Venerdì 20 maggio presso la Sala Alessandrina (ore 17) la presentazione del volume curato da Adalberto Scemma. L’incontro è promosso dalla Fondazione Levi Pelloni
Roma, 17 maggio 2022. Sono due anni che Gianni Mura è mancato (davanti al mare di Senigallia, all’età di 74 anni) ma è sempre vivo il suo ricordo in chi l’ha conosciuto e lo ha amato come grande uomo di penna e per le sue doti di rara umanità. Gli amici di una vita e numerosi suoi compagni di strada gli hanno reso omaggio in un libro curato da Adalberto Scemma – Per Gianni Mura, saggi, ricordi, testimonianze (Edizioni Zerotre) – che sarà presentato a Roma venerdì 20 maggio presso la Sala Alessandrina, all’interno del Museo storico dell’Arte Sanitaria, con inizio alle ore 17. All’incontro, organizzato e promosso dalla Fondazione Levi Pelloni in collaborazione con CAPIT e la Fondazione Francesco Raponi, interverranno Adalberto Scemma, Pino Pelloni, Angelo Carotenuto, Darwin Pastorin (in collegamento video), Claudio Rinaldi, Giuseppe Smorto e Furio Zara.
Il volume, dopo la prefazione di Adalberto Scemma, si apre con un intervento di Claudio Rinaldi, una sorta di (auto)biografia attraverso le tappe del percorso di Mura, poi approfondito dall’intervento di Franco Contorbia su René Guy Cadou e dal dialogo orchestrato tra Adalberto Scemma e Gilberto Lonardi. Sergio Giuntini ha esplorato le radici giornalistiche di Gianni Mura (l’esordio sulle pagine de “La Gazzetta dello Sport”) mentre Fernando Acitelli, Andrea Maietti, Massimo Raffaeli e Adalberto Scemma hanno curato il capitolo “I sogni e le passioni”.
Testimonianze suggestive sulla personalità di Mura sono state fornite da Adriano Ancona, Damiano Tommasi, Stefano Bizzotto, Alberto Brambilla, Massimiliano Castellani, Alessandro Chiappetta, Adalberto Scemma, Vittorio Testa e Furio Zara. Spazio anche alla passione di Gianni per la cucina e per i vini (interventi di Massimiliano Castellani, Gigi Garanzini, Katia Golini e Adalberto Scemma) e per il ciclismo (le pagine del Tour rivisitate da Pasquale Coccia e Lorenzo Longhi). Il “metodo Mura”, infine, è stato illustrato dai colleghi storici de “La Repubblica” (Emanuela Audisio, Michele Serra, Giuseppe Smorto e Fabrizio Ravelli). Infine, i compagni di strada (Tony Damascelli, Luciano Del Sette e Darwin Pastorin) testimoni di un percorso professionale (il lavoro da inviato e la parentesi di Emergency) che ha sempre visto Gianni Mura in prima linea.
Nato a Milano nel 1945, figlio di padre sardo e carabiniere (di Ghilarza) e di madre milanese e maestra elementare, dopo aver iniziato la sua carriera di giornalista alla “Gazzetta dello Sport”, dal 1976 Gianni Mura è diventato una storica firma di “Repubblica”. Nel suo lungo percorso professionale, oltre a scrivere pagine memorabili sul calcio e il ciclismo, ha curato per tanti anni, insieme alla moglie Paola, la rubrica di enogastronomia dell’inserto del “Venerdì”. Tra le sue opere spiccano Giallo su giallo (Feltrinelli), vincitore del Premio Grinzane, e La fiamma rossa (Minimum Fax).
Sarebbe tuttavia riduttivo definirlo un giornalista sportivo: Gianni Mura è stato soprattutto un grande narratore. Se fosse stato un calciatore lo avremmo ricordato come uno di quei fuoriclasse che da solo valeva il prezzo del biglietto allo stadio. Così per tanti (compreso il sottoscritto) la sua rubrica domenicale “Sette giorni di cattivi pensieri” di riflessioni e divagazioni colte intorno allo sport era un imperdibile appuntamento fisso che da solo avrebbe giustificato l’acquisto del giornale su cui scriveva.
Lo sport, tema universale per eccellenza e come tale capace di suscitare emozioni e coinvolgere l’immaginazione di tutti, è stato per lui una inesauribile fonte di ispirazione letteraria, così come è stato in passato con autori del calibro di Giovanni Arpino, Luciano Bianciardi, Dino Buzzati e dello stesso Gianni Brera, da cui Mura ha raccolto l’eredità, anche come editorialista di “Repubblica”. Il ciclismo in particolare è stato per Mura l’habitat perfetto per i temi e i tempi della sua narrazione. Ne ha dato prova, ad esempio, in quella che forse è stata la sua opera più riuscita, La Fiamma Rossa, una splendida antologia dei più significativi reportage da una competizione sportiva che ha amato più di ogni altra: il Tour de France, quella “Grande Boucle” che un grande filosofo come Roland Barthes descriveva come un racconto epico, una sorta di chanson de geste dei nostri tempi.
Mura si è ritrovato in questa rappresentazione e ha saputo narrare le imprese eroiche dei campioni delle due ruote con uno stile asciutto e senza fronzoli, in cui ha saputo mescolare alla perfezione passione, fatica, coraggio fino a scoprire l’uomo con la sua storia che si celava dietro la maschera di sudore. E senza il pudore di nascondere le proprie predilezioni: che sono sempre state per gli eroi come Ettore piuttosto che per quelli come Achille. Se Achille era l’eroe greco per eccellenza e incarnava la perfezione, l’eroe vincente ma allo stesso tempo freddo e calcolatore, Ettore al contrario era l’eroe fragile e complesso, molto più ricco di umanità e di certo più interessante sul piano letterario.
Le figure di due corridori francesi come Anquetil e Poulidor sicuramente hanno simboleggiato molto bene questa contrapposizione. Sono molto belle e profonde le descrizioni di questi campioni, raffigurati con tratti anche esilaranti, come in questo passo: “Merckx è generosità e furore agonistico, fa luce e calore. Anquetil un faro immenso, ma c’è molta più umanità in uno zolfanello acceso nella nebbia, in una lanterna appesa dietro un carro in un viottolo di campagna, una qualunque sera”.
Per Gianni Mura, insomma, lo sport (e il ciclismo in questo caso) non era da intendersi come pura statistica di successi e l’uomo veniva sempre prima dell’atleta. Ecco cosa scriveva nel capitolo dedicato a un campione sfortunato da lui molto amato, Marco Pantani: “Esistono numeri uno ammirati perché vincono – scrive – ma di cui non importa granché. Tipi com’era Lendl o adesso come Schumacher. Ce ne sono altri amati per come vincono, per come li si immagina. Vanno oltre i numeri, in loro si intuisce un’umanità particolare. Colpiscono al cuore. Pantani è uno di questi.”
Anche nel calcio ha sempre privilegiato l’aspetto umano, purtroppo oggi sempre meno al centro dell’attenzione in un contesto in cui il business, gli sponsor e i procuratori la fanno sempre più da padroni. In occasione di un incontro di qualche anno fa per la presentazione de La Fiamma Rossa a Oliena aveva confermato quanto si sentisse sempre più lontano da un mondo in cui i cosiddetti “hombre vertical” alla Gigi Riva (con questa espressione immaginifica Mura aveva così battezzato un giorno il campionissimo del Cagliari) si possono contare sulle dita di una mano.
Così come sempre più rari sono quei calciatori capaci di regalare poesia e bellezza con la fantasia, con un dribbling ben riuscito: in fondo è questa l’essenza di un gioco capace di riunire una platea sterminata a ogni latitudine del pianeta. “La gente va allo stadio per questo, non certo per ammirare la perfezione del 4-4-2 o per una diagonale ben riuscita”, diceva. Il calcio – così come l’aveva definito un altro scrittore molto amato da Mura, l’uruguayano Eduardo Galeano – è soprattutto l’arte dell’imprevisto. In cui, quando meno te l’aspetti può saltare fuori l’impossibile e “il nano impartisce una lezione al gigante, un nero allampanato fa diventare scemo l’atleta scolpito in Grecia”.
È anche per questo che uno dei calciatori a cui si sentiva più legato è stato un altro sardo come Gianfranco Zola, un campione di umanità dotato di specchiata lealtà sportiva come pochi altri, che a suo parere avrebbe meritato una maggiore considerazione, soprattutto in Italia. “Zola per me è stato uno degli ultimi fuochi accesi nel deserto della tecnica, spazio solo ai muscolari” ha scritto nella prefazione al bel libro di Paolo Piras Bravi & Camboni, in cui ha ricordato un suo fantastico gol di testa alla Juventus, quando come per magia saltò più in alto di due bestioni molto più alti di lui come Thuram e Zebina che cercavano disperatamente di fermarlo.
“Ogni tanto – ha aggiunto – mi invitano nelle scuole e mi chiedono un solo episodio per illustrare la bellezza del calcio. Già mi sono accorto che a parlargli di Maradona o Platini si smarriscono, vivono in un presente popolato di top players che spesso sono pop players ma anche così fanno comodo. Il bello del calcio, gli dico, è che Zola è alto così e Zebina così (e faccio due altezze dal suolo, con le mani: meno di 1.70 per Zola, più di 1.85 per Zebina). Eppure, Zola fa gol di testa alla Juve saltando 20 centimetri più alto di Zebina. Se c’è una cosa che mi dà fastidio è che gli inglesi abbiano capito Zola più degli italiani, molto di più. E gli inglesi non sono sardi, per tornare al discorso di Beethoven, ma forse intuiscono gli angeli al primo batter di piume, come diceva Veronelli.”
Sebastiano Catte