda un documento pubblicato dal Celidonio, nel quale si legge che “in dicto die (cioè 28 aprile) se corra ad pede mezza canna de panno bono, più uno pare de calse. Si correrà per li citali una berrecta.”[5].

È significativa la circostanza che il De Nino taccia sulla corsa di Pacentro che si svolge tuttora come le altre corse di Pratola Peligna e Rivisondoli, descritte nel secondo volume degli Usi e Costumi abruzzesi. Ma v’è di più. La ‘corsa’ di Pacentro è una ‘gara’ e dunque rientra nella tipologia dei giuochi e delle competizioni. Nel 1897 apparve com’è noto il sesto volume degli “Usi e Costumi” dedicato proprio ai giuochi fanciulleschi, ma nemmeno in quest’opera il De Nino fa menzione della corsa degli zingari. Sicché si può ragionevolmente supporre che la manifestazione di Pacentro, nata forse come mera scommessa fra giovani del luogo, risalga agli ultimi anni dell’800 ed abbia assunto notorietà solo dopo la morte del grande folklorista peligno (1906).    

Non siamo riusciti a scoprire, al fine di stabilire interessanti raffronti, se in altre località italiane si svolgano nei nostri giorni, in occasione di determinate ricorrenze religiose, corse simili a quella degli zingari. Una sola notizia ci è stata fornita al riguardo, anche se alquanto vaga, da una informatrice di Sulmona, Signora Elena Scudieri, di anni 76, nativa però di Ottaviano (Napoli), secondo la quale una gara avente le stesse caratteristiche di quella di Pacentro si svolge a San Sebastiano al Vesuvio in provincia di Napoli, in onore appunto di tale santo. Un’altra corsa, però non competitiva, si svolge il 4 settembre a Cabras, in provincia di Oristano, nella vigilia della festa di S. Salvatore in Sinis. I giovani del luogo, in tunica bianca, accompagnano correndo scalzi la statua del santo in una chiesetta campestre sita vicino al paese[6].  In passato, partecipare alla corsa per la conquista del palio, cioè di un panno per confezionare un vestito, doveva costituire certamente una motivazione non indifferente per gli zingari di Pacentro, appartenenti a ceti sociali subalterni. Oggi le cose sono certamente cambiate; questi giovani camminano solo raramente scalzi nei loro poderi coltivati con potenti mezzi meccanici che essi stessi, con estrema perizia, guidano nei momenti della seminagione o dell’aratura. Fra coloro che prendono parte alla competizione vi sono però anche operai che lavorano nel vicino nucleo industriale di Sulmona e che appena si staccano dalla catena di montaggio si riversano di nuovo sui campi per quell’insopprimibile esigenza di contatto con la terra che purifica, rigenera e rende liberi, poiché una tuta ed un capannone non sono sufficienti di per sé a trasformare un contadino in operaio.

Altri concorrenti sono invece artigiani o persone che svolgono i più disparati mestieri, come appunto il vincitore della corsa di molti anni fa, con cui abbiamo parlato il giorno seguente alla festa. Si chiamava Mario Raso, aveva 24 anni e lavorava insieme al fratello in un ristorante della ex Berlino Ovest. Suo padre è morto da tempo e la madre, contadina, vive ancora a Pacentro. Ogni anno Mario torna al paese ai primi di settembre «per vedere la festa» e soprattutto per partecipare alla corsa degli zingari, da lui vinta anche in precedenti edizioni. Con grande semplicità egli ci ha rivelato che correva non per una particolare forma di devozione verso la Madonna di Loreto, ma per una ragazza del paese di cui si era innamorato e che corteggiava assiduamente. Nell’ascoltarlo, le sue parole richiamavano quasi automaticamente alla memoria il noto passo del Ramo d’oro, in cui il Frazer descrive le gare di corsa per la sposa che, in altri tempi, si svolgevano un po’ ovunque in Europa. Si sa però con quanta circospezione vadano fatti tali accostamenti, poiché sotto il profilo antropologico si corre il rischio di assemblare episodi che presentano diacronicamente funzioni diverse.

Negli ultimi tempi, infatti, sono emerse da parte dei partecipanti alla gara diverse e complesse motivazioni. A cimentarsi in essa non sono più solo concorrenti appartenenti al mondo rurale o operaio ma anche giovani studenti che possiamo ascrivere genericamente ad uno stato egemone locale e le cui motivazioni risiedono nella dimostrazione di una forza fisica e resistenza al dolore ritenute non solo appannaggio del ceto rurale. La conquista del “palio” da parte di tali concorrenti appare del tutto irrilevante di fronte alla dimostrazione della loro capacità di resistere al dolore atroce causato dalle ferite ai piedi.

Comunque, per tornare a Mario Raso, appare veramente straordinario che qualcuno in un angolo sperduto dell’Abruzzo  «corre per amore» ed almeno in un giorno dell’anno, offre una dimostrazione di forza e vitalità nei confronti di altri giovani che non sono in grado, per costituzione fisica o per educazione, di cimentarsi in una incredibile corsa come è appunto quella che abbiamo descritta. Ed in questa gara, gli zingari di Pacentro riscattano anche un anno di anonimato, trascorso nel duro lavoro quotidiano in Italia ed all’estero. Essi, dunque, corrono non per avere, ma per essere.

Franco Cercone


[1] Informatrice  Sig.ra Maria Cicone , anni 60, residente a Pacentro. Altre leggende parlano del rinvenimento di una piccola statua raffigurante la Madonna di Loreto proprio nelle acque del Vella, in un punto sottostante alla chiesa.  Cfr. R. Santini, Pacentro. Aspetti storico-geografici , p. 140. Pratola Peligna 1976.

[2] “Carlisti” e “Rosaristi” (o “Saristi”) fanno parte delle confraternite aventi tali denominazioni. Cfr. a tal riguardo M. Silvestri, Una storia (1860-1960). Cento anni all’ombra delle torri di Pacentro, p. 9 sgg., Sambuceto (Ch.) 2004; R. Santini, op. cit., p. 141.

[3] Cfr. Catalogo della Banco Libri, Bologna, giugno 1983, sez. Manifesti.

[4] A. De Nino, Usi e costumi abruzzesi, Firenze, 1881, II, pp.220 e ss. Il De Nino chiarisce – ivi, p. 222 – che il «palio» è «un pezzo di stoffa colorata». La corsa degli zingari è preceduta a Pacentro da quella degli zingarelli, cioè ragazzi di tenera età, che ha una chiara funzione di iniziazione.

[5] Cfr. G. Celidonio, La Diocesi di Valva e Sulmona, vol. I, p. 144, Casalbordino (Ch.) 1909.

[6] Devo la notizia alla  professoressa Enrica Delitala, docente di Storia delle Tradizioni popolari all’Università di Cagliari.




ABRUZZO AMORE MÈ un libro un incontro

Le celebrazioni per Franco Cercone a tre anni dalla sua scomparsa

Ortona, 29 giugno 2023. A tre anni dalla scomparsa, Abruzzo Popolare ed il Centro Studi Demo – Antropologici celebrano la memoria di Franco Cercone con un incontro pubblico dal titolo Abruzzo Amore Me.  

All’Eden questo pomeriggio dalle ore 18:00 si succederanno interventi di amici, conoscenti, studiosi, di uomini vicini ed attenti al suo particolare contributo offerto alle genti d’Abruzzo: un’indagine dinamica su un personaggio davvero speciale, Franco Cercone un grande Abruzzese.

Direttore di questo quotidiano on line, sin dalla sua nascita, ho cercato di individuare una linea editoriale la più possibile lontana dalle frenesie delle attuali forme d’informazione, ma legata, in modo intimo e profondo, al mondo delle attività popolari in cammino, quelle della nostra regione più ricca e misteriosa, quelle di un popolo ai margini dei grandi fatti ma presente e concentrato con le proprie capacità a tutto quello che vive intorno.

Ecco; un cammino lontano dal chiasso del mondo caotico e malato del contemporaneo, ma vigile nelle dinamiche concrete di questa umanità oramai in grave disagio.

Forte il richiamo, dunque, ai valori della tradizione, ai valori della storia, delle esperienze e dei sussidi, dei preziosi lasciti delle passate generazioni, per cercare di disegnare il quadro di uno spazio libero ed offrire un’informazione la più ricca, la più utile, la più prossima, quale impegno continuo e scrupoloso, in una viva, quanto mai laboriosa, ricerca.

Franco Cercone, testimone del nostro tempo; ecco dunque una preziosa risorsa per un popolo in cammino, valido riferimento per l’utile approvvigionamento. Franco Cercone, la sua straordinaria bibliografia, la sua grande opera quale luogo di un arricchimento necessario.

Franco Cercone, un testimone del nostro tempo, guida e compagno di un viaggio che proponiamo di vivere ai teleutenti negli originali contributi che pubblicheremo di volta in volta nel nostro quotidiano on – line, in una nuova rubrica, aperta proprio per l’occasione e dal titolo: GLI STUDI DI FRANCO CERCONE

https://www.abruzzopopolare.com/gli-studi-di-franco-cercone/

Foto: incontro pubblico Dicembre 2012, Sala Eden Ortona [da sin. Gen. C. Palumbo, Arch. N. Marinucci, Prof. F. Cercone, Dr. T. Coletti]

Nando Marinucci




IL RITO DEL PASSAR L’ACQUA nel lunedì di Pasqua

Il giorno del lunedì di Pasqua è dedicato ovunque, se il tempo lo permette, a gite e soprattutto ad allegre scampagnate fuori porta, le quali vengono indicate in alcuni centri dell’area peligna e del medio corso del Sangro con una singolare espressione: passar l’acqua o passalacqua.

A Cansano sono soprattutto i ragazzi, quei pochi che vivono ancora in paese, ad attendere l’arrivo di tale giorno di festa che non pochi ricordi suscita allo scrivente, originario del luogo. Forniti di sostanziose colazioni essi si recano a gruppi in località Vallacquara, cosi chiamata per via di un torrente che si forma puntualmente al primo disciogliersi della neve sui monti circostanti e che va superato prima dell’inizio del pranzo.

A Introdacqua ci si reca a “passar l’acqua”, nel lunedì di Pasqua, nella Valle di Contra, presso una salubre sorgente che alimenta la rete idrica del paese. A Pettorano si va alle sorgenti del Gizio o più oltre, nella Valle Frevana, alla chiesa di Santa Margherita. A Pacentro lungo le rive del Velle oppure a monte, a Passo San Leonardo o Fonte Romana.

A Campo di Giove si va a “passar l’acqua” un po’ ovunque ma sempre nelle vicinanze di qualche fontana o sorgente. Lo stesso dicasi per Pescocostanzo, Roccaraso, Rocca Cinquemiglia e Castel di Sangro. Lungo l’alto e medio corso del Sangro l’espressione è tuttora in uso fino ad Ateleta ed in altri paesi, come San Pietro Avellana e Montenero Valcocchiara, situati in territorio della provincia di Isernia, ma é sconosciuta a partire da Quadri in giù verso l’Adriatico nonché nella Marsica.

Sul rito del “passar l’acqua” scrive M. Romito riferendosi alla chiesetta della Madonna della Portella presso Rivisondoli, un tempo dedicata a San Cristoforo, protettore dei viandanti: “Ancora sul Piano di San Cristoforo. Certamente alla sua natura di palude va riferita la tradizione antichissima e di chiara origine pagana, con evidente significato lustrale del passalacqua, che tuttora si svolge sul colle della Portella, il Lunedi di Pasqua. Rappresentava dunque, il Piano di San Cristoforo, l’acqua da attraversare a scopo purificatorio.

Così a quest’area si sono via via venuti associando riti, tradizioni, culti, significati diversi, tutti però legati al tema del ‘passaggio’, dal ‘passalacqua’ al culto di San Cristoforo e quello della Hodighitria” [1] Non è agevole spiegare come mai l’espressione passar l’acqua sia sconosciuta del tutto negli altri paesi dell’area peligna, da Pratola fino a quelli della Valle Subequana e della Valle del Sagittario fino a Scanno, il che lascerebbe escludere un’origine chiesastica di tale designazione.

Appare anche strano chc gli Autori — recenti ed antichi – di monografie storiche sui paesi suddetti e nei quali è tuttora viva la tradizione del passar l’acqua non abbiano fatto alcun cenno di essa, ritenendola forse non degna di menzione. Le perplessità tuttavia non si fermano qui ed a complicare il problema interpretativo interviene il De Nino, il quale ci dice che a Sulmona il rito del passar l’acqua avveniva nella notte di San Giovanni: “A mezzanotte sono destato dal calpestio di molta gente. Mi levo, esco e m’infiltro tra certi gruppi di persone… Tutti allegri si va a passar l’acqua.

Chi si dirige verso la Madonna della Portella a passare il torrente Vella, e chi verso l’Incoronata, passando un ramo del Gizio” [2] 2. Trattandosi di riti calendariali, essi sembrano indicare un messaggio di rigenerazione che non avviene – come per esempio a Civitella Roveto e negli altri centri dell’omonima valle nella notte di San Giovanni — mediante immersione nell’acqua o aspersione dell’acqua, ma semplicemente con il passaggio di corsi d’acqua, rito quest’ultimo da ascriversi ai riti di passaggio studiati dal Van Gennep in quanto non implicano un cambiamento di status sociale.

Pasqua è tuttavia un termine che indica come è noto “passaggio”: in ebraico (pesah), in greco (pàskha) e in latino (pascha). Resta tuttavia, se ci è concessa l’espressione, il mistero dell’acqua nell’espressione passar l’acqua riferita a due momenti precisi del ciclo dell’anno ed in uso solo in una determinata area geografica, compresa fra Sulmona ed il medio corso del Sangro. Si tratta dunque di un importante argomento che non mancherà di attirare l’attenzione degli studiosi, cui si rivolge l’invito di indagare in altre aree regionali per accertare la presenza dell’espressione passar l’acqua nelle feste di Lunedì di Pasqua e vigilia di San Giovanni.

A tal riguardo – e per offrire alcune utili indicazioni – ricordiamo che il Finamore, nell’intento di chiarire la singolare espressione, informa che ad Ortona a Mare ed a Vasto la gita del Lunedì di Pasqua, o in Albis, era chiamata Pascòne ed altrove passar l’acqua. Quest’ultimo modo di dire, aggiunge il demologo lancianese, “fa pensare che Pasqua (ebr. Pesach) vale appunto passaggio del Mar Rosso, o, come altri avvisa: dell’angelo innanzi alle case degli ebrei tinte col sangue dell’agnello” [3].

Viene così spontaneo supporre che dall’ebraíco pesach sia derivato per mutamento fonetico il termine dialettale passàcqua e quindi passar l’acqua Sorge però una grande difficoltà. Sembra infatti – si confronti il dizionario italiano del Devoto – che il termine ebraico non sia pesach, ma pesah, cioè senza la consonante c, il che escluderebbe la derivazione dell’espressione passàcqua dal termine ebraico.

Ad Orsogna il rito del Lunedì di Pasqua si chiama lu sciacquette [4], espressione da ricollegarsi ad una interessante notizia che ci viene da Pettorano ed in base alla quale il rito del passar l’acqua “veniva chiamato anticamente del voltarl’acqua… l’usanza del voltar l’acqua è di sicuro precedente alla cristianità, probabile sopravvivenza di antichi riti pagani.

Esiste un’altra interpretazione di questa usanza. Anticamente si credeva che l’acqua del Gizio fosse calda d’inverno e fredda d’estate: l’andare a voltar l’acqua a primavera aveva lo scopo di stimolare quella trasformazione. Sia inteso come propiziatorio dell’abbondanza, sia inteso come propiziatorio di una trasformazione, il voltar l’acqua era sempre un rito di propiziazione naturale annuale” [5].

La circostanza che si ‘passasse l’acqua’ anche nel giorno del solstizio estivo rende poco attendibile questa interpretazione, anche se la notizia del “voltar l’acqua” è di notevole interesse e rappresenta un tassello dell’intero mosaico comportamentale, alla base del quale sussiste un rito, come quello del Lunedì di Pasqua, tuttora vivo nelle nostre contrade e perciò degno di studi e ricerche.

Franco Cercone

Pubblicato in Rivista Abruzzese, Lanciano anno l.  1997 n. 1 – pagg. 68-69

foto: www.aringo.eu


[1] M. ROMITO, Il Santuario romitorio di S. Maria della Portella nel Piano delle Cinquemiglia p. 50, Rivisondoli 1990, prefazione di Damiano V. Fucinese

[2] A. DENINO, Usi Abruzzesi, vol. I, 86 sgg., Firenze 1879.

[3] G. FINAMORE, Credenze, usi e tradizioni abruzzesi, p. 131, Palermo 1890; l’appellativo in Albis, “in bianco”, deriva come è noto dal fatto che agli inizi del Cristianesimo i neofiti vestivano nella settimana dopo Pasqua di bianco. Cfr. al riguardo R. PANZA, Riti e tradizioni pasquali in Abruzzo, in “La Città”, n. 2, Sulmona 1991.

[4] Cfr. P. Silverii, Orsogna… in costume, p. 18, Orsogna 1981.

[5] R. SILVESTRI-O. FEDERICO, Frammenti di cultura pettoranesi: i riti nella tradizione, p. 18, Pettorano sul Gizio 1990.